Un’antica peschiera leccese nei pressi di Frigole … (1/2)

di Armando Polito

Qualche mese fa Giovanna Falco mi segnalava, con la generosità tipica quanto rara, sottolineo rara, del vero, sottolineo vero, ricercatore una notizia reperita nel corso di una sua ricerca, pensando, non a torto, che mi sarebbe potuta tornare utile e che, suscitando la mia curiosità, avrebbe potuto ispirare un approfondimento. Purtroppo allora ero già impegnato, pur non essendo un investigatore a caccia di colpevoli,  in indagini che mi sottraevano perfino qualche ora della notte. Va bene, saranno state in totale al più una decina ma l’immagine fa tanto effetto e non ho resistito alla tentazione di amplificarla ….

Nell’occasione ringraziai Giovanna, ma la riconoscenza per lei forse più bella giunge oggi,  non essendo autoimpegnato dalla necessità angustiante di concludere (quando mai …) a tutti i costi qualche lavoro, prendendo corpo in queste righe,  per quanto poche e modeste.

La notizia era tratta da Nicola Caputi, La Guadina difesa in due dissertazioni epistolari, Domenico Viverito, Lecce, 17511. Segue il frontespizio tratto (come gli altri brani del testo che, per fare più presto e per evitare errori di trascrizione, ho preferito riportare in formato immagine) da  https://books.google.it/books?id=G4IDZHXRH68C&pg=PA21&lpg=PA21&dq=guadina+e+guadinella&source=bl&ots=dWyZDLvWNt&sig=lV1Vrb2q7pzK8qw4MA7k0bVgnfQ&hl=it&sa=X&ei=nsNtVejwJcOdygOWh4OYCw&ved=0CCMQ6AEwAA#v=onepage&q=guadina%20e%20guadinella&f=false, dove il testo è integralmente consultabile e scaricabile.

Prima di entrare nell’argomento mi pare opportuno dare qualche ragguaglio che, per quanto scarno, dia un’idea dello spessore professionale dell’autore e, dunque, dell’assoluta attendibilità di quello che scrive. Salentino doc (era nato a Campi nel 1696, morirà a Lecce nel 1761), i titoli citati nel frontespizio, ai quali in quel tempo si giungeva per bravura  …, sarebbero già sufficienti. Sempre allora … accanto ai titoli accademici contavano le pubblicazioni. Basta citare la più conosciuta, quella sul tarantismo, il cui frontespizio ho tratto da https://books.google.it/books?id=66Cb22kRLTMC&pg=PA95&dq=Tarantulae+anatome+et+morsu&hl=it&sa=X&ved=0CCMQ6AEwAGoVChMIhLv0r77-xgIVi5UsCh22bQjk#v=onepage&q=Tarantulae%20anatome%20et%20morsu&f=false

Può sembrare strano ma, sempre per quei tempi …, era normale che uno scienziato si cimentasse con la poesia, pur nell’occasionalità del filone encomiastico. Ecco un suo sonetto tratto da Raccolta di componimenti in lode di sua Eminenza il Cardinale D. Arrigo Enriquez per la di Lui promozione al cardinalato indirizzata al medesimo da Giacinto Viva consolo dell’Accademia de’ Spioni di Lecce, Domenico Viverita, Lecce, 1754, s. p. (https://books.google.it/books?id=caUuacKiDGsC&pg=PT66&lpg=PT66&dq=niccol%C3%B2+caputi&source=bl&ots=8-Tcse9aQc&sig=GGc4phNZomNfmmmma2uDv572v3Q&hl=it&sa=X&ved=0CCcQ6AEwAmoVChMIgt_Jkrn-xgIVIZdyCh1CNgjY#v=onepage&q=niccol%C3%B2%20caputi&f=false)

Il lettore avrà già notato la “fedeltà” dell’autore salentino allo stesso editore salentino. Troppo assoluta, secondo me, per essere casuale e non, invece, un attestato di stima reciproca.

È tempo di tornare al La Guadina difesa, in cui l’autore sfata un pregiudizio popolare, frutto, forse, di un occasionale evento, secondo il quale i pesci pescati nella palude Guadina procuravano la morte a chi se ne cibava e, di conseguenza , assicura, sulla scorta di osservazioni dirette,  che non era il caso di continuarne a proibire la pesca perché era infondata la ragione addotta per spiegare quell’evento eccezionale, cioè che le acque di quella palude salmastra erano putride, in quanto esse, al contrario, erano soggette ad un costante ricambio.

Ma dove si trovava questa palude Guadina?

Nella sua individuazione ci aiuta un foglio (il ventiduesimo) dell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Rizzi Zannoni con incisioni di Giuseppe Guerra, in trentadue fogli, uscito a Napoli per i tipi della Stamperia reale dal 1789 al 1808, integralmente consultabile in http://www.davidrumsey.com/luna/servlet/detail/RUMSEY~8~1~246514~5515020, link dal quale ho tratto i due dettagli che seguono.

La zona paludosa della Guatina (Guadina nel Caputi), dunque, si trovava nei pressi di Torre Chianca. Per dimostrare l’eccezionalità dell’evento che aveva favorito il sorgere del pregiudizio con i risvolti legislativi della proibizione della pesca il Caputi ricorre anche alla storia ricordando gli antichi “concessionari”, i Benedettini (p. 38):

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Mi viene, però, da osservare come tra il 1181 e la metà del XVIII secolo (da come si esprime il Caputi s’intuisce che il provvedimento di proibizione della pesca doveva essere piuttosto recente) intercorre troppo tempo per non immaginare che in quel range temporale non si fossero verificati, magari solo saltuariamente, fenomeni simili. E, siccome spesso alla verità si giunge malignando, chi ci assicura che nel XVIII secolo i detentori del potere a Lecce non tentarono di sfruttare uno di questi episodi (potrebbero addirittura averlo favorito …) per sottrarre ai monaci una non indifferente fonte di reddito?

Voglio, però, ritornare sul privilegio del 1181 perché esso ci riserverà delle sorprese di ordine toponomastico e ci porrà domande di ordine, e ti pareva …, etimologico.

Lo farò nella seconda parte, perché il caldo affatica il lettore, anche se qualcuno più curioso e interessato (pure io avrei fatto lo stesso …) sicuramente non condividerà questa mia scelta; poi, magari, a lettura avvenuta del resto, rimarrà deluso …

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/08/04/unantica-peschiera-leccese-nei-pressi-di-frigole-22/

 

 

A noi salentini piace esagerare, pure con le torri costiere …

di Armando Polito

Il titolo non si riferisce al numero notevole di queste antiche strutture difensive esistenti sul nostro territorio. Il termine esistenti, ad onor del vero, è improprio o, quanto meno, l’avrei dovuto accompagnare all’avverbio ancora, poiché di alcune di loro resta solo un ammasso di pietre, altre sono state salvate prendendole per il collo1, il destino di altre è in bilico (in senso metaforico, ma, cosa più grave, anche in quello letterale)  per la consueta storia della penuria di risorse, che, però, come ipotizzerò in seguito, costituisce in realtà  un alibi per mascherare un nobile intento …

L’esagerazione di cui mi accingo a parlare  potrebbe essere considerata  frutto di scarsa fantasia, una dote, però, che di certo non ci manca. E poi, il concetto di esagerazione esclude quello di fantasia? Come risolvere, allora, questo groviglio di apparenti contraddizioni?

Innanzitutto chiarendo che la presunta esagerazione si riferirebbe al fatto che una sola Torre Chianca non ci bastava. Infatti, ne abbiamo due.

La prima appartiene al Comune di Porto Cesareo e sorge su una piccola penisola nelle vicinanze della  località Scalo di Furno, un importante sito archeologico.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_chianca_a_porto_cesareo.jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_chianca_a_porto_cesareo.jpg

Nel foglio 22 dell’Atlante geografico del  Regno di Napoli  di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, del quale qualche tempo fa ho avuto occasione di parlare2, il toponimo è Torre della Chianca.

La stessa parte di costa in un dettaglio tratto da Google Maps; pur essendo totalmente ignorante in materia, mi appare evidente l’erosione costiera rispetto alla carta risalente a poco più di due secoli fa.

La seconda Torre Chianca appartiene, invece, al Comune di Lecce e le immagini successive mostrano la pietosa condizione di un manufatto prossimo all’ultimo, esiziale crollo.

immagine tratta da http://www.comune.lecce.it/vivicitta/passeggiandodune/torrechianca
immagine tratta da http://www.comune.lecce.it/vivicitta/passeggiandodune/torrechianca
fotogramma tratto da http://www.lecce360.com/torre-chianca
fotogramma tratto da http://www.lecce360.com/torre-chianca

 

Ora capisco perché queste testimonianze del passato vengono abbandonate alla rovina e chiedo scusa a tutti per non averlo capito prima: esse danno il meglio di sé al tramonto, quando esse (la terra) fanno  eco, insieme con il cielo e con il mare, al sole che muore; perché, allora, privare lo spettatore dell’opportunità di meditare sul destino delle cose e suo?

Sì, però, il giorno, se non sbaglio, è fatto di ventiquattro, dico ventiquattro,  ore, che non comtemplano solo il tramonto, a parte il fatto che un normale essere umano non può trascorrerle tutte in malinconiche riflessioni . E poi, se veramente l’abbandono ha quella nobile funzione educativa, non sarebbe meglio conservare quell’eco prima che il sole al tramonto resti da solo, pur tra cielo e mare, ad ispirare quei profondi pensieri?

Continuo ad essere un cretino e in un barlume di lucidità vi spiego perché: di torri ne abbiamo tante che, scomparsa l’una, possiamo campare dei crolli ispiratori delle altre per almeno trecento anni … così, nel frattempo, potremo destinare le risorse necessarie alla loro conservazione alla realizzazione, per esempio, di grandi opere, ma anche di tante opere meno grandi, purché opere siano, magari anche inutili; lo diceva pure Keynes …

 

Nella mappa dell’atlante precedentemente citato il toponimo è Torre di S. Stefano.

Qui lo stesso tratto di costa in un’altra carta dello stesso autore3 pubblicata  nel 1789.  Coincidenza ha voluto che questa mia pappardella venisse allungata (ma noi salentini, siamo o non siamo esagerati?) a causa di quel Torre dell’Orto dir. che si legge in basso a destra e che ho evidenziato in blu. Il toponimo si ripete anche nel foglio 22 già citato  dell’Atlante che uscì successivamente, come mostra il dettaglio sottostante.

Lì per lì uno è indotto a pensare ad un errore per Torre dell’Orso (nella foto sottostante),  appartenente al Comune di Melendugno.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_dell%27Orso_(LE).JPG
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_dell%27Orso_(LE).JPG

Ma ci sono due elementi che escludono l’errore di grafia. Parto dal meno decisivo: dir. è abbreviazione di diruta, cioè crollata ed è impossibile che una torre già crollata alla data del 1789 si presenti come appare Torre dell’Orso oggi, cioè parzialmente crollata, a meno che non fosse stata nel frattempo ricostruita e poi fosse crollata parzialmente. Ma a far crollare ogni possibile ricamo su diruta è la posizione molto differente, come appare nell’immagine sottostante tratta da Google Maps: nelle mappe precedenti rispetto ad Otranto Torre dell’Orto (chiamata anche Torre dell’Orte) era in linea, mentre Torre dell’Orso (segnacolo A) è molto più a Nord.

immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

Quando poi Torre dell’Orto sia crollata non so, ma a chi fosse interessato ad un’indagine in tal senso potrebbe tornare utile sapere che era perfettamente in piedi alla data del 1640, anno di pubblicazione a Napoli per i tipi di Beltrano della  Breve descrittione del Regno di Napoli di Ottavio Beltrano, in cui a pag. 278 nell’elenco delle sei torri nel territorio della città d’Otranto compare al primo posto Torre d’Orto, seguita da Torre pelagia4, Torre di S. Stefano, Torre S. Milano5, Torre dell’Arteglio6 in territorio di Galatea7 e Torre di Buracco8 in territorio di Marugio.

In http://it.wikipedia.org/wiki/Torre_dell%27Orte (da cui è tratta anche l’immagine che segue) leggo che nel 1826 la struttura difensiva venne incorporata nella masseria omonima di cui fungeva da magazzino. Di questa notizia non è riportata fonte alcuna, ma il fungere da magazzino mi sembra incompatibile con una torre che pochi anni prima risultava diruta, a meno che non sia stata preventivamente  ricostruita o, più probabilmente, restaurata parzialmente, come lascia ipotizzare  il suo unico, basso piano certamente inadatto ad una costruzione con finalità di avvistamento e difesa (sarebbe stata una struttura insolita, a quanto ne so unica, anche se il mancato sviluppo in altezza potrebbe essere connesso con la facilità di comunicazione, data la conformazione piatta del luogo, a nord con la Torre del Serpe a sud con la Torre Palascìa che nel 1869 cedette il post al faro dell’omonima punta.

 

Torniamo, dopo questa divagazione (ho detto che noi salentini siamo esagerati …), al nostro toponimo. Chianca, come nome comune, nel dialetto salentino è la lastra di pietra o una roccia piatta. Molto probabilmente fu proprio la conformazione del sito ad ispirare in entrambi i casi il nome della torre9. Per chi fosse interessato a sapere di più sulla voce chianca: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/13/la-chianca/

__________

1 Una storia, una volta tanto, a lieto fine in:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/02/950/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/signore-e-signori-ecco-a-voi-torre-squillace-finalmente-salva/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/31/il-frascone-e-dintorni-in-due-carte-piuttosto-datate/

3 http://www.mapsandimages.it/eMaps/autore.htm?idAut=470&numPage=3

4 È l’italianizzazione di Torre Palascìa, per la quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/27/antonio-maria-il-pescatore-etimologo-di-punta-palascia/

5 Deformazione di Torre S. Emiliano.

immagine tratta ed adattata da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_Sant%27Emiliano_(Otranto,_LE).JPG
immagine tratta ed adattata da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Torre_Sant%27Emiliano_(Otranto,_LE).JPG

6 È l’attuale Torre dell’Alto Lido. Arteglio potrebbe essere per arteglieria, forma cinquecentesca di artiglieria.

immagine tratta ed adattata da http://www.torrimarittimedelsalento.it/50B_TorreAltoLido.jpg
immagine tratta ed adattata da http://www.torrimarittimedelsalento.it/50B_TorreAltoLido.jpg

7 Galatone.

8 Oggi Torre Borraco o Boraco (localmente Burraco), in territorio di Maruggio (Ta). Nell’etimo del toponimo potrebbe non essere estraneo borra [dal latino tardo burra(m)=lana grezza) =stoppaccio di feltro che nelle cartucce separa la polvere da sparo dai pallini e la stessa voce potrebbe essere riferita a qualche specie vegetale un tempo abbondante in loco,  utilizzata allo stesso scopo.

9 I toponimi, infatti, se non sono collegati ad onomastici (del proprietario o di qualche altra persona che con quel luogo ha avuto a che fare), per lo più contengono riferimenti ad elementi fisici (la conformazione del luogo, appunto, o la presenza notevole in loco di una specie vegetale).

 

Torre Squillace verso il recupero

di Valentina Rosafio

Risale al 3 agosto scorso l’inizio dei lavori dati in consegna all’impresa Edilgamma di Lecce, che scongiureranno l’imminente pericolo di crollo della torre cinquecentesca localmente detta Scianuri, collocata sul litorale ionico tra Sant’Isidoro e Porto Cesareo.

I continui crolli con perdite di veri e propri pezzi dalla parte superiore hanno decretato uno situazione di abbandono che più volte è stata lamentata da cittadini, associazioni culturali e ambientaliste e denunciata in alcune lettere di sollecitazione da Marcello Gaballo, medico neretino già ispettore onorario per i monumenti di Nardò, che ha scritto alle autorità competenti (dal sindaco Antonio Vaglio, al Ministro dei Beni e Attività Culturali, al Presidente dell’Area Marina Protetta Porto Cesareo, al Presidente della Provincia e al Presidente della Regione), portando avanti la causa di una torre bellissima ma rimasta per lungo tempo abbandonata a se stessa e proprio dal tempo, come pure dalle frequenti e abbondanti piogge degli ultimi periodi, consumata, degradata, erosa.

La torre che si erge silenziosa sulla litoranea di Nardò, risale al 1567 e fu completata nel 1570 da Pensino Tarantino, maestro copertinese. Tuttavia è nel corso degli anni che assunse la connotazione che avrebbe dovuto mantenere oggi se non fosse stata abbandonata al degrado, e cioè un complesso a pianta quadrata con conformazione tronco piramidale al cui interno furono costruite scale mobili e una scala esterna in pietra aggiunta nel 1640.

Torre Squillace fa parte del complesso delle torri Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena, tutte costruite per difendere il territorio dai continui attacchi e saccheggiamenti di barbari e corsari che approdavano con facilità sulle nostre coste.
Alcune di esse sono oggi perfettamente conservate e valorizzate, luoghi utilizzati per iniziative ed esposizioni artistiche.

Nel 1707 Torre Squillace divenne una prigione per 16 turchi “naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste” come attestano i numerosi documenti pervenuti.
Nell’800 passò in custodia alle guardie doganali (1820) , per poi essere affidata all’Amministrazione della Guerra e della Marina (1829). Nel 1940 l’Esercito vi aprì una postazione di artiglieria, rimasta in azione fino all’armistizio del 1949.

Sottoposta a vincolo dal Ministero nel 1986, grazie alle continue attività e alle segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che ne ha mantenuto viva la storia attraverso una mostra e una pubblicazione, la torre com’è oggi, ingabbiata dall’impalcatura per evitare ulteriori cedimenti, è in attesa che le venga restituito lo splendore e la fierezza d’un tempo.

(pubblicato su “Lo Scirocco”, settembre, anno 2 numero 1)

La pesca del tonno nello Jonio

di Marcello Gaballo

Tra tutti i sistemi di pesca quello dei tonni risulta, da sempre, tra i più redditizi. La cattura avveniva, ieri come oggi, mediante l’installazione di impianti, per l’ appunto detti tonnare, sistemate nei punti in cui veniva segnalato il passaggio di questi pesci corridori. Occorreva dunque predisporre un complicato tunnel di nasse in cui finivano imprigionati i pesci.

Le reti con la loro tipica disposizione formavano delle camere consecutive, che terminavano in quella della morte, attorno alla quale si disponevano le barche con la ciurma (i tonnarotti), pronta ad eseguire la mattanza all’ ordine del caporais. Sin dall’antichità tonnare furono calate dai Fenici, in seguito altre ne sorsero in Italia, Spagna, Portogallo, lungo le coste meridionali della Francia, nella Tunisia, in Libia, altre più piccole nell’Adriatico orientale, nel Bosforo e nel Mar di Marmora. In quest’ ultima località , e precisamente nella Propontite, i pescatori di quei luoghi preferivano la pesca sedentanea, ovvero il complesso delle nasse ferme o statiche, alla pesca errante per la cattura dei tonni.

Già nel ‘300 a Taranto e nel 1327 a Gallipoli i pescatori praticarono la pesca cetaria, (pesca di pesci grossi), esercitandola con mezzi adatti alla cattura dei tonni, ma in maniera errante, con un apparato di mezzi e di attrezzi portatili di poco rendimento.

L’amico Salvatore Muci ha già trattato ampiamente su questo insolito argomento (in Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli, a c. di M. Gaballo), soffermandosi in particolare su quelle dello Jonio, a sud di Taranto e fino a Gallipoli, coprendo un arco temporale compreso fra XVII e XX secolo.

Tali impianti di reti fisse, verticalmente tese lungo la costa, spesso lunghe diverse centinaia di metri e in corrispondenza di fondali profondi anche oltre i 25 metri, comportavano investimenti in denaro di non poco conto, certamente non possibili al povero marinaio. Divenne dunque prerogativa di duchi e baroni, o perlomeno di ricchi proprietari, sino a rappresentare speciali meriti o concessioni regie alle città, tra cui, nel nostro circondario, la fidelis Gallipoli.

Gallipoli era stata beneficata dell’importante concessione con diploma del re Roberto spedito da Granada il 2 settembre 1327, con cui assegnava alla fedelissima cità de Galipoli il diritto perpetuo della tonnara. L’importante privilegio era stato riconfermato da Carlo V, con diploma del 23 giugno 1526 inviato ai sindaci della città Leonardo Gorgoni e Cristoforo Assanti. Un ulteriore decreto della Regia Camera fu consegnato al sindaco gallipolino, Leonardo D’Elia, il 15 luglio 1628.

Un primo documento in cui si descrive il metodo di pesca risale al 1490 e riguarda il tratto di mare di pertinenza di Nardò, presso il porto della Culumena, dove si pratica la pesca del tonno ad opera di pescatori tarantini, che si spingevano a sud per la mancanza di una tonnara nel loro mare: de li sturni se pigliano alla sturnara, in loco nominato de la Culumena, devono pigliare de lo VII doi. Essi, oltre le tonnine, vi pescavano sardelle, palamide, modoli, inzurri, alalonge e vope e per tale pescato ogni tredici ne pagavano il valore di uno al baglivo, mentre al gabelliere versavano i 15 tarì mensili per la sosta della barca.

La città di Nardò non poteva possedere una tonnara, in virtù dell’antico e citato privilegio ottenuto da Gallipoli, e il pesce venduto, cefali, triglie, spatanghi, pizzute, dentici, aurate, sarachi e occhiate, nel XVII secolo veniva ceduto a sei tornisi a rotolo (890 grammi). Quello pescato nelle acque di Nardò e venduto dai tarantini era soggetto alla decima, non così per i gallipolini, che potevano pescare liberamente in tale tratto, senza pagare il dazio. Gli stessi isolani furono persino autorizzati a vendere a Nardò il loro pescato, senza neppure dover corrispondere lo jus plateaticum, cioè il diritto di piazza.

Tra XVII e XVIII secolo la pesca del tonno continuò ad essere praticata nel tratto di mare pertinente all’università di Nardò e, come risulta da alcuni atti notarili, parte del ricavato delle vendite veniva destinato al sostentamento di opere pie. Sul finire del 1783 nel tratto neritino si aggiunse la tonnara di S. Caterina, quasi coeva con quella di Porto Cesareo e tra le diverse vicissitudini di re ed amministratori locali, di nobili ed emergenti proprietari, buona parte cessò di esistere nel XIX secolo, fatta eccezione per Gallipoli.

Una ripresa dell’ attività si registrò nel secondo decennio del 900, contandosene quattro nel Golfo di Taranto , tra le quali, oltre quella di Gallipoli, le altre di Torre San Giovanni, S. Maria al Bagno, impiantata a Porto Selvaggio, Porto Cesareo.

Negli anni 50 dello stesso secolo ne vennero impiantate altre due a Torre Chianca, installata nel 1953 nel tratto di mare detto l’ angolo della secca, verso ponente , e Torre Colimena, nel tratto di mare detto Punta delli Turchi o Punta Grossa. Furono attive solo per pochi anni, visto l’ ammodernamento delle tecniche di pesca, tra cui quella del cuenzu catanese e l’utilizzo delle reti tonnare a larga maglia (dette schiavine), con conseguente utilizzo di grandi paranze.

Solo verso la fine degli anni 40 furono introdotte le tonnare volanti, che comportavano l’ utilizzo di reti pesanti a base di fibra di cocco, numerose imbarcazioni per la mattanza e la presenza del palombaro, indispensabile per la chiusura delle camere della morte formate dalle reti. I pescatori gallipolini si erano specializzati per l’ utilizzo del cribio o motularo.

 

Questo contributo, come anticipato nel testo, è stato rielaborato da un corposo saggio di Salvatore Muci, pubblicato in Civitas Neritonensis

Note storiche su torre Squillace, detta Scianuri, sul litorale di Nardò (Lecce)

 

di Marcello Gaballo

torre Squillace (ph M. Gaballo)

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa. I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per ricchi proprietari e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi d’Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare in città.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo quarto di secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa, in particolar modo nel nostro distretto, costellato da numerosissimi insediamenti produttivi fortificati e non.

In obbedienza a quanto promulgato a Napoli nel 1563 e 1567, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far provvista di acqua e viveri.

In tutto il regno sorgono le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto ionico di nostro interesse.

torre Squillace nel corso dell’ultimo restauro del 2009 (ph M. Gaballo)

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).  L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera di Napoli attraverso il suo presidente Alfonso de Salazar, avviene nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, con il contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare. Alcuni mastri giungono da Napoli nella nostra provincia, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera, come sono stati i neritini Vincenzo ed Angelo Spalletta, padre e figlio.

Furono essi i più abili costruttori, realizzando poderose torri a pianta quadrata, che dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, sono classificate come torri “della serie di Nardò” (Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena).

La peculiarità di questa serie, oltre la pianta, è data dalla scala esterna, spesso aggiunta successivamente, la conformazione troncopiramidale, la presenza di caditoie (una o due per lato ed in corrispondenza delle aperture), la cornice toriforme marcapiano che divide la parete verticale da quella a scarpa, i beccatelli in leggero sbalzo, la cisterna nel piano inferiore e la zona abitabile in quello rialzato, la scala interna ricavata nel notevole spessore murario, la guardiola posta sulla terrazza.

Ad ogni torre era assegnato almeno un caporale e un cavallaro, entrambi stipendiati dall’università locale, ed ognuna di esse disponeva di un armamentario (un documento notarile elenca un  mascolo di ferro, uno scopettone, uno tiro di brunzo con le rote ferrate accavallato, con palle settanta di ferro).

La torre allora denominata Scianuri fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati.

Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.

Tralasciamo ogni altra notizia certa e documentata nel corso dei secoli, ricordando solo che la nostra torre nel 1707 ospita nelle sue prigioni sedici turchi, naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste.

Da un sopralluogo del 1746 viene attestato che non abbisogna di alcuna manutenzione, per essersi conservata molto bene.

lo stato di degrado di torre Squillace che ha sollecitato l’intervento di recupero (ph M. Gaballo)

Nel secolo successivo viene data in custodia alle guardie doganali (1820), quindi all’Amministrazione della  Guerra e della Marina  (1829). Nel 1940 i soldati dell’Esercito vi installano una postazione di artiglieria, rimasta attiva fino all’armistizio del 1949.

La torre, con quella di S. Caterina e del Fiume, è stata vincolata dal Ministero nel 1986, grazie alle pressanti segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che se occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione.

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Marcello Gaballo
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