Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (II parte)

di Salvatore Coppola

 

La verità giudiziaria

Il 19 maggio 1962 si concluse dinanzi al Tribunale di Lecce la prima fase di un lungo e tormentato iter giudiziario che si sarebbe concluso (tra appelli, ricorsi, sentenze di rinvio e nuovi ricorsi) nel maggio del 1969. Sul banco degli imputati finirono Berardino Cecchini (vice brigadiere dei carabinieri addetto, insieme con l’appuntato Paolo Logoluso, alla sorveglianza delle operazioni di disinfestazione e alla «prevenzione di incidenti»), Oronzo Zaccaria Pranzo (amministratore della ditta Villani Costantino & C. nonché titolare della licenza per l’utilizzo di solfuro di carbonio), Donato Colopi (chimico, direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro), Raffaele Martina (tecnico patentato preposto alle operazioni di disinfestazione) e il dr. Vincenzo Tommasi (ufficiale sanitario). I primi quattro dovevano rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime (determinati da «negligenze, imprudenza, imperizia e inosservanza di leggi, ordini e discipline») oltre che di una serie di contravvenzioni per la mancata osservanza di norme e regolamenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla violazione di una serie di prescrizione in materia di impiego di gas tossici. Il dr. Tommasi doveva rispondere del reato di falso ideologico per avere «attestato falsamente in un certificato rilasciato il 21/5/1960 che i locali della ditta Villani Costantino e C., siti in Calimera alla via Martano 11, erano separati ed allestiti con tutte le cautele previste dall’art. 45 e segg. del Regolamento Speciale del 9/1/1927 sui gas tossici»[1].

La tragedia si consumò in pochi attimi alle 7.40 di un giorno festivo per Calimera (S. Antonio). Le operaie erano intente a «travasare il solfuro di carbonio da un bidone posto su di un cavalletto in recipienti piccoli, così da potere gli stessi, riempiti del liquido, essere avviati (col sistema del passamano a catena) nell’interno degli ambienti e posti un po’ dovunque, sulle ballette di tabacco ivi ammassate», quando un cerino incautamente acceso dal vice brigadiere Cecchini per dare fuoco alla sigaretta che teneva in bocca provocò lo scoppio improvviso del liquido, cui seguirono l’incendio e l’emissione di vapori tossici. Le operaie più vicine furono avvolte dalle fiamme, le altre furono soffocate dal gas. Natalina Tommasi, ridotta a una torcia umana, ebbe la forza di gridare all’indirizzo del brigadiere: “Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”. Luigia Bianco, anche lei avvolta dalle fiamme, gridò “u brigadiere è statu”. Il Tribunale così descrive la drammatica scena:

[…] Le fiamme innanzi la porta d’ingresso, essendo la stessa stretta e con una impannata chiusa, crearono una barriera per chi si trovava dentro, ove per giunta, alcuni dei recipienti pieni si rovesciarono, aumentando il fuoco, il gas tossico e il panico. Le persone che erano all’interno restarono in trappola, chiuse nei vani, dalle fiamme che divampavano sul pianerottolo, impossibilitate a saltare dalle finestre sulla strada, in quanto queste erano munite di inferriate fisse, né vi erano altre uscite […][2].

 

Il Tribunale riconobbe la responsabilità del vice brigadiere Cecchini («con fare disattento ed inconsiderato, come avviene al fumatore che accende la sigaretta senza accorgersene, meccanicamente, mentre era in corso il travaso dell’infiammabilissimo liquido, si mise a fumare. Diede fuoco con un cerino alla sigaretta provocando immediato lo scoppio del solfuro che in gran copia era nei recipienti scoperti»). La sua mancanza di «ogni elementare norma di prudenza» che si materializzò nella «inopinata accensione del cerino» non furono, tuttavia, da Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione ritenute sufficiente da sole a provocare la catastrofe se non si fossero determinate tutta una serie di concause di cui furono chiamati, con pari grado di responsabilità, a rispondere gli altri imputati. L’inosservanza, infatti, di una serie di norme poste a tutela dell’incolumità dei lavoratori fu giudicata altrettanto grave quanto il gesto incauto del vice brigadiere, la cui presenza sul posto doveva essere di garanzia della regolarità e sicurezza delle operazioni.

In sede giudiziaria fu acclarato che l’operazione di disinfestazione del tabacco – di per sé pericolosissima – avrebbe dovuto svolgersi in locali lontani dal centro abitato e non in quelli di proprietà Lefons (presi in affitto dal Pranzo per conto della ditta Villani Costantino & C.) che si trovavano vicini al centro abitato, in via Martano 11. Gli stessi erano privi di uscite di sicurezza al primo piano. All’interno non c’erano estintori, né indumenti di protezione dalle fiamme e maschere antigas, di cui avrebbero dovuto essere dotate le operaie. Il luogo dove si effettuava il travaso da un fustino metallico collocato su un cavalletto in piccoli recipienti che dovevano essere trasportati ai piani superiori era un angusto pianerottolo posto in cima ad una scala da cui si accedeva al primo piano attraverso una sola porta d’ingresso di dimensioni non regolamentari (larghezza inferiore a 1 metro e 10 centimetri). Le fiamme sprigionatesi davanti all’unica porta d’ingresso crearono una barriera che intrappolò le povere donne chi vi si trovavano dentro «senza altra possibilità di uscita». Anche le finestre che davano sulla strada erano sigillate dall’interno («sbarrate con rete metallica») e chiuse all’esterno da una «robusta cancellata in ferro». Non c’era alcuna via d’uscita dall’inferno di fuoco che avvolse e spense le giovani esistenze di quelle povere e infelici donne. A parere dei giudici, in mancanza di porte apribili dall’interno non si sarebbe dovuto mettere le operaie di fronte ad un rischio a cui le stesse non erano tenute in base alle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro (il chimico Colopi), cui spettava l’obbligo «morale e giuridico» di assistere e dirigere le operazioni di solfurazione, era assente («l’opera che si stava eseguendo e che non si portò a termine stante l’accaduto, avrebbe dovuto compiersi alla presenza del direttore tecnico, Colopi, dal principio alla fine»). Egli aveva lasciato il controllo e la gestione dell’intera operazione al tecnico patentato Martina che si fece coadiuvare dall’operaio Murra. A parere dei giudici, se egli fosse stato presente non avrebbe consentito che le operaie – personale non idoneo e non autorizzato – partecipassero alle operazioni «inerenti alla solfurazione» e non avrebbe permesso che il travaso del liquido fosse eseguito in un luogo inidoneo qual era lo strettissimo ballatoio collocato davanti all’unica porta d’ingresso ai locali, peraltro molto piccola:

[…] Il Colopi avrebbe potuto consentire il lavoro solamente se le porte dei locali avessero potuto permettere la rapida uscita delle persone ed essere agevolmente apribili dall’interno durante il lavoro. Siccome questi presupposti non sussistevano il direttore tecnico non doveva permettere la solfurazione. Non sembra al Tribunale che, non potendosi disporre del congruo numero di uscite, si dovessero porre le operaie di fronte ad un rischio che la legge sugli infortuni vieta debba essere affrontato; nella peggiore delle ipotesi, la solfurazione non doveva farsi in quel giorno ed in quel luogo […]. Non sarebbe stato difficile predisporre, con alcune finestre situate nel retro del fabbricato al primo piano comunicanti con due terrazze, delle uscite di sicurezza[3].

 

Il Tribunale ritenne che la colpa del solfuratore patentato Raffaele Martina consisté nell’essersi fatto aiutare, nell’operazione di disinfestazione del tabacco, da personale non abilitato (quali erano l’operaio Achille Murra e le undici operaie tabacchine):

[…] Ciò non avrebbe dovuto fare per ragioni di prudenza di facile comprensione, per non esporre quel tipo di personale, per di più quasi tutte donne, ad un rischio mortale. Consisté la colpa nel non avere considerato il Martina (negligenza, imprudenza) che, senza porte di sicurezza, era pericoloso porre al lavoro le persone, stante il pericolo di incendio e di emanazione di vapori mortali. La manovra del travaso del solfuro, dall’imputato organizzata ed eseguita in luogo angusto, fu altra imperdonabile imprudenza e negligenza, dovendo facilmente, il Martina, prospettare a sé stesso l’ipotesi di una combustione del liquido proprio in quel punto, sì che avrebbe chiusa ogni via di scampo a coloro che lavoravano nell’interno […][4].

Quanto all’amministratore Pranzo (titolare della licenza per l’impiego del solfuro), egli – a parere del Tribunale – non avrebbe dovuto consentire che venisse utilizzato per un’operazione così pericolosa personale non abilitato, quali erano le operaie, che egli aveva assunto per il tramite della capo operaia Maria Assunta Pugliese:

[…] La licenza per l’impiego del solfuro era stata rilasciata dal Questore a Pranzo in persona, sicché doveva il titolare della licenza personalmente presenziare alla solfurazione […] a lui incombeva fra gli altri l’obbligo di non impiegare personale non abilitato durante la solfurazione […]. Pranzo diede ordine alla capo operaia Pugliese di assumere le tabacchine per la disinfestazione […]. I lavori di sistemazione dei locali erano stati compiuti il 12 giugno, mentre restava solo da distribuire il liquido velenoso nei singoli vani: da ciò la necessità di chiamare undici tabacchine, che lavorarono col sistema del passamano a catena per far giungere i barattoli pieni di solfuro dal pianerottolo ove avveniva il travaso fin nel più lontano locale […] egli non doveva affidare a personale non abilitato a termini di regolamento lavori strettamente inerenti all’impiego del liquido tossico […] alle tabacchine, invece, fu dato ordine di permanervi, pur non essendo patentate, per tutto il tempo necessario alla distribuzione dei recipienti pieni, nei dodici ambienti […]. Fra gli accorgimenti tecnici, sarebbe bastato munire i locali del magazzino di tante uscite proporzionate al numero delle operaie, facendo sì che le aperture […] avessero trovato sfogo all’aperto, in atrii, terrazzi, cortili contenuti, questi, come accessori scoperti, entro l’ambito cintato e circoscritto del magazzino […][5].

Il cerino acceso da Cecchini – queste le conclusioni del Tribunale – non fu da solo sufficiente a determinare l’evento («la causa sopravvenuta posta in essere non sarebbe stata sufficiente da sé sola a determinare l’evento» senza il concorso di cause «precedenti, immediate, dirette poste in essere dagli altri tre imputati»):

[…] Così avvenne, quanto a Pranzo e Colopi, che predisposero gli ambienti senza possibilità di scampo o di fuga per chi si fosse trovato dentro; che fecero lavorare delle persone non abilitate al rischioso uso del solfuro di carbonio; che non le munirono di maschere antigas, né di indumenti refrattari al fuoco; che non corredarono i locali con meccanismi atti ad estinguere gli incendi […] Martina, dal canto suo […] si rese conto che le tabacchine non erano adatte a quel genere di lavoro, a loro vietato, tanto che la legge ne escludeva l’impiego. Pur vide, infine, che le tabacchine ed il suo aiuto Murra non avevano né maschere, né indumenti protettivi […]. La sola azione del Cecchini non avrebbe sortito l’effetto mortale, sol che il personale fosse stato munito di indumenti protettivi, non attaccabili dal fuoco e di maschere atte alla respirazione, in ambienti infestati da gas venefici; sol che avesse avuto, ognuno dei presenti, via libera per fuggire […] certamente le conseguenze non sarebbero state così disastrose; perché, se non tutti, si sarebbero salvati molti, specie dalla morte, con la fuga, con la respirazione attraverso le maschere antigas, con gli indumenti resistenti al fuoco[6].

 

Il Tribunale, sulla base del principio giuridico «ogni singola causa è causa dell’evento» inflisse ai quattro imputati la medesima condanna. Per il reato di omicidio colposo plurimo la pena inflitta fu di 6 mesi per ogni operaia morta (totale 36 mesi). Per le lesioni più gravi fu inflitta la pena di 9 mesi (3 mesi per ognuna delle tre persone ferite); per le lesioni meno gravi la pena inflitta fu di 4 mesi (1 mese per ognuna delle quattro persone ferite). In totale la pena complessiva fu determinata in 4 anni e 1 mese, cui si aggiunsero le ammende per l’inosservanza dei regolamenti e il risarcimento a favore delle parti civili calcolato in un milione per ognuna delle operaie morte. Il Tribunale assolse con formula piena (il fatto non costituisce reato) il dr. Tommasi giudicando che egli, nel rilasciare il certificato, aveva ritenuto «in sua scienza e coscienza, essere il magazzino di via Martano 11 in Calimera attrezzato in maniera idonea all’uso dei gas»; egli pertanto non aveva avuto intenzione di «attestare cosa fuori dalla concreta realtà»[7].

La Corte d’Appello, con sentenza del 15/12/1962, riconobbe agli imputati alcune attenuanti generiche e ridusse la pena a due anni di reclusione, applicando nel contempo il beneficio della prescrizione per alcune contravvenzioni inflitte a Pranzo e Colopi. La vicenda giudiziaria si protrasse ben oltre le sentenze di primo, secondo e terzo grado (Cassazione, 25/6/1963). A seguito del rinvio (limitatamente a una parte della sentenza della Corte d’Appello di Lecce) il processo finì davanti alla Corte d’Appello di Bari che si pronunciò il 22/5/1964. Un nuovo ricorso in Cassazione si concluse (5/2/1967) con un altro rinvio del processo alla Corte d’Appello di Bari, che con sentenza del 20/12/1968 accordò agli imputati Colopi e Martina il beneficio della prescrizione in merito al reato di delitto colposo. Un nuovo ricorso in Cassazione e la pronuncia della Suprema Corte (19/5/1969) posero la parola fine alla vicenda.

I nomi delle tabacchine di Calimera rimarranno per sempre scolpiti, oltre che nel cuore dei calimeresi e dei salentini tutti, anche sul monumento ideale al lavoro e al sacrificio di quanti nel Salento sono Caduti per pane e lavoro.

Note

[1] Asle, Tribunale civile e penale, Sentenze penali, sentenza n. 614 del 19/5/1962.

[2] Ivi.

[3] Ivi.

[4] Ivi.

[5] Ivi.

[6] Ivi.

[7] Ivi.

 

Per la prima parte vedi qui:

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (I parte)

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (I parte)

 

“Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”.

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie,

una tragedia annunciata

 

di Salvatore Coppola

La storia delle tabacchine salentine è stata segnata da momenti di grandi lotte e di altrettanto grandi conquiste sociali, ma anche da immani tragedie, le più gravi delle quali sono state, in epoca fascista, la repressione a Tricase della manifestazione del 15 maggio 1935 (quando vennero uccise Maria Nesca, Cosima Panico e Donata Scolozzi), e, negli anni della democrazia, l’incendio che si sviluppò nel magazzino di proprietà di Giuseppe Lefons di Calimera, gestito (per le sole operazioni di disinfestazione del tabacco), dalla ditta Villani Costantino & C.[1].

Il 13 giugno del 1960 un incendio divampò all’interno del locale provocando la morte di cinque operaie, quattro delle quali (Natalina Tommasi di anni 30, Luigia Bianco di anni 34, Luigia Tommasi di anni 22 e Maria Assunta Pugliese di anni 46) perirono a causa delle gravi ustioni patite tra il 13 e il 14 giugno; un’altra (Epifania Cucurachi, di anni 27) morì il 16 luglio a causa dell’intossicazione, e l’ultima (Lucia Di Donfrancesco, di anni 30 al momento della catastrofe) cessò di vivere il 14 gennaio del 1962, dopo un lungo periodo di malattia e di ricoveri in diversi ospedali. Luigia Bianco, Natalina (Lina) Tommasi e Lucia Di Donfrancesco erano nubili. Luigia Tommasi (moglie di Pantaleo Garrisi) lasciava orfani Brizio Antonio di anni 5 e Domenico di anni 1; Maria Assunta Pugliese (moglie di Paolo Greco) lasciava un figlio di anni 20; Epifania Cucurachi (moglie di Pasquale Palano) lasciava orfani Carmelo di anni 7 e Antonio di anni 2. Rimasero ferite le tabacchine Gaetana Tommasa, Cristina Di Mitri, Elvira Castrignanò, Cesaria Lucia Perrone, Paola Lucia Montinaro e gli operai Achille Murra di San Pietro in Lama (aiutante del tecnico Raffaele Martina preposto alle operazioni di disinfestazione del tabacco) e Paolo Greco (marito della Pugliese) che cooperava a dette operazioni. Restarono leggermente feriti anche Paola Lucia Montinaro (madre di Lina Tommasi), Vincenzo Gabrieli e il sindacalista della CGIL, nonché assessore comunale, Brizio Niceta Di Mitri, tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro per prestare soccorso.

Nel pomeriggio del 13 giugno, la Prefettura informò il Ministero degli Interni sulla tragedia che si era consumata a Calimera:

Verso ore 7.30 stamane, Comune Calimera, mentre procedevasi, con regolare licenza, at disinfestazione tabacco in foglie fabbrica Villani Costantino, mediante impiego solfuro carbonio, per cause non ancora accertate, sviluppavasi violento incendio causato da combustione gas. Circostanza sette persone riportavano gravissime ustioni et intossicazione, per cui venivano ricoverate presso Ospedale Civile con prognosi riservata. Di esse due versano imminente pericolo vita, mentre condizioni altre permangono gravissime. Successivamente altre cinque persone venivano ricoverate stesso nosocomio per intossicazione, ma loro stato non est preoccupante. Sul posto si sono recati immediatamente Vigili Fuoco per operazioni soccorso et spegnimento incendio. Autorità Giudiziaria, collaborazione Organi Polizia, procede accertamenti per stabilire cause grave sinistro. Ho visitato degenti Ospedale Lecce et disposto assistenza at favore famiglie infortunati […][2].

 

Il Comune (era sindaco Giovanni Aprile) si accollò le spese per i funerali delle povere vittime[3].

Si trattò di una tragedia annunciata, come risulta dal verbale redatto dall’ingegnere Antonino Fiorica, comandante dei Vigili del Fuoco di Lecce, che denunciò la mancata osservanza delle più elementari norme in materia di sicurezza e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, con riferimento soprattutto al DPR n. 547 del 27/4/1955 e al R.D. n. 147 del 9/1/1927; nel verbale inviato al Ministero degli interni e alla Prefettura, si legge, tra l’altro:

[…] Il locale dove si effettuava la disinfestazione è costituito da due grandi vani al primo piano ai quali si accede attraverso un vano di disimpegno che comunica con un’unica scala. Essi vani sono sovrastanti ad abitazioni ed i locali del pianoterreno adiacenti a queste ultime sono anch’essi adibiti ad abitazioni. Ai magazzini del primo piano si accede attraverso una scala a sbalzo in pietra leccese, che smonta ad un pianerottolo antistante al vano di disimpegno. I locali per disposizione dell’Ufficio Compartimentale Tabacchi sono dotati di un solo accesso e privi quindi di altra uscita, che, in caso di sinistro, possa servire come uscita di sicurezza nell’eventualità che venga a trovarsi ostruita la normale via di accesso (art. 13 del decreto DPR 27/4/1955, n. 547). Ciò si è verificato nel caso che si espone. Quella mattina si stava procedendo alla disinfestazione del locale con solfuro di carbonio, il quale venendo adoperato per le specifiche proprietà tossiche, è soggetto alla regolamentazione di cui al R.D. 9/1/1927 n. 147. Il titolare del magazzino, pertanto, in ottemperanza a quanto disposto dal sopracitato R.D. si era rivolto alla ditta Perrone e Colopi al fine di disinfestare sia il locale che il tabacco con solfuro di carbonio, il quale passando allo stato gassoso emette vapori tossici ed infiammabili. Essi vapori mescolandosi all’aria in determinate percentuali possono provocare anche esplosioni […]. Le operazioni relative all’impiego del gas tossico erano state iniziate alle ore sette circa, in assenza del Direttore Tecnico, e senza aver provveduto ad allontanare dai locali il personale non abilitato alla esecuzione delle operazioni relative all’impiego del gas tossico, come disposto dall’art. 46 del sopracitato R.D. Sembra anzi che gli operai si trovavano nell’interno del locale per aiutare il sig. Martina, unico abilitato alle operazioni di impiego del gas tossico, a trasportare e depositare sulle ballette di tabacco i recipienti contenenti solfuro di carbonio. E’ stato rilevato inoltre che nessun cartello con lo scritto “E’ vietato l’ingresso, Pericolo di morte”, […] era stato apposto all’ingresso dei locali. Gli operai non erano stati dotati di apparecchi per la protezione individuale contro l’azione tossica del gas (art. 40 R.D. sopracitato) e nemmeno tali apparecchi si trovavano nel locale, come prescritto dall’art. 369 del decreto del Presidente della Repubblica del 27/4/1955, n. 547. I recipienti in cui era stato trasportato il solfuro di carbonio non portavano i contrassegni relativi all’infiammabilità e alla tossicità del gas. L’incendio del solfuro di carbonio che ha causato le ustioni e le intossicazioni degli operai che si trovavano all’interno del locale si è verificato mentre si procedeva al travaso del liquido infiammabile da un fustino metallico in recipienti di latta. Detta operazione di travaso veniva effettuata sul pianerottolo della scala, antistante all’unico accesso ai locali per cui gli operai che si trovavano nell’interno si sono venuti a trovare con l’unica uscita sbarrata dalle fiamme e tutte le finestre chiuse e sigillate all’interno, con carta convenientemente incollata (per evitare fuoruscita dei vapori del solfuro di carbonio) e sbarrate con rete metallica e robusta cancellata in ferro all’esterno […][4].

 

La relazione indicava come possibili cause dell’incendio «l’incauto uso di fiamme libere sulla scala e nell’androne di ingresso sito al piano terreno», o le scintille provocate dallo «strofinio dei cerchi metallici del fustino con il pavimento del pianerottolo», o quelle provocate «dall’urto del fusto con i barattoli metallici» oppure le scintille provocate «dall’urto di scarpe chiodate o forzate con il pavimento in cemento»[5].

Lucia Di Donfrancesco, costretta a continui ricoveri negli Ospedali di Lecce, Bari e Napoli a causa dell’intossicazione patita, il 13 gennaio del 1961 indirizzò un accorata appello al prefetto per lamentare le gravissime condizioni di salute ed economiche in cui versavano lei e i propri genitori (Brizio Maria e Maria Addolorata Lefons che erano entrambi anziani e pensionati):

[…] Sua Eccellenza signor Prefetto, anzi tutto mi scuso se mi rendo seccante, avevo saputo che doveva venire la Signoria Vostra a Calimera ed avevo mandato la mamma sul municipio ma invece le hanno detto che per questa domenica non l’è stato possibile, le cerco una preghiera quando verrà a Calimera che vorrei parlarle direttamente, sono sempre la solita martire che venne a trovarmi all’ospedale di Lecce, mi portarono di nuovo a Napoli credendo di migliorare, ma invece ho peggiorato son tornata di nuovo a Calimera che proprio oggi sono trascorsi 7 mesi di pene, è già un mese che sono a casa mia, con la mia vecchia mamma che mi assiste e mio padre pure è vecchio, ci campiamo con la loro vecchiaia, fin adesso ho avuto solo il suo aiuto e pregherò sempre per la sua bontà, non dimenticate che una sua visita è forse la mia salvezza desidererei tanto vederlo un’altra volta giacché speravo una mia guarigione per venire io personalmente a ringraziarlo di tutto, ma non ho più speranza sto peggio di prima, e di nuovo con l’ossigeno, e non so ancora quando finisco di soffrire, sono molto stanca. Le chiedo con tutto il cuore un suo conforto e se non le sarà possibile almeno un suo scritto che da oggi conto i giorni che ho scritto, aiutatemi. Distinti saluti, Lucia Di Donfrancesco, via Martano n. 55 […][6].

 

Il successivo 17 marzo, Lucia scrisse nuovamente al prefetto:

[…] Sua Eccellenza signor Prefetto. Anzi tutto chiedo scusa se mi rendo seccante, sono Lucia Di Donfrancesco l’operaia che sono stata la più grave di tutte, credo che si ricorda quale sono, che Sua Eccellenza è venuta pure a trovarmi all’ospedale di Lecce, avevo scritto due mesi or sono ma non ho avuta riposta, se fossi in condizioni un po’ migliorate sarei venuta a trovarlo personalmente, ma le condizioni di salute non lo permettono, la prego ancora di non dimenticarmi che ho tanto bisogno ci campiamo con la vecchiaia dei miei vecchi genitori, non so a chi rivolgermi, la prego aiutarmi, non credo che non si ricorda chi sono, l’operaia del magazzino incendiato di Calimera […][7].

 

Lucia Di Donfrancesco cessò di vivere il 14 gennaio del 1962. Fu la sesta vittima dell’immane tragedia che aveva colpito Calimera il 13 giugno del 1960; non risulta che alle sue accurate lettere il prefetto avesse mai risposto. Qualche giorno dopo la sua morte, egli comunicò al sindaco che aveva disposto a favore dei genitori (74 anni il padre e 68 la madre) l’erogazione di un contributo di lire 50.000 e lo pregò di porgere loro il proprio cordoglio[8].

Note

[1] Sul drammatico episodio di Tricase, S. Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà, Giorgiani, Castiglione 2015.

[2] Asle, Prefettura, Gabinetto, II versamento, b. 266, fasc. 3111 (telegramma del prefetto Di Cuonzo).

[3] Ivi, comunicazioni del prefetto e del comandante della Compagnia provinciale dei Carabinieri Aldo Favali; la Prefettura e l’APTI erogarono un contributo alle famiglie delle vittime e a quelle di coloro che erano stati ricoverati.

[4] Ivi, relazione redatta il 20/6/1960.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, lettera del 13/1/1961.

[7] Ivi, lettera del 17/3/1961.

[8] Ivi, lettera del 15/1/1962.

Il tabacco raccontato con garbo in un libro di Salvatore Colazzo

Spongano (ph Giuseppe Corvaglia)

 

di Giuseppe Corvaglia

Per uomini e donne della mia età l’infanzia e l’adolescenza, in estate, si riempivano di frutti della terra succulenti e saporiti: fichi, meloni, uva, angurie, cucummarazzi, pomodori, persichi , albicocche… c’era però un frutto che frutto non era, anche se ugualmente una risorsa importante per le non brillanti economie salentine: il tabacco.

Il tabacco nel nostro vissuto era amico, o almeno conoscente, tiranno, ma anche speranza (quanti motorini per gli adolescenti dipendevano dalla stagione), levatacce alle quattro di mattina e mani sporche di unto amarognolo che si puliva a fatica dalle pieghe della pelle. D’estate diventava cornice alla vita del paese. In ogni angolo c’erano talaretti con le file di tabacco infilato.

Per raccoglierlo al mattino bisognava alzarsi prestissimo e quando il sole saliva nel cielo, ci si sedeva per terra all’ombra delle limese e si trafiggevano le larghe foglie con le acuceddhre per fare le file da stendere al sole. Era davvero una compagnia discreta, uno di famiglia ormai, piacesse o no, da gestire, ma anche da coccolare, da proteggere da quattru nziddhri di pioggia fugace come dalla muntura della notte.

Contadine mettono a dimora le piantine di tabacco (ph Oronzo “Oro” Rizzello)

 

All’epoca non avremmo pensato che sarebbe scomparso dal Salento. Molte famiglie lo producevano e molte si spostavano nel Tavoliere delle Puglie o nel Metapontino per coltivarlo.

A quei tempi la sigaretta era un piacere, un sollievo facile da ottenere per gli adulti, e un modo per sentirsi grandi, una sottile ribellione per i ragazzi.

Anche gli attori fumavano nei film, come nei caroselli pubblicitari, i vecchi e il sigaro sembravano una cosa sola e inscindibile e le bionde sigarette erano anch’esse irrinunciabili.

Gli emigrati al ritorno per le feste portavano cioccolate per i piccoli e sigarette per i grandi. Dalla Francia le sigarette erano le famose Gauloise e dalla Svizzera le Marlboro e le Muratti della Philips Morris molto diffuse anche con il contrabbando.

A raccontarlo oggi non sembra neanche vero, direbbe Francesco De Gregori, invece oggi le sigarette non sono più uno status symbol, un segno distintivo di prestigio, di sicurezza, di classe, sono viste con sospetto: sono indice di vizio, provocano ictus, malformazioni neonatali, infarti, forse anche la “guerra atomica”. In realtà è ben noto come il tabacco crei dipendenza ed è ben noto come il fumo nuoccia alla salute specie quando finisce di essere piacere occasionale e diventa ossessione, vizio, perché, come dicevano gli antichi, “Bacco, Tabacco e Venere / riducon l’uomo in cenere”.

Oggi non si fuma più nei locali pubblici, non si fuma nemmeno nei parchi, ma nemmeno in casa o in macchina. Per fumare si esce sul balcone, ci si ferma alla piazzola di sosta… l’unico posto rimasto tradizionalmente “affumicato” è il bagno delle scuole. Anche l’ONU ha istituito la Giornata senza tabacco che si celebra il 31 maggio

Da alcuni anni Tabacco nel Salento non se ne coltiva più. Non perché lo vieti il monopolio, ma perché non ne vale più la pena.

Ogni tanto qualcuno ne parla con nostalgia dimenticando cosa significava lavorarlo, quali fatiche, quali impegni comportasse, ma a me è rimasta sempre la curiosità di saperne di più, di andare oltre le cose che avevo visto con i miei occhi di ragazzo. (sappiamo che curiosità deriva dal latino “cur”, perchè)

Molti di questi perché ce li spiega un libro davvero molto interessante “I tabacchi orientali del Salento- Quattro storie e loro dintorni.” (Giorgiani Editori – Novembre 2017- 157 pag. 10 €) di Salvatore Colazzo, un agronomo di Collepasso, che con passione racconta la storia del Tabacco, dalla sua scoperta nelle Americhe al Novecent,o con l’interessante ed efficace presentazione di Mario Toma, che inquadra il fenomeno del tabacco dal punto di vista sociologico.

Il libro non è il solito libro che parla degli aspetti della coltivazione, della vita che menavano i contadini, della fatica, dei disagi e delle oppressioni, ben noti ormai, ma ci apre un mondo e ci fa conoscere il tabacco come storia, come pianta, come fenomeno di costume ed evento economico delle nostre terre e del mercato mondiale, come oggetto di desiderio e bene voluttuario.

Colazzo ce ne parla come se raccontasse la storia di un vecchio amico e nel raccontarla ci svela tanti particolari, non solo della pianta in sé, o delle fasi di lavorazione, ma anche di come si sia diffusa dal sedicesimo secolo nel mondo, del perché sia stata apprezzata e si sia diffusa in tutte le classi sociali, di come sia stata una risorsa capace di affossare o rialzare l’economia e di come la stessa pianta sia stata adattata dalla botanica e dalla genetica ai gusti delle persone.

Ci racconta storie di politica incapace che cede le armi a imprenditori avidi vampiri e storie di imprenditori coraggiosi capaci di fare scelte ardite, sicuramente utili alle proprie sostanze, ma pure capaci, con produzioni innovative, di dare pane e guadagno anche alle classi contadine.

La prima storia che ci racconta è quella di questa pianta che arriva in Europa e inizialmente viene utilizzata solo a scopi medicinali da frati erboristi per poi diventare genere voluttuario o ridotto in polvere e fiutato, o avvolto in sigari e fumato o anche appositamente acconciato e masticato.

Del tabacco si apprezza il rude sapore, ma anche il tono che dà (la nicotina è un alcaloide stimolante il sistema nervoso centrale già noto per queste virtù agli indigeni americani che lo usavano per raggiungere una condizione di trance).

Poi ci parla del tabacco salentino e si scopre che non era quel tabacco dai nomi esotici che conosciamo, ma un tabacco che si chiamava Cattaro riccio o Brasile salentino che nemmeno si fumava, ma era buono per ottenere delle ottime e pregiate polveri da fiuto, prodotto che, passando di moda il gusto per le tabacchiere, con la diffusione delle sigarette, manderà in crisi tutta la tabacchicoltura salentina.

Colazzo è molto bravo a raccontare della diffusione sempre maggiore del tabacco in tutto il mondo, dell’evoluzione dei gusti con il sopravanzare della preferenza per il fumo all’uso di tabacchi dal gusto meno forte e più gradevoli . Quindi ci racconta della grande produzione degli Stati Uniti, ma anche del progressivo affermarsi dei tabacchi prodotti nell’area dei Balcani, chiamati turchi o orientali, tali da surclassare il tabacco americano che pure aveva creato il mercato del fumo, così da essere richiesti per migliorare le miscele degli stessi prodotti americani (il primo a miscelarli fu proprio l’americano Philip Morris).

Racconta anche di come lo Stato Italiano fece propria questa produzione avocando a sé la gestione, la produzione e la vendita, creando la Privativa di Stato per il Monopolio di Sali e Tabacchi.

Ci racconta pure, però , di come col tempo lo Stato mostrò di non saper gestire bene la cosa e di come scelse di affidare a una società di imprenditori privati, chiamata Regia Cointeressata (1869), la produzione del tabacco mantenendo il monopolio della distribuzione e della vendita.

I privati cercarono di rendere efficiente la produzione combattendo il contrabbando, che per gli agricoltori era un mezzo per arrotondare i miseri guadagni, ma, essendo loro a stabilire il prezzo e la qualità del raccolto, lucrarono sul prodotto pagando il tabacco ai contadini come di seconda classe per poi usarlo nelle miscele dei sigari come di prima classe.

Questo portò un guadagno effimero perché, in realtà, fece distogliere i contadini dal produrlo e ben presto quegli stessi mezzi che dovevano portare a una maggior efficienza e guadagno diventarono la ragione di perdite per gli imprenditori stessi della Regia Cointeressata e per lo Stato, che aveva il monopolio e doveva produrre il tabacco per fare i sigari. Non disponendo della materia prima, dovette importare il prodotto dall’estero a discapito della bilancia commerciale. Come dire che a voler solo guadagnare speculando si va a perdere tutto: insomma chi troppo vuole nulla stringe.

A questo punto il Colazzo ci racconta due cose anch’esse molto didascaliche: una racconta come lo Stato riprese in mano anche la produzione rilevandola dai privati allo scadere della concessione, e di come, questa volta, investì nella scienza e nella sperimentazione affidandosi ad esperti come Orazio Comes e Angeloni, esperti e botanici di rango, che cercarono di trovare qualità più adatte alla produzione nazionale e al gusto del mercato compatibili con il nostro clima e la nostra terra.

La seconda storia parla di un pioniere deciso e lungimirante il Principe Gallone.

Con la crisi della tabacchicoltura si cercò di trovare delle nuove strade per uscirne. La Camera di Commercio di Lecce fu autorizzata a sperimentare sulla produzione di tabacco, ma si fissò sulle vecchie specie locali, finché un imprenditore illuminato, il Principe di Tricase Giuseppe Gallone, Senatore del Regno, ottenne il permesso di sperimentare nella tabacchicoltura e, collaborando con imprenditori di Salonicco, importò e produsse alcune varietà di tabacchi levantini che nel nostro Salento attecchivano bene, tanto poi da diventare colture pregiate e consentire al Monopolio di non importare più del dovuto tabacchi pregiati dall’estero e rilanciare la produzione del tabacco nel Salento. All’epoca Salonicco era un porto da dove passava quasi tutta la produzione dei tabacchi pregiati orientali perché vicino alla Erzegovina alle città come Xanti e Saluk e lì si poteva imparare la coltivazione di quelle piante e procurarsi le sementi di quelle varietà.

Sen. Giuseppe Gallone Principe di Tricase e Moliterno

 

L’esperimento riuscì e varietà come Erzegovina, Xanti Yaca, Perustitza e Sallucco, diventarono di casa.

Nel libro si parla ancora di altri pionieri che per migliorare la produzione ibridarono specie americane, come il Kentucky con le specie salentine contro le opinioni comuni, qualche volta irridenti, poi smentite dai risultati.

La storia si ferma alla fine dell’800. Continuare avrebbe richiesto un altro libro e questo probabilmente accadrà in un’altra pubblicazione che Colazzo saprà regalarci.

 

http://www.salogentis.it/2013/06/17/tabacco-e-tabacchine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/01/la-coltivazione-del-tabacco-da-fiuto-sun-di-spagna-nel-salento/

https://issuu.com/salvy/docs/i_suoni_del_tabacco/10

https://www.youtube.com/watch?v=7KV0Lir4gMI min.1-min 7

https://carmiano.wordpress.com/2017/05/30/il-tabacco-attivita-produttiva-del-secolo-scorso-a-carmiano/

 

Spezzoni di vita salentina all’insegna del tabacco

 tabacco3

 di Rocco Boccadamo

Antefatto. Qualche giorno fa, mi è casualmente capitato di visionare, sul computer, un vecchio video in bianco e nero, realizzato dalla RAI nel 1953, dedicato alla coltivazione e alla lavorazione del tabacco nel Salento, a cura del mitico giornalista e inviato Ugo Zatterin, inconfondibile la sua voce, e comprensivo di una serie d’interviste ad abitanti, soprattutto donne, del Capo di Leuca.

Documento, a dir poco emozionante per uno come me, ragazzo di ieri dai radi capelli bianchi e soprattutto, in piccolo, già diretto spettatore, se non protagonista, di antiche sequenze di vita contadina, autentiche pagine di civiltà e di storia, scritte, con matita e tratti di dura fatica, dalla gente di questo Sud.

Ciò, accanto al ricordo ancora fresco delle vicende appena successive alla seconda guerra mondiale e, specialmente, della fase in cui si poneva inarrestabilmente avvio a una grande, radicale riscossa o rivincita.

Una mutazione, tale ultimo evento, affatto effimera e di facciata, accompagnata e enfatizzata, al solito, da proclami e discorsi di non disinteressati rappresentanti del popolo nelle istituzioni, di qualsivoglia schieramento, bensì reale, concreta, solida, progressiva, tanto da toccare, in un pugno di stagioni, sì o no un decennio, l’impensabile traguardo, riconosciuto al nostro Paese anche a livello internazionale, del cosiddetto e però autentico miracolo economico.

E, si badi bene, a ulteriore merito degli attori, all’epoca nessun regalo, nessuna congiuntura favorevole, nessuna fase di tassi o cambi o prezzi delle materie prime favorevoli, nessun influsso, insomma, di condizioni propiziatorie, cadute dall’alto o dal contesto globale.

Unicamente, un’immensa marea d’impegno civile e sociale, frutto di singole personali gocce di sudore, di fatiche intense e immani, d’impegno inconsueto, indescrivibile, una cascata di volontà e dedizione che non conosceva confini, né di orario lavorativo, né di luoghi, né di settori.

Per restare al tema narrativo odierno, il tabacco si appalesava con le sue diffusissime e onnipresenti gallerie di filari, esse stesse intrise di una forza naturale prodigiosamente eccezionale. Giacché i modesti germogli o piantine ricollocati dai vivai nel grembo delle rosse e/o di colore grigio bruno zolle, crescevano, si elevavano sino a raggiungere, talora, l’altezza delle creature umane, uomini, donne, anziani, ragazzi, ragazzini, adolescenti, uno schieramento senza età e senza tempo che accudiva le piantagioni con amore, a modo suo appassionato, dedicandosi, sperando e, nello stesso tempo, emanando interminabili rosari di stille di sudore.

La storia, o avventura, della coltivazione del tabacco, vengono a mente le sue varietà Erzegovina, Perustizza, Xanti yakà, prendeva abbrivio con l’assegnazione, da parte dei Monopoli di Stato, di un’area prestabilita su cui si poteva piantare, più o meno piccola, quando non sacrificata, a seconda delle dimensioni delle proprietà agricole dei richiedenti. Concessione diretta, oppure, nel caso di messa a dimora colturale da svolgersi in regime di mezzadria, indiretta, con la relativa pratica espletata, in tale ipotesi, a cura di grossi proprietari o latifondisti che, a loro volta, trasferivano i permessi ai loro coloni.

A seguire, la semina, con relativi vivai o ruddre contraddistinti anche dalla sistemazione, sui cordoli perimetrali di fertile terra concimata, di centinaia o migliaia di piantine di lattuga (insalata), che successivamente, per, alcuni mesi, avrebbero rappresentato un non trascurabile contributo per la gamma di pietanze delle povere mense contadine.

Poi, la piantagione vera e propria, la zappettatura e, finalmente, il graduale raccolto, partendo, giorno dopo giorno o a brevi intervalli, dalle foglie più basse rispetto al terreno (1^, 2^, 3^, 4^, 5^ raccolta).

Intanto si susseguivano le stagioni, arrivando ad abbracciare, fra semina e raccolto, una buona metà del calendario, ovvero l’arco da fine gennaio ai primi di agosto.

Non sembri retorica, ma, con nostalgia ed emozione, si potrebbe fare un accostamento approssimativo rispetto all’umana gestazione. In fondo, così come dal seme dei padri e dal grembo femminile si attendeva, come tuttora si attende, lo sbocciare e l’arrivo di una creatura sana e bella, parimenti dalla semina del tabacco si aspettava, con fiducia e ansia, il germoglio e la crescita di piante/foglie belle, sane, forti e fruttuose.

Un vero e proprio impegno a doppia ripresa, sempre all’insegna della fatica, consisteva nello stacco, di buon mattino, immediatamente dopo l’alba, delle foglie verdi e ancora umide di rugiada  dagli steli delle piante, badando a rispettare rigorosamente la platea dei filari; quindi, da metà mattinata, nell’infilaggio delle medesime in lunghe, piccole lance (cuceddre) per la formazione di pesanti file/assemblaggi, che, appese man mano a rudimentali telai  in legno (talaretti o tanaretti), sarebbero state a lungo fatte essiccare sotto il sole.

Non senza saltuari interventi delle persone accudenti, sotto forma di corse sfrenate, di fronte a pericoli o imminenza di acquazzoni, onde trasportare le anzidette attrezzature e i preziosi contenuti al coperto di capannoni o rifugi rurali.

Una volta, il prodotto, divenuto secco, con le file si formavano i chiuppi, per rendere l’idea una specie di grossi caschi di banane, tenuti appesi, per un’ulteriore maturazione o stagionatura del tabacco, ai soffitti dei locali.

E, alla fine, lo stivaggio del tutto in grosse casse di legno e la loro consegna, per la lavorazione finale delle foglie, alle “manifatture” o magazzini, in genere gestiti, dietro concessione da parte dei citati Monopoli di Stato, a cura di operatori abbienti, soprattutto proprietari terrieri, dei vari paesi.

All’interno dei magazzini, le donne, in certi casi a partire dalla giovanissima età e sino a raggiungere ragguardevoli carichi di primavere, dopo le fatiche richieste dalla coltivazione e dall’infilaggio delle foglie verdi, riprendevano a lavorare a giornata per due/tre mesi all’anno.

Così, fra una stagione del tabacco e la successiva, si procreavano figli, si stipulavano fidanzamenti e celebravano matrimoni, grazie anche ai nuovi “frabbichi” (case di abitazione), per i giovani maschi, e ai corredi, per le femmine, realizzati proprio mediante i sudati profitti che era dato di trarre dalla coltivazione e vendita del tabacco.

La scenografia dell’attività in parola era anch’essa ambivalente, nel senso che, talora, l’ambientazione rimaneva totalmente circoscritta in loco, nei paesi e nelle campagne del Salento, mentre, in altri e diffusi casi, si spandeva su plaghe distaccate e distanti, a partire dagli ultimi territori verso sud ovest della provincia di Taranto, sino a una lunga sequenza di località del Materano.

Nel secondo contesto, avevano luogo, mercé l’ausilio di grosse autovetture noleggiate con conducente, vere e proprie migrazioni temporanee di numerosi interi nuclei famigliari: dalla mente di chi scrive, giammai si cancellerà l’immagine delle considerevoli partenze di compaesani marittimesi, per il tabacco, nelle primissime ore del 29 aprile, il giorno immediatamente successivo alla festa patronale di S. Vitale.

Riprendendo l’antefatto al primo rigo delle presenti note, nel documentario di Zatterin, le sequenze erano girate interamente dalle mie parti.

Sennonché, ieri, nel compiere un viaggio in auto con i miei famigliari per una breve vacanza sul Tirreno, è stato per me come veder girare ancora un analogo documento, improntato a nostalgia e amore per il sano tempo lontano, che tanto mi ha dato e lasciato e, perciò, mi è fortemente caro.

Ciò, scivolando lungo la statale 106 Ionica e i primi tratti della 653 Sinnica, e scorrendo e leggendo le indicazioni segnaletiche di Castellaneta, Ginosa, Metaponto, Marconia, Scanzano, Bernalda, Marconia, Pisticci, Casinello, Policoro, Montalbano Ionico e via dicendo.

Non erano, almeno per il mio sentire, meri appellativi di paesi e contrade. Invece, generavano l’effetto di immagini palpitanti, con attori, non importa se in ruoli di protagonisti o di comparse, identificantisi nella mia gente di ieri e, in fondo, in me stesso.

 

Congedo dalla bella estate salentina, sui passi di Luca

di Rocco Boccadamo

 

Pur avendo dovuto attendere a lungo, praticamente fino a metà settembre, la caduta di un po’ di pioggia salutare, arrivando, a un certo punto, addirittura a sospirarla e agognarla da mattina a sera, qui, nel Basso Salento, l’andamento eccezionalmente favorevole sotto il profilo climatico, costante per l’intera bella stagione, è stato, nel complesso, deciso motivo di gioia, godimento, appagamento e soddisfazione.

Per di più, circostanza che, a esser precisi, si ripete sovente se non proprio tutti gli anni, accompagnato da un gradito e piacevole prolungamento. Ancona tre giorni fa, si registravano, infatti, massime vicine ai trenta gradi, onde quiete, in alto neppure l’ombra di una nube, in molti, non solo turisti del Nord Italia e/o stranieri ma anche residenti, facevano o prendevano i bagni. Insomma, si sono appena assaporati i primi segni, profumi e colori dell’autunno, a cominciare dall’aria divenuta frizzantina e, però, nella parte mediana della giornata, rimasta tiepida e gradevole.

Ad ogni modo, cielo e mare ancora adesso incantevoli.

Oggi pomeriggio, limitando la durata del riposino, ho voluto, come dire, accostarmi a tanto splendore naturale e immergermi nell’accattivante situazione attraverso una tranquilla e lunga passeggiata, che, davvero, mi ha rigenerato.

Sia per il rosario d’impatti e di visioni del momento, sia grazie alla suggestione, affacciatasi durante tutto il percorso, di una serie di ricordi, soprattutto antichi ovvero risalenti alla mia infanzia o adolescenza o esordiente giovinezza e, tuttavia, nitidi e pronti a delinearsi e stagliarsi nella mente e davanti agli occhi del ragazzo di ieri, come se afferissero a episodi, voci e volti del presente

Prima sequenza attrattiva dell’uscita, a poche centinaia di metri dalla mia villetta del mare, l’incontro, segnato da un vero e proprio saluto ideale, con i due carrubi giganti del fondo denominato “Mastefine, da me frequentato già ai tempi delle Elementari insieme con il mio compagno di classe Vittorio, i cui genitori, all’epoca, conducevano detto appezzamento di terreno in regime di mezzadria.

Poi, anche da più grandicello, quando erano i miei zii Nina e Guglielmo a coltivarvi una partita di tabacco e io ogni tanto andavo a trovarli; dopodiché, seduto a terra insieme con loro in un grande capannone rustico a tutt’oggi esistente, li aiutavo a infilare in un lungo ago, in dialetto cuceddra, le grandi foglie verdi raccolte nelle prime ore del mattino e ammucchiate sul pavimento.

infilzamento-foglie-tabacco

Poco più avanti,

Si ponga attenzione al termine, anzi citato, di mezzadria, il cui significato, secondo il dizionario, è il seguente: “Contratto agrario, in base al quale un proprietario o affittuario terriero (concedente) assegna al socio – colono un podere idoneo alla produzione agricola, già dotato di abitazione per la residenza stabile del coltivatore (ricevente) e della sua famiglia virgola, di entità proporzionata alla misura del suolo da coltivare; il colono s’impegna a lavorarlo e partecipa con i familiari alle spese di gestione e agli utili nella misura del 50%.”

Il principio della divisione paritaria di oneri e utili ha subito cambiamenti, nel tempo, col variare della forza contrattuale delle parti contraenti.

Nel corso di queste note, la parola mezzadria sarà ripresa ancora, accanto ad altre esemplificazioni di vita contadina e lavori nei campi, alla luce delle quali emergeranno sostanziali differenze, da caso a caso, in seno al rapporto, non solo interpersonale ma anche, e specialmente, in termini economici, tra “padroni” e mezzadri.

Cioè a dire, la bilancia sul tema non oscilla affatto con movimenti sempre uguali, in talune situazioni vengono fuori sparuti rivoli d’umanità, in altre, invece, atteggiamenti e comportamenti di severità e rigore se non d’intransigenza meramente egoistica, beninteso con oneri vie più pesanti a carico della parte debole.

°   °   °

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Poco più avanti di ”Mastefine”, ecco il canalone dell’Acquaviva, così detto giacché va a terminare e sboccare giustappunto nell’omonima affascinante rada.

Alcuni decenni fa, il camminamento è stato in parte intaccato per effetto dell’edificazione, sulla sponda a nord-ovest, di un villaggio turistico residenziale, ma, ciononostante, continua a raccogliere buona parte dell’acqua piovana che cade sul territorio di Marittima, dando luogo, quando le precipitazioni sono intense e si protraggono, a rumorosi gorghi.

La vegetazione è sopravvissuta in maniera e misura accettabili: a dominare, mirti, querce e numerosissimi arbusti di ailanto.

Quando la direttrice viaria Marittima – litoranea consisteva in un tratturo sconnesso e ricoperto da brecciolino, il canalone era una vera e propria pietra miliare, anche come punto di riferimento rispetto alle confinanti e/o attigue piccole proprietà contadine, talora arricchite da costruzioni in pietra, che, durante le stagioni dei raccolti, fungevano da abitazioni per molte famiglie paesane, le quali non si potevano permettere il lusso di perdere tempo in spostamenti quotidiani di andata e ritorno fra la casa del paese e la campagna.

Detti, frazionati poderi recano, tutti indistintamente, la medesima denominazione di “Oscule”, in riferimento al non distante bosco dell’Acquaviva; fra i compaesani proprietari, vengono alla mente Luca (sul suo terreno insisteva una graziosa pajara in pietra viva, con, accanto, un bel mandorlo, Cosimo ‘ u surge e Cirinu ‘u tatameu.

Il canalone segnava, e tuttora segna, pure l’inizio di un particolare comprensorio terriero –  rocce frammiste a risicati quadrati di terra – con la caratteristica del graduale, progressivo rialzamento dell’area, alla stregua di sua trasformazione in collinette, procedendo in direzione Nord Est, estensione identificata, forse da secoli, con l’appellativo “Acquareddre” (piccole acque).

Ovunque, di qua e di là, come, del resto, nella generalità delle campagne salentine e, mette conto di rimarcare, specialmente del Capo di Leuca, templi di fatica e sudore e, tuttavia, arene di lotta per il sostentamento dei nuclei famigliari, altrimenti non assicurabile, in particolare nei periodi non coperti dalle migrazioni temporanee nel Brindisino, nel Tarantino o in Basilicata, per lavori negli stabilimenti vinicoli, nei frantoi e relativi alla coltivazione del tabacco.

L’imbocco del canalone, sino ad alcuni decenni passati, aveva un nome dialettale ben preciso, “musatura” (imboccatura),  come per sottolineare che, in quel punto,  si passava dal tratto viario ad uso di traini e carri, a un attraversamento possibile esclusivamente a piedi e badando a non incorrere in scivolate e cadute fra una grossa pietra e l’altra, oppure nella fitta rete di arbusti affiancati e intrigati; come, purtroppo, in occasione di una camminata in direzione dell’Acquaviva, capitò a me, quando avevo intorno ai dieci  anni, col risultato di una non grave ma vistosa ferita sulla fronte e, ciononostante, lo strenuo rifiuto a tutto campo del piccolo ma discoletto malcapitato di farsi accompagnare dal medico condotto del paese, per la paura, o meglio il terrore, di qualche punto di sutura che   il sanitario avrebbe verosimilmente deciso di applicare.

Rammenta e mi riferisce il mio caro amico contadino Toto, ottantasettenne ma attivissimo che, spesso, nei pomeriggi o nelle giornate in cui non c’era scuola, era mandato nel fondo delle “Pezze” per badare a una mandria di vacche. Sostando in quella postazione, gli succedeva di notare innumerevoli scene di fatica che si svolgevano nelle proprietà agricole per opera di compaesani, sforzi fisici immani ma che, allora, erano la regola, fra cui, dice Toto, il trasferimento a spalla dei covoni di cereali, cinque alla volta se si trattava di adulti, tre se si trattava di ragazzini, falciati nelle campagne soprastanti o che si succedevano dietro alle “Acquareddre”, carico da portare fino alla strada percorribile dal traino, che si fermava proprio alla “musatura” del canalone.

Fra dette sequenze, ve n’è una riguardante un ragazzo di quattordici/quindici anni, il quale  poi, divenuto maggiorenne e arruolatosi  nella Polizia  di Stato, è andato a vivere a più di mille chilometri di distanza da Marittima.

Ritorna ogni anno, una o più volte, l’ormai anziano pensionato già con gli alamari e, nelle rimpatriate con i compaesani, non gli sfugge mai il ricordo delle sue dure e pericolose scarpinate (anche se non è proprio giusto chiamarle così, in quanto, di fatto, si andava sempre scalzi) per salire e scendere dalle “Acquareddre”’, con il padre che lo caricava dei suoi tre covoni di cereali.  A causa dei frequenti inciampi contro qualche sasso o roccia, precisa il buon uomo, sebbene siano passati più di sessant’anni dai fatti, porta con sé ancora le tracce di qualche unghia dei piedi saltata o “scoppulata”, come i dice da noi, e mai perfettamente ricresciuta e riformatasi.

Luca, mio gemello di cognome in quanto primo cugino del mio nonno paterno Cosimo (al pari di Donato ‘u culiniuru, Costantino e Toto ‘u pulinu e di un certo Caianu), era un uomo dotato di grande giovialità, il classico amicone, anche se gravato, come, del resto, tutti, dal peso del lavoro sulla terra rossa e, in più, condizionato pure da un grave difetto o imperfezione nel camminare, non so se dipendente da un motivo congenito o dai postumi di qualche infortunio o caduta non curati adeguatamente.

In altri termini, Luca, nel compiere i passi, non sollevava ritmicamente i piedi, ma li trascinava sul terreno: ciò, innanzitutto, gli costava più fatica rispetto alle altre persone, inoltre quel contatto permanente col terreno lo esponeva al rischio d’inciampi e di farsi, conseguentemente, male.

Ma, Luca, non faceva notare il suo handicap, praticamente se ne scordava oppure ci rideva sopra.

Grande affetto e rispetto, analogamente a quanto avveniva nei tempi andati fra tutti i cugini, legava Luca a nonno Cosimo e pure i rispettivi figli erano un tutt’uno tra loro, si trattavano, come si diceva all’epoca, si rivolgevano gli uni agli altri non appellandosi per  nome di battesimo, bensì con l’attributo “parente” o “cucinu” (cugino).

A conferma della vicinanza fra i suddetti, mi viene in mente che mio zio R., militare in Marina di stanza a La Maddalena,  fu informato con una lettera dalla nonna Consiglia che il secondo cugino P., innamorato di una giovane compaesana molto avvenente ma un po’ chiacchierata, nei limiti e sul metro dei costumi di quegli anni, aveva fatto la classica fuitina. A tale notizia, zio R. rispose con un suo commento, anch’esso comprensibile solo se lo si rapporta alla mentalità dominante in tali lontane stagioni: “Male ha fatto, P., a compiere questo passo, chissà come potranno andare a finire le cose”. Per la verità, l’unione tra quella coppia prosegui assai bene, anche se, purtroppo, alla signora, della quale mi sfila davanti agli occhi il bellissimo volto, toccò il destino di congedarsi dal coniuge prematuramente.

Gran parte dei terreni dell’agro marittimese erano di proprietà di tre/quattro famiglie benestanti, fra loro imparentate, portanti il nomignolo di ”Scianni” di origine e etimologia incerta.  Guarda caso, anche un particolare genere di pesci delle nostre parti, di dimensioni piccole ma saporito per la zuppa, di color rosa, marrone e rosso, è noto con il nome di “scianni”, esattamente come i citati possidenti; si distingue, tale specie ittica, per la rapidità e l’ingordigia con cui insegue gli ami e la derivante relativa facilità a catturarla.

Forse, un pesce un po’ fesso o bonaccione, si potrebbe dire.

I ricchi compaesani “Scianni”, in genere, non erano avari, né avidi, né approfittatori, quando concedevano le loro proprietà a mezzadria chiedevano ciò che gli spettava, senza però essere opprimenti o ossessivi nei confronti dei poveri coloni.

Mi relaziona sempre l’amico Toto, il quale ne sa ben più di me, sia per l’età anagrafica, sia per essersi trovato nella situazione di mezzadro, che era sufficiente ricordarsi dei padroni “Scianni”, farsi vedere, portar loro ogni tanto qualche primizia e, successivamente, tutto il resto rimaneva nella libera discrezione, buonsenso e onestà del mezzadro.

Non tutti i padroni, purtroppo, erano così, basti un esempio. La famiglia di nonno Cosimo, quando i figli, fra cui zio R., erano in piena salute e forza,  conduceva a mezzadria una zona nel feudo di “Capriglia” e vi coltivava tabacco, nella misura autorizzata dal Monopolio.

Ai margini dei relativi filari, i miei parenti avevano messo a dimora, come si soleva fare da parte di tutti i mezzadri e come ci ricorda molto bene lo scrittore ortellese Giorgio Cretì nei suoi racconti e romanzi, alcune piante di pomodoro, per coglierne qualche  frutto con cui condire una “frisella”, nell’evenienza di una sera in cui, per porre al riparo il tabacco in via di essiccazione, qualcuno della famiglia si fosse dovuto fermare a Capriglia.

tabacco2

Nella circostanza in questione, il “concedente” fece bruscamente notare ai miei parenti che il contratto con loro prevedeva esclusivamente la coltivazione del tabacco e nient’altro, dicendo, senza mezzi termini, che quelle piante di pomodoro non andavano bene, non rientravano negli accordi.

Ovviamente, mio nonno e gli zii spiegarono le loro buone ragioni, ma non vi fu verso; di lì a qualche giorno, il padrone ritorno a “Capriglia” e sradicò tutte le piante di pomodoro.

L’anno successivo, lasciata “Capriglia”, il nonno e gli zii avevano seminato grano  in un fondo di un altro proprietario.

Arrivato il tempo della mietitura e del raccolto, il “padrone” di “Capriglia” di cui prima, si offrì, come faceva con tutti i compaesani al fine di accaparrarsi la paglia che utilizzava come mangime per gli animali, di trasportare col suo traino la messe dal luogo di produzione ad un suo terreno su cui insisteva un’aia agricola.

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La trebbiatura, allora, aveva luogo con il supporto di un cavallo, che trascinava a lungo, all’interno dell’aia, grossi pesi fatti di pietre con cui si sbriciolavano le spighe, e di operai addetti alla “jentulatura”, i quali, sollevando in alto la messe sbriciolata servendosi di forconi di legno e grazie al vento, separavano il grano della paglia e dalla pula.

Alla notizia della fissazione dell’appuntamento sull’aia per il giorno dopo, zio R. si tenne libero, rinunciando ad andare a giornata e perdendo, quindi, il relativo salario. Giunti con i covoni sul sito della trebbiatura, nonno Cosimo e i figli s’accorsero però che avrebbero dovuto fare i conti con un ritardo, essendo appena iniziata la lavorazione di un’altra partita di frumento.

A quel punto, zio R. si lamentò con il padrone dell’aia, il quale, invero, non gli diede molto peso e, anzi, visto che doveva attendere il turno della sua messe, lo invitò ad aiutare gli altri. Ma zio R. , memore del comportamento tenuto dall’ uomo a Capriglia” e della fine da lui  fatta fare alle piante di pomodoro, gli rinfaccio il tutto, facendogli  fare una brutta figura, scornandolo davanti al gruppo di operai presenti.

Ritornando alla mia passeggiata, oltrepassate le “Acquareddre”, costeggio il fondo “Boschetto”, già detto “di Chiaro” (ora è del Comune), che, di primo acchito, mi riconduce a una gita scolastica, coprente l’orario delle lezioni in quarta elementare, col maestro Alfredo, il quale, nell’occasione, aveva invitato alla scampagnata la fidanzata Uccia, accompagnata a sua volta dalla sorella Sara.

La scolaresca, in grembiule nero e colletto bianco, era molto attenta alle spiegazioni dell’insegnante su flora e fauna tipiche del nostro territorio; tra un’illustrazione e l’altra, sì arrivò a incrociare e toccare con mano alcune piante di asparagi; in un baleno, ne fu raccolto un bel mazzetto per il bravo maestro.

La discesa mi sta facendo oramai approssimare alla litoranea Castro – Tricase, esattamente all’altezza della rada “Acquaviva”, quando sfioro un altro tassello di ricordi, nelle sembianze di un carrubo sotto il quale, nei pomeriggi delle festività marittimesi di San Vitale e della Madonna di Costantinopoli, mi portavo a piedi o in bicicletta, per alcune ore, facendo i compiti scritti e orali per l’indomani.

Nota similare sullo spartito dei ricordi, l’infilata di alberi di querce subito dopo il ponte sul canalone dell’Acquaviva, lì prossimo allo sbocco in mare, che, nel giugno di cinquantacinque anni addietro, scelsi come luogo di studio per la preparazione agli esami di Stato.

Facevo avanti e indietro sino al tramonto, i contadini che si trovavano a passare mi guardavano, per un attimo, meravigliati, ma immediatamente dopo mi gratificavano con un cordiale “Ciao,Rocco”.

Per concludere, l’Acquaviva, oggi, se ne sta magnificamente sola con se stessa, nel suo stupendo fascino naturale; con l’eccezione, solamente, di una figura d’uomo seduta sul limitare di una delle grotte, ora con gradevoli e civettuoli infissi color azzurro, poste alla sommità dell’insenatura. Locali in atto utilizzati come depositi, in precedenza ricoveri per il riposo notturno di sparuti pescatori, particolarmente di Consiglio B.  proprietario del mitico e inconfondibile gozzo in legno “San Vitale”, rimasto di stanza, per decenni,  nella rada.

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Ultimissima notazione, fra l’Acquaviva e Castro, che si scorge a Nord Est, sotto la carezza di un soleggiato meriggio, si forma un quadro di naturale beltà che, a mio avviso, non ha eguali; nulla, proprio nulla da invidiare alle località turistiche italiane maggiormente celebrate, ossia Portofino, Positano, Sorrento e Taormina.

 

Le varie fasi della lavorazione del tabacco

Na chiantazione te tabaccu già fiurutu. Se ccuìja prima lu frunzone (le fòie cchiù basce) e, a manu manu, la quarta, la terza, la seconda, la prima e la primiceddha, ca era la cchiù china te crassu e perciò la mèju ccodda: ca pisava te cchiùi e tenìa cchiù valore.

di Irene Mancini

Didascalie in vernacolo salentino di Alfredo Romano

Le fasi della lavorazione del tabacco richiedono cure scrupolose, abilità ed esperienza non indifferenti, oltre che una gran fatica. I lavori preparatori del terreno, detti comunemente coltivi[1], sono di tre tipi. Il primo viene eseguito subito dopo la prima pioggia autunnale e prima della caduta delle grandi piogge: pressappoco tra la seconda quindicina di ottobre e la prima di novembre. Le radici del perustitza arrivano ordinariamente alla profondità di 25 cm e quindi è sufficiente una profondità lavorativa di 30-35 cm.

La terra viene rivoltata con l’aratro, allo scopo di farla ‘maturare’ sotto l’azione degli agenti atmosferici. Con l’aratura si riesce a sterilizzare il terreno mettendo allo scoperto molte larve, uova di insetti, germi di piante parassitarie e semi di erbacce che vengono distrutti dal freddo e dal gelo. Inoltre molte piante spontanee vengono divelte e muoiono.

Il secondo coltivo viene eseguito sul finire dell’inverno, non più con l’aratro, ma con l’impiego della fresatrice, alla profondità di 20-22 cm, a seconda della natura del terreno: più superficiale per i terreni un po’ sciolti, più profondo per quelli compatti. In questo modo si ottiene il completo spappolamento delle particelle terrose.

Il terzo coltivo, molto superficiale, consiste nel pianeggiare la superficie del terreno alla distanza di 7-8 giorni dal trapianto delle piantine estirpate dai semenzai. Insieme con la fresa, viene impiegato anche l’erpice; nel caso di piccole superfici, invece, è più indicata la zappa. Con quest’ultimo lavoro si ripulisce il terreno dalle erbacce, andando a costituire uno strato superficiale polverulento che va a proteggere gli strati inferiori, impedendo l’evaporazione dell’acqua. Il perustitza entra nelle normali rotazioni agrarie, ma non può aprire il ciclo perché le abbondanti concimazioni che di norma vengono date al terreno che dovrà ospitare la pianta che apre la rotazione, nuocerebbero alla bontà del prodotto. È bene evitare che il perustitza segua una coltura miglioratrice perché troverebbe il terreno eccessivamente ricco di principi azotati; da qui l’utilità di far seguire alla coltura di rinnovo una pianta depauperante, come il grano, capace di utilizzare la fertilità eccessiva lasciata dalla pianta miglioratrice. Quindi: coltura da rinnovo – pianta depauperante (grano) – perustitza.

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La prima volta che si coltiva il perustitza in un terreno, non si ha un buon rendimento: lo si ottiene man mano negli anni successivi. In alcune aziende, perciò, la coltivazione del perustitza viene ripetuta sul medesimo terreno per più anni consecutivi. Naturalmente si deve cercare di non incorrere nella stanchezza del terreno a tutto scapito della qualità.

Per quel che riguarda la concimazione, gli elementi minerali su cui si deve orientare la scelta per ottenere buoni risultati sono il fosforo e il potassio, escludendo l’azoto, di cui è sufficiente la quantità presente nel terreno.

tabacco3La stabulatura è la migliore concimazione conosciuta per il perustitza. Essa consiste nel fare stazionare le pecore sul terreno da investire a tabacco durante i mesi invernali e per un breve periodo di tempo. In media è necessaria la permanenza per circa 24 ore (almeno due notti di seguito) di una pecora per metro quadrato.

L’epoca della semina è strettamente legata all’andamento stagionale ed all’epoca del trapianto. Il periodo è quello di febbraio-marzo, per poter eseguire il trapianto a maggio. Si tenga presente che occorrono 12/15 giorni per la germinazione (comparsa delle prime due foglioline), altri 8/10 giorni per la fase di crocetta (prime quattro foglioline), ed ulteriori 30/35 giorni per ottenere le piantine pronte per il trapianto.

Il semenzaio deve trovarsi al riparo dai venti freddi, quindi va formato in vicinanza di muri, abitazioni coloniche, siepi, ecc. In mancanza di queste protezioni si creano ripari artificiali. L’esposizione soleggiata al riparo dai venti freddi è condizione indispensabile per la buona riuscita del semenzaio, in quanto per la germinazione del seme è necessaria una temperatura di almeno 6/8 C° e durante tale periodo non devono verificarsi sbalzi di temperatura molto accentuati. Nella scelta dell’ubicazione del semenzaio è necessario tener presente la disponibilità di acqua occorrente per le annaffiature.

tabacco2

Le aiuole sono larghe 1 m. e lunghe 20/25 m., separate da sentieri di 50/60 cm. Il terreno al quale si affida il seme deve essere sciolto e soffice, fertile, ricco di materiale organico e che assolutamente non faccia crosta quando s’innaffia. Il terreno che forma il letto di semina deve essere immune da insetti e da germi di parassiti. È utile disinfestarlo 15 giorni prima della semina. È inoltre necessario che la superficie delle aiuole sia assolutamente orizzontale, per evitare che il seme con gli innaffiamenti se ne discenda verso la parte più bassa.

Il semenzaio deve essere coperto per favorire la germinazione, proteggere le piantine dal freddo, dalle gelate e dall’azione battente della pioggia. La migliore copertura, adoperata dai coltivatori della zona, è la garza, che meglio di ogni altra copertura assolve al compito di creare le condizioni ottimali di illuminazione, areazione ed umidità.

tabacco-al-sole

Il seme del perustitza è di dimensione minuta; per avere le piantine sane e robuste è necessario che in un metro quadrato di semenzaio ve ne siano qualche migliaio. Per poter distribuire  uniformemente il seme, è bene mescolarlo con cenere ed eseguire la semina a spaglio oppure con un setaccio. La semina si esegue in giornate calme, senza vento e soleggiate, altrimenti cenere e semi facilmente vengono trasportati dal vento, e si ha così una semina disforme. Dopo aver seminato si comprime leggermente la superficie del semenzaio in modo da far aderire il seme al terriccio; questa operazione viene eseguita delicatamente con il dorso della zappa. Dopo la semina il semenzaio viene leggermente innaffiato.

Il semenzaio deve essere oggetto di cure assidue, continue ed incessanti. Fino a che non si è avuta la completa germinazione del seme, il semenzaio viene coperto e mantenuto costantemente umido, affinché ai semi in germinazione non manchi l’acqua che è l’elemento più importante di questa delicata fase. All’inizio si praticano ogni giorno delle innaffiate con acqua non fredda, a meno che il tempo non sia piovoso o umido. Si ridurranno man mano che le piantine crescono. Lo stesso verrà fatto per la copertura, iniziando a sollevare la garza sul tardi nei giorni soleggiati, aumentando la durata fino ad abituare le piantine allo scoperto, anche di notte. È necessario tenere il semenzaio pulito da qualunque erba spontanea che tenda ad usurpare alle piantine di tabacco spazio, luce, calore e nutrimento.

Purtroppo i semenzai vanno quasi sempre soggetti ad attacchi di taluni insetti (le chiocciole o lumache, il grillotalpa, le formiche, i colomboli, detti comunemente pulci di terra) e malattie di natura batterica (la ‘lupa’ o ‘bruciatura dei semenzai’, il ‘marciume radicale’, e la ‘peronospora’).

Li tiraletti misi a llu sole cu ssìcca lu tabaccu.

La grandine, tra le meteore, è quella che maggiormente pregiudica il risultato finale della coltivazione del tabacco. I danni che essa produce non sono costanti, ma variano a seconda dell’intensità di caduta dei chicchi, della loro grandezza e se cadono da soli o frammisti a pioggia. Tutto ciò incide notevolmente sulla gravità del danno, che in alcuni casi può perfino portare alla distruzione completa della coltivazione se la stagione risulta molto avanzata..

L’epoca del trapianto è in relazione all’andamento stagionale (a Civita si effettuava generalmente entro il mese di maggio). Il tempo necessario per il trapianto deve essere di 10/12 giorni. Il terreno viene preventivamente squadrato: si traccia un primo allineamento di base parallelo a una strada poderale o ad altra linea regolare, tenendo sempre conto dell’orientamento che si vuole dare ai solchi (da Ovest verso Est per consentire alle piantine di autombreggiarsi durante la caldissima estate). E poi si scavano i solchetti larghi 15 cm e profondi 10 cm. La distanza di trapianto, 20 cm tra una piantina e l’altra, va scrupolosamente rispettata[2] (in ogni caso, i coltivatori salentini avevano l’abitudine di mantenere le distanze quanto più possibile ravvicinate, perché sapevano, per esperienza, che in tal modo si ottenevano prodotti con foglie di modeste dimensioni, più fini e con contenuto di nicotina più basso). Le piantine si ritengono adatte ad essere trapiantate quando hanno emesso circa 6-8 foglioline ed hanno raggiunto un’altezza di 8-10 centimetri.

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Bisogna avere l’accortezza di scartare le piantine sfilate, deboli o malate, e servirsi soltanto di quelle robuste di colore verde cupo. Appena estirpate, le piantine vanno collocate in ceste o cassette a gabbia, bene accostate le une alle altre, tutte dallo stesso verso, senza comprimerle e si ricoprono con un panno di tela umido. Le piantine vanno estirpate nel numero sufficiente per il trapianto che si effettua nella giornata, tenendo presente che, se rimane qualche piantina inutilizzata, non può essere utilizzata per il giorno successivo. L’operazione vera e propria di messa a dimora manuale delle piantine (oggi si adopera la trapiantatrice) si praticava adoperando l’antico e noioso cavicchio, che obbligava i coltivatori a lavorare continuamente con la schiena piegata. Con il cavicchio si praticavano dei fori equidistanti entro cui si infilavano le piantine. Contemporaneamente, con lo stesso cavicchio, si procedeva ad una leggera compressione del terreno. L’ora più adatta per il trapianto (ieri e oggi) è il tardo pomeriggio, per consentire alle piantine, nel loro primo giorno di vita extra-semenzale, di beneficiare della fresca rugiada della notte.

Pe ogni tiralettu te tabaccu siccu se facìanu do chiuppi te dece nserte l’unu. Li chiuppi poi sse ppendìanu susu la volta te lu macazzinu. A ottobre se scindìanu li chiuppi e se ccunsàvanu intra le casce spettandu lu Monupoliu ca ll’ìa rritirare e valutare.

Le cure colturali sono: i rimpiazzi, ossia la sostituzione delle piantine che non hanno attecchito; la sarchiatura, per mantenere smosso e polverulento il terreno, per impedire il disperdimento dell’acqua per evaporazione e per distruggere le erbe infestanti; lo sfrondamento, ossia l’eliminazione delle foglie basilari, per favorire lo sviluppo vegetativo della pianta.

La cimatura, come l’irrigazione, sono vietate, perché si otterrebbe una foglia meno grassa, e perciò, una volta secca, meno consistente, priva delle sue qualità organolettiche e, ai fini del peso, non conveniente neanche per la vendita.

Per la fase di lavoro dei semenzai non erano necessarie molte braccia. Nel caso di famiglie stagionali era il capofamiglia che migrava per primo, nel mese di febbraio, dalla sua terra d’origine a Civita Castellana. Ma in primavera, generalmente a maggio, per la fase del trapianto, sopraggiungeva l’intera famiglia, dal momento che mettere a dimora 100 mila piante per ettaro non era uno scherzo, così come l’irrigazione per ogni singola pianta e la continua sarchiatura.

Le cristiane stìanu ssettate ore su ore cu nfìlanu tabaccu cu la cuceddha e lle mane chine te crassu ca… mancu li cani!

La raccolta inizia quando la foglia ha raggiunto il suo massimo sviluppo e la maggiore ricchezza di sostanze elaborate. Essa va effettuata al giusto grado di maturazione. Questa avviene uniformemente per corone dal basso verso l’alto ed a intervalli di circa 8-10 giorni (prima maturano le foglie basali, poi le mediane ed infine quelle apicali). Di conseguenza anche la raccolta segue questo ordine. Va effettuata, inoltre, sempre a foglia asciutta, quindi possibilmente nelle prime ore del mattino, quando la rugiada si è prosciugata: ne deriverebbe altrimenti un danno per il tabacco nella fase di essiccamento. Nella zona di Civita Castellana la fase di raccolta aveva inizio verso la fine del mese di giugno e si protraeva fino alla prima quindicina di settembre. Allorché cade la pioggia, viene sospesa per due-tre giorni, per dar modo alle piante di asciugarsi completamente. Il perustitza, inoltre, non va raccolto durante le ore di sole, quando le foglie s’ammosciano sulla pianta e non si presterebbero per l’infilzamento, né per una proficua essiccazione. Le foglie appena raccolte vengono sistemate una accanto all’altra con la pagina superiore rivolta sempre da un lato, in ceste o cassette, e trasportate nei locali di cura, dove vengono scaricate e sistemate, ad un solo strato, su teli.

Se prèscianu ‘ste cristiane. E nfilàvanu tabaccu sempre le fèmmane e puru li vagnuni, ca li masculi tenìanu addhu te fare.

L’infilzamento viene effettuato usando aghi schiacciati di acciaio della lunghezza di 20-25 cm. Le foglie vengono infilzate una ad una alla base della costola e tutte nello stesso senso. Si tiene l’ago con la mano sinistra e con l’altra si fanno scorrere le foglie. Quando l’ago è pieno di foglie, queste si fanno scorrere sullo spago. Le filze pronte si sistemano sugli appositi telai, che possono essere orizzontali oppure obliqui. Quelli in uso nel Viterbese erano orizzontali ed erano composti da quattro longheroni formanti un rettangolo di metri 2×1, tenuto sospeso da terra da quattro piedi alti 50 cm. Sui due longheroni lunghi venivano applicati dei chiodini a testa piatta che servivano per attaccare le filze all’estremità. Per ogni telaio venivano applicati quaranta chiodini, venti per lato, per cui ogni telaio conteneva 20 filze. Il numero delle persone occorrenti per l’infilzamento era direttamente proporzionale alla quantità di tabacco raccolto; in ogni caso è necessario tener presente che le foglie venivano infilzate fresche, appena colte, quindi la raccolta veniva regolata in modo tale che alla fine della giornata lavorativa non restasse tabacco da infilzare.

E quandu se ttaccàvanu vinti corde te tabaccu pe’ ogni tiralettu, tuccàa llu cacci a llu sole. Matonna mia quantu pisava lu tabaccu ncora verde! Ca te spezzai le razze e puru le spaddhe.

Il processo di cura, per il perustitza, comprende tre fasi: l’ingiallimento e la fissazione del colore; l’essiccazione dei lembi fogliari; l’essiccazione della costola. L’ingiallimento si ottiene tenendo le foglie lontane dal sole e talvolta, in locali all’oscuro. Durante la seconda e terza fase, i telai vengono esposti all’aria e al sole, riparati dai venti dominanti, sistemati su superfici dure, lastricati di cemento, di pietra o terreni battuti, perché si è constatato che le superfici imbiancate accelerano il disseccamento per il calore riflesso nella parte inferiore delle filze. I telai vengono ritirati nei locali di cura durante la notte, perché siano protetti dalle piogge, nebbie e dalle frequenti rugiade che danneggerebbero il prodotto, macchiandolo, e con marcescenza delle costole e delle nervature. La durata media della cura, con andamento stagionale normale, è di 15/20 giorni. Dopodiché, di primo mattino, si staccano delicatamente le filze dai telai, si riuniscono dall’estremità degli spaghi formando dei cumuli di 20 filze, chiamati, in gergo salentino chiuppi. Questi, appena formati, si sistemano nei locali di custodia appendendoli con degli uncini ai fili di ferro preventivamente tesi.

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Nell’appendere i chiuppi bisogna attenersi rigorosamente all’ordine di raccolta. La foglia di tabacco, dopo la cura, tende ad assorbire una certa quantità di umidità dall’ambiente. Pertanto per la buona conservazione del tabacco curato è necessario che esso venga custodito in locali che rispondano ai principali requisiti tecnici per poter conservare il prodotto all’asciutto e possibilmente alla penombra. Nell’adoperare locali già esistenti, è necessario che il coltivatore eviti di adibire contemporaneamente il locale a diversi usi, perché il tabacco ha la proprietà di assorbire facilmente gli odori, pertanto le foglie possono essere facilmente deprezzate perché puzzolenti di stalla o di altri odori poco gradevoli.

Per tutti i mesi estivi l’intera famiglia, composta in media da cinque persone, era tutti i giorni sui campi dall’alba al tramonto. Si lavorava spesso 16 ore al giorno e per le donne ancora di più, dal momento che la sera per loro iniziava il lavoro di casalinghe.

La stagione lavorativa si concludeva a fine settembre circa, quando le famiglie stagionali potevano tornare nel Salento; restavano soltanto i capifamiglia, fino a ottobre-novembre, per presenziare alla fase di vendita del tabacco. Nella prima decade di ottobre, e, in ogni caso, dopo le prime piogge autunnali, si provvedeva a rimuovere i chiuppi appesi per sistemarli in apposite casse, foderate di carta all’interno, che poi venivano consegnate, per la vendita, ai Magazzini Generali di lavorazione della foglia secca. Nella provincia viterbese c’erano sono tre diversi tipi di consegna: a ballotti provvisori, a casse o gabbie, e a chiuppi, cioè al vero stato sciolto.

Sempre li tiraletti a llu sole, ca eranu cuai ci li pijàva l’acqua te lu cielu. Ca ci se bagnava lu tabaccu, venìa tuttu farfaratu e nnu mbalìa gnenzi.

All’epoca opportuna, che normalmente si aggirava dall’inizio di ottobre alla fine di dicembre, il prodotto allo stato secco veniva venduto alla ditta concessionaria per conto della quale il coltivatore aveva effettuato la coltivazione. Solo allora avrebbe percepito i soldi che gli spettavano e avrebbe potuto stabilire i termini del contratto per l’anno successivo. La determinazione del valore del tabacco veniva concordata tra il coltivatore e l’acquirente, i quali si facevano rappresentare dai periti di loro fiducia. Si trattava di una comune contrattazione tra privati, che aveva come base per l’apprezzamento un prezzo preventivamente stabilito dalle tariffe del Monopolio riferite a delle precise caratteristiche merceologiche. Il valore che veniva determinato in perizia era variabilissimo, strettamente legato alle qualità intrinseche (combustibilità, sapore, forza e aroma) ed estrinseche (colore, ampiezza della foglia, attenuazione delle nervature e integrità) che il prodotto presentava all’atto della vendita.

Con il guadagno dell’annata, il capofamiglia stagionale, prima di raggiungere la sua famiglia nel Salento, avrebbe intanto provveduto a saldare tutti i debiti che aveva accumulato presso i bottegai civitonici e anche presso il padrone della terra.

Tratto da: Irene Mancini, I Leccesi a Civita Castellana: storie di emigrazione e di tabacco. Civita Castellana, Edizioni Biblioteca Comunale, 2008.

Bibliografia.
– Giancane F., La coltivazione del tabacco Perustitza nella Provincia di Viterbo. Viterbo, Quatrini, 1969.
– Barletta R., Tabacco tabbaccari e tabacchine nel Salento. Fasano, Schiena, 1994.

_______________

[1] Coltivo: lett. terreno coltivato.

[2] Era rispettata soprattutto al tempo in cui si produceva tabacco a Civita, per non incorrere nelle penalità amministrative previste dal regolamento sulle coltivazioni del Monopolio di Stato.

N.B. Le immagini delle varietà di tabacco Perustitsa, Ezegovina e Xanthi JaKa erano le più diffuse nel Salento.

La coltivazione del tabacco da fiuto e da pipa nel Salento

di Antonio Bruno*

Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.

 

 

tabacco-pianta

La coltivazione del Tabacco da fiuto “Sun di Spagna”nel Salento leccese

Nel Salento leccese si coltivavano i tabacchi per fiuto che necessitavano di irrigazione quotidiana e si caratterizzavano per avere le foglie con un rachide mediano grosso, fibroso e lungo più di un metro.
Il tabacco da fiuto era una coltura tipica del Salento leccese. Nel 1771, con editto di Clemente XIV, la congregazione dei monaci Cistercensi, con lo scopo  di bonificare i terreni paludosi circostanti il loro convento, iniziarono  a dare le terre in censo ai contadini ed a coloro che colpiti da condanna  si rifugiavano in convento per ottenere l’impunità; con i ricavi  ottenuti i monaci iniziarono la coltivazione di diverse piante e diedero  impulso alla coltura del tabacco.
Nella manifattura i monaci iniziarono la produzione, prima per loro  consumo e poi a scopo di commercio, della famosa polvere «Sun  di Spagna».
A Lecce con privilegio dato a Madrid il 17 dicembre 1682 si nominava un “Credenziere del Fondaco della Città di Lecce”.

Le varietà di Tabacco da fiuto coltivate nel Salento leccese

Nel Leccese, che comprendeva le province di Brindisi e Taranto, si  coltivavano le varietà Cattaro leccese, importato dai Veneziani,  il Cattaro forestiero, proveniente dall’Alsazia, il Cattaro  riccio paesano e il Brasile leccese, importato dalla Spagna  o da Napoli per opera di navigatori.
Le coltivazioni di queste varietà diedero luogo alle prime industrie  manifatturiere private, per la produzione delle polveri da fiuto. I numerosi  conventi nella provincia di Lecce contribuirono alla diffusione delle  polveri, soprattutto del «Leccese da scatola» prodotto  dai frati Cappuccini.

tabacco3

La prima Manifattura tabacchi da fiuto del Salento leccese

Nel 1752, per editto reale di Carlo III di Borbone, veniva impiantata  a Lecce un’importante manifattura di tabacchi da fiuto in un ex convento  di Domenicani che, impiegando 20 molini «macinini» mossi  a mano, produceva polvere di gran lusso.
La richiesta del Cattaro leccese e del Brasile, utilizzate  nella lavorazione delle polveri, favoriva nella provincia la diffusione  della coltura del tabacco.

La Commissione di inchiesta sul tabacco del 1881

Nel 1881 una Commissione d’inchiesta sui tabacchi levantini coltivati nella Terra d’Otranto, secondo la quale “… se il regime di monopolio fosse assunto dallo Stato, ripartirebbe equamente ai produttori ed all’erario pubblico i vantaggi che oggi rifluiscono agli azionisti della Regìa.”
In quel periodo iniziava a diffondersi nel Leccese il contrabbando di tabacco, favorito in parte anche dal prezzo inadeguato corrisposto per le migliori qualità di tabacco, e dallo scarso numero di spacci presenti che rendevano talvolta difficoltoso il rifornimento di tabacco.

Le prime coltivazioni di Tabacchi orientali nel Salento leccese

Le prime coltivazioni di tabacchi orientali, dopo i campi sperimentali impiantati nel 1885 a Cori (Roma) e Cava dei Tirreni (Salerno), furono effettuate tra il 1890 e il 1898 nel Salento, in Sicilia e in Sardegna (Vizzini, Alessano, Poggiardo, Lecce, Iesi, Sassari, Palermo e Barcellona Pozzo di Gotto).
Le coltivazioni furono eseguite sotto la direzione del Prof. Orazio Comes, illustre botanico, docente di botanica e di patologia vegetale alla Scuola Superiore di Agricoltura di Portici, autore di celebri studi sulla coltivazione e sulla filogenesi del tabacco.

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L’introduzione dei tabacchi orientali nel Salento leccese

Come già scritto nel Salento leccese intorno al 1890 si introdussero le varietà orientali Xanthi Yakà e Erzegovina, provenienti dalla Macedonia e dall’Erzegovina, con risultati positivi. I tabacchi orientali devono avere foglie piccole e con la prevalenza del tessuto cellulare su quello fibroso. Ed ecco che vi è differenza tra il tabacco di varietà Cattaro e Brasile, coltivati per il fiuto, che deve essere irrigato per accelerare la vegetazione, con quello orientale che invece ha necessità di rallentare e ritardare la vegetazione per ottenere foglie piccole, elastiche, quasi trasparenti e molto aromatiche dopo l’essiccamento.
L’altro fattore che decretò il successo dei tabacchi orientali nel Salento leccese è stato il terreno che nel nostro territorio è nella maggior parte dei casi calcareo. Il terreno calcareo anche se di poca profondità risulta più adatto alla coltivazione del tabacco orientale rispetto al terreno ricco di humus.

Il Tabacco Salento da pipa

Dal tabacco Kentucky si ottennero tipi utilizzati per trinciati da pipa, come il Salento (ottenuto dall’incrocio con il Cattaro). Nel 1922 si iniziò la coltivazione sperimentale a Lucugnano (Lecce)

Per non dimenticare

Nelle enciclopedie che consultavamo noi studenti prima dell’avvento della rete, di internet alla voce Provincia di Lecce si leggeva che le colture prevalenti erano l’olivo, la vite e il tabacco. Il tabacco ha percorso le memorie di tutti, è stato presente e la raccolta del tabacco era compito delle donne. Si alzavano prestissimo la mattina per andare a raccogliere le foglie verdi, tutte della stessa misura.
Le foglie, perfettamente ordinate l’una sull’altra, venivano delicatamente poste nelle casse, trasportate dagli uomini con i carri in masseria. Al fresco, sotto i porticati, le donne, sedute in cerchio, infilavano le foglie ad una ad una in lunghi aghi piatti, “acuceddi”, facendoli poi passare sui fili di spago che formavano “li curdati”.
Si mettevano  a seccare su appositi cavalletti di legno (taraletti), da mettere al coperto la notte e portare al sole di giorno, ogni sera, ogni giorno, con gli occhi rivolti al cielo ogni tanto, quando comparivano le nuvole.
Guai se il tabacco si bagnava!  Le foglie, attaccate come erano l’una all’altra, si sarebbero ammuffite!
Era la nostra vita e siccome adesso non c’è più eccola scritta, così come ha fatto Vittorio Bodini…per non dimenticare….

Bibliografia

Giampietro Diana, La storia del tabacco in Italia. I. Introduzione e diffusione del tabacco dal 16° secolo al 1860
Cosimo De Giorgi, La coltivazione dei tabacchi orientali nelle Puglie

Le varie fasi della lavorazione del tabacco

Na chiantazione te tabaccu già fiurutu. Se ccuìja prima lu frunzone (le fòie cchiù basce) e, a manu manu, la quarta, la terza, la seconda, la prima e la primiceddha, ca era la cchiù china te crassu e perciò la mèju ccodda: ca pisava te cchiùi e tenìa cchiù valore.

di Irene Mancini

Didascalie in vernacolo salentino di Alfredo Romano

Le fasi della lavorazione del tabacco richiedono cure scrupolose, abilità ed esperienza non indifferenti, oltre che una gran fatica. I lavori preparatori del terreno, detti comunemente coltivi[1], sono di tre tipi. Il primo viene eseguito subito dopo la prima pioggia autunnale e prima della caduta delle grandi piogge: pressappoco tra la seconda quindicina di ottobre e la prima di novembre. Le radici del perustitza arrivano ordinariamente alla profondità di 25 cm e quindi è sufficiente una profondità lavorativa di 30-35 cm.

La terra viene rivoltata con l’aratro, allo scopo di farla ‘maturare’ sotto l’azione degli agenti atmosferici. Con l’aratura si riesce a sterilizzare il terreno mettendo allo scoperto molte larve, uova di insetti, germi di piante parassitarie e semi di erbacce che vengono distrutti dal freddo e dal gelo. Inoltre molte piante spontanee vengono divelte e muoiono.

Il secondo coltivo viene eseguito sul finire dell’inverno, non più con l’aratro, ma con l’impiego della fresatrice, alla profondità di 20-22 cm, a seconda della natura del terreno: più superficiale per i terreni un po’ sciolti, più profondo per quelli compatti. In questo modo si ottiene il completo spappolamento delle particelle terrose.

Il terzo coltivo, molto superficiale, consiste nel pianeggiare la superficie del terreno alla distanza di 7-8 giorni dal trapianto delle piantine estirpate dai semenzai. Insieme con la fresa, viene impiegato anche l’erpice; nel caso di piccole superfici, invece, è più indicata la zappa. Con quest’ultimo lavoro si ripulisce il terreno dalle erbacce, andando a costituire uno strato superficiale polverulento che va a proteggere gli strati inferiori, impedendo l’evaporazione dell’acqua. Il perustitza entra nelle normali rotazioni agrarie, ma non può aprire il ciclo perché le abbondanti concimazioni che di norma vengono date al terreno che dovrà ospitare la pianta che apre la rotazione, nuocerebbero alla bontà del prodotto. È bene evitare che il perustitza segua una coltura miglioratrice perché troverebbe il terreno eccessivamente ricco di principi azotati; da qui l’utilità di far seguire alla coltura di rinnovo una pianta depauperante, come il grano, capace di utilizzare la fertilità eccessiva lasciata dalla pianta miglioratrice. Quindi: coltura da rinnovo – pianta depauperante (grano) – perustitza.

tabacco21

La prima volta che si coltiva il perustitza in un terreno, non si ha un buon rendimento: lo si ottiene man mano negli anni successivi. In alcune aziende, perciò, la coltivazione del perustitza viene ripetuta sul medesimo terreno per più anni consecutivi. Naturalmente si deve cercare di non incorrere nella stanchezza del terreno a tutto scapito della qualità.

Per quel che riguarda la concimazione, gli elementi minerali su cui si deve orientare la scelta per ottenere buoni risultati sono il fosforo e il potassio, escludendo l’azoto, di cui è sufficiente la quantità presente nel terreno.

tabacco3La stabulatura è la migliore concimazione conosciuta per il perustitza. Essa consiste nel fare stazionare le pecore sul terreno da investire a tabacco durante i mesi invernali e per un breve periodo di tempo. In media è necessaria la permanenza per circa 24 ore (almeno due notti di seguito) di una pecora per metro quadrato.

L’epoca della semina è strettamente legata all’andamento stagionale ed all’epoca del trapianto. Il periodo è quello di febbraio-marzo, per poter eseguire il trapianto a maggio. Si tenga presente che occorrono 12/15 giorni per la germinazione (comparsa delle prime due foglioline), altri 8/10 giorni per la fase di crocetta (prime quattro foglioline), ed ulteriori 30/35 giorni per ottenere le piantine pronte per il trapianto.

Il semenzaio deve trovarsi al riparo dai venti freddi, quindi va formato in vicinanza di muri, abitazioni coloniche, siepi, ecc. In mancanza di queste protezioni si creano ripari artificiali. L’esposizione soleggiata al riparo dai venti freddi è condizione indispensabile per la buona riuscita del semenzaio, in quanto per la germinazione del seme è necessaria una temperatura di almeno 6/8 C° e durante tale periodo non devono verificarsi sbalzi di temperatura molto accentuati. Nella scelta dell’ubicazione del semenzaio è necessario tener presente la disponibilità di acqua occorrente per le annaffiature.

tabacco2

Le aiuole sono larghe 1 m. e lunghe 20/25 m., separate da sentieri di 50/60 cm. Il terreno al quale si affida il seme deve essere sciolto e soffice, fertile, ricco di materiale organico e che assolutamente non faccia crosta quando s’innaffia. Il terreno che forma il letto di semina deve essere immune da insetti e da germi di parassiti. È utile disinfestarlo 15 giorni prima della semina. È inoltre necessario che la superficie delle aiuole sia assolutamente orizzontale, per evitare che il seme con gli innaffiamenti se ne discenda verso la parte più bassa.

Il semenzaio deve essere coperto per favorire la germinazione, proteggere le piantine dal freddo, dalle gelate e dall’azione battente della pioggia. La migliore copertura, adoperata dai coltivatori della zona, è la garza, che meglio di ogni altra copertura assolve al compito di creare le condizioni ottimali di illuminazione, areazione ed umidità.

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Il seme del perustitza è di dimensione minuta; per avere le piantine sane e robuste è necessario che in un metro quadrato di semenzaio ve ne siano qualche migliaio. Per poter distribuire  uniformemente il seme, è bene mescolarlo con cenere ed eseguire la semina a spaglio oppure con un setaccio. La semina si esegue in giornate calme, senza vento e soleggiate, altrimenti cenere e semi facilmente vengono trasportati dal vento, e si ha così una semina disforme. Dopo aver seminato si comprime leggermente la superficie del semenzaio in modo da far aderire il seme al terriccio; questa operazione viene eseguita delicatamente con il dorso della zappa. Dopo la semina il semenzaio viene leggermente innaffiato.

Il semenzaio deve essere oggetto di cure assidue, continue ed incessanti. Fino a che non si è avuta la completa germinazione del seme, il semenzaio viene coperto e mantenuto costantemente umido, affinché ai semi in germinazione non manchi l’acqua che è l’elemento più importante di questa delicata fase. All’inizio si praticano ogni giorno delle innaffiate con acqua non fredda, a meno che il tempo non sia piovoso o umido. Si ridurranno man mano che le piantine crescono. Lo stesso verrà fatto per la copertura, iniziando a sollevare la garza sul tardi nei giorni soleggiati, aumentando la durata fino ad abituare le piantine allo scoperto, anche di notte. È necessario tenere il semenzaio pulito da qualunque erba spontanea che tenda ad usurpare alle piantine di tabacco spazio, luce, calore e nutrimento.

Purtroppo i semenzai vanno quasi sempre soggetti ad attacchi di taluni insetti (le chiocciole o lumache, il grillotalpa, le formiche, i colomboli, detti comunemente pulci di terra) e malattie di natura batterica (la ‘lupa’ o ‘bruciatura dei semenzai’, il ‘marciume radicale’, e la ‘peronospora’).

Li tiraletti misi a llu sole cu ssìcca lu tabaccu.

La grandine, tra le meteore, è quella che maggiormente pregiudica il risultato finale della coltivazione del tabacco. I danni che essa produce non sono costanti, ma variano a seconda dell’intensità di caduta dei chicchi, della loro grandezza e se cadono da soli o frammisti a pioggia. Tutto ciò incide notevolmente sulla gravità del danno, che in alcuni casi può perfino portare alla distruzione completa della coltivazione se la stagione risulta molto avanzata..

L’epoca del trapianto è in relazione all’andamento stagionale (a Civita si effettuava generalmente entro il mese di maggio). Il tempo necessario per il trapianto deve essere di 10/12 giorni. Il terreno viene preventivamente squadrato: si traccia un primo allineamento di base parallelo a una strada poderale o ad altra linea regolare, tenendo sempre conto dell’orientamento che si vuole dare ai solchi (da Ovest verso Est per consentire alle piantine di autombreggiarsi durante la caldissima estate). E poi si scavano i solchetti larghi 15 cm e profondi 10 cm. La distanza di trapianto, 20 cm tra una piantina e l’altra, va scrupolosamente rispettata[2] (in ogni caso, i coltivatori salentini avevano l’abitudine di mantenere le distanze quanto più possibile ravvicinate, perché sapevano, per esperienza, che in tal modo si ottenevano prodotti con foglie di modeste dimensioni, più fini e con contenuto di nicotina più basso). Le piantine si ritengono adatte ad essere trapiantate quando hanno emesso circa 6-8 foglioline ed hanno raggiunto un’altezza di 8-10 centimetri.

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Bisogna avere l’accortezza di scartare le piantine sfilate, deboli o malate, e servirsi soltanto di quelle robuste di colore verde cupo. Appena estirpate, le piantine vanno collocate in ceste o cassette a gabbia, bene accostate le une alle altre, tutte dallo stesso verso, senza comprimerle e si ricoprono con un panno di tela umido. Le piantine vanno estirpate nel numero sufficiente per il trapianto che si effettua nella giornata, tenendo presente che, se rimane qualche piantina inutilizzata, non può essere utilizzata per il giorno successivo. L’operazione vera e propria di messa a dimora manuale delle piantine (oggi si adopera la trapiantatrice) si praticava adoperando l’antico e noioso cavicchio, che obbligava i coltivatori a lavorare continuamente con la schiena piegata. Con il cavicchio si praticavano dei fori equidistanti entro cui si infilavano le piantine. Contemporaneamente, con lo stesso cavicchio, si procedeva ad una leggera compressione del terreno. L’ora più adatta per il trapianto (ieri e oggi) è il tardo pomeriggio, per consentire alle piantine, nel loro primo giorno di vita extra-semenzale, di beneficiare della fresca rugiada della notte.

Pe ogni tiralettu te tabaccu siccu se facìanu do chiuppi te dece nserte l’unu. Li chiuppi poi sse ppendìanu susu la volta te lu macazzinu. A ottobre se scindìanu li chiuppi e se ccunsàvanu intra le casce spettandu lu Monupoliu ca ll’ìa rritirare e valutare.

Le cure colturali sono: i rimpiazzi, ossia la sostituzione delle piantine che non hanno attecchito; la sarchiatura, per mantenere smosso e polverulento il terreno, per impedire il disperdimento dell’acqua per evaporazione e per distruggere le erbe infestanti; lo sfrondamento, ossia l’eliminazione delle foglie basilari, per favorire lo sviluppo vegetativo della pianta.

La cimatura, come l’irrigazione, sono vietate, perché si otterrebbe una foglia meno grassa, e perciò, una volta secca, meno consistente, priva delle sue qualità organolettiche e, ai fini del peso, non conveniente neanche per la vendita.

Per la fase di lavoro dei semenzai non erano necessarie molte braccia. Nel caso di famiglie stagionali era il capofamiglia che migrava per primo, nel mese di febbraio, dalla sua terra d’origine a Civita Castellana. Ma in primavera, generalmente a maggio, per la fase del trapianto, sopraggiungeva l’intera famiglia, dal momento che mettere a dimora 100 mila piante per ettaro non era uno scherzo, così come l’irrigazione per ogni singola pianta e la continua sarchiatura.

Le cristiane stìanu ssettate ore su ore cu nfìlanu tabaccu cu la cuceddha e lle mane chine te crassu ca… mancu li cani!

La raccolta inizia quando la foglia ha raggiunto il suo massimo sviluppo e la maggiore ricchezza di sostanze elaborate. Essa va effettuata al giusto grado di maturazione. Questa avviene uniformemente per corone dal basso verso l’alto ed a intervalli di circa 8-10 giorni (prima maturano le foglie basali, poi le mediane ed infine quelle apicali). Di conseguenza anche la raccolta segue questo ordine. Va effettuata, inoltre, sempre a foglia asciutta, quindi possibilmente nelle prime ore del mattino, quando la rugiada si è prosciugata: ne deriverebbe altrimenti un danno per il tabacco nella fase di essiccamento. Nella zona di Civita Castellana la fase di raccolta aveva inizio verso la fine del mese di giugno e si protraeva fino alla prima quindicina di settembre. Allorché cade la pioggia, viene sospesa per due-tre giorni, per dar modo alle piante di asciugarsi completamente. Il perustitza, inoltre, non va raccolto durante le ore di sole, quando le foglie s’ammosciano sulla pianta e non si presterebbero per l’infilzamento, né per una proficua essiccazione. Le foglie appena raccolte vengono sistemate una accanto all’altra con la pagina superiore rivolta sempre da un lato, in ceste o cassette, e trasportate nei locali di cura, dove vengono scaricate e sistemate, ad un solo strato, su teli.

Se prèscianu ‘ste cristiane. E nfilàvanu tabaccu sempre le fèmmane e puru li vagnuni, ca li masculi tenìanu addhu te fare.

L’infilzamento viene effettuato usando aghi schiacciati di acciaio della lunghezza di 20-25 cm. Le foglie vengono infilzate una ad una alla base della costola e tutte nello stesso senso. Si tiene l’ago con la mano sinistra e con l’altra si fanno scorrere le foglie. Quando l’ago è pieno di foglie, queste si fanno scorrere sullo spago. Le filze pronte si sistemano sugli appositi telai, che possono essere orizzontali oppure obliqui. Quelli in uso nel Viterbese erano orizzontali ed erano composti da quattro longheroni formanti un rettangolo di metri 2×1, tenuto sospeso da terra da quattro piedi alti 50 cm. Sui due longheroni lunghi venivano applicati dei chiodini a testa piatta che servivano per attaccare le filze all’estremità. Per ogni telaio venivano applicati quaranta chiodini, venti per lato, per cui ogni telaio conteneva 20 filze. Il numero delle persone occorrenti per l’infilzamento era direttamente proporzionale alla quantità di tabacco raccolto; in ogni caso è necessario tener presente che le foglie venivano infilzate fresche, appena colte, quindi la raccolta veniva regolata in modo tale che alla fine della giornata lavorativa non restasse tabacco da infilzare.

E quandu se ttaccàvanu vinti corde te tabaccu pe’ ogni tiralettu, tuccàa llu cacci a llu sole. Matonna mia quantu pisava lu tabaccu ncora verde! Ca te spezzai le razze e puru le spaddhe.

Il processo di cura, per il perustitza, comprende tre fasi: l’ingiallimento e la fissazione del colore; l’essiccazione dei lembi fogliari; l’essiccazione della costola. L’ingiallimento si ottiene tenendo le foglie lontane dal sole e talvolta, in locali all’oscuro. Durante la seconda e terza fase, i telai vengono esposti all’aria e al sole, riparati dai venti dominanti, sistemati su superfici dure, lastricati di cemento, di pietra o terreni battuti, perché si è constatato che le superfici imbiancate accelerano il disseccamento per il calore riflesso nella parte inferiore delle filze. I telai vengono ritirati nei locali di cura durante la notte, perché siano protetti dalle piogge, nebbie e dalle frequenti rugiade che danneggerebbero il prodotto, macchiandolo, e con marcescenza delle costole e delle nervature. La durata media della cura, con andamento stagionale normale, è di 15/20 giorni. Dopodiché, di primo mattino, si staccano delicatamente le filze dai telai, si riuniscono dall’estremità degli spaghi formando dei cumuli di 20 filze, chiamati, in gergo salentino chiuppi. Questi, appena formati, si sistemano nei locali di custodia appendendoli con degli uncini ai fili di ferro preventivamente tesi.

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Nell’appendere i chiuppi bisogna attenersi rigorosamente all’ordine di raccolta. La foglia di tabacco, dopo la cura, tende ad assorbire una certa quantità di umidità dall’ambiente. Pertanto per la buona conservazione del tabacco curato è necessario che esso venga custodito in locali che rispondano ai principali requisiti tecnici per poter conservare il prodotto all’asciutto e possibilmente alla penombra. Nell’adoperare locali già esistenti, è necessario che il coltivatore eviti di adibire contemporaneamente il locale a diversi usi, perché il tabacco ha la proprietà di assorbire facilmente gli odori, pertanto le foglie possono essere facilmente deprezzate perché puzzolenti di stalla o di altri odori poco gradevoli.

Per tutti i mesi estivi l’intera famiglia, composta in media da cinque persone, era tutti i giorni sui campi dall’alba al tramonto. Si lavorava spesso 16 ore al giorno e per le donne ancora di più, dal momento che la sera per loro iniziava il lavoro di casalinghe.

La stagione lavorativa si concludeva a fine settembre circa, quando le famiglie stagionali potevano tornare nel Salento; restavano soltanto i capifamiglia, fino a ottobre-novembre, per presenziare alla fase di vendita del tabacco. Nella prima decade di ottobre, e, in ogni caso, dopo le prime piogge autunnali, si provvedeva a rimuovere i chiuppi appesi per sistemarli in apposite casse, foderate di carta all’interno, che poi venivano consegnate, per la vendita, ai Magazzini Generali di lavorazione della foglia secca. Nella provincia viterbese c’erano sono tre diversi tipi di consegna: a ballotti provvisori, a casse o gabbie, e a chiuppi, cioè al vero stato sciolto.

Sempre li tiraletti a llu sole, ca eranu cuai ci li pijàva l’acqua te lu cielu. Ca ci se bagnava lu tabaccu, venìa tuttu farfaratu e nnu mbalìa gnenzi.

All’epoca opportuna, che normalmente si aggirava dall’inizio di ottobre alla fine di dicembre, il prodotto allo stato secco veniva venduto alla ditta concessionaria per conto della quale il coltivatore aveva effettuato la coltivazione. Solo allora avrebbe percepito i soldi che gli spettavano e avrebbe potuto stabilire i termini del contratto per l’anno successivo. La determinazione del valore del tabacco veniva concordata tra il coltivatore e l’acquirente, i quali si facevano rappresentare dai periti di loro fiducia. Si trattava di una comune contrattazione tra privati, che aveva come base per l’apprezzamento un prezzo preventivamente stabilito dalle tariffe del Monopolio riferite a delle precise caratteristiche merceologiche. Il valore che veniva determinato in perizia era variabilissimo, strettamente legato alle qualità intrinseche (combustibilità, sapore, forza e aroma) ed estrinseche (colore, ampiezza della foglia, attenuazione delle nervature e integrità) che il prodotto presentava all’atto della vendita.

Con il guadagno dell’annata, il capofamiglia stagionale, prima di raggiungere la sua famiglia nel Salento, avrebbe intanto provveduto a saldare tutti i debiti che aveva accumulato presso i bottegai civitonici e anche presso il padrone della terra.

Tratto da: Irene Mancini, I Leccesi a Civita Castellana: storie di emigrazione e di tabacco. Civita Castellana, Edizioni Biblioteca Comunale, 2008.

Bibliografia.
– Giancane F., La coltivazione del tabacco Perustitza nella Provincia di Viterbo. Viterbo, Quatrini, 1969.
– Barletta R., Tabacco tabbaccari e tabacchine nel Salento. Fasano, Schiena, 1994.

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[1] Coltivo: lett. terreno coltivato.

[2] Era rispettata soprattutto al tempo in cui si produceva tabacco a Civita, per non incorrere nelle penalità amministrative previste dal regolamento sulle coltivazioni del Monopolio di Stato.

N.B. Le immagini delle varietà di tabacco Perustitsa, Ezegovina e Xanthi JaKa erano le più diffuse nel Salento.

I salentini a Civita Castellana / Ritorno alla Tenuta Terrano: le foto di ieri e di oggi.

Tenuta Terrano a Civita Castellana. La foto a colori è dell’aprile 2012, quella in b/n risale al 1968: le due foto con lo stesso scenario.

di Alfredo Romano

Nel 1965 la mia famiglia emigrò da Collemeto nel Salento a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Si calcola che almeno cinque mila salentini a quel tempo siano emigrati nell’arco di 15 anni nel Viterbese. I primi due anni furono durissimi, l’alloggio cui ci aveva destinato il primo proprietario terriero era malsano, privo di servizi, praticamente una stalla. Dopo due anni ci trasferimmo nella Tenuta Terrano dove il nuovo proprietario ci fece alloggiare in una casa da cristiani. Nella Tenuta c’era un concentramento di almeno 500 salentini. Coltivammo tabacco per altri otto anni, fino al 1975, quando i miei genitori decisero di tornare a Collemeto. Noi figli restammo perché nel frattempo avevamo trovato un lavoro. Per tanti anni non sono più passato dalla Tenuta Terrano e questo benché dalla mia finestra scorgo ogni giorno in lontananza la torretta della villa dell’allora proprietario terriero. Negli anni Sessanta ero munito di un’irrisoria macchina fotografica in b/n grazie alla quale, però, ritrassi i miei e lo scenario che si presentava alle loro spalle che documenta la vita ordinaria nella Tenuta e alcune fasi della lavorazione del tabacco. Ma ecco che uno di questi giorni, munito di buona fotocamera stavolta, mi sono messo in cammino per arrivare alla tenuta. Il cuore mi batteva forte quando ho fatto ingresso nel viale che portava ai tanti caseggiati, compreso il mio: vi alloggiavano in ordine sparso tante famiglie salentine e alcune calabresi. Dall’ingresso della Tenuta la mia vecchia casa distava un chilometro. Non ero sicuro di riuscire a dirigermi

E oggi disquisiamo di aghi

 

L’acu e l’acucèddha, ovvero quando nelle parole l’affinità dell’uso e quella omofonica non coincidono con quella della nascita.

di Armando Polito

Nel dialetto di Nardò l’ago (di dimensioni normali) è chiamato acu, mentre quello più lungo e grosso, utilizzato un tempo per rammendare i sacchi e, in una versione ancora più lunga, per infilare le foglie di tabacco1 da sistemare poi sui tiralètti2 per l’essiccazione, prende il nome di acucèddha.

A prima vista si direbbe che entrambe le parole hanno come nucleo l’antichissima radice ak– indicante cosa pungente, la stessa di acido, aceto, acciaio, acuto, etc. etc. Cedendo per un momento a questa impressione non rinunciamo, tuttavia, a ragionarci sopra: su acu c’è ben poco da dire, è quasi tutto radice; acucèddha ha l’aria di essere un diminutivo di acu, ma, operando il suo smontaggio, dopo aver tolto la presunta radice ac– e il presunto suffisso diminutivo –èddha, ci ritroviamo di fronte ad un gruppo centrale –uc– che da qualche filologo un po’ troppo fantasioso potrebbe essere interpretato come una replica della radice o come parte integrante di un suffisso diminutivo –ucèddha3.  Dando pure per buono tutto questo, i conti, tuttavia, non tornano per motivi semantici: se acucèddha è veramente una forma (sia pur strana per via del presunto raddoppiamento della radice o del presunto, più esteso suffisso) di diminutivo di acu, come mai proprio questa forma è stata utilizzata per indicare un oggetto di dimensioni notevolmente maggiori rispetto a quello indicato dal nome primitivo?

C’è qualcosa che non quadra e bisogna perciò operare diversamente: se per un attimo togliamo ad acucèddha la a– ci rimane cucèddha che non esiste nel dialetto neritino ma a Parabita (Le), in quello tarantino (nella variante cucèdda) e brindisino (nella variante cuscèddha) designa esattamente lo stesso oggetto. E’ evidente, allora, che cucèdda e cuscèddha sono deverbali da cùsere/còsere/cusìre, varianti salentine dell’italiano cucire, che è dal latino medioevale cusìre (Glossario del Du Cange, ed. 1883, pg. 678), dal classico consùere, composto da cum=insieme+sùere=cucire; l’ultima variante (cusìre) è quella neritina, identica alla voce medioevale, mentre le prime due sono più vicine a quella classica. Da notare che le tre forme verbali salentine riportate hanno conservato la –s– latina (a differenza dell’italiano che l’ha sostituita con –c-) per evitare confusioni con cucìre/còcere che significano cuocere, salvo, poi, non essendoci più lo stesso pericolo, seguire il destino della voce italiana in modo netto in cucèdda, ambiguo in cuscèddha; inoltre, proprio perché deverbali, in esse il suffisso ha attenuato, anzi perso il suo originario valore diminutivo (come in cacarella da cacare, in pisciarella da pisciare, in rivoltella da rivoltare etc, etc.).

Tornando alla neritina acucèddha, essa è, dunque, il risultato di questa filiera: la cucèddha>l’acucèddha (agglutinazione della a dell’articolo).  

E i conti, questa volta, quadrano tutti.

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1 L’acucèddha, lunga almeno trenta cm., recava nella cruna un filo di spago di circa un metro; essa veniva inserita con precisione nel segmento inferiore della nervatura centrale di un sufficiente numero di foglie che, fatte scorrere lungo lo spago fino a riempirlo, costituivano la ‘nserta [dal latino insèrta(m), participio passato di insèrere=intrecciare, con aferesi di i-].  Le ‘nserte, poi, venivano appese a due ganci contrapposti sul tiralèttu ed esposte al sole; tutte le operazioni avvenivano in pieno agosto.

2 Diminutivo, con metatesi propiziata dalla presenza di due sillabe consecutive contenenti una consonante liquida (l e r), di tilàru=telaio (tilarèttu>tiralèttu).

3 È l’opinione del Garrisi che mette in campo un “latino volgare acucella”. Come ho più volte ribadito, le forme latine volgari o ricostruite, insieme con gli incroci, costituiscono per il filologo l’ultima spiaggia alla quale ricorrere quando non risulta percorribile altra via più o meno documentabile. Ora, nel latino classico non è attestata nessuna voce con un suffisso diminutivo –ucellus/ucella, mentre una sola volta ricorre il suffisso –icella: in navicella , diminutivo di navis. Per completezza d’informazione va detto che nel latino medioevale è attestato (Glossario, op. cit., pag. 66), come diminutivo di acus, acùcula, che, se avesse avuto uno sviluppo nel dialetto salentino, avrebbe dato vita ad acùcchia (acùcula>acùcla>acùcchia). Tutto ciò, come si vedrà nel prosieguo del ragionamento, non è, tuttavia, sufficiente per mettere in campo un *acucèlla. E il Rohlfs? Alla voce acucèddha si limita a rinviare a cucèddha)/cucèdda e da queste alla prima: per me è la prova che nemmeno lui pensava alla nostra voce come ad un diminutivo desostantivale.

Le operaie tabacchine di Tiggiano e lo sciopero generale del 1961

Le Operaie Tabacchine di Tiggiano

e lo Sciopero Generale del 1961

La memoria delle operaie tabacchine di Tiggiano, della loro condizione lavorativa, delle loro lotte ed in particolare dello sciopero generale tenuto per 28 giorni nel gennaio – febbraio del 1961, importante avvenimento storico senza precedenti nella storia del paese, contro i licenziamenti e la chiusura del Magazzino, la fabbrica di tabacco, raccolta in un libro che sarà presentato

Sabato 12 febbraio 2011, h. 19.00

TIGGIANO – piazza Castello

(Sala Conferenze del Municipio)

Un albanese illetterato di Calabria finito a far tabacco con i leccesi

Domenico Amato, un albanese illetterato di Calabria, finito a far tabacco con i Leccesi a  Civita Castellana

di Alfredo Romano

L’addetto al censimento invano scrutava l’aperto orizzonte, a metà strada sulla via di Terrano, per una casa, un muro, qualcosa. Domeni­co Amato insomma.
Né un fazzoletto rosso legato in cima a uno dei due pali che segnano l’ingresso d’una carreggiata che s’incurva fino a perdersi nell’orrido, po­teva rappresentare per il suddetto una traccia sufficiente.
Fu così che Domenico Amato non venne censito e, buon per lui, vi­sto che le statistiche (non si sa mai) vanno magari a spiare quel po’ di prosciutti e capocolli conservati per l’inverno.
In realtà quella carreggiata portava in quell’interrata e abusiva casa di Domenico che il figlio muratore ha tirato su di festa in festa aggrappan­dola sui fianchi di un fosso malvagio.  Cacciato letteralmente dalla Tenu­ta Terrano, Domenico ha dovuto vendere i suoi tre aridi ettari di terra calabrese in cambio di un povero appezzamento a Civita Castellana. Niente paura, niente trattore, le mani bastano a ridurre in fertile polvere quei massi di tufo lunare, le mani per dar luce e respiro a un terreno di vecchia sterpaia.
Le mani di Domenico. Osservatele: sono rami d’un tronco nodoso dove s’aprono fessure di carne che non conosce suture. il gelo le spacca e il caldo

Emigrazione/ I leccesi a Civita Castellana (Viterbo)

di Alfredo Romano


Qualcuno si chiederà come mai molti leccesi abbiano scelto come luogo d’emigrazione Civita Castellana e non le tradizionali città del Nord. Non si tratta, innanzitutto, di una scelta, ma del risultato di una congiuntura economica nel mercato delle braccia.

La coltivazione del tabacco

Ci fu a Civita Castellana, dal dopoguerra in poi, una forte richiesta di manodopera specializzata nella coltivazione del tabacco. Il risveglio dell’economia ceramica aveva provocato una carenza di salariati e brac­cianti. I proprietari terrieri erano per ciò costretti a ripiegare su colture estensive, per lo più seminativi e pascoli che, se da una parte non ri­

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