Controcanto ad Alessano

epigrafe nel centro storico di Alessano

di Paolo Vincenti

Al “canto” della paludata e un po’ sterile editoria culturale e storica salentina, Alessano risponde con il “Controcanto” di una agile ma preziosa rivista, fondata e diretta da un gruppo di giovani intellettuali del paese di San Trifone. Della serie “siamo piccoli ma cresceremo”. “Controcanto –  Rivista Culturale del Salento”, nasce con alcuni numeri O nel 2004, con limitatissima foliazione ed ancor più esigue risorse finanziarie. Ma l’audacia e le penne di Raimondo Massaro, Patrizia  Morciano, Antonio Ippazio Piscopello, Alfredo Massaro, Antonio Marzo e Francesco Primiceri portano la rivista a diventare un piccolo punto di riferimento per appassionati e studiosi di storia alessanese e del Capo di Leuca.

Al primigenio gruppo di lavoro si unisce Sergio Torsello, che firma la rivista come Direttore Responsabile, e dà un apporto notevole, grazie alla sua vastissima conoscenza storica e antropologica,  che distilla in brevi ma intensi saggi che appaiono di volta in volta sulle pagine di Controcanto. Anche Antonio Caloro, decano degli studiosi alessanesi,  benedice la rivista e la nobilita con il suo contributo. La rivista nei suoi numeri si occupa del culto di San Trifone, protettore di Alessano (Raimondo Massaro), della storia messapica della frazione Montesardo ( ancora Raimondo Massaro),  di Placido Boffelli, fra i più noti architetti scultori pugliesi del XVII secolo  (Antonio Marzo), dell’antico casale di Provigliano (Alfredo Massaro), di Piero Panesi, pittore alessanese scomparso nel 1990, (A.M.Marzo e Patrizia Morciano), della signoria dei Gonzaga su Alessano nel Cinquecento ( Raimondo Massaro), degli Alessanesi di Anders,vale a dire un contingente di soldati polacchi che, durante la seconda guerra mondiale, fecero stanza ad Alessano, cui Antonio Caloro ha recentemente dedicato un libro ( “Gli Alessanesi di Anders. Un liceo-ginnasio polacco in Alessano. 1945-1946”, Gino Bleve Editore 2006),  con un dibattito, sulle pagine di Controcanto, fra Mario Quaranta e lo stesso Caloro.

Scorrendo i vari numeri della rivista, Antonio Piscopello si occupa di molti alessanesi illustri, come Antonio Amoroso, tra i primi maestri delle scuole pubbliche di Alessano nel XIX secolo, del partigiano Negro Arturo Rosario (1917-1948), di Francesco Antonio Duca, ultimo vescovo di Castro del Settecento, delle Società Segrete nella Alessano del XIX secolo, e della “Nobile Accademia di Santa Teodora Imperatrice”.

Sergio Torsello si occupa della letteratura sul tarantismo, con interviste ad Antonio Prete e a Donato Valli, e traccia un profilo biografico di Davide Monaco, sacerdote e letterato alessanese (1863-1916), mentre Daniela Colaci si  occupa del Catasto Onciario di Alessano (1742-1743).

Una rivista “in progress”? Certamente, una rivista in movimento che, distribuita in fotocopie in tutta Alessano, accende il dibattito, vuole scuotere le coscienze e  ricordare il passato glorioso di una cittadina ricca di storia, arte e cultura, come Alessano.

Salento, la terra e il cielo si prendono per mano

di Tommaso Esposito

Eccomi quaggiù tra Porto Selvaggio e la Palude del Capitano, in questa parte del Salento dove da anni il tempo dell’ozio mi trascina prendendomi per il cuore e per la mente.

Ho con me un libricino del 1641, Della Dissimulazione onesta, recuperato su di una bancarella delle occasioni, scritto da Torquato Accetto un filosofo pugliese, (nacque a Trani e visse ad Andria, un po’ più a nord di dove mi trovo) riscoperto da Croce.

In esso si discetta della dissimulazione, materia ben nota ai politici di alto lignaggio e ai loro numerosi emuli di condominio. E si ritiene che: “La dissimulazione è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello che è.”

E si discetta pure dell’ozio: “Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fatica, ancorché paia d’esser ozio.”

Lo metto un po’ da parte in attesa che qualcuno taccia sapendo ben parlare e si dedichi così all’ozio sapiente.

Prendo l’altro libricino che con me avevo già portato l’anno passato e che ritrovo in fondo alla borsa del notebook.

Il pane di ieri di Enzo Bianchi, il priore della comunità monastica di Bose.

Prende spunto padre Bianchi dal proverbio che la mamma gli ripeteva: “ el pan ed sèira, l’è bon admàn, il pane di ieri è buono domani” perché “le grosse pagnotte che venivano conservate per più tempo non si prestavano a essere mangiate fresche, ma davano il meglio del loro gusto un paio di giorni dopo essere uscite dal forno.” Ma il proverbio va oltre e allude al fatto che “il nutrimento solido che ci viene dal passato è buono anche per il futuro”

Nascono così le tante storie del tempo che fu quando “il cibo, a ben guardare, oltre che un nutrimento necessario è anche qualcosa di cui si deve aver cura. La tavola è luogo di incontro e di festa e la cucina è un mondo in cui si intrecciano natura e cultura. Preparare il ragù può diventare allora un momento di meditazione e la bagna cauda un vero e proprio rito in cui gli ingredienti che lo compongono rappresentano uno scambio di terre, di genti, di culture.”

Ecco, ho deciso: Il pane di ieri sarà quest’anno il breviario che scandirà il tempo della mia sosta salentina.

Mi accolgono un mare cupo e un cielo uggioso.

Ma poi un sole deciso squarcia le nubi e illumina i fiori e i cespugli dei capperi che crescono selvatici lungo i sentieri fino al mercato di Sant’Isidoro dove mi incontro con le cose buone di questa terra e di cui tenterò di farne un diario.

Una nuova pianta è arrivata nel Salento

di Antonio Bruno

L’okra (Hibiscus esculentus) del Salento leccese richiesta dalle “persone venute da lontano”

Nel Salento leccese, in ognuno dei 100 Comuni da cui è formata la nostra comunità di 800mila persone, vivono persone “venute da lontano” per cercare lavoro in questo territorio. Insieme alla loro cultura e tradizioni si sono portati dietro anche le piante di cui si cibano. Una di queste è l’okra.

Il genere Hibiscus
Al genere Hibiscus, della famiglia delle Malvacee, appartengono circa 200 specie di piante erbacee (annuali o perenni) o arbustive (sempreverdi o a foglia caduca) dalle magnifiche e generose fioriture. A seconda delle specie, queste piante crescono spontaneamente in Asia, Africa, America ed Europa, in zone a clima temperato, subtropicale e tropicale. Nel nostro Paese sono presenti allo stato spontaneo solo Hibiscus palustris, Hibiscus trionum e Hibiscus syriacus, quest’ultimo originario di Cina e India, ma che ormai si è inselvatichito da diverso tempo in alcune regioni italiane del centro-meridione.

L’okra (hibiscus esculentus)
L’ okra, conosciuta anche come gombo ma anche come Abelmoschus esculentus è una pianta tropicale che appartiene alla famiglia delle Malvacee. Proviene dal lontano Sud-Est asiatico ed è coltivata nei Paesi tropicali e subtropicali di tutto il mondo. E’ una pianta che è già coltivata in Italia, soprattutto al sud e quindi che si adatta benissimo alle condizioni climatiche del Salento leccese dove avvia il suo ciclo colturale in primavera, fruttificando

Uomini e vini di Copertino

di Pino de Luca

Copertino, comune dalle probabili origini bizantine, adiacente alla più antica ed estesa città di Nardò, presenta numerose caratteristiche interessanti. Ha una storia singolare e intrigante come moltissimi centri della penisola circondata dal mare.

Cultore delle storie ispirate a Bacco, il luogo mi ha colpito perché è quello della nascita della prima Cantina Cooperativa del Salento. 1935: trentasei persone decidono di fondare una Cantina Sociale che, in qualche modo, proteggesse i contadini dal rasoio che i compratori di uve, noti per lo spessore del pelo sullo stomaco, usavano mettere alla gola di chi coltivava. Il rischio di svendere il prodotto o lasciarlo marcire sulla pianta era scongiurato. Ma quanta fatica per tenere insieme una comunità di soci in una terra nella quale la cooperazione non aveva alcuna esperienza.

E invece, negli anni, la Cupertinum s’è rafforzata, ha acquisito un ruolo produttivo e una rilevanza nazionale e internazionale valorizzando le uve prodotte delle terre di Carmiano, Arnesano, Monteroni, Galatina e Lequile oltre che di Copertino. Ora viaggia sotto la guida di Mario Petito, socio dal 1966 e Presidente dal 1985 e la supervisione tecnica dell’enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi, chiamato a sostituire un mostro sacro dell’Enologia, l’irpino di nascita e salentino d’adozione Severino Garofano, ormai in meritata pensione.

La Cupertinum ha storia salda e radici d’antica tradizione, ma come tutto ciò che è forte di una identità consolidata, non teme sperimentazione e

Una frattura composta

da http://www.express-news.it/web/video/frattura-choc-alla-gamba-per-il-portiere-coupet/

di Gianni Ferraris

Ore cinque di mattina, fa un caldo bestia, la sera prima ho mangiato qualche diavoleria, assonnato vago per casa verso il frigorifero, bevo acqua gelida. Stupenda sensazione. Poi torno verso il letto.

Mentre passo lui è lì da almeno 60 anni, sempre fermo, immobile. Lo conosco solo da un anno ma già abbiamo familiarità e ci rispettiamo a vicenda. La sonnolenza, la fretta e l’abitudine, in estate, di camminare scalzo fanno la differenza. Camminare a piedi nudi in casa lo ritengo un privilegio, un modo per radicarmi, per essere a contatto con la casa, quasi un gesto d’amore. E poi, diciamolo, con questo caldo settembrino è anche piacevole. Forse gli sono passato accanto senza degnarlo di uno sguardo, forse si sentiva solo, chissà, fatto sta che sbaglio mira e gli rifilo un calcione con il quinto dito del piede sinistro. Lui è lo spigolo del muro. Forse si è messo a ridere, chissà. Io mi sono fermato, ho guardato il mio dito ferito che iniziava, dopo alcuni minuti a dolere. Mi sembra gonfio, accidenti, provo a mettere la scarpa. Lui, il mignolino, è leggermente deviato, la scarpa entra ed ottengo il primo risultato positivo, torna al suo posto. Però pulsa, le scarsissime conoscenze di medicina dicono che debbo mettere ghiaccio sul piede per evitare che gonfi. Bella storia, avercela una borsa del ghiaccio, soprattutto avere del ghiaccio nel freezer. Le uniche cose ghiacciate sono: qualche fettina, cubetti di spinaci e uno di quei cosi che si mettono nella borsa frigo per tenere le cose al fresco, questo si chiama “Siberin”. Mai nome fu più confortante. Rimane un problema, il piede non è una tavola piatta, anzi, è tutto curve. Riesco, facendo un gioco di equilibrismo e di contrappesi, a farlo stare fermo. Nel frattempo sono le sei, devo assolutamente farmi un caffè, quindi tutto lo sforzo fatto fin’ora è vano. Aspetto che il caffè salga ed inondi tutto con il suo aroma. Dopo il caffè una sigaretta si impone, sul balcone però. E reggendomi sul piede destro ovviamente.  Poi finalmente rifaccio il gioco di contrappesi e mi fermo. Alle otto, dopo il primo e il secondo TG, mi dico che forse è meglio uscire, prenderò il giornale e farò due passi. Al giornale arrivo, il quinto passo diventa un problema. Torno a casa e telefono al mio medico di fiducia salentino. “Marcellooooooooooo” lui risponde gentile, serio e professionale come sempre, (come fa un vero amico anche con gli amici rompiscatole), gli spiego l’antefatto, mi dice “riposo e fatti una lastra, potrebbe essere rotto”. Uh questi medici, a volte sono catastrofisti. Non mi sono mai rotto nulla in 60 anni, proprio ora e proprio un mignolo? Del piede per giunta. Che figura ci faccio? Uno si rompe il braccio, il femore, l’astragalo. Vuoi mettere la differenza? “Mi sono rotto un braccio cadendo mentre scalavo il Cervino” con “Mi sono rotto il mignolo mentre bevevo acqua in casa”?  Dopo qualche ora di impacchi di siberin e una pomata che mi ha dato la farmacista, mi chiama Pierpaolo “Se fosse rotto sentiresti molto dolore” mi dice. Fra un medico molto esperto e un filosofo che non conosce la differenza fra il femore e l’ulna a chi credo? Fossi serio crederei a Marcello, di istinto e per scaramanzia tifo Pierpaolo.

Anche la visita in farmacia, ormai zoppicante, è stata da manuale. Lei è giovane. Il dialogo è andato più o meno così “Desidera?” “Ho dato un calcione ad uno spigolo”. Mi guarda allibita, avessi potuto leggerle nel pensiero probabilmente avrei visto “il caldo fa brutti scherzi, questo è da psichiatria, non da farmacia”. Poi ho proseguito però. Mi ha dato la pomata per impacchi e mi ha detto, “però dovrebbe fare una lastra, le microfratture al mignolo sono perfide”. Esco pensando che al liceo era sicuramente rimandata in filosofia.

Il giorno passa, il gonfiore aumenta in tutto il piede, il giorno dopo vado a fare ste maledette lastre. Per una serie di casi le guardo prima del medico e dico fiero di me “nulla di rotto, tutto sano, non c’è neppure una crepetta, aveva ragione Pierpaolo” arriva il medico, le guarda appena e dice “frattura composta”. Lo guardo “ma dov’è? Non si vede” “Non la vede lei, è qui, mi fa vedere una sciocchezzuola da nulla, mi prende il piede  e mi incerotta le ultime due dita. “Me lo stecca?” altro sguardo incredulo “come faccio a steccare il mignolo? Glielo immobilizzo come posso”.

Mia madre sarebbe comunque fiera di me, con tutte le volte che mi diceva “almeno a tavola stai composto”, ora vedrebbe che non tutto è scomposto.

Uscendo chiamo Marcello (senza dirgli nulla del referto di Pierpaolo ovviamente) e lo aggiorno. “Lo sospettavo”. Ho anche chiamato Pierpaolo, però non si manda al diavolo un filosofo, soprattutto se è   un amico.

Osservazioni di strada: non è più tempo di cicale

 di Rocco Boccadamo

L’assunto contenuto nel titolo prescinde ed è indipendente dal calendario stagionale, afferendo, bensì, a situazioni concrete, reali e cogenti di tutt’altro genere, ancoraggio e peso.

Evitando di schermarsi attraverso mezzi termini e con tisane ideologiche di mera convenienza, bisogna prendere coscienza del dramma sul fronte economico e finanziario collettivo, riconoscere che, laddove non si porrà immediatamente un baluardo di sostegno fatto di sacrifici, volontà  e interventi comuni,  l’epilogo  è in via di compimento e d’esplosione: non dietro l’angolo, bensì al cospetto di tutti, come dire, viepiù brutalmente, che è il caso che vedano finanche i ciechi, sentano i sordi e parlino i muti.

A questo punto, nessuno, a qualsiasi livello, può essere sicuro e tranquillo che, nel proprio divenire esistenziale, si susseguiranno i capitoli con le solite scansioni e scadenze naturali, senza terremoti.

In fondo, c’è motivo di provare nostalgia delle minuscole cicale alate di color bruno giallastro, sebbene stordiscano per via del loro indefesso, incontrollabile e insaziabile frinire, un’esibizione, nella torrida atmosfera del solleone, talmente “sentita” dalle stesse protagoniste, al punto da far loro

Taranto, la città dei due mari: Mar Piccolo e Mar Grande

Il Mar Piccolo di Taranto

di Daniela Lucaselli

“ Il Mar Piccolo ricorda da vicino lo stagno di Berre, le cui pittoresche e classiche bellezze sono ammirate da chiunque vada a Marsiglia. Tutto il paesaggio è inondato di luce, quasi bagnato in un’atmosfera d’oro che rende più dolci i contorni e ne fonde armoniosamente i toni. Mi meraviglio che nessun pittore si sia spinto fin quaggiù: in questa prima veduta di Taranto vi è un quadro completo, mirabilmente composto: basta trasportarlo sulla tela come la natura ce lo consegna… Sulla riva Nord di Mar Piccolo, si trova il grazioso villaggio di Citrezza, sede favorita per le gite dei Tarantini, che vi vanno nei giorni di festa a far colazione sull’erba e a ballare sotto i limoni. Un ripiegamento della collina rocciosa disegna qui un anfiteatro di poco meno di un chilometro di lunghezza, dai pendii cosparsi di fichi d’india e piantati ad oliveti, aperto sul mare alla sua estremità meridionale; giardini lussureggianti di verde ne occupano il fondo. Fra questi giardini sgorga dalla terra una copiosa sorgente d’acque limpide come cristallo, la cui conca, circondata da alte canne, ricorda la fonte Ciane, nei pressi di Siracusa. Un profondo ruscello, largo circa tre metri, trascina con rapida corrente le acque della sorgente, che mai si esaurisce, nemmeno nei periodi estivi più critici, e si getta nel golfo. Il percorso è di circa cinquecento metri, abbastanza per creare un’oasi dolce e tranquilla, dove la bellezza delle acque e gli alberi ombrosi e fronzuti ricreano una sensazione di fresco, il cui fascino, in questo clima ardente, non si potrebbe descrivere” (1)

Franҫois Lénormant

Taranto, Mar Piccolo, dogana del pesce (1910)

Libri/ Storia di un metronomo capovolto

STORIA DI UN METRONOMO CAPOVOLTO: IL ROMANZO D’ESORDIO DI GIUSEPPE CRISTALDI

 di Paolo Vincenti

Storia di un metronomo capovolto è la prima prova letteraria di Giuseppe Cristaldi, giovane autore parabitano, autodidatta, già presente con alcuni articoli sul periodico “Approdo Salento”.

Il libro, edito dal Laboratorio, con una Presentazione dell’editore Aldo D’Antico ed una nota di Franco Battiato (si, proprio l’autore di “Bandiera Bianca” e “Centro di gravità permanente”) in quarta di copertina, è dedicato da Cristaldi a “Laura e Claudio Bastianutti, agli spartiti della loro esistenza, Paola e Daniela,  gemme mai schiuse per la crudeltà di questo mondo”.

Giuseppe Cristaldi, che si definisce “giovane coreutico parabitano, incorreggibile apolide, istrione di borgata”, in una breve autopresentazione nella piccola manchette del retrocopertina, è un operaio edile, autore di molte

Trivellazioni in mare. Gianni Ferraris intervista Maria Rita d'Orsogna

Trivellazioni in mare, ne abbiamo parlato con Maria Rita D’Orsogna, abruzzese, che lavora come Associate Professor Mathematics Department California State University at Northrigde Los Angeles, CA. Che ci ha risposto da Los Angeles nonostante il fuso orario di 9 ore diverso dal nostro.

ph Stefano Crety


Il governo italiano ha dato concessioni per le trivellazioni in mare per ricerche petrolifere, ha senso spingere in questa direzione anzichè nella ricerca di energie alternative?

E’ ovvio che no, ma non soltanto perchè  il futuro dell’energia è nelle fonti alternative – solare in primis – ma soprattutto perchè il petrolio che abbiamo in Italia è di qualita’ scadente, posto in profondità e non presente in grandi quantità. Il petrolio italiano non cambierà di una iota lo scenario energetico nazionale ma servirà solo per arricchire chi lo estrae. Basti pensare che il più grande giacimento europeo si trova in Basilcata e produce solo il 6% del fabbisogno nazionale italiano. Questo vuol dire che se vogliamo restare ancorati al petrolio, volenti o nolenti, continueremo a importarlo dall’estero a lungo. La Northern Petroleum stima che il petrolio presente nei mari di Puglia e’ pari a circa 50 milioni di barili – quanto basta all’Italia per un mese. Il gioco vale la candela? 

In più il petrolio italiano in genere è “amaro e pesante” cioè carico di impurità sulfuree e le cui molecole non sono della lunghezza giusta per farci la benzina. Il petrolio migliore del mondo è dolce e leggero – tutto il contrario del nostro, che risulta particolarmente inquinante e che necessita di speciali trattamenti per eliminare lo zolfo. La maggior parte delle concessioni di cui si parla oggi arrivano dopo sondaggi gia’ eseguiti 40 o 50 anni fa. A suo tempo si decise che, a parte speciali situazioni come Cortomaggiore (Piacenza), poiche’ il petrolio italiano era di qualita’ pessima non era conveniente estrarlo, e si preferi’ importarlo dall’estero. Oggi c’e’ questo revival di petrolio italiano perche’ la materia prima inizia a scarseggiare, c’e’ molta piu’ competizione da parte di cinesi e indiani, anche per quello che l’ENI ha definito in mia presenza “il fondo del barile”. E siccome siamo nel mondo globale e ipervelocizzato, c’è molto da speculare anche da petrolio cosi scadente come quello italiano.

Quale impatto ambientale provocheranno le trivellazioni?

Quello a cui non sempre si pensa è che per trivellare e poi estrarre petrolio occorre iniettare grandi quantita’ di “fluidi e fanghi” perforanti nel sottosuolo, saturi di inquinanti, a volte di materiale radioattivo e cancerogeni. Si stima che nell’arco della sua vita – di 30 o 40 anni – una piattaforma marina produca circa 90 mila tonnellate di questi rifiuti classificati come speciali e tossici. In teoria queste sostanze dovrebbero essere smaltite in maniera ottimale, nella realta’ spesso finiscono in acqua: lontano dagli occhi della gente. E questo non solo in Italia, ma in tutto il mondo, lo fanno anche in

Orecchio di lepre

Fernando Botero, Sleeping President

di Pier Paolo Tarsi

Alla stazione centrale di Milano vi costa un euro fare la pipì, pertanto, se avete una vescica ancora in discrete condizioni ed il biglietto pronto per un espresso notte in partenza per il Sud, cercate di trattenerla fino ai primi sussulti del vostro treno, quando sarebbe ancora vietato disporre dei servizi nonostante sia una grande soddisfazione lasciare una traccia del vostro passaggio lì, dopo i tanti rifiuti in malo modo ricevuti in tutti i bar in stazione in cui vi negano l’uso della toilette pur avendone il diritto per aver acquistato qualcosa.

Dopo aver consumato la mia personale vendetta sull’antipatico personale milanese della stazione centrale ho cercato il mio scompartimento, cuccetta a sei posti, scelta necessaria non dico per riposare ma almeno per distendere le ossa dopo quattro giorni in giro per il Nord e troppe ore passate sui treni. Le cuccette sul notturno Milano-Lecce erano già tutte occupate, pertanto ho ripiegato per il Milano-Crotone con cambio a Foggia, da dove un regionale mi avrebbe condotto infine a Lecce mettendo fine al mio peregrinare.

Quando, appena salito su treno, avevo lasciato lo zaino nello scompartimento vi avevo trovato solo un passeggero, un marcantonio taciturno sui quarant’anni che, nonostante mancasse almeno un quarto d’ora alla partenza, si era già sistemato nella sua cuccetta in alto, dentro alla quale ci entrava a mala pena contorcendosi come un clandestino nascosto nella stiva di un mercantile. Cercava già ad occhi serrati di prender sonno, nonostante un caldo asfissiante e quell’odore stagnante tipico dei treni lerci per terronlandia. Io avevo atteso nel corridoio la partenza e poi mi ero infilato lesto e vendicativo in bagno. Tornato nello scompartimento vi trovo un nuovo viaggiatore, un signore basso e tarchiato sulla sessantina, con un testone tondo e pelato, un baffone poderoso che gli sporge sotto il naso e una terribile camicia fiorata color senape sbottonata sul petto villoso.

“Buonasera” – gli dico.

“Buonasera” – mi risponde.

“Stai qua dentro?” mi chiede. Ha due occhi rotondi, vivi, due guance rosee e un’espressione contenta e simpatica incorniciata in un faccione sudato senza collo.

“Si, sono là sopra”. Il mio posto è quello superiore, di fronte al marcantonio taciturno che già sonnecchia. Salgo sulla scala e mi siedo sul mio lettino,

Il silenzio che la cultura del Salento non può permettersi

ph Roberto Filograna

di Michele Eugenio Di Carlo

LETTERA AL DIRETTORE CLAUDIO SCAMARDELLA
Il silenzio che la cultura del Salento non può permettere

 

Vieste, 7 settembre 2011

Gentilissimo Direttore,
ho talmente apprezzato sul Nuovo Giornale di Puglia il Suo
editoriale, “Il Salento e i silenzi della cultura”(http://www.quotidianodipuglia.it/articolo.php?id=161067), da esserLe grato.
Il Suo editoriale mi fornisce l’occasione gradita di perseverare nel
non tacere e di ribadire ancora una volta i motivi per cui la cultura
del Salento non può più permettere, e permettersi, il silenzio.
    Nel mese di luglio la Prof.ssa Maria Rita D’Orsogna, professore
associato di Matematica Applicata presso l’Università di Los Angeles,
fornendoci il suo prezioso supporto tecnico-scientifico, ci comunicava
che la società Northern Petroleum intendeva avviare l’iter burocratico
per trivellare le coste del medio e basso Adriatico con le seguenti
località interessate: Bari, Monopoli, Polignano a mare, Brindisi,
Fasano, Cisternino, Ostuni, Carovigno, Meledugno, Otranto, Giurdignano,
Uggiano La Chiesa, Torre Guaceto, Macchia San Giovanni, Punta della
Contessa, Foce Canale Giancola, Rauccio, Aquatina Frigole, Torre
Veneri, Le Cesine, Torre dell’Orso, Palude dei Tamari, Laghi Alimini,
Santa Maria di Leuca, Posidonieto, Capo San Gregorio, Punta Ristola.
    Era necessario che cittadini e associazioni producessero
osservazioni al Ministero dell’Ambiente contro le concessioni d149 DR-

Torre Inserraglio, Salento. I sanàpi e una ricettina sciuè sciuè

I Sanàpi

di Tommaso Esposito

Beh ogni volta che li cerco il lunedì, mercoledì o venerdì tra i cesti dei venditori che si affollano sul lungomare di Sant’Isidoro per offrire i frutti degli orti salentini si ripropone la vexata quaestio: come li chiamate questa specie di broccoli di rapa?
“Sanàpi.”
“No sanapìddi.”
“None, sanapùddhi”, laddove il suffisso –ddhi leggasi più o meno -ggi.
E tutto dipende dalla frazione di Nardò in cui essi si raccolgono.
Mi è sempre piaciuto il loro sapore.
Anche se sono controtempo.
Il periodo migliore per gustarli, infatti, non andrebbe oltre maggio.
A crudo le foglie più tenere ricordano al naso e al palato sentori misti di rafano e rucola.
In padella a seconda dei tempi della cottura (ah, gli antropologi direbbero in senso diacronico) si va dalla torzella al friariello.
Talvolta ho ritrovato il sapore dei miei dimenticati  e cari vruoccoli rucoli acerrani.
Insomma mi piacciono.
E mi ha sempre intrigato, al pari delle più rare brassicacce campane, conoscerne l’origine.
Cosa difficilissima a farsi da queste parti soltanto con l’ausilio di net.
Ricordo, però, che il Penzig ritiene i sanàpi la sinapis alba, cioè la senape da cui si ricava la salsetta di senape.
Luigi Sada, grande gastronomo, pugliese invece fa cenno alla Sinapis erucoides, quella selvatica che più si avvicina alla rucola.
Anche la Sinapis nigra, la più piccante, viene evocata.
Qualche chef salentino si limita a dire: “Son broccoletti amarognoli”.
Eh già, vogliamo cavarcela così?
Mi aspetto, invece, che qualche dotto salentino al riguardo mi dia i suoi graditi

Sono arrivati i nuovi turchi?

 

Le foto sono di Stefano Crety

Le segnalazioni di Beniamino Piemontese, della professoressa D’Orsogna e dei pochi amici sensibili al pericolo delle trivellazioni nei mari del Salento erano assolutamente vere!

Mentre tutti noi eravamo impegnati a consultare il carnet degli appuntamenti salentini per trascorrere in spensieratezza le serate agostane, le autorizzazioni giungevano puntuali. Stefano ha immortalato, per gli scettici e i noncuranti, il pericolo che incombe. Nei vari commenti al link potete farvi una cultura su ciò che ci

Ferrovie a Sud-Est

di Pier Paolo Tarsi

Pensare la Ferrovia Sud-Est vuol dire porsi più di un problema di ordine metafisico, equivale a chiedersi quale modalità dell’essere la connota principalmente, significa chiedersi qual è la sua inafferrabile natura, quale il suo essere. Venne concepita in epoca fascista la via della Littorina, oggi come via di trasporto appare anacronistica per le usanze salentine di spostarsi solo con mezzi privati tra i vari paesi. Non è bene, non è sapiente, ma è così. No, non esiste la Ferrovia Sud-Est come esiste la Nord-Milano, non esiste come rete di trasporto, come possibilità effettivamente contemplata da qualcuno per andare in qualche posto in cui ha da essere, fatta eccezione per sporadici casi, per lo più studenti che qua e là ogni tanto usano il trenino per andare a scuola o per marinarla. La modalità di essere della ferrovia non rientra più nel quotidiano ma nell’extra-ordinario. Essa è ormai fuori dall’ordinario, è altrove. Ti accorgi che la Sud-Est esiste, come la maggior parte degli abitanti di Terra d’Otranto, solo per caso, se andando di fretta in paese un passaggio a livello ti sbarra la strada per far passare un

Li cicéri, dall’antica Roma ai nostri giorni

Vincenzo Campi (1536-1591), La venditrice di pollame

di Armando Polito

In passato di ogni animale utilizzato per fini commestibili non si buttava via pressoché nulla. Oggi non è raro, andando a deporre la spazzatura nel cassonetto, vedere sbucare da qualche busta un pollo arrosto che a qualche famiglia africana garantirebbe la sopravvivenza alla fame per più giorni…

Appartiene proprio a polli e galline il dettaglio anatomico su cui oggi mi soffermerò: li cicèri, cioè l’intestino. Per trovare una voce non dialettale che somigli alla nostra1 basta mettere in campo il francese gésier=ventriglio, senza scomodare il turco ciğer=fegato2. Non sorprende, comunque, più di tanto il fatto che l’italiano,  erede diretto del latino, non abbia conservato, pur con le dovute trasformazioni, gigèrium, che è il padre della voce francese e di cicèri (a Nardò e Gallipoli nel Leccese; cicièru a Francavilla Fontana nel Brindisino; cicièri a Brindisi e, nel Tarantino, a Manduria e Sava; sciuscèri ad Aradeo, S. Cesarea Terme, Castrignano del Capo, Lucugnano, Ruffano, Spongano, Tricase e Vernole, sempre nel Leccese).2

Gigerium compare come ingrediente in due ricette di Apicio (vissuto probabilmente nel I° secolo d. C.; i suoi suggerimenti culinari  vennero compilate due secoli dopo da un certo Celio nel De re coquinaria), che riporto integralmente nella mia traduzione: “Pasticcio di sgombri e cervella. Friggi uova sode; lessa e sfibra le cervella; cuoci ventrigli di polli; sminuzza tutto fuorché il pesce; versa la mistura in un tegame; metti in mezzo lo lo sgombro salato dopo averlo cotto. Trita pepe e ligustico; bagna con vino di uva passa o con vino al miele perché sia dolce; metti la salsa pepata in un tegame e falla bollire. A bollitura avanzata agita il tutto con un rametto di ruta e addensalo con amido:”3; “Piselli falsi4 buoni per tutte le occasioni5. Cuoci i piselli. Metti in una pentola cervella o uccelletti o tordi privati delle ossa del petto, lucaniche6, fegatelli, ventrigli di polli, salsa, olio; tagliuzza un mazzetto di porro dalla grossa testa, coriandro verde e metti a cuocere con le cervella. Trita pepe, ligustico e (aggiungi un po’ di) salsa.”7.

Il nostro cicèri era stato oggetto, addirittura, di poesia qualche tempo prima in un frammento di Lucilio (II° secolo a. C.): “…se non ci sono gli intestini di pollo o soprattutto i fegatini…”8 e, più o meno al tempo di Apicio, in Petronio: “Abbiamo avuto tuttavia per primo un maiale incoronato di salsicce e intorno sanguinaccio e ventrigli di pollo ottimamente preparati e pure bietole e pane integrale autentico, che io preferisco a quello bianco, inoltre ti dà forza e quando faccio i miei bisogni non piango.”9

A confermare il significato di gigerium/gizerium soccorre Nonio (IV° secolo d. C.): “GIGERIA: intestini di galline cotti con i fegatini”10, mentre nel latino medioevale la variante zizèrium è attestata dal Du Cange: “ZIZERIUM per gigerium, nome col quale i Latini chiamano gli intestini delle galline e ciò che viene cotto insieme con essi”11.

Chiudo con una nota nostalgica: io e mio cognato Giuseppe Presicce, quando eravamo verdi (lui più di me…), usavamo i cicèri come esca per catturare i capitoni nella Palude del capitano: lasciavamo le lenze legate allo scoglio e la mattina dopo le ritiravamo.

Lascio all’amico e spigola(u)tore Massimo Vaglio, competente pescatore oltre che cuoco raffinato e tanto altro ancora, il compito di confermare quanto appena detto e proporci qualche ricetta che, senza dubbio, sarà più allettante di quelle di Apicio e di Petronio…

* Ma perché non parli come ti ha insegnato tua madre? Prima mi hai portato questi ceci lessi che hai chiamato pois chiches dans le bouillon. Ora mi stai sfottendo con questi gésiers frits. Ma chiamali cicéri fritti!

_____

1 Come il siciliano gisèri.

2 Dal persiano čiger, il che fa pensare ad una comune radice indoeuropea.

3 Leggo in Atti della società italiana di scienze naturali, La Società, Milano, voll. 26-27, 1883, pag. 117: Potrà essere interessante per alcuno il conoscere l’etimologia di questo strano nome di gigerium dato allo stomaco muscolare degli uccelli. Zizer o Giger era il nome che gli antichi Cartaginesi davano a un piccolo uccello dell’Africa, il cui stomaco era ricercato dagli epuloni romani come un ghiotto boccone. L’appellativo di gigerium fu impiegato poi ad indicare lo stomaco di altri uccelli. Interessantissimo, solo che che l’enorme interesse iniziale per me scema drasticamente quando tali notizie non sono corredate della doverosa citazione delle fonti.

4 De re coquinaria, IV, 21: Patina ex lacertis et cerebellis. Friges ova dura; cerebella elixas et enervas; gigeria pullorum coques; haec omnia divides, praeter piscem; compones in patina praemista; salsum coctum in medio pones. Teres piper, ligusticum; suffundes passum vel mulsum, ut dulcis sit; piperatum mittes in patinam; facies ut ferveat. Cum ferbuerit, ramo rutae agitabis et amylo obligas.

5 Potrebbe alludere al rubiglio (Pisum arvense) usato come foraggio.

6 Traduco così versatilis; altri lo interpretano da voltare di continuo durante la cottura.

7 Salsicce.

8 De re coquinaria, V, 8: Pisa adultera versatilis. Coques pisam. Cerebella, vel avicellas, vel turdos exossatos a pectore, lucanicas, jocinera, gigeria pullorum in caccabum mittis, liquamen, oleum; fasciculum porri capitati, coriandrum viride concides et cum cerebellis coques. Teres piper, ligusticum et liquamen.

9 Satire, VIII, 12: …gizeria ni sunt sive adeo hepatia

10 Satyricon, 66, 2: Habuimus tamen in primo porcum botulo coronatum et circa savunculum et gizeria oprime facta et certe betam et panem autopyrum de suo sibi, quem ego malo quam candidum et vires facit et cum mea re facio non ploro.

11 De proprietate sermonis, 119, 16: GIGERIA, intestina gallinarum cum hepatiis cocta.

12 Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, tomo VIII°, pag. 432: ZIZERIUM pro gigerium, quo nomine Latini appellant gallinarum intestina, et quae cum iis coquuntur.

Libri/ Piccoli seminaristi crescono

 
Copertina del volume edito da Besa Editrice di Nardò

Dal libro di ALFREDO ROMANO, nato ad emozionanti puntate su Spigolature ed ora finalmente fresco di stampa in edizione integrale, proponiamo l’introduzione di PIER PAOLO TARSI

 

Le forme e i contesti della produzione letteraria contemporanea non potevano non risentire strutturalmente della evoluzione storica che direttamente ha riguardato i media e che, attraverso questi, ha interessato negli ultimi anni le nostre esistenze: la rete Internet, gradualmente e in misura sempre maggiore, è giunta in modo palese a coinvolgere le nostre modalità del fare e usufruire di informazione, arte, spettacolo e, appunto, della stessa letteratura. Così, se in passato molti grandi e celebri romanzi sono nati proprio dall’esigenza di sposarsi con i metodi, gli spazi e i dettami della stampa e del suo pubblico, oggi è soprattutto il mondo dei blog, dei forum virtuali e del web a incanalare e stimolare in molti casi la scrittura, incentivandone la spontanea condivisione e la scoperta, alimentando il piacere del raccontare che incontra, quando l’incastro riesce, il correlato piacere della lettura. La dinamica sopra tratteggiata riguarda proprio il caso di questo ultimo libro di Alfredo Romano, nato appunto nel blog www.spigolaturesalentine.it, scritto dall’autore nella veste di blogger per altri blogger, a piccoli passi o episodi. Il tessuto della narrazione e della rievocazione di ricordi qui riproposta andava dunque affiorando nei giorni stessi della sua scrittura su quel blog, senza forse una intenzione complessiva o una visione chiara e totale alle spalle, sorgendo nell’incubatrice della semplice voglia di raccontarsi e maturando pennellata dopo pennellata. Ogni tassello del mosaico che si andava così componendo in un senso gradualmente emergente, veniva incoraggiato nel suo rivelarsi e sospinto nella sua costruzione da un coinvolgimento autentico e sempre più appassionato dei lettori stessi, i destinatari ultimi che, per tale via, vedevano e vivevano l’opera nel suo farsi, nel suo creativo processo di generazione. Tale dinamica descritta sopra non riguardava solo il comporsi di un intreccio

Salento, un incantesimo che non c’è più

di Elio Ria
 

VIRGO

C’è il mare e il sole e il vento. C’è la taranta e la pizzica. C’è la gente di un luogo che prima apparteneva agli dei, ora è nelle mani degli incoscienti. Il Salento –  questa terra di semplicità che chiedeva soltanto di essere amata –   è stata invece stuprata, violentata e sconfitta. Le identità di un tempo sono state frantumate: il Salento non sa riconoscersi in nulla, preso com’è dalla bramosia di spettacolarizzare tradizioni che non appartengono a tutti e a organizzare festival di tarante e concorsi di ogni tipo. La gente seppure in movimento e in fermento è in uno stato di narcosi. Eppure si fa a gara a propagandare il Salento come luogo di elezione per le caratteristiche del territorio, tralasciando di evidenziare gli scempi ambientali prodotti in tanti anni di scelleratezza collettiva, chiudendo magari gli occhi e far finta di nulla per le tonnellate di immondizie sparse dappertutto sulle strade e sulle spiagge.

Non va bene!

È giunto il momento di riflettere e cambiare rotta con attenzione, senza eccessi ma con convinzione e intenti condivisi da tutti, evitando di omologare ogni cosa. Il Salento è un luogo, anzi  una terra che presenta infinite diversità e differenziazioni sia culturali che sociali che vanno valorizzate senza sconvolgere e adattare usi e costumi già esistenti a pericolose modernizzazioni e innovazioni contraddistinte da interessi meramente commerciali e pseudo-culturali.

Un ritorno all’origine per continuare a vivere nel luogo che ci fu consegnato da Dio, con l’unica raccomandazione di preservarlo dal male. È insostenibile l’idea di molti che vogliono fare del Salento il luogo ideale per il divertimento folle e sfrenato, per un turismo di massa che invade e lascia tracce discutibili di una cattiva permanenza.  È sostenibile invece l’idea di un turismo che mira a fare conoscere le bellezze del territorio intrise di semplici semplicità senza condimenti artefatti e insipidi.

Si eviti il disfacimento delle tradizioni, si difenda la memoria contadina, si alimenti la spinta propulsiva delle tradizioni, si diversifichino le iniziative culturali.

L’incantesimo di una volta non c’è più e il Salento attende di essere amato veramente.

 

A Specchia (Lecce), Borgo Cardigliano

 

La storia

A ridosso delle murge salentine, a 165 metri sul livello del mare, sorge “Borgo Cardigliano”, un unicum nell’ambito del turismo rurale, sia per la sua struttura che per la sua storia.

I primi documenti ufficiali riguardanti il territorio di Cardigliano risalgono alla metà del 1400 ma la scoperta di alcune tombe ipogee lascia supporre che il luogo fosse sede di insediamenti umani già nell’età del bronzo, mentre altri reperti archeologici inducono a ritenere che esso sia stato abitato anche dall’antico e, per molti aspetti, ancora misterioso, popolo dei Messapi.

Nel 1452, comunque, il nome di Cardigliano compare in alcuni documenti aragonesi che riportano il territorio come  parte dei possedimenti dei Baroni Balsamo, nobile famiglia di origine siciliana che arricchisce Specchia (paese in cui vive e nel cui agro l’attuale borgo rientra) di varie ed interessanti opere architettoniche ma si disinteressa di Cardigliano che rimane un disorganico insieme di “pajare” (tipiche costruzioni a secco simili ai nuraghi sardi) usate dai contadini nella stagione estiva.

Verso la metà del 1700 tutta la zona risulta appartenere ai Duchi Zunica di Alessano i quali ne mantengono la proprietà fino al primo ventennio del 1900, quando viene acquistata dai Greco, ricca famiglia di commercianti di tessuti originaria di Castrignano dei Greci.

Il borgo, inteso nella sua attuale struttura, nasce negli anni tra il 1920 e il 1930 per volere di Giovanni Greco il quale, forte dell’amicizia con Achille Starace, uno dei gerarchi fascisti più in vista, ottiene la concessione per trasformare una comune distesa di campi di circa 200 ettari in una moderna azienda agricolo-industriale per la lavorazione dei tabacchi levantini e, in segno di riconoscenza, intitola allo stesso Starace e alla di lui moglie, donna Ines, le due ville da poco ultimate.

La costruzione della piccola chiesa, che per la sua particolare facciata ricorda la basilica di San Marco a Venezia, completa la struttura urbana del piccolo borgo, struttura in tutto rispondente ai canoni dell’epoca caratterizzati da un estremo rigore formale unito ad una chiara esigenza di rappresentatività.

Cardigliano, così, inizia a vivere un periodo di intensa attività: c’è il forno, il frantoio, uno spaccio di generi alimentari, un “dopo lavoro”, viene aperta anche una scuola per i figli di quei contadini che qui abitano stabilmente e che, ormai, hanno raggiunto le cento unità mentre nelle ore lavorative si contano anche seicento persone.

Alla morte di Giovanni Greco, avvenuta nel 1949, i figli fanno costruire un cimitero, unica opera mancante, in cui far riposare le spoglie del padre.

Verso la metà degli anni sessanta, per Cardigliano, comincia un lento ma inesorabile processo di emigrazione, anche a causa della fine del monopolio dei tabacchi, che culminerà, nel decennio successivo, in un definitivo abbandono.

Il piccolo borgo diventa, quindi, luogo di ritrovo per gruppi di vandali il cui unico divertimento è quello di distruggere edifici ed attrezzi arrecando gravi e, spesso, irreparabili danni all’intera struttura.

Negli anni ottanta l’Amministrazione Comunale di Specchia acquista l’intera struttura ed i terreni circostanti ed avvia una serie di lavori di recupero. A completare il quadro vi è stato un progetto pilota del Ministero dell’Ambiente in base al quale, grazie ad un sistema eolico-fotovoltaico-solare, tutto il Borgo viene alimentato da fonti di energia pulita nel più completo rispetto della natura e del paesaggio.

 

 

Descrizione:

Villaggio agricolo della prima metà del ‘900, dedito alla coltivazione e lavorazione dei tabacchi levantini, Borgo Cardigliano si presenta come singolare hotel-resort nella penisola salentina. Immerso nel verde e nella quiete di un ambiente rurale seducente, il Borgo è stato restaurato nel più assoluto rispetto del paesaggio e dell’ambiente; conserva, infatti, tutte le caratteristiche architettoniche tipiche del Salento, dalle volte a stella e a botte ai pavimenti in basolato e granigliato. L’atmosfera incantata che vive nei profumi e nei colori di questo posto riporta alla mente il vecchio Meridione bucolico. Allo stesso tempo, l’hotel offre ai suoi ospiti tutti i moderni comforts di una struttura all’avanguardia per incontri di lavoro, esclusivi eventi e ricevimenti ed indimenticabili vacanze.

A disposizione degli Ospiti, il ristorante ‘il mandorlo’ dove degustare piatti ispirati alla cucina italiana classica o tipica pugliese, esaltati dalla freschezza e genuinità dei prodotti, un’accogliente sala tv e sala lettura, internet-point con rete wi-fi, sale per incontri di lavoro fino a 250 posti, una piscina semiolimpionica e una per bambini immerse nel verde e costeggiate da un inebriante viale della lavanda;  campo da tennis e da  calcetto, un incantevole giardino di melograni per momenti di relax, ampi spazi verdi per salutari passeggiate in un ambiente tranquillo e incontaminato, una chiesa dallo stile orientaleggiante che si impone sulla maestosa  Piazza delle Fontane,  un ampio parcheggio interno.

L’albergo, ricavato negli antichi magazzini del tabacco, riceve i suoi ospiti in un’ampia hall dove il brillante pavimento in battuto veneziano e le luminose vetrate esaltano le caratteristiche volte a stella, finemente affrescate dalle mani esperte di abili artigiani locali. Dalla lobby due ampi corridoi conducono alle camere junior suites e superior, tutte situate al piano terra, arredate in modo elegante con mobili raffinati in stili differenti da camera a camera,  sono dotate di tv-color, frigo-bar, aria condizionata, telefono, asciugacapelli e servizi. Le camere standard, da due e quattro posti letto, più semplici e sobrie, ma nel contempo comode e funzionali, hanno l’ingresso dalla piazza delle fontane o dal giardino dei melograni.

Il residence, ottenuto da un attento recupero delle vecchie abitazioni dei coloni, tutte con soffitti a stella, è suddiviso in appartamenti da due e sei posti letto,e alloggi con soppalco da 4 posti letto, tutti dotati di tv-color, telefono, frigo e servizi.

 

 

Meeting e congressi

Un incontro d’affari, un prestigioso convegno, un congresso, una convention aziendale, uno special event  trovano una cornice funzionale e suggestiva a Borgo Cardigliano. Gli spazi disponibili, quattro sale riunioni tutte con luce naturale, in grado di ospitare fino a 250 persone, permettono grande  flessibilità nell’organizzazione e gestione di diversi appuntamenti. Le sale sono perfettamente attrezzate con la tecnologia più innovativa e possono essere allestite secondo le richieste di ogni singolo evento.

Gli ambienti, preziosi e curati, si adattano a qualunque esigenza: i giardini, la Corte delle Tabacchine e la Piazza delle Fontane sono location ideali per l’allestimento di coffee-break e aperitivi d’incontro, sempre raffinati e personalizzati. Il ristorante ‘Convivio’ organizza colazioni di lavoro e cene di gala per rendere gli incontri memorabili.

La cura dell’evento in ogni suo dettaglio è affidata alla professionalità e cortesia dello staff.

Sala dei Melograni

Ricavata dai vecchi magazzini del tabacco, è situata al piano Hall, gode di luce naturale e offre un ambiente elegante e raffinato con vista sulla piazza adiacente da un lato  e su un suggestivo giardino di melograni dall’altro. Ideale per incontri e riunioni che richiedano un ambiente caldo ed accogliente, è indicata per presentazioni di libri e mostre di pittura in una cornice unica per eleganza e prestigio.

Sala Greco

Sala plenaria, situata al piano terra, ha un’imponente volta a botte ed è illuminata da ampie finestre. Può ospitare fino a 220 persone disposte a platea, è dotata dei più moderni supporti tecnologici e offre la possibilità di usufruire di un ampio patio esterno che dà sulla piazza principale. L’ingresso laterale si apre su un ampio spazio adibito a welcome-desk e guardaroba.

Sala degli Ulivi

Caratterizzata da alte volte a stella in pietra salentina a vista e dalla pavimentazione in chianche di pietra leccese, la sala gode di luce naturale e si affaccia su una suggestiva corte. Ideale per la presentazione ed esposizione di prodotti e lanci promozionali, è fruibile anche per l’allestimento di rinfreschi e buffet.

Sala delle Mangiatoie

Nasce dalle vecchie stalle, ne conserva le mangiatoie e il pavimento in basolato, usufruisce di un angolo bar funzionale e di un ampio cortile antistante.

L’Islam e la Puglia/ 3. Nel segno di Piri Reis

 

 sarac

 

 

Per i nostri lettori uno studio inedito di Vito Salierno, uno dei massimi esperti di islamistica in Europa. Oggi la terza parte dedicata alla cartografia ottomana della Puglia

 

di Vito Salierno

 

Tutte le coste, i porti e le isole del Mediterraneo erano note da gran tempo ai navigatori arabi: ma è solo con il sorgere della potenza turca ed il predominio ottomano nel Mediterraneo che la cartografia diventò una scienza pratica basata soprattutto sull’evidenza oltre che sulle conoscenze precedenti dei geografi arabi ed europei. Degli ammiragli (qapudan) della flotta ottomana i più noti furono Kemal Rais e il nipote Piri Reis (1470-1554), che navigarono per tutto il Mediterraneo in un’incessante guerra di corsa in proprio e ufficiale contro Veneziani e Genovesi. Durante quest’attività Piri Reis vide e studiò porti, isole e coste, di cui eseguì schizzi e disegni, annotando quanto gli sembrava degno di interesse.

Nacque così il Kitab-ï Bahriyye (Il libro del mare), composto in due versioni, nel 1521 e nel 1526. Le carte della prima versione, destinate per l’uso della gente di mare, erano sommarie e stilizzate, con una non gran cura nel disegno: il testo, a somiglianza delle antiche guide nautiche, aveva lo scopo di dare

Libri/ Taurisano negli ultimi anni del Fascismo e nei primi della Repubblica

di Paolo Vincenti

Qualche tempo fa, l’Associazione culturale “Odigitria” ha pubblicato Il contesto sociale-politico a Taurisano negli ultimi anni del Fascismo e nei primi della Repubblica, di Salvatore Antonio Rocca, con Prefazione di Maurizio Nocera e Presentazione di Antonio Ciurlia.

Questo libro, patrocinato dall’Amministrazione comunale  e dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Lecce, fa luce su un periodo buio e tempestoso per Taurisano e per tutta l’Italia, vale a dire il settennio 1944-1951, l’età a cavallo fra la fine della dittatura fascista e l’inizio dell’età repubblicana.

Il libro si apre con la massima latina Omnia tempus habent, omnia tempus habet e viene riportato il testo della bellissima canzone “La storia”,di Francesco De Gregori. L’autore prende in considerazione un periodo storico particolarmente travagliato e denso di fenomeni sociali che sono tutti da analizzare. Una grave crisi economica, la povertà dilagante, la risoluzione della annosa “questione meridionale”che, per certi aspetti, perdura ancor oggi, la difficile opera di ricostruzione, sono i problemi che si trovavano sul tappeto

Ad Andrano, non mischiare sacro e profano

Marina di Andrano
di Rocco Boccadamo

In occasione della rituale Festa dell’Amicizia, l’UDC ha pavesato di bandiere e vessilli anche la cittadina di Andrano, amena località del Basso Salento, specialmente lungo la centrale Via Roma.

Tutto normale, nulla da dire circa tale addobbo, salvo che per un particolare, invero non di poco conto. L’asta di plastica di uno dei vessilli bianchi con fondo scudato è appoggiata, e fissata mediante filo metallico, al cartello turistico indicatore dell’antica Chiesa (o Convento) dei  Domenicani, risalente al 1615, paletto posto a meno di un metro dal fronte dell’edificio sacro, sulla destra guardando il portale d’ingresso.

Si ha l’impressione che il diavolo, proprio così specie di questi tempi, intinga il dito nell’acqua santa.

A parte i responsabili dello schieramento politico, il Sindaco, i Vigili Urbani e il Parroco della cittadina – non possono non aver visto – non dovrebbero adoperarsi per l’immediata rimozione e una diversa sistemazione della bandiera in discorso?

La pesca del tonno nello Jonio

di Marcello Gaballo

Tra tutti i sistemi di pesca quello dei tonni risulta, da sempre, tra i più redditizi. La cattura avveniva, ieri come oggi, mediante l’installazione di impianti, per l’ appunto detti tonnare, sistemate nei punti in cui veniva segnalato il passaggio di questi pesci corridori. Occorreva dunque predisporre un complicato tunnel di nasse in cui finivano imprigionati i pesci.

Le reti con la loro tipica disposizione formavano delle camere consecutive, che terminavano in quella della morte, attorno alla quale si disponevano le barche con la ciurma (i tonnarotti), pronta ad eseguire la mattanza all’ ordine del caporais. Sin dall’antichità tonnare furono calate dai Fenici, in seguito altre ne sorsero in Italia, Spagna, Portogallo, lungo le coste meridionali della Francia, nella Tunisia, in Libia, altre più piccole nell’Adriatico orientale, nel Bosforo e nel Mar di Marmora. In quest’ ultima località , e precisamente nella Propontite, i pescatori di quei luoghi preferivano la pesca sedentanea, ovvero il complesso delle nasse ferme o statiche, alla pesca errante per la cattura dei tonni.

Già nel ‘300 a Taranto e nel 1327 a Gallipoli i pescatori praticarono la pesca cetaria, (pesca di pesci grossi), esercitandola con mezzi adatti alla cattura dei tonni, ma in maniera errante, con un apparato di mezzi e di attrezzi portatili di poco rendimento.

L’amico Salvatore Muci ha già trattato ampiamente su questo insolito argomento (in Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli, a c. di M. Gaballo), soffermandosi in particolare su quelle dello Jonio, a sud di Taranto e fino a Gallipoli, coprendo un arco temporale compreso fra XVII e XX secolo.

Tali impianti di reti fisse, verticalmente tese lungo la costa, spesso lunghe diverse centinaia di metri e in corrispondenza di fondali profondi anche oltre i 25 metri, comportavano investimenti in denaro di non poco conto, certamente non possibili al povero marinaio. Divenne dunque prerogativa di duchi e baroni, o perlomeno di ricchi proprietari, sino a rappresentare speciali meriti o concessioni regie alle città, tra cui, nel nostro circondario, la fidelis Gallipoli.

Gallipoli era stata beneficata dell’importante concessione con diploma del re Roberto spedito da Granada il 2 settembre 1327, con cui assegnava alla fedelissima cità de Galipoli il diritto perpetuo della tonnara. L’importante privilegio era stato riconfermato da Carlo V, con diploma del 23 giugno 1526 inviato ai sindaci della città Leonardo Gorgoni e Cristoforo Assanti. Un ulteriore decreto della Regia Camera fu consegnato al sindaco gallipolino, Leonardo D’Elia, il 15 luglio 1628.

Un primo documento in cui si descrive il metodo di pesca risale al 1490 e riguarda il tratto di mare di pertinenza di Nardò, presso il porto della Culumena, dove si pratica la pesca del tonno ad opera di pescatori tarantini, che si spingevano a sud per la mancanza di una tonnara nel loro mare: de li sturni se pigliano alla sturnara, in loco nominato de la Culumena, devono pigliare de lo VII doi. Essi, oltre le tonnine, vi pescavano sardelle, palamide, modoli, inzurri, alalonge e vope e per tale pescato ogni tredici ne pagavano il valore di uno al baglivo, mentre al gabelliere versavano i 15 tarì mensili per la sosta della barca.

La città di Nardò non poteva possedere una tonnara, in virtù dell’antico e citato privilegio ottenuto da Gallipoli, e il pesce venduto, cefali, triglie, spatanghi, pizzute, dentici, aurate, sarachi e occhiate, nel XVII secolo veniva ceduto a sei tornisi a rotolo (890 grammi). Quello pescato nelle acque di Nardò e venduto dai tarantini era soggetto alla decima, non così per i gallipolini, che potevano pescare liberamente in tale tratto, senza pagare il dazio. Gli stessi isolani furono persino autorizzati a vendere a Nardò il loro pescato, senza neppure dover corrispondere lo jus plateaticum, cioè il diritto di piazza.

Tra XVII e XVIII secolo la pesca del tonno continuò ad essere praticata nel tratto di mare pertinente all’università di Nardò e, come risulta da alcuni atti notarili, parte del ricavato delle vendite veniva destinato al sostentamento di opere pie. Sul finire del 1783 nel tratto neritino si aggiunse la tonnara di S. Caterina, quasi coeva con quella di Porto Cesareo e tra le diverse vicissitudini di re ed amministratori locali, di nobili ed emergenti proprietari, buona parte cessò di esistere nel XIX secolo, fatta eccezione per Gallipoli.

Una ripresa dell’ attività si registrò nel secondo decennio del 900, contandosene quattro nel Golfo di Taranto , tra le quali, oltre quella di Gallipoli, le altre di Torre San Giovanni, S. Maria al Bagno, impiantata a Porto Selvaggio, Porto Cesareo.

Negli anni 50 dello stesso secolo ne vennero impiantate altre due a Torre Chianca, installata nel 1953 nel tratto di mare detto l’ angolo della secca, verso ponente , e Torre Colimena, nel tratto di mare detto Punta delli Turchi o Punta Grossa. Furono attive solo per pochi anni, visto l’ ammodernamento delle tecniche di pesca, tra cui quella del cuenzu catanese e l’utilizzo delle reti tonnare a larga maglia (dette schiavine), con conseguente utilizzo di grandi paranze.

Solo verso la fine degli anni 40 furono introdotte le tonnare volanti, che comportavano l’ utilizzo di reti pesanti a base di fibra di cocco, numerose imbarcazioni per la mattanza e la presenza del palombaro, indispensabile per la chiusura delle camere della morte formate dalle reti. I pescatori gallipolini si erano specializzati per l’ utilizzo del cribio o motularo.

 

Questo contributo, come anticipato nel testo, è stato rielaborato da un corposo saggio di Salvatore Muci, pubblicato in Civitas Neritonensis

Inglese di nome e di fatto. Una camicia realizzata in Terra d’Otranto per il principino William

E’ della sartoria di Angelo Inglese di Ginosa (Taranto) la camicia bianca che oggi indosserà il principe William in occasione delle nozze con Kate Middleton.

Il celebre camiciaio, risaputo fornitore di camicie per il primo ministro giapponese e diversi  ministri tedeschi, confeziona fin dal 1955 camicie per illustri e facoltosi personaggi italiani, elogiate da prestigiose riviste di moda e particolarmente apprezzate nell’ultimo appuntamento di Pitti uomo.

“Non è venuto lui. – dice Angelo – Tutto nasce grazie a suoi amici intimi che d’estate trascorrono le vacanze in Puglia. Sono miei clienti, il turismo in Puglia è di alto livello, e gli hanno portato un paio di camicie in regalo». Come sarà la camicia? “Ovvio che la camicia sarà classica ma innovativa e

Nardò e Venezia: un gemellaggio a modo mio

di Armando Polito

Questo post è la naturale integrazione del precedente sull’Asso del 19 agosto u. s. Nel primo atto del 31 dicembre 1427 ivi citato compare la locuzione in loco nominato de Ponte, la quale, in concomitanza di rivum ricorrente poco dopo, fa pensare all’esistenza di un ponte, a meno che Ponte non contenga un riferimento ad altro, come, per esempio, il nome del proprietario di quel tempo o di tempi addirittura anteriori. Tuttavia, che si tratti effettivamente di un ponte, con funzioni molto simili a quelle che a Venezia hanno le passerelle in caso di acqua alta (con la differenza che queste sono mobili, mentre quello era fisso), sembrerebbe confermarlo quanto scrive Giovanni Bernardino Tafuri1: Tiene ella (la porta di S. Paolo) avanti a se (sic!) un largo, e spazioso atrio con proporzionata strada dirimpetto, che conduce ad un’antica Cappella detta la Madonna del Ponte, così detta per alcuni ponti quivi vicini fatti fabbricare dal pubblico per comodità non men de’ cittadini, che de’ forestieri viandanti per l’acque, che ne’ tempi piovosi quivi soglionsi fermare.

Stando al Tafuri, dunque, i ponti (con funzioni di passerella) sarebbero più di uno. Ho già avuto occasione di parlare della nota scarsa attendibilità storica del Tafuri noto  confezionatore, insieme col Pollidori, di documenti falsi; nella fattispecie, però, lo ritengo attendibile perché non vedo quale elemento di esaltazione truffaldina delle memorie patrie possa essere ravvisato nell’attestazione fasulla dell’esistenza di uno o più ponti.

Lascia inizialmente perplessi, piuttosto, il fatto che un ponte risulta raffigurato solo in una delle due tavole2 che corredano lo scritto prima riportato, che di seguito riproduco.

La perplessità iniziale, però, si ridimensiona considerando che nella seconda tavola, che è una vera e propria mappa, tutta l’attenzione è dedicata agli edifici e, d’altra parte, la rappresentazione di un ponte sarebbe stata inusuale oltre che difficile.

Già, mi si potrebbe far osservare, ma egli parla di ponti . Non credo neppure, a tal proposito, che il plurale abbia un valore enfatico perché la presenza di una passerella di tal fatta, totalmente staccata dalle mura e, addirittura, al loro interno sarebbe attestata dalla cartografia del Blaeu datata 1663 (nelle foto sottostanti l’insieme e il dettaglio).

La didascalia al numero 4 che contraddistingue il nostro dettaglio recita, infatti, Altra porta falsa e quella relativa alla lettera z (visibile nel dettaglio sottostante) Porta falsa, donde esce l’acqua che piglia la città per le pilogge (sic!); è chiaramente visibile, questa volta all’esterno della cinta muraria, un ponte.

A poco più di cinquanta anni dalla tavola del libro del Tafuri il ponte appare con una conformazione assolutamente uguale nell’acquerello dI J. L. Desprez datato 1785, di seguito riprodotto.

Riassumendo: il nostro ponte è presente nella prima tavola del Tafuri ma assente in quella del Blaeu. Il plurale ponti usato dal Tafuri potrebbe anche essere inteso come la sommatoria diacronica di un unico ponte  (o di un sistema di ponti) più volte ricostruito e il rifacimento e l’ampliamento commissionati dall’Università di Nardò al maestro Nicola Pugliese, di cui è testimonianza un atto del 2 settembre 1594 redatto dal notaio Giovanni Francesco Nociglia3, non sarebbero altro che un anello di una lunga storia iniziata probabilmente molto prima del 1427.4

E oggi? Recentemente è stato approvato un piano che prevede la deviazione del canale dell’Asso5 per scongiurare le esondazioni tutt’altro che rare,  proprio come secoli fa, in caso di pioggie abbondanti. Anche se non dovesse esserci nessun errore di progettazione, la normale manutenzione fosse regolarmente condotta  e l’Asso non dovesse più procurare paura e danni, rimarrà, purtroppo, attuale il mio gemellaggio (totalmente gratuito, questo,  per il contribuente…) con Venezia, dal momento che questa zona del territorio neretino di cui mi sono occupato non è la sola a rischio allagamenti (e solo indirettamente per cause naturali, nel senso che se l’antropizzazione non rispetta le pendenze o ostacola in qualsiasi modo il deflusso delle acque anche un semplice, in altri tempi innocuo, acquazzone può provocare disastri ). Ma, almeno fino a quando le casse comunali manderanno eco di vuoto, non vedremo mai, come a Venezia, installate passerelle mobili.

Meglio così, perché quasi sicuramente la gestione di un simile servizio costerebbe molto più che dotare di uno yacht di medie dimensioni le persone  interessate all’attraversamento…

_______

1 Cito dalla prima edizione parziale (primi sei capitoli del primo libro) di Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò di Gio. Bernardino Tafuri, pubblicata nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici dedicati da Angiolo Calogierà (così è scritto nella dedica, Calogerà è la grafia abituale) al benedettino Bernard Pez, tomo uscito a Venezia per i tipi di Cristoforo Zane nel 1735, pag. 41. L’opera integrale uscì in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò a cura di Michele Tafuri a Napoli per i tipi della Stamperia dell’iride nel 1848.

2 Entrambe con l’indicazione tomo XI pag. 34 e presenti solo nella prima delle due edizioni di cui si è detto nella nota 1.

3 Giovanni Cosi, Il notaio e la pandetta, Congedo, Galatina, 1992 pag. 79.

4 Si riferirebbero proprio al ponte del 1594 (ad onor del vero questa è la data del conferimento dell’appalto; si sa poi che Nicola Pugliese morì prima della fine dei lavori e che i due figli s’impegnarono con un atto redatto dal notaio Fontò il 29 luglio 1595 a completare l’opera del padre) le strutture rinvenute nel corso degli scavi per la fornitura del gas secondo quanto riportato dal quotidiano locale on line Il tacco d’Italia in un articolo del 16 gennaio 2007 (http://www.iltaccoditalia.info/sito/index-a.asp?id=5424) a firma di null (sic!).

5 Non sapremo mai, forse, se il nostro ponte scavalcasse o meno l’Asso (nome che non compare in nessuno dei documenti ricordati), ma è incontrovertibile che il fiume, vicinissimo, alimentato dalle piogge, fosse soggetto ad esondare, tanto che, per ovviare agli allagamenti dovuti alle piogge e ai concomitanti straripamenti del fiume, venne realizzato più che un ponte un sistema di ponti, come chiaramente si evince dal testo dell’atto del 1594  dove, fra l’altro, si legge: “…s’havria da revestire il detto ponte da dove sta oggi per larghezza et correrà per lo ponte de le Rene che hoggi si trova fatto a così il brazzo del primo ponte seno alla Tufara…”.

Libri/ I colori dell’Iride

FRANCESCO ACCOGLI E LE EDIZIONI DELL’IRIDE

di Paolo Vincenti

      Rosso è il colore della storia, della politica, delle tradizioni popolari, della religione;  arancio è il colore della letteratura, delle biografie, degli epistolari; giallo è il colore delle donne, dei giovani, dello sport, dei fumetti; verde è il colore dell’ambiente, del turismo, del folklore; azzurro, infine, è il colore delle belle arti come la pittura, la scultura, l’architettura, la fotografia, l’archeologia, l’urbanistica. Sette sono le collane editoriali della tricasina casa editrice Dell’Iride, come sette sono i colori che compongono l’arcobaleno, al quale il fondatore della casa editrice si è ispirato per dare un nome alla sua azienda, o per meglio dire, al suo laboratorio culturale. Le Edizioni Dell’Iride nascono a Tricase nel 1999, da un’idea di Francesco Accogli, affermato studioso tricasino e Direttore della Biblioteca Comunale,  il quale, senza esitazioni, da una vita si spende per la crescita culturale salentina. Titolare della casa editrice è la signora Maria Donata Amodio, gentil consorte dell’Accogli,  e lo scopo della nascita delle Edizioni Dell’Iride, come si legge in una nota di presentazione, “è quello di dare voce agli storici, ai poeti e ai narratori, agli intellettuali in genere, del territorio del Sud Salento e del Capo di Leuca”.

Innegabilmente, determinante  nelle linee programmatiche (o nella mission, come si dice, con un orribile tecnicismo-barbarismo, nel linguaggio economico-aziendale) è il fattore geografico, per una casa editrice che ha sede a Tricase, centro ideale e punto di riferimento per tutto il Capo di Leuca (o Finibusterrae, per compensare, con la bellezza di questo termine classico, la

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!