Tra bastioni e feritoie.  Le armi dei Castriota nel castello di Copertino

 

di Giovanni Greco

Del castello di Copertino si conosce quasi tutto. Fu abitato da esponenti della dinastia sveva, seguiti da quella angioina e dalla stirpe dei Brienne. Tra le sue mura dimorò saltuariamente la contessa Maria d’Enghien e sua figlia Caterina Orsini del Balzo, andata in sposa al cavaliere francese Tristano di Clermont.

La tradizione vuole che tra queste mura abbia visto la luce la loro figlia Isabella che impalmata da re Ferrante d’Aragona divenne a sua volta regina di Napoli.

Agli inizi del XVI secolo, quando i titolari del maniero divennero i Granai-Castriota fu il marchese Alfonso, figlio del conte Bernardo e  di Maria Zardari, uomo dai miti e gentili costumi abbelliti dalle lettere come lo ricorda il Galateo nella sua epistola “Ad Pyrrum Castriotam”; giureconsulto di cappa corta, marchese di Atripalda, duca di Ferrandina e conte di Copertino, che nel decennio compreso tra il 1530-40, affidò al noto architetto militare Evangelista Menga, l’incarico di progettare la trasformazione della struttura 400esca in una fortezza che dimostrasse la sua potenza sul piano economico, giuridico e militare, ma soprattutto capace di respingere qualsiasi assalto armato.

Difatti, fu costruita secondo i canoni architettonico-militari imposti dalla scoperta della polvere da sparo. Ovvero, un profondo fossato scavato nella roccia, una spessa muraglia, quattro imponenti bastioni lanceolati e novanta feritoie distribuite su tre ordini di costruzione (fig. 1 e 2).

Fig. 2, il cortile interno del castello oggi

 

Essendo una struttura difensiva Don Alfonso si premurò di dotarla di un’adeguata guarnigione e un discreto apparato di armi da fuoco: cannoni, colubrine, schioppi e armi bianche di vario genere. Ma in che misura quegli armamenti avrebbero consentito di respingere il nemico è difficile stabilirlo. E soprattutto di quante unità era composta la guarnigione che presidiava il castello? Un’idea in tal senso la si potrebbe ricavare da un atto notarile del 21 febbraio 1553 allorquando il castellano nonché governatore di Copertino, Hernando de Bolea, originario di Saragozza consegnò al suo vice, Stefano de Ayala nativo di Toledo, una quantità di beni alimentari tra cui diversi tomoli di grano, orzo, fave, 700 barili di vino, 10 di aceto, 10 di sarde salate contenenti ciascuno  25.900 unità, 600 forme di formaggio e 100 staia di olio destinati a sfamare la guarnigione e la servitù presente nel castello, per un arco temporale presumibilmente lungo. Essendo le cronache del tutto avare di avvenimenti riconducibili ad attività militari abbiamo ragione di ritenere che da quelle feritoie non fu mai sparato un solo colpo di arma da fuoco e per lungo tempo i soldati dovettero restare pressoché inattivi, fino ad una verosimile riduzione numerica. (fig. 3)

Fig. 3, il mastio

 

Ipotesi non del tutto peregrina se il 17 aprile dello stesso anno avvenne la cessione di armature di cavalleria leggera a favore di militari dislocati nel castello di Lecce. Per ordine di Ferdinando Loffredo, vicerè delle province di Otranto e Bari, Hernando de Bolea incaricò Tommaso Caputo e Mauro Greco a trasportare 25 spalle (spallacci) e piedi (scarpe d’arme) con le corchette (uncini), 25 calotte, 25 brazzali e spallarde (avambracci e cubitiere), 25 morioni (elmetto di origine spagnola) e diademi; 13 elmi di ferro e mezze calotte alla burgognone.

Più tardi, il 16 maggio è ancora Stefano de Ayala che provvede al trasferimento di importanti pezzi di artiglieria. Il regio commissario di Terra d’Otranto, Ascanio de Maya, infatti, prese in consegna una quantità di armi spedite da Copertino che fece trasportare nel castello di Brindisi dove si registravano intermittenti rivolte popolari a cui gli Aragonesi rispondevano anche con armi da fuoco. Si trattava di due cannoni, gli unici di cui era dotato il castello che sarebbero stati spostati lungo la spessa muraglia a seconda dei dispacci che avrebbero annunciato imminenti pericoli.  Uno dei due cannoni era adatto al lancio di palle di pietra ed era contrassegnato con l’aquila bicipite, l’arma dei Castriota, mentre l’altro, idoneo allo sparo di palle di ferro, era marchiato con il leone di S. Marco. Unitamente ai due cannoni fu trasportata anche una quantità di palle in ferro e di pietra e una colubrina (fig. 4).

Fig. 4, rappresentazione grafica di cannoni e colubrine

 

Ecco il testo: Uno cannone petrero et le arme castriote, due casce ferrate e due rote ferrate. Un altro cannone di bronzo  serpentino et le arme di S. Marco  et casce e rote ferrate. Una mezza colubrina di ferro et una cascia ferrata  e più palle di ferro, grocchi, cintruni, sarandri. Palle 64 di ferro curate del cannone serpentino e palle 105 di petra del cannone petrero. (Fig. 5).

Fig. 5, falconetto del XVI sec

 

Intanto, scomparsi anche gli ultimi eredi di Don Alfonso la Contea tornò sotto la giurisdizione del Viceregno. A nulla valsero gli forzi del sindaco Virgilio Della Porta di lasciarla nell’amministrazione del Regio Demanio perché nel frattempo il genovese Uberto Squarciafico l’aveva acquistata per 29.700 ducati.

Un passaggio di consegne del 1556 tra il castellano uscente Stefano de Ayala e il suo successore Pedro Lopez de Marca inviato da Ludovico de Bariento, consente di conoscere tanto la consistenza delle riserve alimentari quanto i dispositivi destinati alla difesa del maniero.

In primis viene descritta un’asta con lo stendardo sul quale erano riportate le insegne di Carlo V (l’aquila imperiale con un Crocifisso in mezzo alle due teste); una campana collocata sopra lo campanile di detto castello che serve a fare la guardia di notte” (si tratta della campana situata nell’edicola al vertice del portale d’ingresso).

Tutta l’artiglieria in bronzo che consisteva in un falconetto di nove palmi (due metri e mezzo); altro falconetto di tre palmi e mezzo con le insegne di S. Marco; un carro di otto palmi e mezzo con cassa dotata di ruote di ferro nuove; un carro rinforzato di dieci palmi e mezzo; un curtaldo (piccolo cannone trainato da cavalli) di sette palmi; 27 smerigli (piccoli pezzi di artiglieria) di varie grandezze su alcuni dei quali è incisa la figura di S. Barbara, un altro smeriglio rinforzato di poco meno di cinque palmi, uno scudo e una croce. Dell’artiglieria in ferro facevano parte: 5 bombarde, 26 mascoli grandi e altri 26 più piccoli, 26 archibugi (fig. 6), 24 fiaschette (piccoli recipienti per conservare polvere da sparo), 46 tenaglie, altri 98 archibugi, 53 chilogrammi di polvere da sparo, 2000 chilogrammi di salnitro contenuto in cinque casse, 23 cantàre di zolfo e 70 palle di ferro.

Fig. 6, soldato spagnolo con archibugio

 

Tra le armi bianche si contavano alabarde, lance e punte di lance. E ancora: zappe, picconi, numerosi attrezzi in ferro, corde, funi, 2800 fascine, 29 carrette di legna e 362 canestri.  Non appaia inverosimile, dunque, la notizia riportata dall’anonimo cronista del ‘700 contenuta nelle  “Memorie dell’antichità di Copertino” secondo cui “Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artigliaria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro.

Nell’aprile del 1557 a Hernando de Bolea subentrò un altro spagnolo,  il governatore Bartolomeo Diez al quale, il 23 maggio seguente, su disposizione di Carlo V, fu ordinato di consegnare ai marinai Giorgio de Candia e Marco de Michele una quantità indefinita di munizioni per essere trasportate, via mare nel porto di Pescara a disposizione della guarnigione di soldati presenti nella fortezza pentagonale progettata dall’architetto militare Gian Tommaso Scala e terminata di costruire proprio il 1557.

Ma, se il castello cominciò a perdere la funzione difensiva le sue mura continuarono ad offrire un tetto a coloro che a vario titolo erano stati destinati alla sua difesa tra cui Giovanni de Sisegna, alfiere di armatura pesante della compagnia del duca di Urbino; il suo collega Gaspare della Porta, soldato di armatura pesante; il lombardo Alessandro de Valbona che aveva servito Hernando de Bolea; Pietro de Valandia, spagnolo di Ordegna e Stefano de Ayala che nel frattempo aveva sposato Laura Roccia di Gallipoli.

Quando nel maggio del 1603 la genovese Nicoletta Grillo – vedova di Cosimo Pinelli iunior, II duca di Acerenza, III marchese di Galatina e V conte di Copertino – stabilì di procedere all’inventario dei beni presenti nel castello di Copertino, armi e armature si erano notevolmente ridotte. L’incarico fu affidato a notar Pietro Torricchio  che il 2 giugno inventariò  16 pietti forti da combattere (fig. 7), dispensati ad altrettanti soldati a cavallo incaricati di sorvegliare le campagne del feudo e 50 pistole con altrettanti foderi.

Fig. 7, pettorale in cuoio

 

Dissolto il pericolo turco  e nella certezza che il castello non sarebbe mai stato al centro di assalti gli Squarciafico scelsero di renderlo più accogliente facendo edificare nuovi ambienti e una cappella intitolata a S. Marco al cui interno collocare i loro sarcofagi. Nel 1602, essendo già scomparsi Livia e suo figlio Cosimo Pinelli, il maniero e le possessioni feudali passarono a Galeazzo Pinelli che, data la tenera età, furono amministrati dalla madre, la genovese Nicoletta Grillo. L’anno dopo costei – che nel frattempo con la figlia Clementina aveva eletto a residenza stabile la lussuosa dimora di Giugliano in provincia di Napoli – stabilì di procedere all’inventario dei beni del palazzo marchesale di Galatone (dimora preferita dai suoi predecessori) e quelli presenti nel castello di Copertino.

Il documento ci restituisce la presenza di arredi e attrezzi di uso comune presenti negli ambienti destinati alla preparazione dei cibi e delle sale destinate al riposo notturno il cui mobilio risentiva delle influenze stilistiche spagnole e veneziane che non si modificarono mai del tutto e rapidamente. I costi, la scarsezza della materia prima, l’assenza di maestranze locali specializzate ne rendevano difficile l’aggiornamento e gli arredi erano rimasti pressoché quelli del secolo precedente. Non sappiamo se la trabacca  principale fu la stessa sulla quale Alfonso Castriota ci dormì con la prima moglie Cassandra Marchese, sposata il 1499. Ma non possiamo escludere che dovette preferire queste mura lontane dagli occhi indiscreti della corte partenopea per incontrarsi con la gran dama napoletana, Giulia de Gaeta. Di certo l’imponente dimora rinascimentale la dovette includere tra le tappe del viaggio di nozze con la seconda moglie, Camilla Gonzaga il cui rito nuziale fu celebrato il 1518 nel castello di Casalmaggiore.

Fig. 8, una sala del piano nobile

 

La camera da letto situata al piano nobile (fig. 8) era arredata con  elementi in cuoio turchino e oro con fregi rossi. Alle finestre e ai vani di porta vi erano in tutto sette tende lavorate in oro e argento. Il  proviero (padiglione del letto con cortina e zanzariera) era di seta verde di Calabria con cappitella (copertura), tornaletto  (larga striscia di tessuto decorato posto intorno al letto). Tre teli di cuoio  di colore rosso con frange in oro; tre materassi ripieni di lana finissima, mentre altri sette erano destinati alla servitù.  Vi erano due coperte di lana bianca fine, una di lana rossa, cinque coperte di lana paesana bianca, un capizzale di lana (stretto guanciale che va da un lato all’altro del letto), cinque cuscini di dimensioni diverse foderati di taffetà verde ed altri due di tipo ordinario. Il mobilio era costituito da una trabacca a mezze colonne di noce, alle cui estremità vi erano pomi e barre indorate. Altre due trabacche  di noce, semplici e a mezze colonne erano dislocate in altra stanza, insieme a due lettère (letti costituiti da tavole poggiate su tristelli); un torciero di legno per la sala; una torcia; tre appendiabiti in ferro;  undici sedie imperiali di noce; quattro sedie veneziane vecchie di legno; tre sedie di velluto verde; due sedie di velluto giallo; cinque tavolini di noce usati; due banchi di noce lunghi con ferri indorati; due sgabelli di noce lavorati; un tavolo di noce lungo un metro e mezzo sorretto da piedi con catene; una seditoia di legno con il suo vaso da notte; un tavolino di legno con tre piedi.

Notevole la quantità di attrezzi e utensili presenti nei locali a piano terra adibiti a lavanderia e cucine. Nell’elenco vengono riportati un porta coltelli di legno; due grandi cofanaturi di creta per fare la colata e una pressa di legno per strizzare salvietti e musali; due alari di cucina grandi; uno scaldacrusca; un grande stipo per contenere alimenti; tre appendiabiti; due canestri per contenere sprovieri. Al centro dell’ampia cucina c’era un grande tavolo da lavoro in legno poggiato su due tristelli in ferro. Il camino era dotato da un paio di capifuoco con pomi in ottone, due palette, un grosso ciocco, un paio di molle, due treppiedi di misure diverse, una zagaglia. E ancora: un grande calderotto in rame; una grattugia; un recipiente in rame per contenere vino; cinque fiaschi in rame; due grandi bracieri di diversa misura di cui uno con base di legno. La preparazione e la somministrazione del cibo non avveniva in stoviglie di creta bensì in contenitori di rame. Quindi vi erano tre vecchie teglie, trenta piatti tra grandi e piccoli; due contenitori di liquidi destinati alla servitù; due scalda vivande di ottone;  due saliere in peltro; tre coperchi per pignatte; due coperchi per teglie; una cucuma di rame grande per scaldare acqua;  altra cumumella in latta bianca; un secchio di rame con rispettiva catena e una carrucola per attingere acqua dal pozzo; una grande cassa di legno destinata al contenimento di orzo.

Nei decenni successivi l’imponente fortezza veniva lentamente svuotata. Non sapremo mai se si trattò di saccheggi o dispersioni agevolate da guardiani distratti. Ai “distaccati” Pinelli seguì la dinastia dei Pignatelli che si legò ai marchesi Di Sangro e ai Ravaschiero. Infine fu la volta dei principi Granito di Belmonte a cui vanno ascritti i tentativi di “rianimare” il castello tra cui il conte Angelo Granito che vi dimorò con i figli e la moglie Adelaide Serra di Corsano. Costoro affittarono diversi ambienti a contadini e artigiani del luogo i cui ricavi non furono mai abbastanza per consentire il ritorno del castello agli sfarzi di un tempo (fig. 9 e 10). Da qui ebbe inizio il lento declino del maniero che si arrestò solo nel 1885 quando fu dichiarato Monumento nazionale, seguito con l’acquisizione al demanio dello Stato il 1956.

Fig. 9, scorcio del cortile interno del castello agli inizi del ‘900

 

Fig. 10, facciata della cappella di san Marco nel castello agli inizi del ‘900

Fonti essenziali

ARCHIVIO DI STATO LECCE, notar Bernardino Bove, coll. 29A, atto del 16 giugno 1553, cc 191v-192r; 175r-176v;  atto del 17 aprile 1553, 152r ;  atto del 21 febbraio 1553 cc 67r-69r.

S. CALASSO, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966.

A. LAPORTA, Copertino, Suppl. in “Rassegna Salentina”, a, III, n, 1 1978.

AA. VV. Fonti per il Barocco Leccese, a c. di C. Piccolo Giannuzzi, Congedo , Galatina 1995.

AA. VV. I castelli della difesa Otranto – Copertino, a cura di M. Milella, Martano Editrice, Lecce 2003.

M. CAZZATO, Evangelista Menga e l’architettura del Cinquecento copertinese, Besa, Nardò, 2002.

Un’opera del Settecento nel castello di Copertino

di Giovanni Greco

Rappresentato privo di vita, con le palpebre abbassate; con il capo reclinato sulla spalla destra nell’atto di esalare l’ultimo respiro. La folta chioma caratterizzata da riccioli ondulati, scende sulla spalla destra lasciando scoperto il collo.

Ecco, finalmente restaurato e fruibile ai visitatori del castello di Copertino, il “Cristo ligneo del XVIII secolo”, opera di ignoto maestro meridionale, intagliata in tronco di latifoglia, alta 64 centimetri e larga 67.

L’intervento conservativo, avviato nell’ottobre scorso, è stato realizzato attraverso il progetto “Opera tua” con investimenti della Coop Alleanza3.0, e votato dal 53% dei soci Coop, vincendo così la tappa di Puglia e Basilicata. L’esecuzione del restauro è avvenuta ad opera della Cnido di Alessandro Burgio, in particolare della restauratrice Chiara Muschitiello, in collaborazione con Fondaco Italia, società attiva nella valorizzazione dei beni culturali italiani che coadiuva l’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco.

Il Crocifisso, che da oggi è possibile ammirare in una delle sale di palazzo Pignatelli del castello, rappresenta il primo esemplare di una collezione di opere d’arte provenienti da sequestri del Nucleo per la tutela del patrimonio artistico. L’opera in questione infatti è un manufatto erratico recuperato presso un rigattiere della zona dalle forze dell’ordine durante un’operazione di sequestro di beni sottoposti a vincolo storico-artico.

Tant’è che le condizioni precedenti il restauro lasciavano intravedere un passato molto travagliato, sottolineato da interventi arbitrari e discutibili. La parte strutturale si presentava gravemente compromessa, priva di due chiodi e del supporto ligneo con funzione portante. Quella scultorea priva di diverse parti e oggetto di profonde abrasioni in corrispondenza della mani e dei piedi.

La policromia visibile prima dell’intervento conservativo non era quella originale: eseguita in modo grossolano, presentava plurime lacune; le indagini diagnostiche condotto da geologo Davide Melica hanno permesso di fare chiarezza sulla stratigrafia dell’opera e sugli interventi pregressi. La restituzione grafica dettagliata in scala del manufatto è stata realizzata da Annachiara Riccardo, studentessa presso il Liceo artistico di Galatina. Alla cerimonia di presentazione c’erano la direttrice del castello, Filomena Barbone; Aldo Pulli, presidente dell’area Coop del meridione d’Italia; Enrico Bressan di Fondaco Italia e i restauratori Burgio e Muschitiello.

Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino

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di Giovanni Greco

Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino, a cui si attribuiscono i lavori di quelli di Mola e Barletta nonchè le fortificazioni di Malta, fu anche tra gli architetti che si alternarono nella fabbrica del Castel nuovo di Reggio Calabria.

La sensazionale rivelazione, a firma di Francesca Martorano, direttore del Dipartimento patrimonio, architettura, urbanistica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, consente di allargare ulteriormente gli orizzonti circa la conoscenza di questo architetto militare originario di Francavilla Fontana e naturalizzato copertinese, per anni al servizio di Carlo V.

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particolare dell’ingresso del castello di Copertino

 

Il nome di Evangelista Menga compare tra i progettisti che contribuirono alla ricostruzione del complesso quadro dell’architettura fortificata in Calabria, richiesta dalle grandi incursioni autorizzate dal sultano ottomano. Una rete difensiva che costò enormi sacrifici da parte della popolazione in termini di uomini, mezzi, denaro. Nel XVI secolo, quando anche in territorio calabrese l’attenzione del potere centrale si spostò dalla singola fortificazione al territorio nel suo insieme, diversi ingegneri e architetti inviati dalla Corona Spagnola, si avvicendarono nella rimodellazione di una serie di opere militari. Antonello da Trani, Giovanni Maria Buzziccarino, Gian Giacomo dell’Acaja, Evangelista Menga, Ambrogio Attendolo, Benvenuto Tortelli, Gabrio Cerbellon sono i nomi di coloro di cui esiste ampia documentazione.

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cortile interno del castello di Copertino (ph Khalil Forssane)

 

A Reggio Calabria i documenti ritrovati qualificano il Menga “capomastro”. Ma doveva trattarsi di un capomastro particolare se il 16 gennaio 1547 gli vennero anticipati dalla Regia Corte 600 ducati di salario. In altri documenti viene definito “architettor dela fabbrica”. La cifra che gli veniva corrisposta non era da poco, se la paga usuale per la qualifica di capomastro era di 8 ducati al mese. Altri pagamenti al Menga vengono registrati per tutto il 1547 e fino al maggio dell’anno successivo.

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Il castello di Copertino

di Fabrizio Suppressa

Immerso tra il verde degli ulivi salentini e a pochi chilometri dal blu del mare Ionio sorge Copertino, un comune popolato da poco meno di 25000 abitanti. Se dovessimo descrivere questa ridente cittadina con un’immagine che la rappresenta, senz’altro ci lasceremmo catturare dalla mole bruno-carparo del castello cinquecentesco e dal mastio angioino inglobato nella fortezza. Una perfetta macchina da guerra, che seppur svaniti i cupi periodi bellicosi, continua tutt’ora a destare rispetto e meraviglia ai turisti che giungono a visitare il Monumento Nazionale.

veduta aerea di Copertino

Ripercorriamo brevemente le origini del fortilizio celate nelle gagliarde murature, sino ad arrivare all’attuale conformazione del “più grande, bello e forte castello che si vegga nella provincia”, per dirla con le parole del Marciano, opera di Evangelista Menga “Architettore eccellentissimo, (..) della Cesarea Maestà di Carlo V”. 

Delle primordiali origini del castello di Copertino vi sono molte ipotesi, la più avvincente riguarda una possibile fondazione bizantina di un castéllion o di una piccola cittadella fortificata che amministrava fiscalmente e militarmente i limitrofi casali. Nonostante accurati saggi di scavi e rilievi a cura della Soprintendenza, ad oggi non sono state rinvenute tracce risalenti a questo periodo storico.

Il primo nucleo ben identificabile è l’antico mastio sorto probabilmente sotto il dominio Svevo e portato a termine dagli Angioini, come testimoniano l’esistenza di alcuni stemmi e l’iscrizione “CAROLUS ANDEGAVENSIS 1267”.

castello di Copertino (ph F. Suppressa)

In seguito, a causa di successioni ereditarie, il feudo copertinese, assieme a quelli di Leverano, Veglie e Galatone, passa ai Gualtieri di Brienne, che appongono il proprio stemma in pietra leccese sul lato Est con l’iscrizione (non più esistente)  “GUALTERIUS DE BRENNA COMES CUPERTINI”.

Possiamo immaginare questa magnifica opera come isolata e probabilmente munita di recinzione e fossato di difesa, non molto differente dalla vicina torre federiciana sita in Leverano. D’altronde in alcuni punti non avvolti da superfetazioni, sono ben visibili una pronunciata scarpa alla base della torre e superiormente dei beccatelli mutilati che sorreggevano probabilmente un camminamento in legno. L’interno era poi costituito da solai lignei, sostituiti poi nel ‘700 con volte in muratura, mentre una scala a chiocciola, realizzata nella spessa muratura, collegava tra loro i vari piani.

Il dongione era praticamente inespugnabile poiché l’accesso originario era collocato alla quota del primo piano, e comunicava con l’esterno tramite un ponte levatoio, di cui oggi permangono gli scassi dei bolzoni sul lato Nord che tracciano sulla scarna muratura una sorta di grossa croce latina.

Con il matrimonio tra Caterina, figlia di Maria D’Enghien e Raimondo Del Balzo Orsini, con il Cavaliere francese Tristano di Chiaromonte, il feudo e il castello vengono donati ai novelli sposi. Tristano, divenuto ora Conte di Copertino, cinge di mura le terre del proprio feudo ed erige il raffinato e tutt’ora esistente Palazzo Comitale, arricchendolo successivamente da un grazioso loggiato con bugne a punta di diamante.

Non passa poco tempo che feudo e castello vedono nuovamente cambiare signore. Con la guerra tra Angioini e Aragonesi e la vittoria di quest’ultimi, le proprietà vengono concesse ai Principi Castriota Scanderberg d’Albania come ringraziamento degli aiuti prestati.

Ma siamo oramai agli inizi del XV secolo, l’invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria sconvolge radicalmente le tecniche difensive di castelli e rocche. In tutta Europa le esili mura medievali vengono sostituite con cortine e opere bastionate ed anche il nostro castello di Copertino verrà perfettamente rimaneggiato alla maniera moderna.

Promotore di queste nuove ristrutturazioni è Alfonso Castriota come ci ricorda la lunga iscrizione che corre lungo il prospetto Nord-Est:

D. ALFONSO CASTRIOTA MARCHIO
ATRIPALDI DVX PRAEFECTVSQVE CAESARIS
ILLVSTRIVM D ANTONII GRANAI CASTRIOTAE
ET MARIE CASTRIOTAE CONIVGVM FERRANDINAE
DVCUM ET COMITVM CVPERTINO, PATER, PATRVVS
ET SOCER ARCEM HANC AD DEI OPTIMI MAXIMI
HONOREM CAROLI QVINTI REGIS ET IMPERATORIS
SEMPER AVGVSTI STATAM. ANNO DOMINI MDXL.

Costui affida l’incarico al copertinese Evangelista Menga, architetto militare nativo di Francavilla Fontana, già divenuto celebre per le sue fortificazioni di Malta, Mola e Barletta.

Il nuovo sistema difensivo, realizzato tra il 1535 e il 1540, si sviluppa attorno agli edifici preesistenti e ricalca planimetricamente il cortile trapezoidale dell’antico Palazzo Comitale. Vengono realizzate le spesse cortine di difesa, suddivise in due ordini di fuoco di cui quello superiore in “barbetta” e i quattro bastioni a punta di lancia collegati tra loro con una lunga galleria che scorre all’interno del perimetro del castello.

Contemporaneamente viene anche realizzato il portale di accesso (sempre opera di Evangelista Menga), dalle geometrie che ricalcano le linee angioine-durazzesche, arricchito inoltre da decorazioni scultoree in pietra leccese e da augustali con i volti dei personaggi che hanno contribuito alla storia dell’abitato.

particolare del portale del castello di Copertino (ph F. Suppressa)

Possiamo immaginare il castello nel pieno del suo splendore grazie ad un anonima descrizione settecentesca custodita presso l’Archivio Vescovile di Nardò:

“Così è fabbricato con ogni regola militare, che sempre a difesa dei suoi cittadini servirà da palladio contro i nemici. Né il suo fabbrico potrà mai venir meno, che per le sue fondamenta appoggiate si veggono sopra il sasso; tanto più sempre durevole, quanto ch’è pietra viva. E’ di passi 200 di circulo la sua pianta, cingendola per intorno il fossato largo passi 17 dalle cortine di fuore, e dalli Baloardi passi 8. Ha quattro torrioni in faccia de quattro venti più principali, difendendo la terra per ogni parte dai suoi nemici: ogn’uno di quelli ha quattordici finestroni, ed in ciascheduno di quelli vi sono due finestre una diversa dall’altra, per dove a traverso può giocare il cannone. (…)

Nella sua porta maggiore non solo vi è il rastrello, ma anche il ponte a trabocco; a fronte di chi, prima di entrare nel suo cortile, vi sono due fenestroni che con delle bombarde minacciano l’ingesso.

Succedendo il bisogno di far mine, e contro mine, così vi sono altre sotterranee corsie, come sotto de li baluardi in terra piana, che guardano le fossate. Vi sono stanze per abitare di varia sorte di genti e per risposta d’ogni attrezza di guerra. Forni, e molini per macinare grani, e polvere, ritrovandosi in quantità nelle sue grotte il salnetro. Non mancano le provviste dell’acque piovane nelle molte cisterne; come in un pozzo l’acque surgenti dolcissime, ed in abbondanza. Il fabbrico delle sue mura è largo palmi 35 con calcina di molta gran forte mistura. Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artiglieria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro. Il piano vicino al castello è tutto minato, e con difficoltà questa fortezza potrà essere abbattuta.”

Con l’estinzione del ramo Castriota, il feudo viene messo all’asta dal regio demanio e acquistato dagli Squarciafico, banchieri genovesi con molte attività nel Salento. A questa famiglia dobbiamo la realizzazione di un capolavoro nel capolavoro, ovvero la costruzione della cappella di San Marco (realizzata al di sopra di una angusta cripta tutt’ora esistente) interamente affrescata dal pittore copertinese Gianserio Strafella con scene del Vecchio e Nuovo Testamento; senza tralasciare un ulteriore opera d’arte custodita nella cappella: il monumento funebre di Stefano e Uberto Squarciafico realizzato dallo scultore gallipolino Lupo Antonio Russo in stile manierista.

Negli anni a seguire si susseguiranno ulteriori nobili famigli, quali i Pinelli, i Pignatelli e i Granito di Belmonte, che passata la paura ottomana, trascureranno il nostro castello a favore di palazzi molto più sfarzosi e confortevoli nelle città più importanti del Regno.

L’ultimo periodo di gloria per il castello avverrà verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il re Vittorio Emanuele III e il Governo Badoglio rifugiandosi a Brindisi, stabiliscono qui il Comando di Presidio dell’Esercito. Tutti i locali interni e le aree attorno saranno destinate al ricovero delle truppe someggiate.

Verrà in seguito, dopo anni di abbandono ed incuria, acquistato dal Ministero che in accordo con la Soprintendenza darà il via ai lavori di restauro e di restituzione dell’opera come polo culturale ai suoi legittimi possessori: i cittadini di Copertino.

Libri/ Copertino. Immagini e storie

castello di copertino (ph M. Gaballo)

di Paolo Vincenti

Copertino. Immagini e storie”, di Mario Cazzato è un libro edito, per il Crsec Le/38 di Copertino Regione Puglia, dalle Grafiche Panico (2005). “Copertino. Immagini e storie”, a cura di Pierpaolo De Giorgi, offre una ulteriore riflessione sulla storia di Copertino dei secoli passati e va ad aggiungersi alle preziose pubblicazioni sulla storia del casale salentino già edite. Solo che stavolta si tratta non di una pubblicazione scientifica tout court, ma di un volume che, pur attingendo alla storia copertinese, si ritaglia ampi spazi  di invenzione fantastica, collocandosi  a metà strada fra il romanzo storico ed il saggio di carattere divulgativo. Si tratta di una storia avvincente offertaci da chi, come Mario Cazzato, ha una lunga esperienza di pubblicazioni di storia patria ed è avvezzo a consultare archivi e biblioteche, per dare alle proprie pubblicazioni il crisma della scientificità e del rigore nella ricerca.

Stavolta, però, Cazzato ci offre una lunga passeggiata nel XIV secolo, in compagnia di un cavaliere francese, Sourè, che arrivò a Copertino al seguito dei dominatori angioini e che, per propria devozione, realizzò, nella campagna fra Galatina e Copertino, un santuario dedicato a San Michele Arcangelo, santo guerriero dal Sourè molto amato. Questa devozione è testimoniata da una lunga

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