L’arte del costruire nel Salento. La squadratura dei conci di tufo

 

di Mario Colomba

Nel Medio Evo, era diffusa la convinzione che la capacità di lavorare la pietra da taglio fosse un dono divino. Per questo agli scalpellini era consentito uno speciale status socio-politico di particolare privilegio che, per esempio consentiva loro di spostarsi con notevole libertà anche nell’attraversamento di frontiere di stati diversi.

In effetti, specialmente agli occhi dei non addetti, aveva qualcosa di magico il risultato finale di un concio ben squadrato, realizzato partendo da quello abbastanza irregolare e quasi informe proveniente dalla cava.

La squadratura dei conci di tufo, insieme allo spegnimento della calce viva in zolle, costituiva l’operazione preliminare per l’avviamento del cantiere.

I conci di tufo provenienti dalle cave, venivano lavorati dagli squadratori (‘mmannare) che agivano solitamente in coppia. il numero minimo di due (in coppia affiatata che chiacchierando, anche di fatti personali, riuscivano a superare meglio la monotonia ripetitiva del lavoro) era necessario per l’aiuto reciproco che si prestavano nel caricare e scaricare i conci dal banco.

I conci lavorati da ciascun squadratore dovevano essere accatastati in un piliere separato; ciò, per due ordini di motivi:

      • perché il maestro potesse controllare la produttività del singolo;
      • perché le abitudini personali nel taglio dell’assetto del concio (lieve sottosquadro di alcuni mm.) dovevano essere note al muratore (la cucchiara ) che ne teneva conto nell’effettuarne la messa in opera.

     

  • Già nell’osservare l’esecuzione di questa operazione preliminare (predisposizione del banco) fatta dallo squadratore avventizio, l’occhio esperto del maestro riusciva a ricavare utili informazioni sulla capacità professionale del soggetto. Così come, il maestro difficilmente sbagliava nell’individuare l’abilità di una cucchiara o di una ‘mmannara osservando semplicemente il modo di impugnare i ferri del mestiere. La predisposizione del banco poteva già essere un’operazione discriminatoria nel senso che, uno squadratore che non era in grado di assicurare la necessaria stabilità del banco, che doveva essere ben fermo e non subire spostamenti sotto i colpi della mannaia, non era in grado di ottenere la precisione e la qualità del risultato richiesti. I conci, scaricati in cantiere dal tràino, venivano squadrati, scelti e selezionati in base alle caratteristiche della pietra ed alla tipologia di lavorazione (purpitagno, curescia, cantone, tuttuno, ecc.) e accatastati in pilieri separati, prima di essere utilizzati per la posa in opera. Per contenere al massimo la fatica e lo sforzo fisico, lo squadratore trasportava il concio grezzo, prelevandolo dalla massa scaricata dal traino proveniente dalla cava, facendolo rotolare in posizione quasi verticale, sugli spigoli della testa, per poi sollevarlo solo in prossimità del banco, sul quale veniva collocato per la lavorazione. da dove, quando era squadrato, veniva prelevato, col suo aiuto, dal manovale che lo portava sulla linea.
  • Preliminarmente, nel concio da cm. 20 di spessore disposto orizzontalmente sul banco, veniva regolarizzata, disponendola in posizione verticale, la migliore delle due superfici maggiori (minori, nei conci da cm. 30 di spessore) che diventava la faccia (la facce), cioè la superficie di riferimento. in questa operazione veniva usata con destrezza la parte lunga dello squadro metallico, impugnato con la mano sinistra, per definire l’entità e la posizione delle irregolarità da eliminare con l’uso della mannara. Successivamente, si disponeva la faccia in piano, rivolta verso l’alto e si procedeva, con l’uso dello squadro, a tagliare ad angolo retto, prima l’assetto e poi l’altra faccia parallela, detta taglia, con una staggia (tagghia) della dimensione di 25 cm. la faccia posteriore detta “dietro” (tretu) veniva tagliata per metà rivolgendo verso l’alto, prima l’assetto (assiettu) e poi, per l’altra metà, la taglia (tagghia), senza l’uso dello squadro; si aveva così il concio “perpedagno“  (purpitagno).

  • Nel caso di impiego nella costruzione di muraglie, cioè di muri a doppio paramento, i conci non venivano squadrati sulla faccia posteriore e venivano detti dialettalmente “curescie” (cioè cinture). Per queste si impiegavano i conci di spessore insufficiente per essere lavorati a “perpedagno”, mentre per il nucleo centrale di murature a notevole spessore, a più di due teste, si impiegavano i conci “cacciati a tagghia” cioè lavorati solo per definirne l’altezza (la taglia) poiché le facce non erano viste.
    La squadratura del concio avveniva con l’uso della mannaia, dello quadro metallico e della tagghia e con le seguenti modalità:
    Nei cantieri più importanti c’era un numero rilevante di squadratori che fornivano direttamente alla cucchiara i   conci squadrati da murare o i pezzi speciali.
    Il concio da squadrare veniva disposto orizzontalmente in bilico sulla testa del concio di banco e parzialmente a sbalzo di qualche centimetro per consentirne il taglio con la mannaia fino al bordo inferiore.
    Il banco (in dialetto ancu – da cui ncaddhrarescaddhrare cioè mettere o togliere dal banco) era costituito da un concio di tufo disposto in piedi, in posizione verticale e, quando il suolo lo permetteva, parzialmente infisso nel suolo per alcuni centimetri. Generalmente, se disponibile, era costituito da un “pizzotto”, affiancato alla base da un secondo concio più corto, disposto disteso (sul lato sinistro) per aumentare la stabilità del primo e su cui venivano saltuariamente appoggiati gli attrezzi che di volta in volta non venivano utilizzati nel corso della lavorazione (il metro, la tagghia, lo squadro metallico ).Prima di iniziare l’operazione della squadratura del concio, veniva posta particolare cura nella predisposizione del banco sul quale doveva essere appoggiato il concio da squadrare.
  • Altre tipologie particolari erano rappresentate da:- i “cantoni” cioè i conci angolari, scelti tra i più integri, nei quali, una delle teste veniva lavorata con l’uso dello squadro sia in verticale che in orizzontale.
  • – Le legature (tuttuni o legatore) di lunghezza pari allo spessore delle murature a doppio paramento, che venivano tagliate a misura e lavorate solo sulle teste e sugli assetti ma non sulle facce.
  • – i riattati o riatticati, perimetrali ai vani finestra, analoghi ai precedenti ma sagomati con mazzetta e battuta, con o senza sguincio e, a volte con risalto di
  • cornice sporgente.

La qualità della muratura era fortemente condizionata dalla precisione della squadratura dei conci. L’integrità degli spigoli condizionava la larghezza della stilatura e rasatura dei comenti che doveva essere quanto più stretta possibile, mentre il parallelismo degli assetti ne condizionava l’elegante linearità orizzontale senza ondeggiamenti.

Le pietre di lamia o di gliama tonde e quadre erano i conci utilizzati per la costruzione delle volte murarie. le p.d.l. tonde o quelle quadre erano, normalmente, ottenute segando per metà i pezzotti dello spessore di cm.30. Questa operazione si otteneva con l’uso del “sirracchiu” che veniva azionato da due persone disposte di fronte che generavano il movimento alternativo dell’attrezzo, partendo dalla testa del pezzotto disposto in posizione verticale.

Le p.d.l. tonde, che venivano impiegate nella realizzazione della calotta della volta, venivano lavorate sulla faccia asportando longitudinalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero, in corrispondenza del bordo della testa, fino a cm 1,5 al centro del concio, lasciando inalterato il profilo rettangolare delle teste.

Le p.d.l. quadre, che venivano utilizzate nella costruzione delle “formate” delle volte, venivano lavorate sulla faccia asportando trasversalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero fino a cm 1,5 al centro del concio, perciò lasciando inalterato il profilo degli assetti laterali.

Le appese, che venivano preparate da squadratori esperti che le montavano a secco, a piè d’opera, per verificarne preventivamente la perfetta stereotomia e gli incastri con gli incroci delle murature perimetrali dei vani da coprire.

Particolare abilità e qualificazione era richiesta poi dalle lavorazioni speciali per la realizzazione di conci scorniciati o addirittura scolpiti con tutte le difficoltà portate da una pietra – l’arenaria – non sempre omogenea come la pietra leccese e, talvolta, con la presenza di catene – strati di calcare duro e compatto all’interno del concio – che spesso ne provocavano la irreparabile rottura.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Manduria-

 

C’era comunque, alla base di tutto, un lavoro di squadra, una sinergia, che consentiva spesso senza l’uso del linguaggio la realizzazione di manufatti di pregio semplicemente ripetendo con cura e diligenza gesti e operazioni le cui modalità erano state tramandate da secoli praticamente senza alcuna variazione.

I pochi termini, generalmente dialettali, che venivano impiegati erano sufficienti per trasmettere le informazioni necessarie al conseguimento del risultato. Basta citare per questo, l’uso della mezza croce; sorta di falso squadro costituito da due vergelle di ferro (25X3) della lunghezza di circa 30-35 cm. incernierati ad una estremità, che veniva adoperata per segnare sulla faccia della p.d.l. rivolta verso l’alto, la traccia dell’inclinazione del taglio cioè serviva per determinare il verso del taglio delle teste sinistre o destre delle p.d.l. tonde; il comando era “a nnanzi” (avanti, davanti a sè) per le destre e “fore” (fuori, all’esterno) per le sinistre. Comando che veniva dato oralmente al manovale il quale, scendendo dall’impalcatura di servizio posta all’altezza delle appese, portava fisicamente la mezza croce, impostata dal muratore, allo squadratore che la riportava sul concio da sagomare, cioè per modellare la testa della p.d.l.. secondo il comando ricevuto.

L’attaccamento diretto al risultato finale era molto diffuso specialmente da parte dello squadratore che intravedeva nel concio che stava squadrando, unica fonte del suo reddito, le sue stesse personali possibilità di sopravvivenza ed anche per questo ci metteva, con la dovuta sollecitudine richiesta dalla produttività, tutta la cura e la precisione di cui era capace attirando l’attenzione del maestro che ne valutava la capacità e la produttività. La delicatezza, con cui il concio squadrato veniva accatastato nel piliere personale per evitare “sgrugnature” degli spigoli, rappresentava una sorta di affettuoso distacco, come il commiato da una propria creatura che viene considerata con spirito di compiacimento e come attestato della propria abilità.

Non era infrequente che venisse verificato da parte dei committenti più esigenti, perfino l’integrità interna del singolo concio squadrato che, se percosso con un sasso non emetteva un suono metallico ma un tonfo sordo, rivelava la presenza di fratture interne e quindi era da scartare.

 

Per le parti precedenti vedi qui:

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

I materiali da costruzione: i conci (cuzzetti) e la malta (conza)

 

di Mario Colomba

Il “cavamonti”, detto zuccatore, era l’artigiano che materialmente estraeva i conci dal banco di tufo che, nelle località ove esisteva, consisteva in un ammasso di arenaria (banco) coperto da una coltre di terreno vegetale che veniva preliminarmente rimosso.

Il tufo pugliese fa parte dei calcari teneri di origine sedimentaria marina, di facile lavorazione con mezzi normali come le mannare e sono adatti ad essere cavati e squadrati in conci parallelepipedi regolari con superficie piana.

Il De Giorgi considera i tufi calcari arenacei, costituiti da “sabbie marine mescolate con elementi calcarei di origine organica (perischeletri di foraminiferi) con frammenti di coralli, briozoi, molluschi, echinodermi, legati fra di loro con cemento calcareo siliceo-argilloso”. Sotto l’aspetto litologico essi sono di origine sedimentaria (esogena, acquea, nettunica) contenente detriti (calcarei e cretacei), provenienti dalla terra ferma e spoglie calcaree di organismi (molluschi), il tutto cementato con sostanza calcitica segregata dallo stesso sedimento.

I tufi hanno generalmente caratteristiche variabili: anche nella stessa cava gli strati successivi possono differenziarsi sia nell’aspetto che nella costituzione e nelle caratteristiche meccaniche.

Dopo avere spianato il banco, rimuovendo anche lo strato superficiale di arenaria intrisa di terra rossa e, spesso, friabile, venivano cavati i conci con l’uso di un attrezzo simile ad un piccone ordinario (lu zueccu) ma caratterizzato da una estremità molto sottile e da un’altra molto larga

Con l’estremità sottile detta pìnnulu venivano praticate sulla superficie orizzontale del banco delle fessure longitudinali parallele (carasse), alla distanza, l’una dall’altra, di circa 25 cm (un palmo) o 30 cm (per i pizzotti) e della profondità di circa cm. 20 o 25 cm. (per i pizzotti); successivamente veniva praticata un’altra serie di fessure ortogonali alle prime, distanti fra loro circa 65 cm., corrispondenti alla lunghezza dei conci da cavare (due palmi e mezzo).

In seguito, con l’estremità larga del piccone veniva estratto (scappato) il primo concio e successivamente tutti gli altri componenti della stessa fila e quindi quelli delle altre file, fino all’esaurimento di tutto lo strato (linea) del banco.

Il concio così ottenuto era un parallelepipedo che aveva, dopo la squadratura, le dimensioni di centimetri 63 x 25 x 20 di spessore. Poteva anche ottenersi il cosiddetto palmatico, che aveva uno spessore di centimetri 25, generalmente non usato da noi, oppure il pizzotto, da cm 30 di spessore.

Decisamente, il lavoro dello “zuccatore” era il più duro fra tutti quelli praticati nel settore delle costruzioni, non solo per il sacrificio fisico della costrizione a lavorare sotto il sole d’estate e al freddo e al vento d’inverno ma anche per la precarietà del risultato produttivo. Infatti non era infrequente l’eventualità di dover estrarre i conci da banchi naturalmente fratturati all’interno che non si lasciavano intravedere dall’esterno ma che si scoprivano man mano, quando i conci si fracassavano durante la scappatura, vanificando il lavoro di ore o a volte di giorni, senza alcuna possibilità di produzione,, necessaria per il sostentamento personale e familiare. Per questo e per l’imprevista presenza di catene (strati interclusi di calcare duro e compatto di spessore variabile da qualche millimetro ad alcuni centimetri) alcune cave anche di modesta profondità venivano abbandonate.

Il limite della profondità della cava a cielo aperto era rappresentato dalla disponibilità del suolo necessario per la costruzione di agevoli rampe di accesso la cui pendenza e lunghezza doveva essere necessariamente contenuta nei limiti della capacità di tiro e di resistenza dei cavalli che equipaggiavano i traini (traìni) di trasporto.

Qui le parti precedenti dello stesso Autore:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento

L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino

Una camera in tufo per far lievitare la pizza

pizza

Una camera naturale in tufo per far lievitare la pizza

Riscoprire le proprietà di ambienti e composti naturali, usati dagli antichi Romani, per produrre alimenti moderni, con peculiari caratteristiche organolettiche e insospettate doti di digeribilità. Così nasce la pizza in tufo a Napoli

Sfruttare il potere del tufo, la sua capacità di mantenere umidità e temperatura, per creare delle vere e proprie camere di lievitazione.

L’idea è di Enzo Albertini, presidente dell’associazione Napoli Sotterranea che dice: “Utilizzando forni realizzati in tufo e pasta lievitata dalle 24 alle 48 ore esclusivamente in camere tufacee abbiamo ottenuto la prima pizza geotermica in assoluto”.

 

Leggi qui l’articolo:

http://www.teatronaturale.it/tracce/gastronomia/21795-una-camera-naturale-in-tufo-per-far-lievitare-la-pizza.htm

Racconti salentini/ Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!