Tanti trucchi salentini per cuocere e gustare le fave

fave

di Massimo Vaglio

 

Nonostante tutto e tutti, la fava l’ha fatta sempre da regina, mantenendo pressoché inalterato il suo primato fra tutte le specie di legumi coltivati, ad incidere, oltre alle ottime qualità nutrizionali e organolettiche, anche valutazioni prettamente agronomiche: le buone rese; le limitatissime esigenze colturali; la caratteristica di migliorare la fertilità del terreno (cosa che ne l’ha fatto la principale pianta da rinnovo); l’adattabilità alle varie tipologie di terreno e la bassa incidenza negativa delle basse temperature, come della siccità e della prolungata piovosità.

Un nemico di questa coltura però c’è, ed è l’Orobanca, una pianta parassita che nel dialetto salentino viene appellata “spùrchia”, termine non a caso usato anche come sinonimo di iattura e di sfortuna; un raccolto di fave andato a male a causa dell’infestazione di questo parassita, poteva significare infatti la più grande delle iatture, la fame.

Facendo un po’ di necessità virtù, i contadini hanno nel tempo anche imparato a sfruttare gastronomicamente questo flagello,che nell’aspetto ricorda vagamente  gli asparagi, elaborando dei piatti tuttora apprezzati.

Per quanto ci riguarda, le fave cotte in pignatta, hanno costituito un pasto frequentissimo, sino all’ultimo dopo guerra, per la stragrande maggioranza dei salentini ed in particolare costituivano il pasto quotidiano degli alàni (i “salariati” addetti ai lavori di aratura, con le vacche e con i buoi, bifolchi ) impegnati nelle grandi masserie salentine. In questi luoghi, si viveva una condizione straordinariamente simile a quella raccontata dal Verga nel “Mastro Don Gesualdo”, con i ritmi temporali scanditi dalla stessa Puddhrara (Costellazione delle Pleiadi) o dall’ombra disegnata dal sole rovente sulla terra arsa, e con questi legumi, immancabili protagonisti dei servili deschi.

Le fave, prima di essere cotte, devono essere “morsicate”, ossia devono essere private del nasello, operazione che nelle famiglie si effettuava generalmente con un apposito attrezzo (nettafàe), ma spesso anche a suon di canini, da cui il termine.

Poi lasciate a bagno per tutta una nottata, quindi cotte alla stregua degli altri legumi, semplicemente in acqua leggermente salata o con l’aggiunta di un po’ di odori, esponendo la pignatta al fuoco di un camino.

Se sono di buona qualità, ovvero “cottotie”, le fave si cuociono perfettamente presentando anche la cuticola esterna tenera, se invece, nonostante una prolungata cottura, rimangono dure vengono dette “cutrée”; tale condizione, generalmente si verifica se le fave sono state coltivate su un terreno particolarmente calcareo, oppure, se hanno subito dei prolungati stress idrici e in tal caso vengono spesso destinate ad altro uso.

Il rapporto con questo alimento è così stretto che è un po’ come se fosse entrato nei cromosomi dei salentini. Non a caso, mentre circa il 35 per cento delle popolazioni mediterranee soffrono di favismo (grave malattia del sangue scatenata dal mangiare fave o dal respirare il loro polline), l’incidenza di tale malattia fra i salentini è pressoché irrisoria. E’ quindi, più che probabile, che questi, in secoli d’ininterrotto consumo, dopo aver subito una dolorosa selezione naturale, hanno conquistato una pressoché totale immunità. Tuttora, qui le fave trovano ancora moltissimi estimatori, complice una cultura gastronomica che, come poche, è capace di conferire valore aggiunto ai prodotti più semplici e che, associata ad una cultura agricola sapiente, ha saputo affinare le tecniche agricole e selezionare cultivar ed ecotipi di grande qualità, come decine di proverbi e una ricca terminologia specifica rivelano.

Il termine Campiota, per esempio, definisce un ecotipo di fava più genericamente indicato come “curnulara”, particolarmente pregiato per i baccelli lunghi e i semi molto grandi e schiacciati, che si coltiva a Campi Salentina e nel suo hinterland, ove le vengono destinati i terreni più fertili.

Con il termine Cuccìa, invece, si indica un altro pregevole ecotipo di tipo “lupinara”, ossia a baccello corto e con granella di dimensioni medie, che si coltiva a Zollino su appezzamenti ove la terra è talmente poca, che sembra sparsa sul tavolato calcareo come il cacio sui maccheroni.

Le fave verdi, vengono servite accompagnate da del buon formaggio pecorino fresco o dalla marzotica, la tradizionale ricotta erborinata locale.

La preparazione ottimale delle fave secche, si esegue invece in pignatta. La cosiddetta “pignata ti fae”, è un piatto, che come emerge dalla descrizione sopra riportata, semplicissimo, che però rientra nel novero di quelle rare pietanze la cui preparazione può risultare di difficile apprendimento. Per prepararlo bene, bisogna avere un po’ le fave  nei cromosomi; infatti, le fave non si cucinano, ma si cuociono, ovvero, risiede semplicemente nel metodo di cottura il segreto della loro preparazione, non a caso, la massaia salentina per dire che deve cuocere i legumi, usa la frase: “devo guardare la pignata”.

Quindi, se volete gustare un piatto di fave come quello che quotidianamente consumavano i nostri progenitori, vi consiglio, almeno per le prime volte, di chiedere aiuto, ad una brava, anziana massaia che ve le cuocerà con gli occhi, ma sicuramente a puntino.

Le fave, vanno servite sempre allagate d’olio di frantoio, in estate accompagnate da peperoni Cornetti fritti e cipolla Barlettana cruda, preventivamente addolcita per qualche ora in acqua e aceto; in inverno invece il loro accompagnamento ideale saranno i cipollotti crudi e le cicoriette di campo lessate.

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