La rava e la fava

di Paolo Vincenti

La fava -nome tecnico vicia faba – è una pianta leguminosa che dà ottimi frutti, ovvero legumi, molto apprezzati specie alle nostre latitudini. Non tutte le varietà di vicia faba sono alimentari, cioè quella che noi mangiamo è la variante major Harz., con semi grossi, 1000 semi di peso superiore a 1000 grammi, il baccello è lungo 15-25 cm ed è pendulo e di forma appiattita e contiene 5-10 semi[1].

 

Ma perché ci occupiamo di fave? Varie sarebbero le motivazioni dell’articolo. La causa potrebbe essere l’ozio creativo, e sarebbe facile in questo caso rispondere, per via di quelle divagazioni erudite che spesso portano chi scrive a sprecare il tempo in bubbole. Potrebbe essere quella della notizia inedita, l’aneddoto curioso, la “chicca” che non si vede l’ora di divulgare ai pochi e barbogi amici che condividono la stessa amena occupazione pedantesca. A volte, dopo essere stati impegnati nella scrittura di un saggio scientifico con grande dispendio di energie nella ricerca archivistica e bibliografica, ci si vuole alleggerire e per contrasto si passa a dispensare bagatelle di cultura varia, innocenti divertissement, aria fritta insomma, quando la Musa iocosa, per dirla con Ovidio, rivuole la propria parte. E del resto è facile passare da un argomento all’altro per chi si ritrova preda del demone dell’eclettismo: nihil medium est, diceva Orazio nelle Saturae, a qualcuno “manca sempre la misura”, “tutto tutto niente niente”, direbbe Cetto La Qualunque-Antonio Albanese.

La semina delle fave si effettua in autunno o all’inizio dell’inverno, e poi la raccolta si ha in primavera. Nella civiltà contadina del passato le fave costituivano un alimento pregiato e ancora oggi questo legume compare spessissimo sulla tavola dei salentini, cucinato in vari modi, come le fave nette o come il gustosissimo purè preparato con le cicorie e un po’ di olio e divenuto un must per i ristoranti tipici salentini. E già sentiamo il suo inconfondibile profumino suppurare l’ambiente soverchiando quello – che i non addetti ai lavori potrebbero definire nauseabondo – della polvere e della carta rosicchiata dalle tarme. L’ambiente è infatti lo studio nel quale ci troviamo intenti a ponzare questo scritto. Chi ha superato gli “anta” inevitabilmente ritorna con la memoria alle assolate estati di tanti anni fa quando, da ragazzi, si stazionava (alcuni ci vivevano) molto più a lungo nelle campagne e quindi a contatto con quei prodotti che la nostra terra dà in abbondanza. Fra questi, appunto le fave, che noi raccoglievamo direttamente dalla pianta e mangiavamo anche in mezzo all’orto, se la fame era tanta.

Per i salentini la fava è l’ongulu, strano nome per un prodotto così semplice ed elementare. Ne parla Armando Polito in un “gustoso” articolo apparso in rete in cui afferma che «il Rohlfs[2] in forma dubitativa (sarà per via dell’accento?) propone il greco goggýlos=rotondo, riprendendo una precedente ipotesi del Ribezzo[3]. Irene Maria Malecore propone, sempre in forma dubitativa, il latino novùnculus=novellino[4]. Se sul piano fonetico le tre ipotesi mi appaiono plausibili,  è su quello semantico che manifestano qualche debolezza perché l’idea della rotondità è ben più spinta in altri frutti e ho altrettanta difficoltà a capire come mai proprio il nostro baccello sia diventato il simbolo del prodotto novello, anche se la specificazione nell’espressione fae ti ùnguli potrebbe far pensare proprio alla contrapposizione alle fave secche.[…] Parto dalla banale osservazione che il baccello della fava ricorda un artiglio o, pensando ad alcune eccentricità del nostro tempo, l’unghia esibita da alcune donne che evidentemente si sarebbero sentite naturalmente realizzate se fossero nate tigri. Unghia in latino è ùngula, di genere femminile, ma in Plauto (III-II secolo a. C.) è attestato anche un maschile ùngulus (in altri codici unguìculus) col significato di unghia del piede[5]. Pure in Plinio (I secolo d. C.) compare un ùngulus col significato di anello ma con agganci etimologici, anche se piuttosto confusi, al dito […][6]. In Isidoro di Siviglia si legge: “Tra i tipi di anello ci sono l’ungulo, il samotracio, il Tinio. L’ungulo è fornito di gemma ed è chiamato con questo nome perché, come l’unghia aderisce alla carne così la gemma dell’anello all’oro”[7]. Quest’ultimo autore, dunque, rappresenta col suo anello l’anello di congiunzione (potevo rinunciare a questo gioco di parole?…) tra ùngula e ùngulum; ma basta questo per convalidare la mia ipotesi nata dalla semplice osservazione? Non credo, anche perché, sempre riferendomi all’aspetto e restando, grosso modo, nell’ambito della stessa immagine, mi viene in mente che ùngulu potrebbe essere da un latino *ùnculus, diminutivo del classico uncus=uncino (ritorna puntuale, come si vede, l’immagine dell’unghia, dell’artiglio). Questa proposta bypasserebbe le imprecisioni del Ribezzo, il dubbio del Rohlfs e le perplessità nascenti dall’ipotesi della Malecore»[8].

Ma, come suggerisce il titolo, la ragione dell’articolo è quella di raccontare “la rava e la fava”, un modo di dire, più diffuso nel nord Italia, che sta ad indicare una ricerca dei dettagli, ossia della maggiore completezza possibile da parte di chi parla o vuol spiegare qualcosa. Insomma, quella pedanteria, di cui abbiamo detto sopra, che contraddistingue il saputone, il “tuttosalle”, come lo definiva Giovanni Papini, ossia colui che conciona ininterrottamente sui più svariati argomenti e pretende di saperla sempre più lunga di noi e spiegarci tutto[9]. “La rava e la fava”, canta anche Enzo Jannacci (ma in realtà è Paolo Rossi) nella sua canzone I soliti accordi.

 

Se poi volessimo spiegare l’origine di questo modo di dire, il discorso si fa più complicato. Il Dizionario Hoepli on line dice: «Si può supporre derivi dall’immagine di una pianticella descritta in ogni sua parte, dalla radice al frutto; da qui l’idea di partire dalle cose più importanti per arrivare alle minuzie, senza trascurare nemmeno le piccolezze. Per arrivare alla rima con fava si sarebbe trasformata in rava la voce dialettale “rama”, che in molte località sta per “rami”, quindi frasche e fogliame»[10]. Sappiamo che la ravagliatura è una particolare lavorazione del terreno ovvero un’“aratura più profonda dell’ordinario, eseguita con aratri speciali (ravagliatori) che approfondiscono il solco già aperto precedentemente e riportano alla superficie una nuova fetta di terra”[11]. Così sappiamo anche che il termine “ravanare”, che per assonanza è vicinissimo, significa “negli usi colloquiali, rovistare, rimestare creando disordine; usato anche in senso figurato”[12]. “Nel gergo giovanile andare in cerca di partner”, spiega il Dizionario Devoto-Oli[13]. La Treccani la dice “Voce settentrionale di etimologia incerta. Già attestata nel 1924”[14].

In rete, troviamo una citazione dal libro del grande linguista Gianluigi Beccaria, Il mare in un imbuto Dove va la lingua italiana (Torino, Einaudi, 2010): «raccontare la rava e la fava (all’origine l’espressione era un richiamo tipico dei fruttivendoli ambulanti di una volta, che insieme a frutta, verdura, vendevano anche «rape e fave»), vale a dire ‘raccontare di tutto, ogni cosa nei dettagli’, ‘una storia senza fine’. Una volta pronunciato rava, la fava nasce come una eco del significante che precede, e l’insieme del sintagma nel complesso sembrerebbe voler abbracciare, racchiudere specularmente una totalità, voler raccontare appunto ‘di tutto’»[15].

Una supposizione è che “da ravanare che si riferisce ad un metodo complesso di preparazione del terreno per alcune colture, quindi il detto la rava e la fava indica un discorso che parte da una base complessa e si sviluppa addentrandosi minuziosamente nei particolari”[16]. Insomma dalla rava alla fava il passo è lungo, almeno quanto quello dall’Italia settentrionale dove la voce è più attestata, all’Italia meridionale, in cui la fava, specie se unita al formaggio, scaccia tutti i cattivi pensieri, comprese le dotte disquisizioni di illustri dialettologi.

E alla fava sono attribuite l’etimologia del nome Puglia da alcuni commentatori dell’opera di Benjamin di Tudela, un viaggiatore ebreo spagnolo del XII secolo che nelle lunghissime peregrinazioni toccò anche la Puglia e Terra d’Otranto[17]. Secondo Tudela il nome Puglia deriverebbe da Pul, un nome biblico che compare in Isaia (66, 19), come mitica terra in cui un giorno Dio avrebbe inviato i suoi messaggeri. Tudela si rifaceva all’opera ebraica Sefer Yosefon in cui personaggi e nomi biblici vengono trasferiti nella storia di Roma, d’Italia e di altre regioni d’Europa[18]. Tuttavia alcuni commentatori di Tudela, come Benito Arias Montano e Costantino l’Empereur lessero pol, fava, facendo derivare il nome Puglia dall’abbondanza delle fave che caratterizzerebbe questa regione[19]. Ed ecco infine la notizia sfiziosa, con cui si vorrebbe dar la baia al lettore provveduto che se è arrivato fin qui lo ha fatto non per interesse colto ma solo per il gusto malsano di stroncare poi l’articolo appena ne avrà l’occasione.

 

Note

[1] Notizie tratte dalla rete.

[2] Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Galatina, Congedo editore, 1976, Vol. II, p.787, in Armando Polito, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verdeL’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

[3] Francesco Ribezzo, in «Rivista indo-greco-italica di filologia, lingua, antichità», Napoli, v. 14, 1930, p. 108. Scrive Polito:“il salentino ùngulu=baccello di fava accenna per lo meno a un in conchula…si tratterà dunque, tutt’al più, di greco kogchyle, influenzato per il k in g velare dopo n da greco gòggylos”: Ibidem.

[4] Irene Maria Malecore, Proverbi francavillesi, Firenze, Olschki, 1974, p. 87. “Novùnculus in latino non è attestato, per cui sarebbe stato opportuno far precedere tale voce ricostruita da un asterisco. Oltretutto il passaggio ad ùngulu avrebbe comportato una prima aferesi (vùnculu) e poi la lenizione di v- (che, tuttvia, rimane in alcune varianti: vùnguluvùgnulu)”. Ibidem.

[5] Plauto, Epidichus, v. 623, in Ibidem.

[6] Plinio, Naturalis historia, XXXIII, 4: Ibidem.

[7] Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, 32, 5: Ibidem.

[8] Armando Polito, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde, cit. Anche nel Dizionario dei dialetti del Capo di Leuca è riportato òngulu per “baccello verde della fava”: Gino Meuli, I Dialetti del Capo di Leuca, Galatina, Grafiche Panico, II Edizione, 2006, p. 191.

[9] Paolo Vincenti, Il saputone, in Idem, Italieni, Nardò, Besa Editore, 2017, pp. 185-186.

[10] Origine di: “La rava e la fava”, https://italian.stackexchange.com/questions/8704/origine-di-la-rava-e-la-fava

[11] Treccani on line, https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/ravagliatura/

[12] Treccani on line, https://www.treccani.it/vocabolario/ravanare_%28Neologismi%29/

[13] Devoto Oli Vocabolario della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Maurizio Trifone, Milano, Mondadori, 2015, p.2296.

[14] Treccani on line, cit.

[15] Origine di: “La rava e la fava” https://italian.stackexchange.com/questions/8704/origine-di-la-rava-e-la-fava

[16] Ibidem.

[17] L’opera di Benjamin di Tudela (1130-1173), Sefer ha-Masa’ot, ovvero Il libro dei viaggi, è considerata la prima relazione di viaggio di un europeo in Asia, dunque precedente a quella di Marco Polo, per questo molto importante per gli studiosi. Una delle versioni più recenti dell’opera di Tudela, che ha avuto una enorme fortuna critica nei secoli, è: Binyamin da Tudela, Itinerario (Sefer massa‘ot), a cura di Giulio Busi, Firenze, Giuntina, 2018.

[18] Cesare Colafemmina, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, in «Archivio Storico Pugliese», 28, 1975, p. 84. Lo stesso Colafemmina però in nota precisa: “Da notare che la lezione Pul del testo ebraico di Isaia viene dai critici corretta in Put sulla scorta di alcuni mss greci e della Vetus Latina. Put indicava una regione molto probabilmente situata sulla costa africana del Mar Rosso. Pul era anche il secondo nome di Tiglat Pileser III, re di Assiria (745-727 a. C. Cf. 2 Re 15, 19, 1 Cron 5, 26)”. Ivi, p. 84, nota 10.

[19] Ivi, p.84, nota 11.

 

Pane, casu e ònguli è manciata te galantòmmini

di Marino Miccoli

E’ arrivato il tempo della maturazione di un apprezzato legume in baccello che nel nostro amato Salento si degusta quando è ancora tenero, spesso accompagnato deliziosamente con pane e formaggio fresco: le fave. Un noto proverbio infatti recita PANE, CASU E ONGULI E’ MANCIATA DE GALANTOMMINI!

Ma vi scrivo per raccontarvi un divertente  stornello popolare che mia amatissima nonna ADDOLORATA POLIMENO (uccèra di Spongano) ebbe a narrarmi quando ero ancora fanciullo: si intitola LE FAVE E LA MAZZA.

N’cera na’ fiata nu furese ca tinìa nà cisura e tutti l’anni la siminava de fave.
Nu cristianu ca se truvau a passare de nanzi a ddhra cisura, vidennu ca i primi ònguli s’erane chini se girau versu lu furese e li disse: “FAVARAZZA FAVARAZZA, CENTU TUMMINI CU NE FAZZA!”
Lu furese li rispuse: “MOI CA MA L’HAI BENEDITTE, TE NE POI CCUIRE NA RAZZATA CU TE LE PORTI A CASA!” e ddhru cristianu se ne ccose nu picca e poi se ne sciu.
Allu crai, de prima mmane, lu furese turnàu alla cisura e vidennu ca de notte s’erane rrubbate le fave se rraggiàu e disse: “STANOTTE ME CCUCCIU A NTHRA LA PAJARA E SPETTU LI LATRI… LI MOSCIU IEU NA COSA A DHRI DISCRAZIATI!” e cusì fice.
Verso la menzanotte sintìu nu rùsciu  a menzu alla cisura, allora ssìu de la pajara e cittu cittu, musceddhri musceddhri, se vvicinàu allu puntu addhru era ntisu lu rusciu… ncera ddhru cristianu de lu giurnu prima ca portava a ncoddhru doi fisazze.

Quannu spicciau de cuire le fave culle fisazze chine se azzàu tisu a menzu alla cisura e disse:” FAVARAZZA FAVARAZZA, CENTU TUMMINI CU NE FAZZA… E FAZZA O NO FAZZA, ME L’AGGIU CHINA LA FISAZZA!”
Lu furese tuttu de paru li zumpàu de nanzi e cridannu li rispuse: “…E IEU SU NTONI DE RAZZA, MOI LASSI LE FAVE E PROVI LA MAZZA!”

Poi cu lla mazza ca tinìa a mmanu cuminciàu cu bbinchia de mazzate lu latru. Quistu vidennu la male parata llassàu le fisazze chine de fave e se ne fuscìu.

 

Tanti trucchi salentini per cuocere e gustare le fave

fave

di Massimo Vaglio

 

Nonostante tutto e tutti, la fava l’ha fatta sempre da regina, mantenendo pressoché inalterato il suo primato fra tutte le specie di legumi coltivati, ad incidere, oltre alle ottime qualità nutrizionali e organolettiche, anche valutazioni prettamente agronomiche: le buone rese; le limitatissime esigenze colturali; la caratteristica di migliorare la fertilità del terreno (cosa che ne l’ha fatto la principale pianta da rinnovo); l’adattabilità alle varie tipologie di terreno e la bassa incidenza negativa delle basse temperature, come della siccità e della prolungata piovosità.

Un nemico di questa coltura però c’è, ed è l’Orobanca, una pianta parassita che nel dialetto salentino viene appellata “spùrchia”, termine non a caso usato anche come sinonimo di iattura e di sfortuna; un raccolto di fave andato a male a causa dell’infestazione di questo parassita, poteva significare infatti la più grande delle iatture, la fame.

Facendo un po’ di necessità virtù, i contadini hanno nel tempo anche imparato a sfruttare gastronomicamente questo flagello,che nell’aspetto ricorda vagamente  gli asparagi, elaborando dei piatti tuttora apprezzati.

Per quanto ci riguarda, le fave cotte in pignatta, hanno costituito un pasto frequentissimo, sino all’ultimo dopo guerra, per la stragrande maggioranza dei salentini ed in particolare costituivano il pasto quotidiano degli alàni (i “salariati” addetti ai lavori di aratura, con le vacche e con i buoi, bifolchi ) impegnati nelle grandi masserie salentine. In questi luoghi, si viveva una condizione straordinariamente simile a quella raccontata dal Verga nel “Mastro Don Gesualdo”, con i ritmi temporali scanditi dalla stessa Puddhrara (Costellazione delle Pleiadi) o dall’ombra disegnata dal sole rovente sulla terra arsa, e con questi legumi, immancabili protagonisti dei servili deschi.

Le fave, prima di essere cotte, devono essere “morsicate”, ossia devono essere private del nasello, operazione che nelle famiglie si effettuava generalmente con un apposito attrezzo (nettafàe), ma spesso anche a suon di canini, da cui il termine.

Poi lasciate a bagno per tutta una nottata, quindi cotte alla stregua degli altri legumi, semplicemente in acqua leggermente salata o con l’aggiunta di un po’ di odori, esponendo la pignatta al fuoco di un camino.

Se sono di buona qualità, ovvero “cottotie”, le fave si cuociono perfettamente presentando anche la cuticola esterna tenera, se invece, nonostante una prolungata cottura, rimangono dure vengono dette “cutrée”; tale condizione, generalmente si verifica se le fave sono state coltivate su un terreno particolarmente calcareo, oppure, se hanno subito dei prolungati stress idrici e in tal caso vengono spesso destinate ad altro uso.

Il rapporto con questo alimento è così stretto che è un po’ come se fosse entrato nei cromosomi dei salentini. Non a caso, mentre circa il 35 per cento delle popolazioni mediterranee soffrono di favismo (grave malattia del sangue scatenata dal mangiare fave o dal respirare il loro polline), l’incidenza di tale malattia fra i salentini è pressoché irrisoria. E’ quindi, più che probabile, che questi, in secoli d’ininterrotto consumo, dopo aver subito una dolorosa selezione naturale, hanno conquistato una pressoché totale immunità. Tuttora, qui le fave trovano ancora moltissimi estimatori, complice una cultura gastronomica che, come poche, è capace di conferire valore aggiunto ai prodotti più semplici e che, associata ad una cultura agricola sapiente, ha saputo affinare le tecniche agricole e selezionare cultivar ed ecotipi di grande qualità, come decine di proverbi e una ricca terminologia specifica rivelano.

Il termine Campiota, per esempio, definisce un ecotipo di fava più genericamente indicato come “curnulara”, particolarmente pregiato per i baccelli lunghi e i semi molto grandi e schiacciati, che si coltiva a Campi Salentina e nel suo hinterland, ove le vengono destinati i terreni più fertili.

Con il termine Cuccìa, invece, si indica un altro pregevole ecotipo di tipo “lupinara”, ossia a baccello corto e con granella di dimensioni medie, che si coltiva a Zollino su appezzamenti ove la terra è talmente poca, che sembra sparsa sul tavolato calcareo come il cacio sui maccheroni.

Le fave verdi, vengono servite accompagnate da del buon formaggio pecorino fresco o dalla marzotica, la tradizionale ricotta erborinata locale.

La preparazione ottimale delle fave secche, si esegue invece in pignatta. La cosiddetta “pignata ti fae”, è un piatto, che come emerge dalla descrizione sopra riportata, semplicissimo, che però rientra nel novero di quelle rare pietanze la cui preparazione può risultare di difficile apprendimento. Per prepararlo bene, bisogna avere un po’ le fave  nei cromosomi; infatti, le fave non si cucinano, ma si cuociono, ovvero, risiede semplicemente nel metodo di cottura il segreto della loro preparazione, non a caso, la massaia salentina per dire che deve cuocere i legumi, usa la frase: “devo guardare la pignata”.

Quindi, se volete gustare un piatto di fave come quello che quotidianamente consumavano i nostri progenitori, vi consiglio, almeno per le prime volte, di chiedere aiuto, ad una brava, anziana massaia che ve le cuocerà con gli occhi, ma sicuramente a puntino.

Le fave, vanno servite sempre allagate d’olio di frantoio, in estate accompagnate da peperoni Cornetti fritti e cipolla Barlettana cruda, preventivamente addolcita per qualche ora in acqua e aceto; in inverno invece il loro accompagnamento ideale saranno i cipollotti crudi e le cicoriette di campo lessate.

Fatti e misfatti sulla fava

di Armando Polito

 

* Per la serie non è vero ma ci credo

L’appetito (per ora, sia chiaro, mi sto riferendo solo al vegetale) vien mangiando, dice un vecchio proverbio. Fuor di metafora (ma ancora con riferimento preciso al legume) la conoscenza è frutto di una reazione a catena di solito indotta da fattori esterni. Insomma, se non avessi letto l’agile e gradevole recente post dell’amico Massimo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/14/storia-e-credenze-sulle-fave-legume-eccellente-per-i-salentini/), peraltro molto competente nel suo campo, forse non avrei dato vita alle righe che sottopongo all’attenzione dei gentili lettori.

Può sembrare deformazione professionale ma credo che Massimo gradirà la citazione che mi accingo a fare dei principali autori latini e greci che hanno dedicato la loro attenzione al vegetale (pazienza, ancora lui … ma solo per poco) in oggetto. Per motivi pratici di ogni citazione riporterò la mia traduzione e in nota il testo originale.

Comincio da Plinio (I secolo d. C.), al quale risale la più antica testimonianza sulla avversione di Pitagora e dei suoi seguaci non solo per la carne (come vedremo anche quella umana …) ma anche per le fave: Segue la natura dei legumi, tra i quali la fava ha il massimo onore perché con esse si è tentato di fare pure il pane. Lomento si chiama la loro farina e il peso aumenta con essa e con quella tratta da ogni legume ed è buona anche per alimento nella preparazione del pane in vendita. Molteplice è l’uso della fava per ogni specie di quadrupede, ma soprattutto per l’uomo. Presso parecchi popoli viene pure mescolata col frumento e soprattutto col miglio, integra o leggermente pestata. Anzi secondo il rito antico la farinata di fave è nel sacrificio in onore degli dei della propria religione. Si crede che valga soprattutto come companatico ma che obnubili i sensi e procuri pure incubi; per questo fu condannata per decisione di Pitagora, come alcuni hanno tramandato, poiché in essa ci sarebbero le anime dei morti, motivo per cui viene usata nei sacrifici funebri. Varrone tramanda che il flamine non se ne ciba per questi motivi e per il fatto che nel suo fiore si troverebbero lettere funeree.

 

Essa è oggetto di un particolare rito: infatti è costume ancora oggi per buon auspicio portarla a casa non appena ha dato il frutto1 e  perciò è chiamata referiva. E credono che sia vantaggioso usarla nelle vendite all’asta . Di certo è la sola tra i frutti a riempirsi con la luna crescente anche se è stata rosa. Non si cuoce in acqua marina o altro liquido salato. È tra i legumi il primo ad essere piantato prima del tramonto delle Pleiadi affinché preceda l’inverno. Virgilio raccomanda di seminarla in primavera secondo l’uso dell’Italia circumpadana, ma i più preferiscono fave maturate dopo essere state piantate al momento giusto che un frutto di tre mesi. I baccelli e i gambi sono cibo prelibato per il bestiame. La fava ama moltissimo l’acqua quando è in fiore, ne vuole poca quando la fioritura è cessata. Fertilizza come se fosse letame il suolo in cui è stata seminata. Perciò nei territori intorno alla Macedonia e alla Tessaglia arano i campi quando comincia a fiorire. Nasce pure spontaneamente in moltissimi luoghi, come nelle isole del mare settentrionale che per questo chiamiamo Fabarie2; allo stesso modo selvatica in Mauritania ma molto dura e tale da non poter essere cotta. Nasce pure in Egitto col gambo spinoso per cui i coccodrilli, temendo per i loro occhi, la evitano. La lunghezza del gambo, notevolissima, è di quattro cubiti, la grossezza di un dito. Se non mancassero i nodi, sarebbe simile ad una molle canna; la testa è di papavero, dal colore roseo, e in esso le fave non superano il numero di trenta; le foglie sono ampie, il frutto aspro anche nell’odore, ma la radice graditissima come cibo agli abitanti, cruda e cotta in ogni modo, simile alla radice delle canne. Nasce anche in Siria, in Cilicia e lungo il lago della calcidica Torone.3

Alle notizie di Plinio su Pitagora ne aggiungerà altre piuttosto curiose (non è detto che lo strano sia meno attendibile …) il greco Diogene Laerzio (II-III secolo d. C.): E sui piaceri sessuali dice così: “L’amore va fatto d’inverno, non d’estate; in autunno e in primavera è più leggero ma in ogni stagione molesto e non buono per la salute”. Anzi, interrogato una volta, disse che bisogna avere rapporti quando ci si vuole indebolire.4  

E sulla carne non umana …

Si dice che egli per primo abbia allenato gli atleti nutrendoli con carni e che il primo sarebbe stato Eurimene, secondo quanto dice Favorino nel terzo libro delle Memorie, mentre precedentemente li si nutriva con fichi secchi e formaggi umidi, ma anche con granaglie, secondo quanto dice lo stesso Favorino nell’ottavo libro della Storia varia. Alcuni credono che li abbia nutriti in questo modo un certo Pitagora allenatore, non il nostro5. Si dice, infatti, che egli vietava di uccidere gli animali e di gustarne poiché hanno in comune con noi il diritto dell’anima. E questo però era un pretesto: in verità proibiva di toccare essere dotati di anima per educare ed abituare gli uomini ad una vita frugale, così che ci fossero per loro cibi facili da procurare, indirizzati verso alimenti non cotti e bevendo semplice acqua e che da questo derivasse anche la salute del corpo e l’acutezza della mente.6          

Più di ogni cosa vietava di mangiare il fragolino7 e il melanuro8 e di astenersi dal cuore e dalle fave; Aristotele dice talvolta pure dalla matrice9 e dalla triglia.

 

Alcuni dicono che egli si nutriva di solo miele o del suo decotto o di pane, che non beveva vino durante il giorno10; come companatico per lo più si nutriva di verdure bollite e crude, raramente di cibi marini. Il suo vestito era bianco,  pulito e bianche erano le coperte di lana: i tessuti di lino, infatti, non erano giunti ancora in quei luoghi. Non si seppe mai né se defecava, né se faceva sesso, né se si ubriacava. Si asteneva e dal ridere e da ogni compiacenza, come da battute e racconti molesti. Adirato, non punì nessuno, schiavo o libero che fosse. Diceva che ammonire era come cambiare in meglio. Si serviva della divinazione fatta con invocazioni e presagi, per niente di quella fatta con sostanze bruciate, eccetto quella fatta per mezzo dell’incenso. Usava offerte inanimate, altri dicono solo di galli e capretti lattanti e di quelle carni dette tenere, per niente di agnelli. Aristosseno invece dice che egli ammetteva di mangiare tutti gli altri animali e che si asteneva dal bue da lavoro e dal montone.11

E ancora sulle fave:

(Raccomandava) di astenersi dalle fave per il fatto che, essendo generatrici di flatulenza, avevano moltissimo in comune con la forza vitale e d’altra parte i ventri che non le consumavano funzionavano più regolarmente. E per questo diceva che nei sogni si formavano visioni leggere e tranquillizzanti.12

A questo punto debbo osservare che, se la testimonianza di Diogene Laerzio corrisponde a verità, vuol dire che Pitagora in vita sua non assaggiò mai lampascione … ma sarebbe bastata la sua avversione alle fave per farlo morire … e non di flatulenza, secondo una delle tante leggende che circolano sull’evento, riportata insieme con altre dal nostro autore.

Pitagora morì in questo modo: mentre teneva una riunione con i soliti amici in casa di Milono avvenne che la casa fu fatta crollare per invidia da uno di coloro che non erano stati giudicati degni di essere ammessi; alcuni invece ritengono che abbiano fatto questo proprio quelli di Crotone che temevano un pericolo di tirannide, che Pitagora fu catturato mentre fuggiva e che trovatosi presso un campo pieno di fave lì si fermò dicendo: – Piuttosto morire che andare avanti [essere ucciso è meglio che essere oggetto di chiacchere]; e così fu sgozzato da quelli che lo inseguivano. 13

Non sapremo mai, infine, se erano frutto di invidia o stigmatizzavano alcuni suoi atteggiamenti quelle che potremmo considerare come canzoncine di scherno che circolavano sul suo conto:

Non solo tu, Pitagora, tieni lontane le mani dalle cose animate, ma anche noi: chi mai infatti ha gustato cose animate? Ma, quando una cosa sia stata bollita, arrostita e salata, allora pure noi la mangiamo mentre non ha anima. 

Fu dunque Pitagora sapiente a tal punto da non gustare le carni e da dire che era peccato, ma da farne mangiare gli altri. Ammiro il sapiente: egli diceva di non peccare ma faceva peccare gli altri. 14

Ahi, ahi, perché Pitagora venerò tanto le fave? E morì insieme con i suoi allievi. C’era un campo di fave: per non calpestarle in un trivio fu ucciso dagli Agrigentini.15

Sulle fave di Pitagora basta e avanza e mi sarei fermato qui se non avesse attratto la mia attenzione l’affermazione secondo cui Aristofane (V-IV secolo a. V.) nella sua commedia “Le  rane” avrebbe nutrito fra gli intervalli delle sue leggendarie fatiche, il mitico Ercole, con una superenergetica, quanto ghiotta, purea di fave.

Ignoravo questo dettaglio ed umilmente mi son riletto la commedia a caccia delle fave. Di loro non ho trovato ombra, anche se potrebbe essere interpretato restrittivamente il generico κατερεικτῶν χύτρας ἔτνους (alla lettera: pignatte di passato di cose spezzate, in cui cose può passare a legumi e questo a fave) dei versi 505-506. Perché si comprenda meglio quanto osserverò è necessario, però, che io riporti più ampiamente il testo e, precisamente, i vv. 503-507 (è una serva che parla):

O Ercole amatissimo, sei arrivato? Entra qui! La dea, appena ha saputo che venivi, subito ha cotto il pane, ha messo sul fuoco due o tre pignatte di passato di cose spezzate, ha cotto un bue intero, ha infornato focacce appiattite. Ma entra!16

Se l’identificazione del contenuto delle pignatte con la purea di fave ci può stare17 (e l’amico Massimo molto correttamente ha scritto avrebbe nutrito), debbo però, far notare che il personaggio al quale la serva si rivolge non è Ercole ma Dioniso travestito da Ercole. Sarebbe un dettaglio di poco conto (tanto più che tutto quel ben di Dio senza, però, essere accompagnato nemmeno da un fiasco di vino sarebbe più confacente ad Ercole e non a Dioniso …), se l’equivoco non avesse favorito il proliferare di affermazioni “allargate” che io trovo semplicemente criminali.

Da Tipico italiano di Annalisa Barbagli e Stefania Barzini, Giunti, Firenze, 2010, ho tratto il sottostante dettaglio della pag. 130.

Qui la purea di fave ha assunto proprietà addirittura afrodisiache. È sembrato doveroso, però, alle autrici far diventare diecimila le cinquanta vergini figlie di Tespio (o Testio, a seconda dei mitografi) con cui Ercole si sarebbe accoppiato in una sola notte.

Così confezionata la notizia della fava (nel duplice significato …) di Ercole era troppo ghiotta perché non passasse dalla carta stampata alla rete. Solo due, tra quelli che recano la firma dell’autore e la data più antica , dei tanti esempi, per evitare al lettore (le lettrici sono esenti da questo pericolo …) ulteriori rotture della fava:

In http://www.cucinerotica.com/ricette/le-fave-di-ercole/ leggo: Aristofane nella sua commedia Le Rane ci racconta di Ercole, il figlio di Giove, che dopo aver fatto un adeguato pasto col suo piatto preferito, i pugliesi sostengono addirittura che si trattava ‘Ncapriata (nome pugliese di fave e foglie poi italianizzato in Capriata), fece cambiare di stato più di diecimila vergini. (a firma di Angie Cafiero; pubblicato il 5/1/2011).

In http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2012/13-febbraio-2012/altro-cult-purea-fave-cicoriepuglia-tipicita-tradizione-1903267783174.shtml leggo: Un piatto dell’arte culinaria pugliese, gustoso ma semplice, nutriente e facile da digerire. Persino Aristofane narra che se ne cibasse Ercole tra una fatica e l’altra per il valore energetico. (a firma di Mariangela Pollonio; pubblicato il 13/2/2012).

Dopo aver ribadito, come in altre occasioni, che il campanilismo, anche quello culinario,  non può nutrirsi del cibo indigesto, anzi, velenoso, della mistificazione (riguardi essa il mito o la storia), chiudo con tre altri tuffi nel passato.

Dioscoride (I secolo d. C.), nel De materia medica dedica alla fava due capitoli del libro II.

Nel 105: La fava greca genera flatulenza, gonfiore, è difficile da digerire, fa fare brutti sogni, utile però contro la tosse e atta a generare la carne18; cotta in acqua e vino e mangiata con la buccia blocca i flussi della dissenteria e i disturbi intestinali e mangiata in abbondanza è utile contro il vomito; produce meno flatulenza se prima si butta via l’acqua durante la cottura. Quando è verde invece procura maggior fastidio allo stomaco e maggior flatulenza. La farina di fave applicata come cataplasmo da sola o con farina di orzo calma le infiammazioni dovute a trauma, rende uniforme il colore delle cicatrici , giova alle mammelle  gonfie per i grumi di latte e infiammate e blocca la produzione del latte. Con il miele e la farina di fieno greco elimina foruncoli, parotite e i lividi agli occhi, con la rosa, incenso e bianco d’uovo le borse sotto gli occhi e lo stafiloma. Impastata col vino lenisce la sinchisi e i traumi degli occhi e la fava dopo essere stata masticata senza buccia a mo’di cataplasmo viene applicata sul volto e bollita nel vino cura le infiammazioni dei testicoli. E applicata, sempre come cataplasmo, sul pube dei fanciulli, li mantiene a lungo impuberi e cancella pure la vitiligine. Le bucce applicate come cataplasmo rende atrofici e sottili i peli che rinascono dopo essere stati strappati; con farina di orzo, scisto e olio vecchio applicate come cataplasmo curano la scrofolosi e il loro decotto tinge le lane. La fava scorticata viene applicata anche contro le emorragie procurate dalle sanguisughe dopo essere stata divisa in due sulle parti dove le sanguisughe erano fissate e ferma l’emorragia premuta a metà.

Nel 106: La fava egizia, che alcuni chiamano pontica, nasce abbondante in Egitto e si trova nei laghi in Asia e in Cilicia. Ha una foglia grande, come un cappello, il gambo lungo un cubito, grosso un dito,  il fiore roseo, il doppio di quello del papavero, che dopo la fioritura forma una capsula simile ad un vespaio, nel quale c’è la fava che nella parte superiore ha un piccolo opercolo come una bolla. Si chiama anche ciborio o cibotio19 per il fatto che il seme viene posto nella zolla umida e così abbandonato nell’acqua. La fava viene mangiata anche verde, essiccata è nera e più grande di quella greca ed ha proprietà astringenti e salutari per lo stomaco. La sua farina, impastata con acqua in sostituzione di quella di orzo, giova agli affetti da malattie intestinali e ai celiaci e viene somministrata ridotta in poltiglia. Le bucce sono più efficaci bollite in vino e miele e bevute nella misura di tre tazze; e il loro seme verde a metà è efficace contro il mal di orecchi, amaro al gusto, gradevole se mescolato a qualche goccia di estratto di rosa.20

Nel primo brano la fava greca spicca per le sue molteplici proprietà terapeutiche e tra quelle della sfera genitale la sua efficacia contro l’orchite. A tal proposito non saprei dire se è l’applicazione del proverbio chiodo scaccia chiodo oppure del similia similibus curantur che è alla base dell’omeopatia …

Isidoro di Siviglia (V-VI secolo d. C.): Gli antichi quando dovevano cantare si astenevano prima dai cibi; tuttavia i salmisti si cibavano costantemente di legumi per la voce. Perciò anche i cantori presso i pagani furono chiamati mangiatori di fave.21

Meno male che il foscoliano di evirati cantori allettatrice era di là da venire, altrimenti sarei stato costretto a fare una considerazione in linea con quella dedicata al passo precedente …

Siccome, però, voglio chiudere in bellezza, lo farò con l’ultimo brano che è poi quello col quale pure l’amico Massimo conclude il suo post.

Il Regimen sanitatis Salernitanum (XII-XIII secolo) ebbe nel tempo un numero spaventoso di redazioni e di versioni.  Una delle prime edizioni a stampa del testo originale latino, di 364 versi, col commento di Arnaldo di Villanova fu pubblicata nel 1484. a Parigi (nella foto sottostante l’incipit; l’intero testo in http://books.google.it/books?id=wdxQAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=regimen+sanitatis+salernitanum&hl=it&sa=X&ei=L2A9U-ObHcrAtAb7nYHIDQ&ved=0CGwQ6AEwCA#v=onepage&q=regimen%20sanitatis%20salernitanum&f=false).

Da questa edizione propongo il brano sull’argomento tratto dal capitolo LXXVIII con la mia traduzione e qualche osservazione.

Il componimento è formato da tre esametri e da un elegiaco. Traduzione: I bagni, il vino, il sesso, il pepe, il fumo, i porri con le cipolle, la lenticchia, il pianto, la fava, la senape, il sole, il coito, il fuoco, la fatica, il trauma, le punture, la polvere: tutto ciò nuoce agli occhi. Ma restare svegli (nuoce) di più.

Credo che la sequenza balnea vina venus non sia casuale ma citazione di quella che compare su un’iscrizione (CIL, VI, 15258)  rinvenuta a Roma nelle Terme di Caracalla sulla tomba di Tito Claudio Secondo, liberto dell’imperatore Claudio (dunque risalente al I secolo d. C.).

V(ixit) an(nos) LII / d(is) M(anibus) / Ti(beri) Claudi Secundi / hic secum habet omnia / balnea vina Venus / corrumpunt corpora / nostra se<d=T> vitam faciunt / b(alnea) v(ina) V(enus) / karo contubernal(i) / fec(it) Merope Caes(aris) / et sibi et suis p(osterisque) e(orum)

(Visse 52 anni. Agli dei Mani di Tiberio Claudio Secondo. Qui con ha tutto con sé. I bagni, i vini, il sesso corrompono i nostri corpi, ma la vita la fanno i bagni, i vini, il sesso. Per il caro compagno di tenda fece [costruire questo sepolcro] Merope di Cesare e per sé  e per i suoi e per i loro posteri).

Cinquantadue anni non era una durata della vita da buttar via per quei tempi ma a Salerno dopo più di un millennio si pensò bene di aggiungere altri dettagli per allungare la vita …

Nella individuazione generica dell’amore (venus) e particolare del coito (coitus) tra ciò che nuoce agli occhi è da ravvisare, secondo me, un’anticipazione delle teorie terroristiche contro la masturbazione  messe in campo agli inizi del XVIII secolo, secondo le quali tale pratica indurrebbe, tra l’altro, la cecità.

E, dopo questa fesseria che ha dovuto attendere due secoli per essere smentita, non voglio io essere il padre di un’altra affermando, con un gioco di parole che un tempo sarebbe stato definito senz’altro triviale, che la fava prima fece male perché stimolante, poi perché stimolata …

Per il resto, proverbi salentini sul tema compresi, rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/28/lungulu-ovvero-il-baccello-della-fava-verde/

_________

1 Credo che questa funzione propiziatrice, tenendo conto della forma fallica del baccello, sia parallela a quella apotropaica che avevano le innumerevoli immagini di falli ancora oggi visibili a Pompei. In basso un esemplare con la “didascalia”: HIC HABITAT FELICITAS (Qui abita la felicità).

2 Oggi Borkum, sul mar Baltico.

3 Naturalis historia, XVIII, 48: Sequitur leguminum natura, inter quae maxime honos fabae, quippe ex qua temptatus sit etiam panis. Lomentum appellatur farina ex ea, adgravaturque pondus illa et omni legumine, iam vero et pabulo, in pane venali. Fabae multiplex usus omnium quadripedum generi, praecipue homini. Frumento etiam miscetur apud plerasque gentes, et maxime panico solida ac delicatius fracta. quin et prisco ritu puls fabata suae religionis diis in sacro est. Praevalens pulmentari cibo, set hebetare sensus existimata, insomnia quoque facere, ob haec pythagoricae sententiae damnata, ut alii tradidere, quoniam mortuorum animae sint in ea, qua de causa parentando utique adsumitur. Varro et ob haec flaminem ea non vesci tradit et quoniam in flore eius litterae lugubres reperiantur. in eadem peculiaris religio, namque fabam utique ex frugibus referre mos est auspici causa, quae ideo referiva appellatur. Et auctionibus adhibere eam lucrosum putant. Sola certe frugum etiam exesa repletur crescente luna. Aqua marina aliave salsa non percoquitur. Seritur ante vergiliarum occasum leguminum prima, ut antecedat hiemem. Vergilius eam per ver seri iubet circumpadanae italiae ritu, sed maior pars malunt fabalia maturae sationis quam trimestrem fructum. eius namque siliquae caulesque gratissimo sunt pabulo pecori. Aquas in flore maxime concupiscit, cum vero defloruit, exiguas desiderat. Solum, in quo sata est, laetificat stercoris vice. Ideo circa Macedoniam Thessaliamque, cum florere coepit, vertunt arva. nascitur et sua sponte plerisque in locis, sicut septentrionalis oceani insulis, quas ob id nostri fabarias appellant, item in Mauretania silvestris passim, sed praedura et quae percoqui non possit. Nascitur et in Aegypto spinoso caule, qua de causa crocodili oculis timentes refugiunt. Longitudo scapo quattuor cubitorum est amplissima, crassitudo digiti. Ni genicula abessent, molli calamo similis; caput papaveri, colore roseo, in eo fabae non supra tricenas; folia ampla, fructus ipse amarus et odore, sed radix perquam grata incolarum cibis, cruda et omni modo cocta, harundinum radicibus similis. Nascitur et in Syria Ciliciaque et in Toronae chalcidices lacu.

4 Vite dei filosofi, VIII, 1, 9: Καὶ περὶ ἀφροδισίων δέ φησιν οὕτως: “Ἀφροδίσια χειμῶνος ποιέεσθαι, μὴ θέρεος· φθινοπώρου δὲ καὶ ἦρος κουφότερα, βαρέα δὲ πᾶσαν ὥρην καὶ ἐς ὑγιείην οὐκ ἀγαθά.” Ἀλλὰ καί ποτ᾽ ἐρωτηθέντα πότε δεῖ πλησιάζειν εἰπεῖν  ὅταν βούλῃ γενέσθαι σωυτοῦ ἀσθενέστερος.

5 Lo stesso Diogene Laerzio in un passo successivo (VIII, 1, 46) ci informa che quasi contemporaneamente al nostro vissero altri tre Pitagora.

6 Op. cit. VIII, 1, 14-15: Λέγεται δὲ καὶ πρῶτος κρέασιν ἀσκῆσαι ἀθλητάς, καὶ πρῶτόν γ᾽ Εὐρυμένην, καθά φησι Φαβωρῖνος ἐν τρίτῳ τῶν Ἀπομνημονευμάτων, τῶν πρότερον ἰσχάσι ξηραῖς καὶ τυροῖς ὑγροῖς, ἀλλὰ καὶ πυροῖς σωμασκούντων αὐτούς, καθάπερ ὁ αὐτὸς Φαβωρῖνος ἐν ὀγδόῃ Παντοδαπῆς ἱστορίας φησίν. Οἱ δὲ Πυθαγόραν ἀλείπτην τινὰ τοῦτον σιτίσαι τὸν τρόπον, μὴ τοῦτον. Τοῦτον γὰρ καὶ τὸ φονεύειν ἀπαγορεύειν, μὴ ὅτι γεύεσθαι τῶν ζῴων κοινὸν δίκαιον ἡμῖν ἐχόντων ψυχῆς. Καὶ τόδε μὲν ἦν τὸ πρόσχημα· τὸ δ᾽ ἀληθὲς τῶν ἐμψύχων ἀπηγόρευεν ἅπτεσθαι συνασκῶν καὶ συνεθίζων εἰς εὐκολίαν βίου τοὺς ἀνθρώπους, ὥστε εὐπορίστους αὐτοῖς εἶναι τὰς τροφάς, ἄπυρα προσφερομένοις καὶ λιτὸν ὕδωρ πίνουσιν, ἐντεῦθεν γὰρ καὶ σώματος ὑγίειαν καὶ ψυχῆς ὀξύτητα περιγίνεσθαι.

7 Nei vocabolari greci la voce originale (ἐρυθρῖνος, leggi eriuthrìnos) è tradotta dubitativamente con serrano o con fragolino. Secondo me l’identificazione corretta è nel secondo pesce per due motivi: a) la voce greca deriva da ἐρυθρός (leggi eriuthròs), che significa rosso (indicazione che mi sembra più calzante per il fragolino che per il serrano); b) proprio dal greco ἐρυθρῖνος è derivato il salentino lutrinu, nome dialettale del pagello fragolino.

8  Comunemente noto col nome di occhiata, dal latino oculata(m)=dotata di grandi occhi. Il pesce è detto anche, come nel nostro brano, melanuro, che è dalla radice dell’aggettivo μέλας/μελαῖνα/μέλαν (leggi melas/melàina/melan)=nero+οὐρά (leggi urà)=coda.

9 In realtà dovrebbe trattarsi della vulva della scrofa che in parecchi autori, tra cui Plutarco (I-II secolo d. C.) e Ateneo (II-III secolo d. C.), è citata come un’autentica ghiottoneria.

10 Il che significa che di notte se la spassava con la signora Giovanna (non in carne ed ossa ma quella che etimologicamente ne è derivata: la damigiana)?

11 Op. cit., VIII, 1, 19-20

Παντὸς δὲ μᾶλλον ἀπηγόρευε μήτ᾽ ἐρυθρῖνον ἐσθίειν μήτε μελάνουρον, καρδίας τ᾽ ἀπέχεσθαι καὶ κυάμων· Ἀριστοτέλης δέ φησι καὶ μήτρας καὶ τρίγλης ἐνίοτε. Αὐτὸν δ᾽ ἀρκεῖσθαι μέλιτι μόνῳ φασί τινες ἢ κηρίῳ ἢ ἄρτῳ, οἴνου δὲ μεθ᾽ ἡμέραν μὴ γεύεσθαι· ὄψῳ τε τὰ πολλὰ λαχάνοις ἑφθοῖς τε καὶ ὠμοῖς, τοῖς δὲ θαλαττίοις σπανίως. Στολὴ δ᾽ αὐτῷ λευκή, καθαρά, καὶ στρώματα λευκὰ ἐξ ἐρίων· τὰ γὰρ λῖνα οὔπω εἰς ἐκείνους ἀφῖκτο τοὺς τόπους. Οὐδέποτ᾽ ἐγνώσθη οὔτε διαχωρῶν οὔτε ἀφροδισιάζων οὔτε μεθυσθείς. Ἀπείχετο καὶ γέλωτος καὶ πάσης ἀρεσκείας οἷον σκωμμάτων καὶ διηγημάτων φορτικῶν. Ὀργιζόμενός τ᾽ οὔτε οἰκέτην ἐκόλαζεν οὔτ᾽ἐλεύθερον οὐδένα. Ἐκάλει δὲ τὸ νουθετεῖν πεδαρτᾶν. Μαντικῇ τ᾽ἐχρῆτο τῇ διὰ τῶν κλῃδόνων τε καὶ οἰωνῶν, ἥκιστα δὲ τῇ διὰ τῶν ἐμπύρων, ἔξω τῆς διὰ λιβάνου. Θυσίαις τε ἐχρῆτο ἀψύχοις, οἱ δέ φασιν, ὅτι ἀλέκτορσι μόνον καὶ ἐρίφοις γαλαθηνοῖς καὶ τοῖς λεγομένοις ἁπαλίαις, ἥκιστα δὲ ἄρνασιν. Ὁ γε μὴν Ἀριστόξενος πάντα μὲν τἄλλα συγχωρεῖν αὐτὸν ἐσθίειν ἔμψυχα, μόνον δ᾽ἀπέχεσθαι βοὸς ἀροτῆρος καὶ κριοῦ.

12 Op. cit., VIII, 1, 24: Τῶν δὲ κυάμων ἀπέχεσθαι διὰ τὸ πνευματώδεις ὄντας μάλιστα μετέχειν τοῦ ψυχικοῦ καὶ ἄλλως κοσμιωτέρας ἀπεργάζεσθαι τὰς γαστέρας, μὴ παραληφθέντας. Καὶ διὰ τοῦτο καὶ τὰς καθ᾽ ὕπνους φαντασίας λείας καὶ ἀταράχους ἀποτελεῖν.

13 Op. cit., VIII, 1, 39: Ἐτελεύτα δ᾽ ὁ Πυθαγόρας τοῦτον τὸν τρόπον· σσυνεδρεύοντος μετὰ τῶν συνήθων ἐν τῇ Μίλωνος οἰκίᾳ [τούτου] ὑπό τινος τῶν μὴ παραδοχῆς ἀξιωθέντων διὰ φθόνον ὑποπρησθῆναι τὴν οἰκίαν συνέβη· τινὲς δ᾽ αὐτοὺς τοὺς Κροτωνιάτας τοῦτο πρᾶξαι, τυραννίδος ἐπίθεσιν εὐλαβουμένους. Τὸν δὴ Πυθαγόραν καταληφθῆναι διεξιόντα· καὶ πρός τινι χωρίῳ γενόμενος πλήρει κυάμων, ἵνα [αὐτόθι] ἔστη, εἰπὼν ἁλῶναι ἂν μᾶλλον ἢ πατῆσαι [ἀναιρεθῆναι δὲ κρεῖττον ἢ λαλῆσαι]· καὶ ὧδε πρὸς τῶν διωκόντων ἀποσφαγῆναι. Οὕτω δὲ καὶ τοὺς πλείους τῶν ἑταίρων αὐτοῦ διαφθαρῆναι, ὄντας πρὸς τοὺς τετταράκονταΟ· διαφυγεῖν δ᾽ ὀλίγους, ὧν ἦν καὶ Ἄρχιππος ὁ Ταραντῖνος καὶ Λῦσις ὁ προειρημένος.

14 Op. cit., VIII, 1, 44: Οὐ μόνος ἐμψύχων ἄπεχες χέρας, ἀλλὰ καὶ ἡμεῖς· τίς γὰρ ὃς ἐμψύχων ἥψατο, Πυθαγόρα; Ἀλλ᾽ ὅταν ἑψηθῇ τι καὶ ὀπτηθῇ καὶ ἁλισθῇ, δὴ τότε καὶ ψυχὴν οὐκ ἔχον ἐσθίομεν.

Ἦν ἄρα Πυθαγόρης τοῖος σοφός, ὥστε μὲν αὐτὸς μὴ ψαύειν κρειῶν καὶ λέγεν ὡς ἄδικον,σιτίζειν δ᾽ ἄλλους. Ἄγαμαι σοφόν: αὐτὸς ἔφα μὲν οὐκ ἀδικεῖν, ἄλλους δ᾽ αὐτὸς ἔτευχ᾽ ἀδικεῖν.

15 Op. cit., VIII, 1, 45: Αἲ, αἴ, Πυθαγόρης τί τόσον κυάμους ἐσεβάσθη; καὶ θάνε φοιτηταῖς ἄμμιγα τοῖς ἰδίοις.

Χωρίον ἦν κυάμων· ἵνα μὴ τούτους δὲ πατήσῃ, ἐξ Ἀκραγαντίνων κάτθαν᾽ ἐνὶ τριόδῳ.

16 Ὦ φίλταθ᾽ ἥκεις Ἡράκλεις; δεῦρ᾽ εἴσιθι.

Ἡ γὰρ θεός σ᾽ ὡς ἐπύθεθ᾽ ἥκοντ᾽, εὐθέως

ἔπεττεν ἄρτους, ἧψε κατερεικτῶν χύτρας

ἔτνους δύ᾽ ἢ τρεῖς, βοῦν ἀπηνθράκιζ᾽ ὅλον,

πλακοῦντας ὤπτα κολλάβους. Ὰλλ᾽ εἴσιθι.

17 O amicissimo Hercole sei venuto? entra quà, che questa dea, poi che ti ha sentito à venire, hà impastato, e parecchiato il pane. ha messe à fuoco le pugnate de legumi, ciò è due, ò tre di fava, ha cotto un bove integro, ha rostito fugaccie, ischizzate, hor entra.

(Da Bartolomio e Pietro Rositini de Prat’Alboino, Le comedie del facetissimo Aristofane, Vincenzo Vaugris al segno d’Erasmo, Venezia, 1545)

Ercole, caro, caro, sei tu? Entra!

La Dea, come ha saputo ch’eri qui,

ha impastato del pane, ha cotto due

o tre pignatte di purè di ceci,

ha fatto arrosto un bove intero intero,

ha messo in forno torte e pasticcini.

(Da Ettore Romagnoli, Le commedie di Aristofane, Zanichelli, Bologna, 1927)

18 C’è invece un detto neretino che recita: Mangia fae ca ti ‘ntòstanu l’osse! (Mangia fave che ti si induriscono le ossa!).

19 Κιβώριον (leggi chibòrion) come nome comune significa coppa, cupola. Κιβώτιον (leggi chibòtion) come nome comune significa cassetta ed è diminutivo di κιβωτός (leggi chibotòs) che significa cassa e, come termine matematico, cubo. Anche il primo sembra presentare un suffisso diminutivo, per cui non mi pare azzardato, considerando anche che Dioscoride li usa come sinonimi, supporre per entrambi una comune derivazione da κύβος (leggi chiùbos) che significa cubo, dado.

20 Questa volta per brevità do il testo in formato immagine (da Pedanii Dioscuridis Anazarbei De Materia Medica, Weldmann, Berlino, 1907, v. I, pagg.180-181

21 De ecclesiasticis officiis, II, 12, 5: Antiqui, pridie quam cantandum erat, cibis abstinebant, psalientes tamen, legumine causa vocis assidue utebantur. Unde et cantores apud gentiles fabarii dicti sunt.

Approfitto per ricordare che baggiano, sinonimo di sciocco, anticamente era l’appellativo con cui i Bergamaschi chiamavano gli abitanti dello Stato di Milano (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XVII); la voce deriva da baggiana, varietà di fava a semi molto grossi, a sua volta dalla locuzione latina faba baiana=fava di Baia.

 

Storia e credenze sulle fave, legume eccellente per i salentini

fave1

di Massimo Vaglio

 

La fava (Vicia faba) è una pianta erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle Leguminose, dai cui fiori, alla fine dell’inverno, si sviluppano dei grossi baccelli contenenti i semi dalla caratteristica forma reniforme e appiattiti.

Di antichissima coltivazione, è citata già nei testi biblici, ove il suo consumo viene temporalmente collocato già prima del Diluvio universale. Gli studi paletnobotanici, eseguiti in numerosi siti dell’Italia meridionale, Puglia inclusa, danno la Fava o meglio il Favino come il legume più diffuso e quindi consumato, insieme alla Lenticchia, già nel Neolitico. Un consumo, che sarebbe progressivamente aumentato, e di molto, facendone il legume più diffuso nel Calcolitico, nell’Età del Bronzo e nell’età del Ferro. Un primato, che questo legume avrebbe conservato anche con l’avvento della Storia, e mantenuto sino praticamente ai nostri giorni.

In età ellenistica, veniva consumata sia fresca che secca, oltre ad essere ampiamente impiegata nella panificazione, Teofrasto (371-286 a. C) parla della produzione che si faceva a Taranto. Un consumo ed un apprezzamento notevoli quindi, nonostante i moniti di grandi autorevoli filosofi che non perdevano occasione per lanciarsi in terrorizzanti vituperi contro questo legume. Nella cultura ellenica, infatti, si riteneva che la fava con il suo fusto cavo e senza nodi mettesse in relazione i viventi con l’Ade, che era il regno dei  defunti e per tale motivo il suo consumo era oggetto di tabù e restrizioni.

Pitagora, grande filosofo e genio incontrastato nelle discipline matematiche, nonché fine erborista le considerava un cibo malefico in grado di corrompere la mente ed il fisico. Egli, in prima persona, le odiava tanto che evitava con cura ogni minimo contatto con le stesse, una sorta di fobia che gli sarebbe stata fatale, infatti, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave.

Della sua stessa opinione anche Aristotele il quale, oltre alla caratteristica di corrompere anima e corpo, attribuiva loro anche il potere di far fare sogni osceni, inducendo a pericolose tentazioni. Ciò nonostante i Greci non si lasciarono mai condizionare più di tanto, probabilmente perché, come lo sono la maggior parte dei popoli, attratti dal fascino delle cose proibite o perché, ancora più semplicemente, impossibilitati a rinunciarvi in un’epoca di limitata variabilità di risorse alimentari le apprezzavano e le sapevano ammannire in svariate ricette.

Omero, le cita spesso nei suoi poemi e Aristofane, commediografo gastronomo, nella sua commedia “Le Rane”, nutre, fra gli intervalli delle sue leggendarie fatiche, il mitico Ercole, con una superenergetica, quanto ghiotta, purea di fave.

Ancor di più e con meno riserve, furono amate dai Romani che a mezzo del grande gastronomo Apicio, autore del “De Re Coquinaria”, ci hanno tramandato anche tutta una serie di ricette, alcune curiose e particolari ed altre che somigliano incredibilmente a ricette ancora in auge in molte cucine tradizionali, tra cui nella cucina regionale pugliese.

Tra gli impieghi più particolari messi a punto dai Romani, una speciale farina che trovava utilizzo nella preparazione di focacce e dolci e che diluita nel vino, addolcita con miele e aromatizzata con spezie, dava luogo ad una particolare densa bevanda.

Un percorso comunque accidentato, se è vero com’è vero che la prestigiosa Scuola Medica Salernitana, rispolverando gli antichi precetti classici, le avrebbe nuovamente messe alla gogna, dichiarandole nocive per la vista. Nel “Regimen Sanitatis”, infatti si legge: “Fave, vin, lussuria, pianto, copula e punture; botte, polve e opre dure, cause agli occhi son di lutto”.

 

 

Le fave. Un legume antichissimo, tanto caro ai salentini

di Massimo Vaglio

La Fava (Vicia faba), è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Leguminose, dai cui fiori, alla fine dell’inverno, si sviluppano dei grossi baccelli contenenti i semi dalla caratteristica forma reniforme e appiattiti.

Di antichissima coltivazione, è citata già nei testi biblici ove il suo consumo viene temporalmente collocato già prima del Diluvio universale. Gli studi paletnobotanici eseguiti in numerosi siti dell’Italia meridionale, Puglia inclusa, danno la Fava o meglio il Favino come il legume più diffuso e quindi consumato, insieme alla Lenticchia, già nel Neolitico. Un consumo, che sarebbe progressivamente aumentato, e di molto, facendone il legume più diffuso nel Calcolitico, nell’Età del Bronzo e nell’Età del Ferro.

Un primato che questo legume avrebbe conservato anche con l’avvento della Storia e mantenuto sino praticamente ai nostri giorni. In età ellenistica, veniva consumata sia fresca che secca. Oltre ad essere ampiamente impiegata nella panificazione, Teofrasto (371-286 a. C) parla della produzione che si faceva a Taranto. Un consumo ed un apprezzamento notevoli quindi, nonostante i moniti di grandi autorevoli filosofi che non perdevano occasione per lanciarsi in terrorizzanti vituperi contro questo legume. Nella cultura ellenica, infatti, si riteneva che la fava con il suo fusto cavo e senza nodi mettesse in relazione i viventi con l’Ade, che era il regno dei  defunti e per tale motivo il suo consumo era oggetto di tabù e restrizioni. Pitagora, grande filosofo e genio incontrastato nelle discipline matematiche, nonché fine erborista, le considerava un cibo malefico in grado di corrompere la mente ed il fisico. Egli, in prima persona, le odiava tanto che evitava con cura ogni minimo contatto con le stesse, una sorta di fobia che gli sarebbe stata fatale. Infatti, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, Pitagora preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave. Della sua stessa opinione anche Aristotele, il quale oltre alla caratteristica di corrompere anima e corpo, attribuiva loro anche il potere di far fare sogni osceni, inducendo a pericolose tentazioni. Ciò nonostante i Greci non si lasciarono mai condizionare più di tanto, probabilmente perché, come

L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde

di Armando Polito

Già altre volte ho avuto occasione di sottolineare che il dialetto non ha nulla da invidiare alla lingua comune nemmeno in termini di economicità e il titolo di questo post ne è un’ulteriore prova tant’è che per tradurlo in italiano sono stato costretto a ricorrere ad una circollocuzione.

L’ungulu è sinonimo di primavera avanzata e ai miei tempi le scampagnate tipiche di quel periodo trovavano la loro tappa obbligata nella sosta in qualche campo (generalmente altrui…, lo ammetto) coltivato a fave. Lì si compiva una sorta di rito magico in cui trovava soddisfazione l’antichissimo difetto della trasgressione (vuoi mettere il piacere del rischio dell’arrivo improvviso del proprietario e quello della successiva precipitosa fuga? Altro che il turismo di oggi che ha come meta una zona teoricamente pericolosa e che prevede il programmato ed incruento assalto dei predoni, per giunta a pagamento!) e la soddisfazione della fame che allora di per sé non mancava… Se poi si aveva la lungimiranza (in quel caso l’obiettivo era già stato da tempo individuato e l’invasione programmata) di portarsi appresso nna pezza ti casu, nnu piezzu ti pane e nnu fiascu ti mieru (una forma di formaggio, meglio se piccante, ma il massimo era e rimane la marsòtica, un pezzo di pane, quello fatto in casa e un fiasco di vino, quello fatto di uva…) la goduria era assicurata.

In quei momenti sarebbe stato assurdo pretendere che qualcuno di noi si chiedesse o chiedesse perché ciò che stava gustando avesse  quel nome, anche perché nessuno a quell’età, tanto meno oggi, si pone in situazioni del genere domande di quel tipo.

Sono passati tanti anni ma, se è cambiato tanto nella vita mia e dei miei coetanei, è cambiato poco, in concreto, nella soddisfazione, che allora nemmeno si immaginava, di certe curiosità etimologiche; nel senso che l’origine di ùngulu ancora oggi rimane incerta.

Il Rohlfs1 in forma dubitativa (sarà per via dell’accento?) propone il greco goggýlos=rotondo, riprendendo una precedente ipotesi del Ribezzo2. Irene Maria Malecore3 propone, sempre in forma dubitativa, il latino novùnculus=novellino.

Se sul piano fonetico le tre ipotesi mi appaiono plausibili,  è su quello semantico che manifestano qualche debolezza perché l’idea della rotondità è ben più spinta in altri frutti e ho altrettanta difficoltà a capire come mai proprio il nostro baccello sia diventato il simbolo del prodotto novello, anche se la specificazione nell’espressione fae ti ùnguli potrebbe far pensare proprio alla contrapposizione alle fave secche.

Comunque, siccome i miei illustri predecessori non sono giunti a conclusioni certe, anche un fesso come me si sente autorizzato a dire, sempre dubitativamente (per cui ci sarà tra poco il festival del condizionale…), la sua.

Parto dalla banale osservazione che il baccello della fava ricorda un artiglio o, pensando ad alcune eccentricità del nostro tempo, l’unghia esibita da alcune donne che evidentemente si sarebbero sentite naturalmente realizzate se fossero nate tigri. Unghia in latino è ùngula, di genere femminile, ma in Plauto (III-II secolo a. C.) è attestato anche un maschile ùngulus (in altri codici unguìculus) col significato di unghia del piede.4 Pure in Plinio (i secolo d. C.) compare un ùngulus col significato di anello ma con agganci etimologici, anche se piuttosto confusi,  al dito: “…risulta che primo fra tutti Tarquinio Prisco donò al figlio, che quand’era ancora fanciullo aveva ucciso il nemico, un globetto di oro; da qui continuò l’usanza che i figli di coloro che avevano prestato servizio militare a cavallo avessero questo riconoscimento, gli altri una collana di cuoio. E perciò mi meraviglio che che la statua di quel Tarquinio sia senza anello, sebbene vedo che ci sono dubbi sul nome: i Greci lo chiamarono dalle dita5, presso di noi gli antichi lo chiamarono ùngulo; poi e i Greci e i nostri lo chiamarono simbolo67. In Isidoro di Siviglia si legge: “Tra i tipi di anello ci sono l’ungulo, il samotracio , il Tinio. L’ungulo è fornito di gemma ed è chiamato con questo nome perché, come l’unghia aderisce alla carne così la gemma dell’anello all’oro”8.

Quest’ultimo autore, dunque, rappresenta col suo anello l’anello di congiunzione (potevo rinunciare a questo gioco di parole?…)   tra ùngula e ùngulum; ma basta questo per convalidare la mia ipotesi nata dalla semplice osservazione?

Non credo, anche perché, sempre riferendomi all’aspetto e restando, grosso modo, nell’ambito della stessa immagine, mi viene in mente che ùngulu potrebbe essere da un latino *ùnculus, diminutivo del classico uncus=uncino (ritorna puntuale, come si vede, l’immagine dell’unghia, dell’artiglio). Questa proposta bypasserebbe le imprecisioni del Ribezzo, il dubbio del Rohlfs e le perplessità nascenti dall’ipotesi della Malecore.

Conclusa, comunque, ingloriosamente la disamina etimologica, dopo aver ricordato il verbo derivato scungulàre=sbucciare i legumi (usato anche in senso metaforico per il cibo stracotto e per l’effetto di una prolungata esposizione al sole), passerò in rassegna ora alcuni elementi della cultura popolare in cui il nostro ùngulu da solo o insieme con la fava secca) è protagonista.

Siccome sono stanco (figurati!) lascerò parlare il gallipolino Emanuele Barba 9:

Lu tiempu passa e la fava se coce.

(toscano) Il tempo passa e porta via ogni cosa.

(latino) Fugit irreparabile tempus. (Virgilio)

 Fugit retro juventus et decor. (Orazio)

 

Fava, favazza te binchia e te sazzia.

 (trad.) La fava ti sazia e ti nutrisce.

(toscano) Viver parca,emte arricchisce la gente.

Son meglio le fave che durano, che i capponi che vengon meno.

È meglio il pan nero che dura, che il bianco che si finisce.

(latino) Potus cibique parcitas.

Bonae valetudinis quasi quaedam mater est frugalitas.                                                

 

Do’ facetole a nna botta (ovvero)

Do’ picciuni a nna fava.

 

O palora o scorza d’ungulu.

Dicesi per dinotare che una cosa promessa o parola data dev’essere ferma. Ed usasi per richiamare allo impegno preso chi minaccia di venir meno.

(latino) Promissio boni viri est observatio.

 

Vidire l’unguli fare fave.

Vedere i baccelli divenir fave.

Avere agio di vederne delle belle; ed anche può significare avere la opportunità di vedere il principio, lo sviluppo e la fine di una cosa o fatto.

 

Avendo ripreso fiato mi permetto di integrare con:

Ci chianta fae mangia unguli

Chi pianta fave mangia fave verdi. È l’integrazione del precedente; entrambi costituiscono quasi un inno alla moderazione e alla lungimiranza: bisognerà pur lasciare qualche baccello a seccare in modo da avere l’anno successivo fave da seminare, dalle quali avere, in una sorta di metafora della vita, unguli ma anche altre fave da seminare.

No vvae mai alla spizzaria ci mangia fae ti sera e dia.

Non va mai in spezieria (farmacia) chi mangia fame di sera e di giorno.

Ti santu Lionardu chianta la faa ca è ttardu.

Di san Leonardo (6 novembre) pianta la fava perché è tardi.

Mangia fae ca ti ntòstanu l’osse.

Mangia fave perché ti si rinforzano le ossa.

e di chiudere con un guizzo finale:

Puttana pi nna faa, puttana pi nn’ùngulu.

Il significato metaforico è chiaro: quando la situazione è compromessa, inutile fare sottili distinzioni. Il detto si adatta perfettamente alla morale attualmente dominante in politica: una volta che ci si è ritrovato a propria insaputa intestato un appartamento, perché non accettare il dono disinteressato di una crociera, di un viaggio in aereo, di un piatto di cozze…? Per farla completa: nel detto popolare non mi sentirei di escludere un doppio senso per fava (già ampiamente collaudato nella lingua nazionale) e per ùngulu che a buon diritto può essere considerato un simbolo fallico. Lo stesso si può fare, credo, per il primo proverbio citato dal Barba.

A conforto dell’incertezza etimologica che ancora mi brucia rimane il fatto che l’ùngulu è una gioia per le papillle gustative dei più, soprattutto se consumato, è sempre così, in allegra compagnia, accompagnato, per tornare da dove ero partito, dagli altri gioielli della dieta mediterranea: pane casereccio e vino. Buon appetito!

_____

1 Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo editore, Galatina, 1976, v. II, pag. 787.

2 Rivista indo-greco-italica di filologia, lingua, antichità, Napoli, v. 14, 1930, pag. 108: il salentino ùngulu=baccello di fava accenna per lo meno a un in conchula…si tratterà dunque, tutt’al più, di greco kogchyle, influenzato per il k in g velare dopo n da greco gòggylos. 

Non c’era bisogno di mettere in campo un in conchula=nella conchiglia; sarebbe bastato il solo conchula tenendo presente che vongola è dal latino cònchula e che, quindi, il passaggio c->v– non è un’anomalia inspiegabile e che a conchula si sarebbero potuto collegare direttamente le varianti vùngulu e vùgnulu di ùngulu. Infine, per la precisione, in greco non è gòggylos ma goggýlos.

3  Proverbi francavillesi, Olschki, 1974, pag. 87. Novùnculus in latino non è attestato, per cui sarebbe stato opportuno far precedere tale voce ricostruita da un asterisco. Oltretutto il passaggio ad ùngulu avrebbe comportato una prima aferesi (vùnculu) e poi la lenizione di v- (che, tuttavia, rimane in alcune varianti: vùngulu, vùgnulu).

4 Epidichus, 623: usque ab ungulo ad capillum (dall’unghia del piede fino ai capelli).

5 Daktýlios o daktýliov, diminutivo di dàktylos=dito. Dattilo è il nome di un piede della metrica classica, formato da una sillaba lunga e da due brevi, proprio come, nel dito,  la sequenza di falange, falangina e falangetta.

6 Sýmbolon, da sumbàllo=mettere insieme.

7 Naturalis historia, XXXIII, 4: …a Prisco Tarquinio omnium primo filium, quum in praetextae annis occidisset hostem, bulla aurea donatum constat: unde mos bullae duravit ut eorum qui equo meruissent filii, insigne id haberent, ceteri lorum. Et ideo miror Tarquinii eius statuam sine anulo esse. Quamquam et de nomine ipso ambigi video: Graeci a digitis appellavere, apud nos prisci ungulum vocabant; postea et Graeci et nostri symbolum.

8 Etymologiae, XIX, 32, 5: Inter genera anulorum sunt ungulus, Samothracius, Thynius. Ungulus est gemmatus, vocatusque hoc nomine quia, sicut ungula carni, ita gemma anuli auro adcingitur.

9 Proverbi e motti del dialetto gallipolino raccolti ed illustrati, G. Stefanelli, Gallipoli, 1902, passim.

Fave verdi e orobanche

La fava del Salento leccese produce anche la “Spurchia”

piante di fave infestate da altre erbe

 

di Antonio Bruno

Le fave al tempo dei Greci

I greci chiamavano Cyamos il legume a noi noto come fava Vicia Faba L. Pitagora quando gliela offrivano rifiutava di mangiarla perché era certo che nei semi delle fave ci fossero le anime dei morti: quondam animae mortuorum sun in ea.

Una pianta molto rispettata dagli antichi perché ritenuta consacrata agli Dei: diis in sacro est.

Nel mondo antico non si mangiava la fava perché si era fatta la fama di essere la causa di un intorpidimento dei sensi e causa di insonnia: hebetare sensus existimata, et insonnia quoque facere.

E Plinio? Già! Che scriveva Plinio della fava? C’è una pianta con il nome cyamos, è una pianta d’Egitto acquatica, nota per una colocasia di grandi foglie, e nominata faba aegyptia, faba alexandrina sia da Plinio che da Dioscoride.

 

Le fave al tempo dei romani

I romani le mangiavano e abbiamo testimonianza di questo nelle ricette scritte da Apicio che prevedono l’uso di questo legume.

Ma è a Roma durante i festeggiamento della Dea Flora, che proteggeva la natura che in primavera germoglia che vere e proprie cascate di fave venivano riversate sulla folla che festeggiava per augurio.

Quando i festeggiamenti finivano la fava tornava ad essere considerata impura tanto che i sacerdoti del dio Giove non potevano toccarla e al Pontefice Massimo veniva fatto assoluto divieto di nominare questo legume

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