Un commento alla “Sartoria delle zie” di Chiara Briganti

sarta

di Vanni Greco

Hanno un grande fascino, Chiara, le tue parole.

Lo faccio con molto rispetto, ma mi è venuto di darti del tu in modo naturale. Forse perché ci hai accompagnato amabilmente nella sartoria dei tuoi ricordi con la grazia e leggerezza della persona cara, di famiglia, che racconta prendendosi cura di chi ascolta, di chi legge, mettendolo a suo agio. Senza alcuna vanità, ma con una sincerità che, prima di lasciarsi irreggimentare dalla ragione, attinge alla fonte vitale dell’anima. Virtù rara.

Il tuo breve racconto, dalle immagini limpide e vivaci che catturano e coinvolgono, ha richiamato alla mia memoria una confidenza, dall’identica ambientazione, che nella mia prima adolescenza venne non da una bambina attratta da quel mondo femminile, colorato ed elettrizzato dall’abito nuovo che prendeva forma, nel quale le fantasie della ragazza cominciavano a far capolino. Fu invece la confidenza di un maschietto mio coetaneo che, anche lui nella casa-sartoria delle zie, non appena giungeva l’eco di voci femminili in movimento, dal giardino sul retro guadagnava in segreto l’accesso alla camera da letto matrimoniale destinata alla prova delle vesti davanti allo specchio grande dell’armadio e, nascosto sotto il lettone, trattenendo quasi il respiro, dall’oscurità di quella ricercata prigione lanciava i suoi occhi su viste chiare e luminose, d’un bianco spesso maestoso sul quale talvolta inattese chiome nere contrastavano tanto ribalde da arrestare il cuore. Occhi che si lanciavano alla conquista di sinuosi e morbidi panorami di valli, colline, montagne ora separate da gole strette ed anguste, ora adagiate su ampi ed aperti scenari. Che magnifici spettacoli! Che viaggi emozionanti!

Non ricordo che il mio amico m’abbia mai parlato di «’nfilare l’imbastire» comandato dalle zie, ma solo di rari, complici rimbrotti per quell’inguaribile passione del nipote per il gioco del nascondino. Che peccato non avere più zie così preziose per la nostra …educazione sentimentale. Colpa della diaspora delle famiglie ormai troppo tese a rincorrere, isolate, lontane lusinghe che illudono la felicità dell’una di poter fare a meno della felicità dell’altra famiglia.

Anch’io cominciavo in quegli anni a guardare con grande interesse alla forma racconto che, non certo nella sua proposizione scolastica poco stimolante, mi arrivava più diretta per via di quelle voci suadenti che, preferibilmente a casa dei nonni, cullandomi, mi affascinavano nelle fredde sere d’inverno davanti al camino acceso o nelle afose sere d’estate fuori dall’uscio, ssittati annanzi casa, anelando un soffio di tramontana.

Da più grandicello, mi sono anche interrogato sui racconti del mio amico chiedendomi se non fossero il frutto della fervida fantasia di un adolescente, cui le prime esuberanze ormonali fornivano la spinta narrativa decisiva. Un dubbio però che, a conti fatti, non ha mai minimamente intaccato la seduzione di quelle narrazioni, in cui la verità assumeva un ruolo del tutto marginale. Sarà perché, come acutamente ci fai notare, Chiara, «avevo bisogno di veder assecondato il mio orizzonte d’attesa». Splendida illuminazione di cui ti sono profondamente grato.

Fai molto bene a riconoscere nell’atto generoso di parlare per qualcuno le forme dell’amore. Sommessamente mi pemetto di aggiungere che un atto d’amore di pari grandezza può essere lo smettere di parlare, che non richiede di smettere d’amare, e che diventa saper ascoltare, proprio come fai tu che dimostri di frequentarlo con altrettanta intimità. Ascoltare che, lungi dal confinarci in uno stato inoperoso, esalta la più nobile capacità di sentire, di mobilitare tutti i nostri sensi, di celebrare un sentimento che al suo apice si trasforma in assoluto atto devoto di adorazione che, nell’«ascoltare sempre», tratteggia il sublime traguardo dell’amare per sempre. Per sempre.

Grazie ancora per averci parlato.

 

La sartoria delle zie

Ci pensa alla gente campa miseru e pizzente!

mugnaio_asino_fontaine

di Vincenzo Mariano

Or mi ricordo e vi racconto. La provenienza? Boh… Forse una lettura alle elementari o nu cuntu ti lu zi Totò da me fantasiatu.
Quella mattina si erano alzati presto padre, figlio e puru lu ciucciu. Lu jaddru non aveva fattu ncora lu sua dovere e iddri stìanu già alla distilleria.
La giornata fu lunga da passare: li fae a ncufanare e poi a spuntare, li fiche a putare e poi li sarmente pi li spicaluri.

Tutto fatto. “Giusta lu ciucciu ca turnamu a casa”, tisse lu sire a lu figghiu.
Il timido sole diceva che era già passata menzatìa quannu giùnsera alla distilleria.

Su lu purtone, cu lu sicaru curtu, lu Ntoni li edde e disse:

– iti e biti, lu poru ciucciu, no sulu li sarmente, ma puru iddri a ncaddru. Ah sorta sua!

Il padre, sentito, scese dall’asino e così fece fare al figlio. Prese lu fascettu ti sarmente sulla spalla e si avviarono. Lu castieddru ncora no parìa quannu li edde la Consulata ti li passaricchi, che alla scena, così reagì:

– lu munnu s’à firmatu, comu! iddri a mpete e cu li sarmente a ncueddru e lu ciucciu a passeggiu? Fanne salire almenu lu frusculieddru. Mah, ah sorta loru.

Fu sotta a la fica ti li Capuccini che il padre fece salire il figlio sull’asino e così, con lui a piedi, andettero.
Lu firraru faceva sentire il martello sull’incudine e più forte la sua voce:

– a cosa si assiste, lu figghiu a ncaddru e lu sire a mpete e puru cu li sarmente. E lu rispettu? S’à persu!

Rriati alla porta ti San Giuseppu, il padre fece scendere il figlio, ni tese a manu la corda ti lu ciucciu e lui si accomodò ngroppa cu tutte li sarmente. Superata la porta, ma no castieddru, fu na Trisicchiula che rivolta a na Carcaluru strulicàu:

– quiddri sta bèninu ti la fica paccia, lu figghiu a mpete e lu sire a ncaddru. Mmara a lu figghiu ci tene nu tristu patri.

Alla funtana ti castieddru, lu Filiciettu, che sarebbi statu lu patri, pigghiàu lu pane ti la sacchittola, lu mmuddrau e cu la muddrica fece quattru palle. Toi a li recchie ti lu figghiu e doi a li sua. Salira su llu ciucciu e caminara. Quannu girara pi la chiesa rande, no sintianu mancu li zzòcculi ti lu ciucciu sobbra a li chianche. Silenziu assolutu.
Videra nu Scaculi gesticolare, ma non sentendolo, proseguirono sereni fino a lu palazzu ti don Ronzu, dove nelle vicinanze insisteva la staddra e fu subito casa, fu famiglia e fu riposo.

 

Raffaella Verdesca e i suoi Volti di carta, oggi a Copertino

Copertino, Piazza Umberto, ore 18

8 Marzo 2013 – Volti di carta

Ornella Castellano dialoga

con l’autrice Raffaella Verdesca

La raccolta “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” è composta da venti racconti ispirati alla vita del popolo salentino nel secolo scorso.

Le fatiche e i sogni di contadini, vedove, soldati e gente comune vengono filtrati dalla sensibilità femminile, quella delle protagoniste, soggetti in primo piano o talvolta echi di sottofondo a vicende che un tempo scandirono la vita tanto nei centri rurali del tacco italico quanto nel resto della nazione. S’intrecciano folclore e storia dando vita a spennellate d’ingenuità contadina e di profonda saggezza umana. Il riscatto e l’emancipazione risiedono nelle mani delle donne, continua a pensare qualcuno ancora oggi, e le storie custodite in questo libro gliene danno piena conferma mettendo in luce il coraggio di mogli, sorelle, figlie e madri capaci di addolcire la brutalità delle ingiustizie e dei sacrifici con la forza del proprio essere culla di vita. E’ proprio questo prezioso messaggio di positività e coraggio che le donne portano in sé a trasformare la fine in un nuovo inizio, la sciagura in insegnamento e il dolore in dignità.

Non manca tra i righi il tocco poetico dei canti popolari, è particolarmente curato il divertimento nato dai paradossi, dalla semplicità dei personaggi, è vitale il tratteggio di personalità capaci di respirare anche a libro chiuso.

Se da una parte si lavora a sdrammatizzare, dall’altra si lascia intatto il lirismo del dolore e la sacralità della conoscenza, quella di chi deve lottare per sopravvivere e vivere per conquistarsi sereno e onore: le nostre radici sono l’assicurazione migliore sui nostri frutti.

Motivazioni

Da una valigia piena di vecchie fotografie e ricordi, salta fuori l’idea di raccontare storie utili a restituirci il valore del passato rivalutando quello del presente.

In questa raccolta si è lasciata la parola al Salento e ai ritratti che delle sue genti portano alla luce momenti di vita e voci di donna capaci di raccontarla.

Il periodo storico che fa da sfondo al libro è quello attorno alle due guerre, momento importante per enfatizzare la forte volontà popolare di ricostruzione dei princìpi e dei sentimenti contro il caos della miseria, della violenza e del sopruso sempre perpetrato ai danni dei più deboli.

Le donne di “Volti di carta”, all’apparenza parte integrante di quest’ultima categoria, raccontano invece gioie e dolori con l’integrità di un Titano, pronte a chiarirci gli orizzonti del nostro essere.

Siamo tutti figli di una madre e da questa abbiamo ricevuto e imparato la vita, la stessa che qui si cerca di non far dimenticare e soprattutto di fare amare secondo i giusti meriti.

 

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ph. Stefano Crety

Verdesca Raffaella è nata a Lecce e qui ha conseguito il diploma di maturità classica proseguendo poi i suoi studi pressola Facoltàdi Medicina e Chirurgia di Pisa.

Ha pubblicato i romanzi Chandra Mahal (Il Filo, 2005) e Deliri di una verità (Gruppo Albatros Il Filo, 2010) e le raccolte dei racconti All’ombra dell’Arca (Il Filo, 2007), Racconti per ridere- La lisca (Gruppo Albatros Il Filo, 2010) e Volti di carta- Storie di donne del Salento che fu (Gruppo Albatros Il Filo, 2012).

 

Scheda del libro:

Autore: Raffaella Verdesca

Titolo dell’opera: “Volti di carta – Storie di donne del Salento che fu

Editore: Gruppo Albatros Il Filo

Anno di stampa 2012

Formato: 21x14cm – 171 pagine

Numero illustrazioni: 26. Prezzo: 12 Euro.

Prefazione di Pier Paolo Tarsi. Patrocinio della Fondazione Terra d’Otranto

Cod  ISBN 978-88-567-5710-1

Il libro può essere ordinato all’indirizzo mail ordini@ilfiloonline.it  e in qualsiasi libreria italiana fornita da PDE.

 

Nicola G. De Donno, Li cunti te la nonna

di Emilio Panarese

Nella monografia «Maglie» che pubblicai nel 1995 vi sono verso la fine due lunghi capitoli di circa 80 pp., il 16° e il 17°, dedicati interamente alle tradizioni ed al costume popolare di Maglie, al suo arcaico dialetto ed alla sua vasta letteratura. Scrivendo di questa nutrita letteratura, ho cercato di mettere nel dovuto risalto il poderoso e rilevante contributo che ad essa ha dato continuamente Nicola De Donno con un grande salto qualitativo, con grande competenza e professionalità, sia a livello di trascrizione di testi, sia a quello di invenzione poetica sia a quello, pure assai significativo, di critica e di saggistica.

La pubblicazione della trascrizione fonetica con traduzione in italiano dei sessantacinque racconti popolari magliesi/salentini contenuti nel suo libro «Li cunti te la nonna», stampato nel 2000 col patrocinio del Comune di Maglie dalle Grafiche Panico di Galatina, completa in modo esemplare il dignitoso edificio del nostro dialetto e della nostra letteratura che egli ha ricostruito e restaurato in più di cinquant’anni di instancabile lavoro con ammirevole cura ed infinita pazienza.

Cominciamo dal titolo: «Li cunti te la nonna». Cuntu è parola antica e letteraria, già presente in documenti italiani del ‘200. È un deverbale di contare, che deriva dal latino computare, ‘calcolare, contare’.  Dal verbo computare al sostantivo computus e, per sincope, a comptu / contu /cuntu, che ha anche il significato di ‘narrare, novellare, raccontare’. Nell’accezione della parlata magliese cuntare vuol dire innanzitutto ‘parlare’ ma tale significato non si ritrova nei dizionari dialettali  del Rohlfs e del Garrisi mentre contare nel senso di ‘raccontare’ è riportato oltre che nel ‘Dizionario etimologico’ di Cortelazzo e Zolli, citato da De Donno nell’Introduzione del

Piccolissime porzioni di un’antica civiltà contadina. Prefazione a Volti di carta

di Pier Paolo Tarsi

 

Se un albero scrivesse l’autobiografia,

non sarebbe diversa dalla storia di un popolo

Kahlil Gibran

«Prendi una cosa qualsiasi e scoprirai che è legata a tutto il resto dell’universo». L’uomo che un secolo fa scrisse questa frase – così semplice eppur così densa di significati – si chiamava John Muir. Americano di origine scozzese, fu un attivo naturalista ed ecologista ante-litteram, abituato a esplorare paesaggi selvaggi e a lottare col pensiero e con l’azione per la loro salvaguardia da ogni contaminazione. Capace di comprendere gli elementi come inestricabilmente intrecciati e sussistenti solo in relazione l’un con l’altro, Muir voleva insegnarci con quelle parole come ogni cosa in natura si riveli legata all’altra e sussista in equilibrio dinamico solo come parte di un tutto, non potendo affatto esistere se non come elemento di un sistema che la trascende e la ricomprende. La vita, infatti, si genera e si sostiene ovunque solo nel mezzo di relazioni ininterrotte tra anelli e momenti tutti assolutamente essenziali: solo quando ogni frammento è interconnesso al resto di cui fa parte, e finché ne fa parte, siamo di fronte al meraviglioso fluire del complesso naturale vivente. Quanto fin qua accennato chiarisce anche la ragione fondamentale per cui alterare o, peggio ancora, annientare – come tuttavia l’animale sedicente sapiens continua imprudentemente a fare – un solo tratto di questo continuum, una sua sola infinitesimale parte, significhi in realtà mettere a repentaglio l’intero, il tutto, l’ecosistema, il cosmo organizzato. «Qualunque cosa tocchi, lo fai a tuo rischio e pericolo» chiosava appunto lo stesso Muir a conclusione del pensiero con cui abbiamo inaugurato queste nostre riflessioni: distruggere una qualunque porzione dell’esistente, anche quella più apparentemente ininfluente, significa offendere tutta la vita intera. In natura, allora, nulla è secondario, nulla è inferiore o, peggio ancora, inutile, inessenziale: nella parte – anche la più piccola – vi è sempre contenuta la dignità, la nobiltà e la stessa possibilità di esistenza del tutto.

Perché, si starà forse chiedendo il lettore, introdurre un libro di materia narrativa con questi accenni? Che attinenza hanno queste affermazioni sulla vita naturale con le pagine che seguono? Perché indugiare in tali argomenti? Proviamo di seguito a rispondere a tali legittime domande, mostrando come

Ecco l’ultimo libro della nostra Raffaella: Volti di carta

      Volti di carta

Storie di donne del Salento che fu

 

La raccolta “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” è composta da venti racconti ispirati alla vita del popolo salentino nel secolo scorso.

Le fatiche e i sogni di contadini, vedove, soldati e gente comune vengono filtrati dalla sensibilità femminile, quella delle protagoniste, soggetti in primo piano o talvolta echi di sottofondo a vicende che un tempo scandirono la vita tanto nei centri rurali del tacco italico quanto nel resto della nazione. S’intrecciano folclore e storia dando vita a spennellate d’ingenuità contadina e di profonda saggezza umana. Il riscatto e l’emancipazione risiedono nelle mani delle donne, continua a pensare qualcuno ancora oggi, e le storie custodite in questo libro gliene danno piena conferma mettendo in luce il coraggio di mogli, sorelle, figlie e madri capaci di addolcire la brutalità delle ingiustizie e dei sacrifici con la forza del proprio essere culla di vita. E’ proprio questo prezioso messaggio di positività e coraggio che le donne portano in sé a trasformare la fine in un nuovo inizio, la sciagura in insegnamento e il dolore in dignità.

Non manca tra i righi il tocco poetico dei canti popolari, è particolarmente curato il divertimento nato dai paradossi, dalla semplicità dei personaggi, è vitale il tratteggio di personalità capaci di respirare anche a libro chiuso.

Se da una parte si lavora a sdrammatizzare, dall’altra si lascia intatto il lirismo del dolore e la sacralità della conoscenza, quella di chi deve lottare per

Nonno raccontami una storia

NARRAZIONI E GENERAZIONI 

 

di Paolo Rausa

                                

L’intervento, da me svolto nel corso della manifestazione di premiazione “Nonno raccontami una storia” sui testi prodotti dai ragazzi della 1^ e 2^ Media di Poggiardo sulla base dei racconti e dei vissuti dei nonni al Teatro Illiria di Poggiardo (LE) il 19 maggio 2008, discende dalla mia veste di curatore del libro di poesie dialettali “Terra mara e nicchiarica” di Fernando Rausa, mio padre. Nel mentre stava per essere pubblicata una nuova raccolta  dal titolo “L’umbra de la sira”, quest’ultima più legata alla rappresentazione di significativi personaggi poggiardesi, protagonisti di fatti salienti e inseriti nei luoghi caratteristici del nostro paese, che hanno lasciato traccia della loro azione, sia pure in ambito locale, tanto da meritare menzione  e riconoscimento da parte della comunità.

Ho ritenuto molto importante l’iniziativa proposta per una serie di ragioni: innanzitutto perché il racconto e la narrazione gettano un ponte fra le

Libri/ Principi fate folletti nel magico mondo delle favole

a cura di Stefano Donno

 

COME FECE COME NON FECE

principi fate folletti nel magico mondo delle favole

 

 

Come fece come non fece è una raccolta di fiabe fatte di immagini, luoghi, atmosfere, suoni di paesi e città, voci di uomini e di animali, odori antichi di case umili o profumi esotici di sfarzosi castelli, di malìe e incantamenti alla controra.

Immagini lontane, nel tempo e nello spazio, di principi e principesse che vivono e rivivono tra gli ulivi contorti e tra gli spinosi fichi d’India. Dietro ogni favola c’è il volto rugoso di un vecchio che fu bambino, la sua voce sfiatata e i gesti delle sue mani nodose che raccontano storie vere, camuffate da fiabe.

Un libro attraverso cui i bambini possono apprendere gli strumenti per affrontare la vita, perché si narra di grandi difficoltà e pericoli da superare, di

Storie di lupi mannari. Dall’antica Grecia al Salento

SALVE, SONO IL LUPO CATTIVO!

di Paolo Vincenti

Nel 2006 Annu novu Salve vecchiu ha compiuto vent’anni. Sulla copertina del primo numero, un disegno di Vito Russo ritraeva una befana che volava nel cielo di Salve, illuminato da una bellissima luna piena, che era legata ad un filo da un fanciullo (forse il giovane pittore), il quale, seduto su una terrazza con due comignoli fumanti, voleva come tirar giù dalla luna, con la sua corda di aquilone, i sogni; e allo spettacolo assisteva sorniona una gatta, forse tramutazione di qualche invidiosa megera del paese1 .

Già dal primo numero, l’autore della copertina aveva voluto rappresentare Salve nel suo aspetto più nascosto e suggestivo, quello magico e misterioso dei miti e delle leggende di cui Salve, più di ogni altro paese del Capo di Leuca, è ricchissima.

A distanza di quasi dieci anni da quel primo numero, frutto più della scommessa di un gruppo di giovani amici e “ardimentosi” salvesi che di un calcolato progetto editoriale, nel 1995, Antonio Vantaggio dava alle stampe Salve-miti e leggende popolari (Edizioni Vantaggio), una summa di tutte le leggende popolari (arricchita da qualche racconto partorito dalla fervida fantasia del poeta Carlo Stasi) fino ad allora conosciute su Salve.

Anche in questi vent’anni di vita del periodico, numerosi e tutti pertinenti sono stati i contributi sulle tradizioni orali e sugli aspetti folklorici, magici e leggendari della terra di Salve, da parte dei collaboratori di Annu novu. Ricordiamo, allora, la leggenda della Vergine del SS. Rosario; la leggenda del ritrovamento dell’immagine della Madonna delle Gnizze; quella del

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