Squisiti, adorabili, straordinari, benefici, gustosi, ottimi, particolari, ricercati, eleganti, versatili… Accanto a termini come questi, proferiti dai tanti estimatori si affiancano anche tutta una serie di termini meno lusingheri, rispettabile giudizio di una pur presente minoranza di detrattori. Per i lampascioni, infatti non si conoscono le mezze misure, o li si ama o li si odia.
È doveroso comunque premettere che il lampascione resta un bulbo misterioso per la stragrande maggioranza degli italiani, ma è molto probabile che, viste le sue prerogative, se fosse conosciuto meglio, sarebbe certamente amato un po’ di più.
In passato era conosciuto come Muscari comosum Mill.; dopo alcuni approfonditi studi botanici dal 1968, viene più correttamente appellato Leopoldia comosa (L.) Parl. Si contano, inoltre, varie specie simili al lampascione che vengono spesso utilizzate alla stessa stregua del lampascione per così dire verace: si tratta di una decina di specie appartenenti a tre diversi generi Bellevalia, Muscari, Leopoldia che hanno però un po’ tutte caratteristiche organolettiche più scadenti rispetto allo stesso. A tale proposito è utile ricordare quanto riportato dal Mannarini:“Assieme al pampasciulo trovasi spontaneo da noi un altro muscari, il Muscari Holzmannii Bois. o Leopoldia Holzmani Held., che ha proprietà eccitanti ed anche afrodisiache. Questo è volgarmente conosciuto col nome di pampasciulu pe li vecchi. Per questo, esso in Grecia si adibisce ad uso alimentare, da noi non è adoperato, anzi viene scartato nella raccolta del M. comosum”.
Decisamente meno tranquillizzanti le indicazioni di Dioscoride (II.358.) a proposito di una di queste specie identificata da alcuni traduttori naturalisti nel Muscari atlanticus e o M. botryoides:”il porro capitato fa ventosità, genera cattivi umori, fa sognare cose terribili e spaventose. Cuocersi la capillatura sua nell’aceto, ed in acqua marina. Con tali premesse non perderemo nulla se dal punto di vista gastronomico considereremo solo il lampascione rosso verace ovvero la Leopoldia comosa (L.) Parl.
La parte edule è costituita dal bulbo che può raggiungere eccezionalmente i 4 centimetri di diametro ed il peso di 35-40 grammi, anche se generalmente il
Squisiti, adorabili, straordinari, benefici, gustosi, ottimi, particolari, ricercati, eleganti, versatili… Accanto a termini come questi, proferiti dai tanti estimatori si affiancano anche tutta una serie di termini meno lusingheri, rispettabile giudizio di una pur presente minoranza di detrattori. Per i lampascioni, infatti non si conoscono le mezze misure, o li si ama o li si odia.
È doveroso comunque premettere che il lampascione resta un bulbo misterioso per la stragrande maggioranza degli italiani, ma è molto probabile che, viste le sue prerogative, se fosse conosciuto meglio, sarebbe certamente amato un po’ di più.
In passato era conosciuto come Muscari comosum Mill.; dopo alcuni approfonditi studi botanici dal 1968, viene più correttamente appellato Leopoldia comosa (L.) Parl. Si contano, inoltre, varie specie simili al lampascione che vengono spesso utilizzate alla stessa stregua del lampascione per così dire verace: si tratta di una decina di specie appartenenti a tre diversi generi Bellevalia, Muscari, Leopoldia che hanno però un po’ tutte caratteristiche organolettiche più scadenti rispetto allo stesso. A tale proposito è utile ricordare quanto riportato dal Mannarini:“Assieme al pampasciulo trovasi spontaneo da noi un altro muscari, il Muscari Holzmannii Bois. o Leopoldia Holzmani Held., che ha proprietà eccitanti ed anche afrodisiache. Questo è volgarmente conosciuto col nome di pampasciulu pe li vecchi. Per questo, esso in Grecia si adibisce ad uso alimentare, da noi non è adoperato, anzi viene scartato nella raccolta del M. comosum”.
Decisamente meno tranquillizzanti le indicazioni di Dioscoride (II.358.) a proposito di una di queste specie identificata da alcuni traduttori naturalisti nel Muscari atlanticus e o M. botryoides:”il porro capitato fa ventosità, genera cattivi umori, fa sognare cose terribili e spaventose. Cuocersi la capillatura sua nell’aceto, ed in acqua marina. Con tali premesse non perderemo nulla se dal punto di vista gastronomico considereremo solo il lampascione rosso verace ovvero la Leopoldia comosa (L.) Parl.
La parte edule è costituita dal bulbo che può raggiungere eccezionalmente i 4 centimetri di diametro ed il peso di 35-40 grammi, anche se generalmente il
Nello sconfinato calendario delle sagre dedicate ai prodotti tipici, vegetali e animali, del Salento, sagre che hanno trovato nella necessità di mantenere tradizioni secolari, dunque in un appiglio culturale, un alibi non sempre correttamente giocato per promuovere il turismo e il consumismo (ora, per fortuna, meno sfrenato), il lampascione trova uno spazio da protagonista unico nel primo venerdì di marzo ad Acaya, frazione di Vernole in provincia di Lecce, in occasione della ricorrenza della Madonna Addolorata più comunemente nota come Matonna de li pampascioni. Un’antica leggenda popolare narra che un 1° venerdì di marzo di più di un secolo fa una barca carica di gente naufragò di fronte alle Cesine; molti dei naufraghi, dopo aver pregato la Madonna Addolorata, riuscirono a mettere piede a terra e nel primo villaggio che incontrarono, Acaya appunto, organizzarono festeggiamenti in suo onore con canti, balli, e lampascioni34, di cui la zona è ricchissima.
Il bulbo, invece, diventa coprotagonista in occasione delle Tavole di San Giuseppe, festa celebrata il 19 marzo in quasi tutti i centri del Salento ma che ad Uggiano la Chiesa (Le) ha conservato tutti i dettagli dell’antico rituale. Vengono allestite nella stanza più grande di parecchie case tavolate allestite con piatti tradizionali per un numero di commensali detti “santi” che può variare da tre a ventuno. Secondo la tradizione i commensali rappresentano la Sacra Famiglia (san Giuseppe, la Madonna e Gesù Bambino) e i vari santi: sant’Anna, san Gioacchino, sant’Elisabetta, ecc.). Essi svolgeranno, sotto gli occhi dei devoti, il sacro rito della cena. Dopo essere state benedette dal parroco il pomeriggio della vigilia, le tavolate vengono aperte al pubblico e ad ognuno dei visitatori vengono offerti purciddhùzzi35, lampascioni, piccoli pani, pucce36 e cartidddhate37. I cibi che si possono ammirare su questo splendido banchetto sono tutti tradizionalmente poveri, infatti troviamo: pasta con il miele e mollica di pane, pesce fritto e arrosto, lampascioni, fritti con il miele, vermicelli con ceci, stoccafisso in umido, rape bollite, cavolfiori fritti, olio, vino e miele. Secondo la tradizione, chi riceve la puccia ringrazia con la tipica frase:” San Giuseppe te l’aggia ‘nsettu38” (San Giuseppe te ne renda grazie, o secondo la tua intenzione). Sempre nel periodo che precede la festa, le devote preparano in grande quantità anche la massa39. Si tratta di una pasta che
Il lampascione nell’arte contemporanea: musica, teatro, cinema e poesia
di Armando Polito
L’umile bulbo entra nella canzone popolare, sia pure nella variante pampasciòne e nel significato traslato di testicolo già ricordato: succede in Li mistieri, canto tradizionale che gli Aramirè14 hanno inserito nel loro album Mazzate pesanti uscito nel 2004. Riporto di seguito per intero il testo con la mia versione italiana perché sia compreso anche da chi salentino non è:
Mo’ te cuntu te li mestieri;/ li scarpari su li primi:/ se la inchene la panza/cu nu piattu te lupini./ Mo’ te cuntu li falignami:/tuttu lu giurnu liscia liscia/alla fine te la sciurnata/ se la fottene la pignata/Ca mo’ riane li trainieri:/fannu na vita te cavalieri quando rivane alla ‘nchianata/ la castimane l’Immacolata./ Mo’ te cuntu te li ferrari:/ tuttu lu giurnu batti batti;/ quando spicciane li crauni/ se li rattane li pampasciuni./ Mo’ te cuntu tte li ’mpiegati:/ fannu na vita te Patreternu;/ quando riva lu ventisette/ te lu squajane lu governu./E li poveri contadini/fannu figura te pezzenti:/quando spicciane la stagione/nu hannu ccotu propriu nienti.
(Adesso ti parlo dei mestieri;/i calzolai sono i primi:/se la riempiono la pancia/con un piatto di lupi. Adesso ti parlo dei falegnami:/tutto il giorno liscia liscia;/alla fine della giornata/se la fottono la pignatta./E’ la volta dei carrettieri:/fanno una vita da cavalieri;/quando giungono alla salita/labestemmiano, l’Immacolata./Adesso ti parlo dei fabbri:/tutto il giorno batti batti;/quando finiscono i carboni/se li grattano i coglioni/). Adesso ti parlo degli impiegati:/fanno una vita da Padreterno;/quando arriva il ventisette/te lo squagliano il governo./E i poveri contadini/fanno la figura di pezzenti:/quando chiudono la stagione/non hanno raccolto proprio niente).
Analoga apparizione nel brano Vinne de Roma, che fa parte dell’album Allutiempu de li lupini realizzato da I cantori dei Menamenamò15 e uscito nel 2000:
Vinne de Roma…/ Lu tammurreddhru meu vinne de Roma/ ca me l’ha’ nnuttu na Napulitana./E cu lu sonu…/ Me disse cu lu cantu e cu lu sonu/ ca quannu vene iddhra lu pacamu./ La tarantella…/A ddhru te pizzicau la tarantella?/Sutta lu giru giru de la gonnella./De le tarante…/E Santu Paulu meu de le tarante/ pizzica le caruse ‘mmenzu l’anche./De li scurpiuni…/E Santu Paulu meu de li scurpiuni/pizzica li carusi ‘lli pampasciuni….
(Venne da Roma…/Il tamburello mio venne da Roma/e me l’ha portato una napoletana/E per suonarlo…/Mi disse di cantarlo e di suonarlo/che quando viene lei lo paghiamo/La piccola taranta…/Dove ti morse la piccola taranta?/Sotto il giro della gonnella./Delle tarante…/E san Paolo mio delle tarante/morde le giovani in mezzo alle gambe./ Degli scorpioni…/E san Paolo mio degli scorpioni/morde i giovanotti ai coglioni…).
Al bulbo si sono ispirati nella scelta del loro nome i Lampasciounazz,
Questa pianta cresce spontaneamente in tutto il Mediterraneo, dalle pianure fino a 1500 m. di altitudine, negli incolti erbosi, nei pascoli e nei coltivi. Pur essendo presente in molte regioni italiane, la pratica della sua raccolta ed utilizzazione alimentare è diffusa soprattutto nell’Italia meridionale. In alcune regioni come Puglia e Calabria ne è stata avviata anche la coltivazione. Può raggiungere al massimo i 25 cm di altezza, le foglie sono basali, erette, di forma lineare e tendono ad afflosciarsi verso il basso; generalmente sono circa la metà dello scapo floreale.
Il bulbo (foto iniziale) simile ad una piccola cipolla, è tunicato, con colore rossastro, rosso vino; si trova ad una profondità media di 20 cm. e l’estrazione richiede gran cura poichè non sempre si colloca perpendicolarmente rispetto alla parte epigea; per chi ha una certa pratica della sua estrazione di solito bastano due o tre colpi (due laterali e il terzo in testa) con l’attrezzo adatto, ma tutto dipende anche dalla morbidità del terreno, per cui si consiglia, a chi ne avesse voglia, di tentare dopo una pioggia piuttosto prolungata. La difficoltà di estrazione giustifica la sua quotazione piuttosto alta sul mercato dei buongustai. A tal proposito va
Lascio parlare le fonti (le traduzioni dal testo originale, che qui non si riporta per motivi di spazio, sono mie…il lettore è avvertito), limitandomi solo a qualche intervento di collegamento.
Dioscoride Pedanio (medico greco del I secolo d. C.) (De medicinali materia, II, CLXI): “Il bulbo commestibile. Il bulbo commestibile è noto a tutti come cosa che si può mangiare; salutare per lo stomaco, libera l’intestino, è rossastro e viene importato dalla Libia; è amaro, simile alla scilla, più salutare per lo stomaco, favorisce la digestione. Tutti sono aspri, danno calore e eccitano al rapporto sessuale…”.
Non dissimile opinione anche in ambito romano: Publio Ovidio Nasone (I secolo a. C.-I secolo d. C.) (Remedia amoris, 795-800): “Ecco, ti darò anche, per usare ogni dono della medicina, i cibi da evitare e da seguire. Il bulbo della Daunia o quello mandato a te dalle coste della Libia, o venisse pure da Megara1, ti sarà comunque nocivo. Nondimeno è opportuno evitare le afrodisiache ruchette e tutto ciò che prepara i nostri corpi all’amore. Più utile che tu prenda la ruta che aguzza la vista e tutto ciò che nega i nostri corpi all’amore. ”
Dello stesso tenore è la testimonianza di C. Plinio Secondo (I secolo d. C.) che conferma, sia pure parzialmente, la precedente graduatoria di Ovidio (al primo posto il bulbo di Megara1, poi quello africano e infine quello della Daunia), in due passi della Naturalis historia : XIX, 30: ”…sono apprezzati soprattutto quelli (i bulbi) nati in Africa, poi quelli dell’Apulia.”;XX, 105): ” I bulbi di Megara1 stimolano al massimo grado il desiderio amoroso…”.
Concorde pure la testimonianza di Lucio Giunio Moderato Columella (I secolo d. C.) (De re rustica, X, 105-109): ”…e vengano da Megara1 i fecondatori semi di bulbo che eccitano gli uomini e li armano per le fanciulle e quelli che la Numidia raccoglie coperti dalle zolle getule e la ruchetta che viene seminata vicina al fecondatore Priapo per svegliare all’amore i mariti addormentati.”
Ritorniamo al mondo greco con Ateneo di Naucrati (II-III secolo dopo C.) con le sue numerose citazioni che costituiscono ciò che ci resta di autori antichi: (I deipnosofisti, Difilo2): ”I bulbi sono di difficile cottura ma molto nutrienti e salutari per lo stomaco; inoltre sono purgativi e indeboliscono la vista, ma sono eccitanti nei rapporti sessuali. Il proverbio dice: Per niente ti gioverà il bulbo se non hai vigore. In realtà sono afrodisiaci tra loro quelli chiamati regali, che sono superiori agli altri, tra i quali quelli rossastri. Invece quelli bianchi e quelli della Libia sono simili alla scilla; i peggiori tra tutti, però, sono quelli egiziani”)].
Pur tenendo conto della difficoltà di identificare senza ombra di dubbio il bulbus con il lampascione3, non si può non ricordare che due tipi di bulbus compaiono nell’Edictum de pretiis rerum venalium emanato nel 301 d.C. dall’imperatore Diocleziano, che stabiliva il prezzo massimo per vari tipi di merce. E tra le derrate alimentari nella sezione De oleribus et pomis (Ortaggi e frutti) si legge: bulbi Afri siv[e] Fa[b]riani maximi no. viginti denarii duodecim bulbi minores no. quadraginta denarii duodecim bulbi africani ovvero fabriani grandissimi no. venti dodici denari bulbi più piccoli no. quaranta dodici denari)
Come si nota, i bulbi africani (maximi), allora, sul mercato valevano esattamente il doppio rispetto ai minores (da presumere di produzione italica), nonostante un’altra sezione dello stesso editto mostri (dopo che i Romani avevano riempito di strade tutto l’impero) che il prezzo di trasporto per mare era di due denari per miglio/tonnellata, quello per terra di cinquanta denari: oggi è esattamente l’opposto e i nostri lampascioni si sono presi, a distanza di parecchi secoli, la loro brava rivincita su quelli africani: un raro esempio di ribaltamento di una originaria esterofilia alimentare?
Ma non è finita, perché essi sono riusciti a rendere obsoleti perfino vecchi proverbi. Uno di questi sanciva la fine delle abbuffate carnevalesche e l’inizio del digiuno (o quasi) quaresimale:
È scurùtu lu Carniàle
cu ppurpètte e mmaccarrùni;
mò ndi tocca l’acqua e ssale
e qquattru, cinque lampasciùni
È finito il Carnevale
con polpette e maccheroni;
adesso ci tocca l’acqua e sale4
e quattro, cinque lampascioni.
Anche qui i rapporti si sono invertiti: il lampascione, quello pugliese, in passato cibo povero, oggi, con la sua quotazione di mercato, è tutt’altro che simbolo di frugalità e rinunzia, ruolo che, paradossalmente rischiano di assumere le polpette e i maccheroni, che un tempo erano (soprattutto le prime) il cibo delle grandi occasioni.
E non è detto che il significato traslato di stupido diventi in breve volgere di anni obsoleto: come si può continuare a dare quest’appellativo, che indica oggi qualcosa di pregiato, ad un uomo di poco valore?
_________
1 Megara è il nome di due città, una in Grecia, l’altra in Sicilia; è più verosimile che quella citata da questo autore e da altri sia la seconda, dal momento che Dioscoride Pedanio accenna solo ai bulbi provenienti dalla Libia e non a quelli, per così dire, nazionali di Megara.
2 Naturalista del III secolo a. C.
3 Lampadio compare per la prima volta in un manoscritto del X secolo (che secondo gli studiosi si rifà ad uno, perduto, di almeno tre secoli prima) contenente la traduzione in latino di un pezzo in greco di Oribasio (erborista e medico bizantino del IV secolo d. C.).
4 Simbolo della frugalità di altri tempi quando una cena consisteva in qualche pomodoro affettato in acqua e sale.
La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione
al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.
C.F. 91024610759 Conto corrente postale 1003008339 IBAN: IT30G0760116000001003008339
www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.
Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi: Gestione contatti e invio di messaggi MailChimp Dati Personali: cognome, email e nome Interazione con social network e piattaforme esterne Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Servizi di piattaforma e hosting WordPress.com Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio Statistica Wordpress Stat Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo Informazioni di contatto Titolare del Trattamento dei Dati Marcello Gaballo Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com