Achille Tresca di Lecce, il plagiario seriale

di Armando Polito

La condivisione, come tutti i concetti umani, ha una connotazione morale neutra, nel senso che sarà l’applicazione concreta a decidere, sulla scorta di ciò che la nostra razza, troppo spesso per unanime, ipocrita convenzione che per sincera e responsabile convinzione, avrà fatto in concreto, se condividere, come anche il suo contrario, dissociarsi sia un bene o un male. Se qualcuno mi chiedesse un vocabolo o una locuzione sostitutiva di “rete” direi senza pensarci su troppo, “condivisione digitale”. Già quella non virtuale aveva i suoi inconvenienti: riferendomi, per esempio,  alla pubblicità, sono veramente sempre sicuro dell’affidabilità del passaparola relativamente alla bontà o meno di un prodotto? Pagheremo di persona, questo è certo, l’esserci fidati e pure il suo contrario e, se non siamo idioti, dopo essere rimasti disgustati, mettiamo, da un prodotto alimentare consigliatoci da un amico, non consumeremo più quel prodotto e ci terremo l’amico? Ma al mangiare, diventato sempre più freneticamente convulso e disordinato, della vita reale, corrisponde il fagocitare di quella virtuale e, come tendiamo a rimpinzarci di quel certo cibo di una certa marca che in quel momento è di moda, così tracanniamo, senza pensarci su almeno tre volte, tutti i bocconi che la rete ci offre: ora genuini, ora artefatti, ora scientificamente fondati, ora giullarescamente fantasiosi , e chi più ne ha più ne (im)metta. Finché il social non è esistito,  il rischio della diffusione del letame culturale (che non fa bene al cervello come, invece, quello reale fa bene alla terra) si limitava in partenza a qualche blog personale (in cui non mancava qualche banner a farti l’occhiolino …) in partenza e nella credulità dell’internauta in arrivo. Quest’ultimo, però, se avesse voluto rendere partecipe qualche amico dei contenuti che avevano suscitato il suo entusiasmo, avrebbe dovuto annotarsi l’indirizzo e passarglielo: operazione troppo complicata per diventare abituale. Con il social la musica cambia, perché basta un semplice clic per condividere con tutto il mondo qualcosa di veramente nostro o spacciato come tale (senza citazione dell’autore per pigrizia o, più spesso, per malafede) o qualcosa che altri a loro volta hanno condiviso con noi; e in qualche caso con effetti esilaranti … (https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/20/uno-scherzo-da-prete-anzi-da-cardinale-no-unidiozia-made-in-web/).

Com’è noto, il reato di plagio riferito ad una persona è stato cancellato dal nostro ordinamento, ma permane, almeno sulla carta, quello riferito all’ambito artistico in generale ed a quello letterario in particolare. Se lo sfruttamento commerciale di un’opera altrui era in passato facilmente perseguibile avendo tra le mani il corpo del reato (la pubblicazione plagiata), con l’avvento della rete l’operazione risulta molto più complicata perché spesso la creatura spacciata per originale è un mosaico frutto di un copia-incolla in parecchi casi, fra l’altro, pateticamente maldestro.

La stessa rete, però, a dimostrazione che anche un raggio laser può incenerire un corpo o guarirlo, offre lo strumento, a chi ne ha tempo ma soprattutto voglia, di smascherare l’inganno tramite l’accorto uso di motori di ricerca sempre più sofisticati.

Il caso contemplato nel link prima segnalato è a tal proposito emblematico, ma quello che sto per proporre è ancora più interessante e, per certi versi, scandaloso1, nonché la riprova che il proverbiale vizio del lupo è congenito, invece, alla nostra razza …

La Biblioteca arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi custodisce, fra l’altro, manoscritti, alcuni dei quali, digitalizzati ed immessi in rete, ho potuto sfruttare più di una volta2.

Potrei definirlo, in base alle conclusioni che ho tratto, Dossier Tresca. Prima di entrare nel cuore dell’argomento, non guasta qualche immagine.
Chi volesse leggere integralmente quello che riguarda il post di oggi, lo troverà all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209704&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU.

Inizio con quello che può essere considerato a tutti gli effetti (lunghezza compresa, non certo eccezionale a quei tempi) un frontespizio.

Descrizione della Giapiggia in lingua Toscana formata d’Achille Tresca di Lecce per servizio, ed uso del Real Infante D. Carlo IV Borbone, Dio gratis, degnissimo Real Figlio di D.  Ferdinando IV, che il Ciel feliciti, Invittissimo Monarca, Re delle due Sicilie, di Gerusalemme, Infante delle Spagne, Duca di Parma, e Piacenza , e Castro, Gran Principe di Toscana, e Suoi Gloriosissimi Antecessori. Nella medesima opera l’Autore dedica ed offre venti sonetti, e due sestine alla R. M. di D. Ferdinando IV, Real Progenitore del sopra nominato Reggio Infante. 1775

(carte 4r-5v; la foto seguente si riferisce alla 4r, la trascrizione a tutte)

 

Cinque lettere responsive, che forma l’Autore in lingua toscana, e le dirigge per la volta di Vineggia ad un tal Ettore Morosini, chi dimanda d’aver qualche distinta notizia della Giapiggia, come familiarissimo Amico del medesimo.

Allorché, Sire, mi surse talento di pregare S. R. M., Dio gratiis, a concedermi la grazia, ed a darmi l’onore di poter io dedicare La descrizione della Nostra Giapiggia al vostro Reale Infante, e nostro Novello Padrone, fu sorpreso il mio cuore da un eccessivo piacere, perché conobbi avverato quel, ch’egli innanzi tratto presagito m’avea, val quanto dire, che la nostra Padrona, che il Cielo la conservi, e la feliciti, infantar si dovea, e produrre alla luce un Real Bambino;  tanto più crebbe in me la gioia, ed il contento in aver io la bella, e vaga sorte di vedere assicurati li vostri Regni, e Domini colla perpetuità della Prole, e di godere noi il gran vantaggio d’essere perpetui Vassalli, come di Vostra Real Maestà, così ancora della di lei Real Progenie, per lo mezzo della nostra discendenza. Io non ò tralasciato, come tuttavia non cesso, di porger grazie all’Altissimo per un tale felice avvenimento;  gli avanzo di continuo le mie preghiere per la conservazione di S. R. M., e per quella del suo Real Figlio, affinché in processo di tempo se ne veda Progenitor contentissimo; e noi altri suoi fedeli Vassalli possiam godere gli effetti, non solo di vostra protezione, m’ancora di quella del vostro Reale Infante in staggione così lieta, e tranquilla, com’è la nostra, perché parmi rinovellato l’aureo tempo de’ Cesari, e dell’Augusti. Mentre ch’io ero dalla grande allegrezza scosso, ed aggitato, mi ritenevo nel chiuso recinto della mia stanza brillandomi il cuore in petto fuor dell’usato per lo soverchio impiacimento alla novella del felice successo , quando mi si fe’ presente la mia musa, ed in atteggiamento di leggiadra, e veneranda donna venn’ella meco a parte della mia consolazione, poiché fattamisi d’appresso tutta lieta, e festante, dettandomi in una notte, ed in jn giorno sessanta sonetti, e sei sestine, dieci  de’ quali, ed una sestina ò stimato i situarli nel principio della descrizione della Giapiggia, ed altri dieci con un’altra canzone nell’ultimo luogo della medesima. Il rimanente lo serbo io presso di me, per non recar noia, ed infastidire S. R. M. colla lunghezza, e coll’inculto stile de’ miei rozzi versi. Va’ mi disse ella, che là dove ptterai dedicar la descrizione della Giapiggia al nato Infante Reale, parmi ben convenevole di offerire alla R. M. di Ferdinando IV, di costui Real Progenitore, quel che ora io ti detto. Dopò di chè ottenutami la promessa, si dileguò in aura la musa, e mi si diè l’aggio di esemplarne la copia delli seguenti versi, quali a S. R. M. gli presento, ed umilio. Sire, conosco molto bene di qual castigo sia degno colui, che alla sua musa oppone, e contrasta: quindi per obbedirla, mi convenne fargli alla M. S. presenti . Ma mio malgrado, perocché stimo di essere troppo grande l’audacia di quei vassalli, che s’ingegnano di lodare in prosa, od in verso la virtù del loro Monarca, essendo questo qual chiarissimo Sole, che dapertutto scintilla, e risplende. Egli è un Vicedio della Terra, cui deesi prestar cieca ubbidienza, e rispettoso omaggio da’ suoi Vassalli; ma incoraggisco il mio spirito ad umiliarle i qui descritti versi, non per altro motivo, se non se, per dimostare al mondo la fedeltà. e devozione di un suo umilissimo, e sincero suddito, qual’io sono, e protesto; ed oltre a ciò le porgo tal proferta benche tenuissima, affinché i Lettori della descizione della nostra Giapiggia possano in verità rilevare, che alla bellezza del sito della medesima, alla moltitudine de’ prodotti corrisponda assai bene il Real Valore del Padrone,  che la possiede, qual’è S. R. M., di cui umilmente ne imploro la protezione.

 

Seguono (carte 5v-12r) 5 sonetti e una sestina e ancora 5 sonetti. Per motivi di spazio, già prima emersi, da ora in poi riporterò solo la trascrizione dei brani che ci interessano.

 

(carte 13r-16r)

Cinque lettere responsive, che forma l’Autore in lingua toscana, e le dirigge per la volta di Vineggia ad un tal Ettore Morosini, chi dimanda dall’Autore d’aver qualche distinta notizia della Giapiggia.

Lettera prima

Ecc.mo Sig.re

A me medesimo rincresce, ed il mio cuore è da gran cordoglio trafitto, quando meco stesso considero d’essersi in parte spenta, e pressoché dell’intutto dileguata la gloriosa rimembranza, ed il celeberrimo nome della nostra rispettabile Reggione, talché se vestiggio alcuno, per così dire, o reliquia di gran Cittadi  in parecchi luoghi si scorda, ciò però non ostante se  n’è smarrito il sentiero,e se n’è confusa la traccia, né rinomata alcuna sovrasta, o delle orrevoli cose intraprese, o delle Città medesime, o di alcune lettere particolari, onde gli nostri Giapiggi si servivano, innanzi tratto, che i Greci qui calassero appresso il Troiano Eccidio. Questa è del Mondo la variabile incostante vicenda. Corrono a dileguarsi le cose de’ Mortali, non altrimenti, che lieve soffio d’aura passeggiera, o pur qual nebbia, qual ombra, o qual fugace sogno, il vorace tempo tutto rode, e consuma. Penzo io, che la nostra Giapiggia fusse stata molto gloriosa, e di celeberrima fama poco prima del Troiano diroccamento . Ripigliò la medesima forza, e vigore dopo l’arrivo di Lizzio Idomeneo, e de’ Spartani, e di Falanto, vergando i Greci il tutto sù delle carte, per li autentici monumenti delle lettere. Di belnuovo li Goti, indi li Longobardi occupando l’Italia a richiesta de’ Greci, o piuttosto de’ Romani, ogni Reggione, ch’era nel mezzo dell’uno, e l’altro Impero fù da que’ Barbari miseramente devastata, e pressoché distrutta, giacché trovasi la Messapia ,o sia Giapiggia allogata nel mezzo dell’Oriente, e dell’Occaso. Porgo a S. E. un esempio qual fù la Guerra de’ Turchi, che se poco prima fusse stata eseguita, forse, e senza forse tutta la Giapiggia vedrebbesi da noi presentemente al suolo adeguata, e compiagnerebbesi nostro malgrado la totale rovina della medesima. Fioriva, egli è vero, una gran moltitudine di uomini, una gran copia di Città, e di Reggioni là nel Peloponneso, capace di molti potentissimi Popoli; ora però dalle continue Guerre de’  Viniggiani, e de’ Musulmanni è stata in tal maniera rovinata, e disfatta, che reca pietoso spettacolo agl’occhi de’ guardanti. Il documento degli antichi scrittori da noi si è smarrito. Come di Eratostene, e d’Ipparco. Nella staggione di Ptolomeo, Plinio, Pomponio, Strabone, e Dionisio in questa Terra altro non vi soprastava per la variabil fortuna delli umani accidenti, che piccoli Contadi, Terre malnote, o neglette. Se a noi sarà di gradimento di riandare i libri degli antichi Istorici, e Giografi, ritroveremo nella Giapiggia anche cose degne di ammirazione e perciò d’esser annotate. Falanto, Platone, Archita, Aristotele, Theofrasto, e le Guerre di Annibale: il porto di Brindisi meritò da pertutto lodevolissima fama, e solenne rimembranza, per lo passaggio de’ Romani in Grecia. Quindi gli scrittori tramandarono a noi delle testè divisate cose qualche memoria considerevole, e speciosa. Io mi persuado, e credo, che Giovano Vitalliano abbia dato gloria, ed onore alla Città di Otranto, la di cui manierosa maniera pompeggiò e di eterna rinomata divenne a’ tempi di Giustiniano Imperatore, mentre ché Vitalliano lo serviva da Capitano nella Guerra de’ Goti, onde prese tutta la Provincia il nome dell’anzidetta Cittade. Leuca, Ugento, Gallipoli, Nardò, Vaste, Galatone, Soleto, Rugge, Mandurio, Cellie, Oira, Galeso state sono dall’ingiurie de’ tempi desolate, e pressocché diserte, e l’Eroiche gesta de’ Naturali, e Cittadini delle medesime furon poste in oblio, od ignorate, o neglette. La nostra Lecce sol tanto egli è purtroppo rinomata, e gloriosa per la storia del Principe dell’Antonino, la qual ne addita, che abbia egli tratta la sua materna prosapia da Malennio di Dasumno Figlio, e Re de Salentini. Altri chiamolla col titolo di Lupiarum, altri col solo nome di Rhudiarum. Guidone di Ravenna, che molti scrittori li più moderni in parecchi cose lo adoprano per Testimonio, e che io poco fà ò letto, e riandato, non è né troppo novello, né troppo antico  Autore. Lo stato in cui erano le nostre cose nel di costui secolo rilevasi a chiaro lume dalle parole del testé divisato, le quali io con brevità ne porgo a S. E.; e presento in brieve il senso, e il significato. Leggonsi molte cose che fà duopo comprendere, e capire. In alcune altre mancò, in quelle deesi accaggionare l’ingiuria del tempo. In questo è degno di compatimento, in quelle meritevole di lode. Perocché se quelle in qualunque maniera siano, scritte non avesse, neppur noi potremmo a chiaro lume capire queste, che a S. E. scrivo. Egli il divisato Autore è stato il mio fido compagno con averlo più fiate trascorso, e riletto. Dal di lui avviso, e notizia me ne sono avvaluto, senza mai dipartirmi dal suo giudizio, e dalla mia idea, quando l’ò conosciuta, e ravvisata alla verità più propinqua,e vicina. Non così aggevolmente può mettersi  in prospetto quel che una fiata si è dileguata, ed abbolito dalla memoria degli uomini. Noi per quanto le nostre forze reggeranno cerchiamo sempre dar lustro al Padrio suolo. Ch’egli tra’ Salentini abbia considerata Lecce, non traviò dal vero, ma fecesi vincere, e superar dall’errore allorché nomò Gallipoli colla voce  di Lecce, ch’Ennio tratti avesse i suoi natali nella Calabra sponda; dice il vero che abbia avuta, e sortita la sua origgine in Taranto, s’inganna all’ingrosso. Perciocché Pomponio dice, che la Nobiltà dell’Antica Rugge la tragga, e la ripeta dal suo Cittadino Ennio,qual Città non era troppo da Lecce lontana, anzi se voglia prestarsi fede a’ que’ pochi spezzoni, e fragmenti, che a noi il testè divisato Poeta sono per buona nostra sorte rimasti illesi dall’ingiuria de’ tempi, egli medesimo di propria bocca confessa – Rhudiae me genuere vetustae -. Il ché non era troppo da Lecce distante. Forse trà queste due Città frapponeasi  lo spazio di tredici stadii, ed è rimasto deluso, e ingannato dall’uno, e dall’altro nome per la voce, ed appellazione de’ suoi Natali dal sopra descritto Autore prostituita,  e corrotta. Non tedio di vantaggio S. E. con tali oscuri racconti, mentre resto baciandole divotamente le mani.  Lecce li 2 Agosto 1772. Divotissimo servitore vostro obbligatissimo Ach. Tresca

Chiedo scusa al lettore se ho scelto di far parlare lo stesso autore, ma questo espediente permetterà di comprendere più agevolmente  l’intera questione. Fino ad ora, comunque, abbiamo appreso attraverso la lettera appena riprodotta che Achille Tresca3, aderendo ad una richiesta del suo amico Ettore Morosini, si appresta a fornirgli una descrizione della Iapigia, per la quale dichiara come fonte principale, anzi pressoché unica, Guidone di Ravenna, geografo del XII secolo, autore di Geographica, opera in cui laconiche notizie sulla Iapigia appaiono in ordine sparso (27-29, 69 e 71-72). Prima di procedere è opportuno ricordare che alla data del 1775 l’opera più completa sulla Terra d’Otranto rimaneva il De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis (1444-1517) alias il Galateo, opera uscita postuma per la prima volta per i tipi di Perna a Basilea nel 1553. É vero pure che Girolamo Marciano aveva già scritto Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, ma l’opera rimase manoscritta fino al 1855, quando venne pubblicata, con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese, per i tipi della Stamperia dell’iride a Napoli nel 1855.

Con la seconda lettera (carte 17r-31v) del 2 aprile 1773, con la terza (carte 32r-59r) del 6 aprile 1774 e con la quarta (carte 60r-100r) dell’8 maggio 1774 il Tresca invia quella che è in sostanza la traduzione dell’opera del Galateo con qualche aggiustamento che non tradisca l’imbroglio e guardandosi bene dal citarne almeno una volta il nome o l’opera4. Puntigliosa (non può essere altrimenti,quando l’accusa mossa è grave, anzi gravissima …) documentazione di tutto ciò è alla fine di questo lavoro.

Ad onor del vero di questo si erano già accorti i letterati dell’epoca, come testimonia la replica del Tresca (carte 133r-139v), ridicola ed tratti veramente imbarazzante, pur in assenza della lettura diretta (ammesso che da qualche parte si conservi il testo) della stroncatura: Protesta che fà l’Autore ad una lettera cieca pervenutagli. Alcuni saccentuzzi del nostro secolo avendo incombro il di loro petto da livido cuore d’invidia, ed avendo nell’istesso tempo inteso, che volevo io dare alle stampe la descrizione della nostra Giapiggia, vibrarono contro di me la lor trifulca lingua, dichiarando sotto ignoti caratteri, che io non avevi troppo bene penzato di mandare a capo il mio disegno per li quattro seguenti motivi.

Primieramente, come io nel descrivere la Giapiggia abbia trascurato di dare al Corrispondente una distinta descrizione di me medesimo.

2 Che io nella ridetta opera mi sia portato con isfrontatezza da succido ladrone, avvalendomi delle altrui fatighe, e sudori, da donde cercai rintracciarne gloria, e fama.

3 Che io abbia fatto un pasticcio, tramestando nella consaputa opera versi, e prosa per obietti troppo diversi e staccati.

4 che mi conveniva parlare, e far menzione all’orbe intero nel divisato libro dell’Eroiche virtù, e della gloria della nostra Real Padrona che Dio sempre la prosperi, e secondi, a’ quali motivi l’Autore à dovuto rispondere colle seguenti proteste.

Ero già pur troppo vago, e desideroso a formar la descrizion della nostra Giapiggia per darne io un dettaglio all’Italiana Nazione. Mi è riuscito grazie al Cielo, divisarne quel  breve saggio, e corta relazione, come per me s’è potuto, ma finalmente mi sono di già avvertito, che avendo io voluto mandare a capo la medesima abbia mancato il di più, che mi era convenevole. Conoscerà ognuno da’ miei apporti la vaghezza del di lei sito , l’amenità dell’aere, ed il moderato temperamento del clima, e quanto sia la medesima ferace, e copiosa di tutto quel,che poteva la benigna Natura a soccorso, e nudrimento dell’uomo prestare; ma non comprende di quali imperfezioni sfreggiato sia lo scrittore, e di qual corrotto,  e guasto costume composto,e sguisato. Misera umanità! Descrivesi alle Repubbliche il di più, ed il meno si trascura. Rimiro spesse volte, e meco stesso considero l’ignoranza, e l’audacia degli uomini a parlare delle cose, che sono fuori di loro, senza darsi penziero di formar la descrizione del di loro temperamento, ed umore. Se l’Alto Divin Facitore nel produrgli alla luce avesse lor cangiata la falda della bisaccia, talché quella, che nel dorso va’ sospesa, fusse nel petto, vedrebbesi a chiaro lume ammanzita la di lor vanità, e ciaschedun di noi favellar diversamente da quel che raggiona. Ero io già di fresca guancia vestito, e cominciava a balenar nel mio spirito fior di raggione quando io derterminai applicare allo studio dell’umane lettere. Mi chiusi perciò nella scuola della Grammatica,e quotidianamente raggiravami all’intorno di quei libri, da donde rilevar potess’io il conoscimento, e la pratica di saper la lingua latina. Mi versavo nella profana, e sacra Storia, e divagava sovente il mio penziero col verseggiare e col farla da imperito Poeta. Ma lasso me! Dove incauto trasportavami il fallace desio. Mi ero già impratichito de’ versi di Orazio, di Virgilio, e di Omero, parlavo speditamente l’idioma latino, della Storia ne avea preso qualche saggio, e dettaglio, ed al pari d’ogn’altro inculto versificatore facevo carmi, e sestine. Ma che! Sul bollor delle mie applicazioni, mi assaliva un panico timore, che scuotendomi dapertutto le ossa, mi gelava ben volentieri il sangue nelle vene. Divenivo sovente bersaglio della malnata cupidiggia, che tutto giorno mi conquidea, e mi affannava.Tormentavami l’ira e la libbidine, scoglio inevitabile a cui rompe, e frange l’incauta Gioventù. Era l’intestina guerra, ed il contasto de’ giorni miei. Terminato il corso della Grammatica, un’intensa voglia mi trasse in età piucché adulta d’imparare a suonare il cembalo, per sollevare l’animo dalla diuturnità de’ miei studi. Piacevami l’acuto de’ tuoni, ed il grave delle note mi feriva lo spirito per l’armonia, e proporzione delle consonanze. In tale stato di cose dall’esterno suono delle corde passavo sovente a determinare il mio animo sicché reggesse in calma, e trà la quiete ne’ colpi della seconda, ed avversa fortuna. Ma ciò tutto era vano, perché non sostenea egli nelle occasioni al martello.   Dalla musica bene spesso alla Giomedria facevo io passaggio. Mi era gradevole la cognizione dell’essenza de’ triangoli, della natura de’ circoli, e de’ quadrati. Sapevo, che le linee rette tirate dalla circonferenza del circolo fino al suo asse, equalissime fussero trà di loro nella lunghezza e nella dimenzione. Dopò di qualche profonda applicazione, che io nella suddetta scienza metteva, dimandavo a me stesso: misura con matematico ordegno la grandezza, e moltitudine de’ vizii tuoi, la smisurata propenzione del tuo cuore, che à nello sdegno, nell’invidia, negli amori, nella gelosia. Puoi tu (ripigliavo io meco stesso) dalla medesima dedurre, che con i de lei insegnamenti arrivi l’uomo a scandagliare, e misurar se medesimo circa a quanto gli sia bastevole, ed intorno a quello, che la vanità lo predomini. Ti è nota e manifesta l’essenza della linea retta; ma ignori la rettitudine dell’oprare. Egli è aggevole col matematico compasso dividere in più parti il tuo rustico predio, o campo; ma tutto riesce di poco frutto,  quando dalle Professioni non si rilevi la maniera di rendersi in ogn’ora felice, e contentarsi de’ beni, che dentro di se stesso nascono, di cui mi rendo incapace prenderne compiacimento, perché divagato dal copioso fallace stuolo de’ beni stranieri (se così vogliam dirli) onde sono convinto, ed invischiato, non mi permette la scienza di me medesimo. Mi apparto dalla Matematica, ed alla Scuolastica Filosofia mi appiglio. Quante, e vane questioni mi si paravan d’innanzi, che per comprenderne delle medesime il vero sovente il mio intendimento turbavano. Volevo io conoscere l’essenza del vacuo se disperso, se disseminato raggirasse nella gran machina del Mondo, se la corporea dimenzione soggiacesse a’ colpi di ferro, che in infinitum la disgiunga, e divida. Ma traea la voglia di percepire colla raggionela Natura, ed Esistenza del Divin Facitore, come l’uomo s’ingeneri, da donde acquistino il movimento le veggetabili, e le sensitive creature, da quai principi sia ogni Ente prodotto, se dal fuoco, come ad Anassacora piacque, o da i quattro elementi, come altri dicea. Dimandavo con fervorose preghiere dalla Filosofia, che mi dichiarasse la materia del sole; ed ella sovente rispondeami: Egli è di ferro, o di selce, o pur di altra più nobile sostanza di fuoco. In fine nel mezzo della medesima mi scorgevo io tutto cinto di tenebre, e ravvolto nel buio degli errori, e dei dubii. Trà le molte naturali questioni mi consideravo uno Stoico, un Pirronista, dalla curiosità conquiso, e niente pago di aver potuto rintracciare il vero delle cose. Da tali atteggiamenti di spirito volgevo dentro di me stesso lo sguardo, ed altro non ravvisavo, che un’assidua violentissima procella di spinose cure, e di affanni, talché naufrago io nello svariato Pelago di tanti mali, non sapevo qual onda secondare come amica, e qual, come avversaria schifare. Da tutto ciò potrà ogn’un comprendere quanto sia di vanità l’uomo carco, e ricolmo, poiché gli riesce aggevole di formar la descrizione piuttosto delle cose esterne, che di se medesimo.                Cade qui in acconcio il detto di Bionte “Nil difficilius, quam nosse se ipsum”. Quindi dove si può molto bene delle cose parlare senza prevenzione di passione; il formare una pittura del mio guasto, e corrotto natural costume, era troppo per le mie forze malaggevole, e difficoltoso. Descriver l’uomo è lo stesso,  che dipigner  tele, e ritrarre in carte l’ingratitudine, e l’incostanza. Ognun conosce le massime del mondo traditore, tutti vediamo a chiaro lume l’insussistenza del nostro penzare. Quel che ora io trà me stesso risolvo frà pochi momenti mi affanna, e mi affligge, e tormentandomi lo spirito mi fà tosto cambiare voglia, e penziero. Ogn’aura ci scuote, ogni vento ci altera, qualunque svariata vicenda ci perturba, e scolora.Perciò parmi che poco bene rifletta colui, che voglia lo stesso descrivere al mondo,  perché nemo tenetur infamare se ipsum. Oltre di questo se l’Autore nel descrivere la Giapiggia, o ne’ versi, ch’egli a Sua Eccellenza presenta, ed umilia avrà preso qualche sbaglio, o si troverà qualche proposizione del medesimo, che si opponga, e contrasti le leggi della nostra Religione Cattolica, o pure i dettami della pulizia dello stato, il sudetto Autore avvanza le sue proteste dirette a’ correggitori di quest’opera, che vadano, cassino e cancellino tutto, quel che di soverchio, d’improprio, e di erroneo sarà stato nel decorso della medesima scritto, e vergato. Implora un benigno compatimento, giacché la povera umanità è troppo sottoposta, e soggetta a travedere nel buio, e nelle tenebra dell’ignoranza, di lei indivisibil compagna. “Hoc unum scio, me nihil scire”. Brontola contro di me la veneranda adunanza de’ letterati, che nella sudetta descrizione della Giapiggia da vero ladro io mi sia mostro, et additato, perché altro non abbia fatto che rivangare quel, che altri ne’ secoli caduti con diverso idioma ne scrisse. Cesserà però la maldicenza, e la critica di costoro, mentre io sarò per ricordarli, che ogni scienza nel mondo sia limitata, e finita, perché dalli uomini  escogitata, e prodotta. Non vi à Poeta, Prosatore non trovasi, che nelle sue respettive opere non s’abbia d’altri antecedente lui servito, ed avvaluto. Confessa tutto ciò a chiare note il nostro Orazio, che fù fedel imitatore di Lucilio, Virgilio fedelissimo seguace di Omero e tanti altri di rinomatissima rimembranza, che a rammentarli tutti sarebbe lo stesso, che non finirla giammai. Sono ammaestrato dalla ragion legale, che “Pater, et Filius sint una eademque persona”. Dal che se ne potrà dedurre, che avendo avuto io il desidero di dedicar le lettere della Giapiggia alla Maestà del nostro Reale Infante (che Dio lo conservi) stata sia audacia troppo grande la mia farla da Poeta, e ricantar le glorie di Filippo IV nostro Real Padrone. Bella riflessione invero formata da’ nostri giureconsulti, non per altro motivo, se non se, per quelli, che sono alle leggi sottoposti, e soggetti. Ma trattandosi de’ Monarchi non corre, né regge a martello la massima divisata. Io per me sarò loro sempre fedele, ed ubbidientissimo vassallo, e gli terrò sempre mai  per due distinti Padroni ad amendue  divotamente offerendomi. Né si meravigli tal’uno,come io nella qui retroscritta opera non abbia niente della nostra Padrona fatto menzione. Il fù mio Genitore dedicò per mezzo del fù mio zio Commendatore all’Augustissima di lei Genitrice           un libro di prose, e di versi, ricantando le glorie, ed i Trofei della Casa d’Austria , delli quali quantunque la sudetta Real Augusta Famiglia niun bisogno ne avea, per aver ella in tutto l’Orbe qual fulgidissimo Pianeta, che per ogni parte sfolgorante vibra la sua chiara luce, e lo spendore, pur tuttavia il fù mio Padre volle dare a divedere a tutti un verace attestato di quella venerazione, ed ossequio, onde un suddito è al suo Padrone tenuto, ed obligato. E chi rivocherà in dubbio quel, che io rammento,  me lo accenni, me lo divisi, che tosto ne gli farò capitare il manuscritto ed istampato esemplare.                 

Ho già definito imbarazzante questa difesa. Non mi rimane che uscire dall’imbarazzo dicendo che in essa l’unica nota interessante è quella finale relativa all’opera del padre5, con il cui frontespizio mi congedo prima di procedere al raffronto dettagliato tra il testo del Tresca (in grassetto corsivo) l’originale del Galateo (corsivo) che ho ritenuto opportuno accompagnare con la mia traduzione e, in rosso, l’eventuale commento.  Laddove compaiono all’inizio e alla fine dei brani esaminati tre puntini vuol dire che i pezzi intermedi sono assolutamente coincidenti. Delle lettere ho riportato, comunque, l’incipit e l’explicit.

(carta 17r) Lettera seconda. Sulla situazione della Giapiggia

Quel che ora Italia addimandasi, traendo la sua origine dalle Alpi, viene dal mar Superiore, e dall’Inferiore  battuta, ed innaffiata, e tra’ l’Oriente  Iberno, e nel mezzo giorno è posta, ed allocata, dalli altissimi monti dell’Appennino, come se fussero due penisole del Chersoneso, quasi due conii di bipartito Albore vien terminata e finita. Queste due penisole, o tal Reggione fraposta negli antichi secoli era non solamente ad ogn’altra Terra preferita, ma tenevasi da ognuno in maggiore stima tralle Nazioni di Grecia…

 Quae nunc Italia dicitur, ab Alpibus ortum habens, supero, et infero mari abluitur, inque ortum hybernum, et meridiem porrecta, perpetuis Apennini iugis, duabus peninsulis, seu (ut Graeci dicunt) chersonesis, finitur. Quae quasi vertices sunt, seu coni bifidae arboris. Hae peninsulae et interiacens ora, antiquis temporibus non solum coeteris terris, sed ipsi quoque Graeciae praelatae …

Quella che ora è detta Italia, avendo l’origine dalle Alpi, viene bagnata dal mare superiore [l’Adriatico] e inferiore [Tirreno] e, allungata tra nord e sud dai continui gioghi dell’Appennino, termina con due penisole o, come dicono i Greci, chersonesi. Esse sono quasi le cime o coni di un albero biforcuto. Queste penisole e il territorio intergiacente, preferiti nei tempi antichi non solo alle altre terre ma pure alla stessa Grecia …

Incipit assolutamente coincidente.

 

(carta 24r) … questa è la dessa, onde più speciosa, e ben degna commemorazione Orazio ne fece. Questa, Chersoneso, con vari nomi da diversi autori trovo chiamata. Altri come Aristotele , ed Herodoto Giapiggia la nomarono …  

… haec insularum omnium peninsularumque ocellus quondam fuerat. Haec est de qua Horatius cecinit: Unde si Parcae prohibent iniquae,/dulce pellitis ovibus Galaesi/ flumen et regnata petam Laconi /rura Phalantho./ Ille terrarum mihi praeter omnes/angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certat/baca Venafro;/ ver ubi longum tepidasque praebet/ ìIuppiter brumas et amicus/Aulon fertili Baccho minimum Falernis/invidet uvis./Ille te mecum locus et beatae/postulant arces; ibi tu calente/ debita sparges lacrima favillam/vatis amici .Hanc chersonesum variis nominibus a diversis auctoribus subinde appellatam fuisse habeo: alii, ut Aristoteles Herodotusque, Iapygiam dixere … 

… questa un tempo era stata la perla di tutte le penisole. Questa è quella della quale Orazio ha cantato così: “Se [dalla guerra] le inique Parche mi terranno lontano andrò verso la corrente del Galeso cara alle pecore spinte al pascolo e verso le campagne su cui regnò lo spartano Falanto. Quell’angolo di terra più di tutti mi sorride, dove il miele nulla da invidiare ha a quello dell’Imetto e l’olio a quello della verdeggiante Venafro, dove Giove offre una lunga primavera e tiepidi inverni e l’amico Aulone con la fertile vite non ha nulla da invidiare alle uve di Falerno. Quel luogo e i felici colli ti vogliono con me; ivi tu con la dovuta lacrima bagnerai le ceneri dell’amico poeta”. Mi risulta che questa poi come penisola fu chiamata con vari nomi  dai diversi autori: alcuni, come Aristotele ed Erodoto, la chiamarono Iapigia …

Nella traduzione del Tresca non sono riportati i versi di Orazio (Odi, II, 6, 9-24)

 

(carta 27r) … veleno si cava fuori, e dilegua col beneficio del canto, e del suono. “Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis”. Vi sono parimenti serpi pestilentissime, denominate chersidri  surte da secco ed arido terreno…

  …venenum cantu, et fistulis pellitur. De his loquitur Virgilius Georgicon libro secundo verso 42: Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis. Sunt et serpentes pestilentissimi: chersidri enim sunt nati in arida tellure …

… il veleno viene eliminato col canto e con la musica. Di questo parla Virgilio nel verso 42 del secondo libro delle Georgiche: Est etiam ille malus Calabris in montibus anguis. Ci sono anche serpenti velenosissimi: i chersidri infatti nacquero nella terra arida …

Nel Tresca manca l’indicazione di Virgilio e della sua opera.

 

(carta 28r) siccome qui, così nella Campania, tanto nella state, che nel verno scuote soventi fiate il terreno lo strepitoso fragore, e rimbombo di parecchi fulmini. Saremo dunque noi perciò alla natura ingrati, che ricusiamo i di lei presenti, e favori, perché …  

… nam hic, ut in Campania, hyeme, et aestate sunt fulmina. Erimusne nos, Spinelle, naturae ingrati, ut recusemus illius munera quoniam …  

… infatti qui, come in Campania, d’inverno e d’estate ci sono fulmini. Saremo noi, o Spinelli, tanto ingrati verso la natura da rifiutare i suoi doni perché …

Il Tresca ha eliminato il nome di Giovan Battista Spinelli, destinatario del De situ Iapygiae, che è in forma epistolare e che era stato richiesto al Galateo perché il sovrano Ferdinando il Cattolico fosse ragguagliato sullo stato dei territori di recente conquistati. Nella fattispecie lo scimmiottamento può condensarsi in una proporzione: Morosini: Spinelli=Ferdinando IV: Ferdinando il Cattolico.

  

(carte 31r-31v) … e siccome la terra chiude, e ricuopre nelle sue viscere le ossa de’ bisonti, così distrugge Città, e Reggioni, e niuna cosa può in eterno durare. Il Tasso mi ripiglia a tempo: Chiude il fasto, e la pompa arena, ed erba. La caliggine, e la folta trascuraggine degli uomini  de’ secoli caduti mise in profondo sempiterno oblio la fama ed i nomi di quelle, e la chiarezza de’ luoghi. Noi proseguiremo in tanto a dare a S. E. notizia della Giapiggia, indi ci appresseremo fil filo riandar con distinzione per le parti della medesima, mentre resto baciandole di votamente le mani. Lecce 2 Aprile 1773

…et quemadmodum urbes, et ossa hominum terra operuit, sic et famam illarum, et aliquarum etiam nomina, et locorum claritatem depressa temporis caligo obtenebravit. Nos primum oram, deinde mediterraneas partes prosequemur.

… e come la terra ha ricoperto le città e le ossa degli uomini, così la nebbia del tempo discesa  ha ottenebrato pure la loro fama e di alcune anche i nomi e la magnificenza dei luoghi. Noi tratteremo prima della costa, poi delle parti interne.     

Manca nel Galateo la citazione dal Tasso.

 

(carte 32r-59r) Lettera terza. Descrizione della Giapiggia. Littorale

I Greci indagando il principio di Taranto a Taranton, o come altri vuole a Talanton, che noi Talento diciamo, Stefano pose il nome a questa città da quello, ch’è Taras, Tarantos, ch’è un nome commune tra’ la medesima e la fiumana …

Principium a Tarento sumentes, Graeci Taranton, ut illi talanton, quod nos talentum dicimus. Stephanus ab eo quod est Taras, quod est urbis nomen, et fluvii commune, posuit …

Cominciando da Taranto: i Greci la chiamarono Taranton, come essi dicono talanton ciò che noi chiamiamo talento. Stefano pose il nome da quello che è Taras, che è nome comune alla città e al fiume …

Incipit perfettamente coincidente.

 

(carta 34v) … e dacché questi pervennero al colmo delle ricchezze, tralignarono dalla primiera severità di vita da lor Maggiori tenuta; ma poiché Eccellentissimo Signore mio ò addossato il carico di narrarli sù di ciò minutamente  quel, che gli Autori ne scrissero,  perciò sembrami ben convenevole divisarli in compendi qualche cosa secondo il costume di Filosofo, e non come all’Istorico appartiene. Aristotele rammenta nei suoi Problemi … 

…et Romani quum ad summum divitiarum pervenere, a maiorum vitae severitate degeneraverunt. Facile ii temperate vivunt, quibus desunt luxuriae alimenta: at ii quibus ampla sunt facultates, non possunt non molliter, et delicate vivere. Exemplo nobis sunt Principes sacerdotum, quibus dum pauperes erant , satis fuerunt oluscula et pisciculi minuti; nunc nec terrae, nec maria eorum gulae, ac libidini sufficiunt. Hic est mos fere omnium gentium, quae cum inopes sunt, atque omnium rerum indigae, parce, modeste, frugaliter, ac temperanter vivunt. Quae deinde per bella, et caedes, et rapinas, et miserorum viscera saginatae, contempta, quam prius laudaverant necessariam, frugalitate, in omni luxuriae genere volutantur. Testes sunt Medi, Persae, Macedones, et ipsi rerum Domini Romani. Nec non, et nos Christiani, ut dixi, dum pauperes, et mendici fuimus, pie, iuste, et sancte viximus; at postquam res Christiana ad tantas devenit opes, in apicem vitiorum ascendimus, nec habemus quo ulterius progrediamur. Certant inter se duo illa maxima vitia, avaritia, atque luxuria, et cum utraque in summo sit, non est facile iudicare utra illarum sit maior. Res admiratione digna est, quomodo, et homines, et Dii ferre possunt scelera nostra. Spinelle, Vir excellentis animi et ingenii, non mihi cura est omnia exquisite narrare, quae Auctoresa scripsere,sed summatim aliqua, ut tibi morem geram, et ut Philosophum, non ut Historicum decet. Aristoteles ait in suis Problematis …  

… e i Romani quando pervennero al sommo della ricchezza tralignarono dalla severità di vita degli avi. Facilmente vivono con moderazione coloro ai quali manca l’alimento del lusso, ma quelli che hanno ampi mezzi non possono non vivere mollemente e voluttuosamente. Sono esempio per noi  i più importanti dei sacerdoti ai quali, finché erano poveri, bastarono ortaggi di scarso valore e  pesciolini insignificanti. Ora né le terre né i mari sono sufficienti alla loro gola e libidine. Questo è il costume di di quasi tutte le genti, che, quando sono povere e bisognose di tutto, vivono parcamente, modestamente, frugalmente, moderatamente. Esse poi  attraverso guerre, stragi e rapine, sazie delle viscere dei miseri , disprezzata la frugalità che prima avevano lodato come necessaria, rotolano in ogni genere di lusso. Sono testimoni i Medi, i Persiani, i Macedoni . E anche noi Cristiani, come dissi, finché fummo poveri e mendichi, vivemmo piamente, giustamente e santamente; ma, dopo che il Cristianesimo pervenne a tanto grande ricchezza, salimmo sulla cima dei vizi e non abbiamo dove spingerci ulteriormente. Gareggiano tra loro quei due massimi vizi, l’avarizia e il lusso e quando entrambe sono all’apice non è facile giudicare quale di esse sia più grande. É cosa degna di meraviglia come e gli uomini e gli dei possano sopportare le nostre scelleratezze. O Spinelli, uomo di eccellente animo e talento, non è mia preoccupazione narrare le cose che gli autori scrissero non minuziosamente ma per sommi capi alcune per venire incontro al tuo desiderio e come conviene ad un filosofo, non ad uno storico. Aristotele dice nei suoi Problemi …

Da notare nel Tresca il taglio della parte che poteva urtare la suscettibilità di un cattolico e, verso la fine, la sostituzione di Spinelli con  Signore mio.

 

[carte 35v-36r) … da Taranto navigandosi a seconda del vento Euro , si para d’avanti agli occhi de’ nocchieri, dacché si è varcato il mare al di là di otto miglia, un luogo anticamente nomato Bafia, che oggi quei naturali lo addicono in latino Saturum: amenissimo il tratto di questo paese: à sul merige campagne pur troppo amene …

… a Tarento in Eurum navigantibus ad VIII millia pasum occurrit in ora locus, quem incolae Saturum penultima producta nominant, amoenissimus tractus est, et apricus in meridie …

… per chi naviga da Taranto verso est a circa 8 miglia si presenta sulla costa un luogo che gli abitanti, allungata la penultima,  chiamano Saturo; è un tratto amenissimo e luminoso  a mezzogiorno …

Notevole nel Tresca il toponimo Bafia, probabilmente presente nell’edizione del De situ Iapygiae da lui utilizzata o sua integrazione, frutto, forse, di confusione con l’omonimo centro della Sicilia orientale (registrato da Vito Maria Amico, Lexycon topographicum siculum,  tomo III, Puleggio, Catania, 1760). 

 

(carta 38v) … si portò così bene il bellicoso coraggio di quei cittadini, che nessuno può chiamarli vinti, o dall’oste nemica superati. Eccellentissimo Signore se io passo sotto silenzio, e non rammento  la fedeltà di coloro che abitano nell’ultimo luogo dell’Italia, ch’è  un’angolo di Lucera, a me par convenevole di porre in prospetto, e commendare l’eroiche gesta adoperate da cittadini  di Gallipoli, ed Otranto …

… sic se Callipolitani gessere, ut nemo illos iure victos dicere possit, sed a multitudine hostium superatos. Praeclarissime Spinelle, quando eorum, qui in extremo Italiae angulo Luceriae, virtus et fides oblivioni, ac silentio datur, nos ipsi Callipolis,et Hydrunti fortia facta non taceamus …  

… i Gallipolini si comportarono in modo tale che nessuno a buon diritto li può definire vinti, ma battuti dalla superiorità numerica dei nemici. Illustrissimo Spinelli, quando sono consegnati all’oblio e al silenzio il valore e la fede di coloro che stanno a Lucera, un estremo angolo d’Italia, proprio non passiamo sottosilenzio le forti gesta di Gallipoli r di Otranto …

Ancora la già vista sostituzione  di praeclarissime Spinelle con eccellentissimo Signore.    

 

(carta 48r) … ogni sacerdote fù ad uno ad uno scannato, non perdonando tampoco il furor maomettano, neppure a’ quei poveri preti, che sull’are tenendo l’ostia sacrata tra’ le mani celebravano il divin sacrifizio. Da poiché per tutta quella notte appresso la quale spuntò, e succedette quella torbida giornata,Stefano Pendinelli, ch’era l’Arcivescovo del sudetto luogo, patrizio di Nardò, e consanguineo del fù Antonio de Ferraris avendo confirmato tutto il Popolo col divin sacramento dell’Eucaristia, si presentò alla matutina Guerra …

… sacerdotes in ecclesia omnes ad unum trucidaverunt, et nonnullos super altaria hostiam tenentes tamquam victimas mactaverunt. Postquam nocte tota, quam turbolentus ille dies secutus est, Stephanus Archiepiscopus consanguineus meus, omnem populum divino Eucharistiae sacramento firmaverat ad matutinam, quam prescierat, pugnam …

… in chiesa trucidarono ad uno ad uno tutti i sacerdoti e ne ammazzarono come vittime sacrificali parecchi mentre tenevano in mano l’ostia sull’altare. Dopo che nell’intera notte precedente quel turbolento giorno l’arcivescovo Stefano mio congiunto aveva confortato tutto il popolo col divino sacramento dell’Eucaristia fino alla battaglia del mattino che aveva previsto …

Si tratta dell’unico brano in cui compare, però in terza, non compromettente  persona,  il nome del Galateo.

 

(carte 57r-57v) … ma la negligenza de’ cittadini  recò infamia a questo luogo:che se disserrati ell’avesse gli suoi acquedotti, non avrebbe mai tale sventura sortita. Mi ricorda di aver io letto, che in Napoli morta fusse gran copia di abbitanti … 

… sed civium negligentia urbem hanc infamavit, quae si  aquae suos exitus apertos habuissent, numquam tale nomen assecuta fuisset. Nonne vides, Spinelle, quot mortales hoc anno Neapoli periere …  

… ma la negligenza dei cittadini infamò questa città, che, se le acque avessero avuto aperto il loro sbocco, non avrebbe avuto tale fama. Non vedi, Spinelli, quanti uomini sono morti quest’anno a Napoli …

Spinelli ormai naturalmente assente nel Tresca.

 

(carte 58v-59r) … tai parole fanno ben degna fede dell’integrità, e costanza della Brindisina Nazione, solita sempre a prestar ubbidienza alli Augustissimi Imperatori. Dopo di questo, Eccellenza, parmi ben convenevole di descriverle distintamente le parti mediterranee della Giapiggia, le quali dopò qualche respiro, ed in altra occasione le prometto con altra lettera a formare quel distinto raguaglio, che da me si potrà, rilevandolo dall’oblio de’ secoli caduti. E con ciò raffermo mi resto. Lecce li 6 Aprile 1774  

haec verba, Spinelle, maximum perhibent testimonium integritatis, et fidei illius regionis, quae non nisi veris Imperatoribus  parere solita est . Nunc de mediterraneis dicendum est …

Nel Tresca, oltre all’ormai fisiologica assenza di Spinelli, il tratto finale prepara la lettera successiva.

 

(carta 60r) Lettera quarta. Delle parti mediterranee della Giapiggia

Si frapponevano a Brindisi e a Taranto due antiche città …

Inter Brundisium et Tarentum duae antiquae urbes fuere …

Tra Brindisi e Taranto ci furono due antiche città …

Ancora l’incipit perfettamente coincidente.

 

(carta 61v) … Ora è tanto il numero e la copia de’ libri, che non solamente gli medesimi, ma né pur degli Autori gli nomi ponno scolpiti. ed impressi restar nella nostra memoria. Riderà forse tal’uno, che io mentre in altri commendi la brevità del dire, e nell’altrui scrittura, sia io prolisso, con lungo torno di parole stenda, e dilarghi tal descrizione …

 

… nunc tanta est librorum copia, et magnitudo, ut non solum dicta, sed ne nomina quidem auctorum memoriter tenere valeamus. Ridebis fortasse, Spinelle, Galateum, qui brevitatem suadet, cum ipse prolixus sit, sed hoc rite fit …

… ora è tanta l’abbondanza e l’estensione dei libri che non siamo in grado di tenere a memoria neppure i nomi degli autori. Forse riderai, o Spinelli, del Galateo che invita alla brevità quando lui stesso è prolisso, ma ciò avviene solitamente …

Nel Tresca illustri assenti, in un colpo solo, Spinelli e il Galateo.

(carta 81v) … il modello delle qui soprascritte lettere furono presentate ad alcuni savii di quella staggione, come al Pontano, ad Hermolao, ad Accio, a Chariteo, al Summonzio, li quali furono tutti al mio parere concordi, avendole chiamate lettere di Messapia …  

… harum litterarum exemplum, Pontano, Hermolao, Actio tuo, immo et meo, Chariteo, et Summontio misi, et nonnullis aliis: omnes mecum sensere has esse Mesapias literas …

 … di queste lettere ho inviato una riproduzione al Pontano, all’Ermolao, al tuo, certamente anche mio, Azio, al Cariteo e al Summonte e a parecchi altri: tutti convennero con me che questi erano caratteri messapici …

Con savii di quella staggione e con l’eliminazione di meo dell’originale il Tresca si è liberato della cronologia; non poteva certo aver chiesto la consulenza di Giovanni Pontano (1429-1503), di Ermolao Barbaro il Giovane (1454-1493), di Azio (nell’Accademia Pontaniana pseudonimo di Iacopo Sannazzaro, 1456 circa-1530), del Cariteo (nome umanistico di Benedetto Gareth, 1450 circa-1514 e di Pietro Summonte (1463-1526).

 

(carta 83r) … alla distanza di tredici mila passi fabricata si vede Galatone. Altri la chiamano Galatana, chi Galatina …

hinc ad XIII millia passuum, Galatana, unde mihi origo est. Alii Galatenam, alii Galatinam … 

… da qui a 12 miglia Galatone, donde io ho origine. Alcuni la chiamano Galatena, altri Galatina …

Come poteva essere mantenuti l’originario unde mihi origo est?

 

(carta 84r) … ero io di fresca guancia, ed in età fiorita, quando nel riandare l’opera di Livio lessi, e ravvisai la città di Theuma …  

… cum essem iuvenis, legens apud Livium inveni Theumam … 

… essendo giovane, leggendo presso Livio trovai Teuma …

Innocuo riferimento cronologico, dal momento che Livio poteva tranquillamente essere stato letto tanto dal Galateo che dal Tresca.

 

(carte 84v-85r) …deponendo costumi, vestimenta, come ancora l’argivo dialetto: ma non la ceppaia. Non mi vergogno punto di propalare l’origine de’ nostri Maggiori. Siam Greci ed ognuno lo si deve a gloria recare. Platone il Dio de’ filosofi costumava sovente di ringraziare i Numi per queste tre cose: che Uomo e non bruto, che Maschio, e non Donna, che Greco e non barbaro fusse nato, e cresciuto. Il suo servidore, Eccellenza,che  la Giapiggia descrive non da’  Mauri, non dalli Ethiopi, non dalli Allobrogi, o Sicambri, ma dalla Greca Nazione sorge, e deriva. Il Progenitore di chi tal dettaglio della Giapiggia li porge, non ignorò il Greco, e molto meno l’idioma Latino. Fù celebre non per valore dell’armi,ma fù difeso, e scortato dall’integrità della vita, e dalla bontà de’ costumi. Mi vergogno, Eccellenza, parlando seco lei senz’Arbitri dirle, come io nell’Italia abbia tratta la mia origine, e derivati i miei natali, sebbene alcuni scrittori posero il suolo Giapiggio fuor dell’Italia …   

… mores, et vestes, et Graecam linguam deposuerunt sed non genus. Nec pudet nos generis nostri. Graeci sumus, et hoc nobis gloriae accedit. Divinus ille Plato in omnibus gratias Diis agebat, sed praecipue in his tribus: quod homo non bellua; mas, non foemina; Graecus, non Barbarus natus esset. Galateus tuus, Spinelle, non a Mauris, aut Lingonibus, non ab Allobrogibus, aut Sycambris, sed a Graecis ducit genus. Pater meus Graecas, et Latinas literas novit; avus, et progenitores mei Graeci Sacerdotes fuere, literarum Graecarum, Sacrae Scripturae, et Theologiae minime ignari: non armis, hoc est, vi, et caedibus, et rapinis, sed bonis moribus et santitate vitae celebres. Pudet me, Spinelle (tecum sine arbitris loquor) in Italia natum fuisse, quamvis Iapygiam terram extra Italiam scriptores quidam posuere. Graecia sua vetustate, sua que fortuna, Italia suis consiliis, suisque discordiis periit … 

… deposero i costumi, le vesti e la lingua greca, ma non la stirpe. Né ci vergogniamo della nostra stirpe. Siamo Greci e questo ci torna a gloria. Quel divino Platone rendeva grazie a tutti gli dei ma soprattutto per queste tre cose: per essere nato uomo e non animale, maschio e non femmina, greco e non barbaro. Il tuo Galateo, o Spinelli, trae origine non dai Mauri o dai Lingoni, non dagli Allobrogi o dai Sicambri, ma dai Greci. Mio padre conosceva il greco e il latino, mio nonno e i miei antenati furono sacerdoti greci, per nulla ignari delle lettere greche, delle sacre scritture e di teologia, cioè celebri non per le armi, la violenza, le stragi e le rapine ma per i buoni costumi e per la santità della vita. Mi vergogno, o Spinelli (con te parlo direttamente), di essere nato in Italia, sebbene certi scrittori abbiano posto la Iapigia fuori dell’Italia …

Sostituzione di Galateus tuus, Spinelle con Il suo servidore, Eccellenza.    

 

(carta 86r) …  dove un tempo fabricato vi era un Munistero assai Nobile di Monaci Basiliani, dedicato, ed eretto a gloria di S. Nicola. Comincia di bel nuovo il detto Appennino…  

… ubi erat quondam nobile coenobium monachorum magni Basilii, divo Nicolao dicatum, cui avunculus meus plusquam triginta annis praefuit. Inci pit molliter insurgere …  

… dove era un tempo un nobile cenobio di monaci del grande Basilio, dedicato a S. Nicola, al quale presiedette per più di trent’anni un mio zio materno . Comincia ad innalzarsi leggermente …

Qui è lo zio materno ad essere stato eliminato.      

 

(carte 88r-89r) … di tempo in tempo avviene, che quivi cresca in tal maniera l’inondazione, che par di volersi egli ingoiare l’intero Abitato. Crebbe in tale smodato eccesso ne’ secoli caduti, che molti se ne annegarono. Il vino, il formento, l’olio furon dall’onda insana assorbiti, e rimase logora, e stracciata la più parte delle suppellettili. L’acqua medesima distrusse, e seppellì ne’ suoi gorghi quantità di libri Greci, e Latini, che quivi erano con molta diligenza custoditi, e serbati. Questa città … que’ cittadini nell’assiduo contrasto valorosamente resistettero, e si difesero. In tal guerra difensiva militò da soldato un tal De Ferrariis Galatio. Finalmente a Giovannantonio non essendoli potuta riuscir felicemente l’impresa, distaccato l’assedio, altrove drizzò le sue mire ed in altra parte rivoltò le sue armi. Dopò di questo avendo finito di vivere la Regina Giovanna, ed il Caldora, tutta la Giapiggia si ridusse nel dominio di Giovannantonio. Il de Ferrariis, come di costui giurato inimico, fù rilegato in esilio nella città di Gallipoli. Postesi finalmente le cose in assetto, il Prence Giovannantonio desiderando di ascoltar la causa della discolpa del de Ferrariis, che contro di lui aveva militato, ed imbrandito il ferro, nella seguente maniera da Gallipoli scrisse il medesimo al suddetto Principe Giovannantonio: “Io, per quanto an sostenuto le mie debili forze non ò fatta resistenza alcuna agli suoi disegni … 

… quandoque tanta est imbrium copia, ut oppidum aquarum illuvie laboret. Tempore avi mei tanta per oppidum crevit aquarum multitudo, ut in aliquibus locis duorum passuum mensuram excederet. Nonnulli periere, vinum, oleum, triticum, hordeum et quamplurima supellectilia absumpta sunt: libros Graecos, quorum avus meus magnam habebat copiam in Ecclesia, quae nostri iuris est, ubi ipse versabatur, aqua delevit, atque consumpsit. Haec urbs … oppidani continua pugna acerrime restiterunt; in qua pugna pater meus interfuit. Tandem Ioannes Antonius re infecta, et longa obsidione soluta, alio arma vertit. Post haec Regina, et Caldora vita functis, tota Iapygia in potestatem Ioannis Antonii pervenit. Pater meus tamquam hostis ab Ioanne Antonio inauditus Gallipoli exulare iussus est. Compositis tandem rebus, Ioanni Antonio causam audire cupienti,in hanc sententiam scripsit patermeus: “Nulla, o bone Princeps, a te accepta iniuria  ausis tuis quoad potui obstiti …        

… di tanto in tanto tale è l’abbondanza di piogge che la città soffre per inondazione. Al tempo di mio nonno la massa di acqua crebbe tanto da superare in alcuni luoghi la misura di due passi. Molti morirono, vino, olio, grano, orzo e moltissime suppellettili furono trascinate via; l’acqua distrusse e consunse molti libri greci, dei quali mio nonno aveva una grande quantità nella chiesa, che è di nostro diritto, nella quale esercitava la sua funzione. Questa città … i cittadini resistettero fieramente con una lotta continua: ad essa partecipò mio padre. Alla fine Giovanni Antonio,  essendo diventata difficile la situazione e tolto l’assedio, volse altrove le armi. Dopo di ciò, essendo morti  la regina tutta la Iapigia venne sotto il potere di Giovanni Antonio.  Mio padre come nemico senza essere ascoltato da Giovanni Antonio ebbe l’ordine di andare in esilio a Gallipoli. Sistematesi finalmente le cose, mio padre contro questa sentenza scrisse a Giovanni Antonio  che desiderava ascoltare le sue ragioni: O buon principe, non essendo stata ricevuta da te alcuna offesa, finché ho potuto mi sono opposto ai tuoi piani …

I casi del padre del Galateo vengono trattati in terza persona.

 

(carta 90r) … tali parole furono con tanta gratitudine accolte daquel buon Principe, che cangiato, convertito l’odio in amore fin ché visse costui, lo amò, e l’ebbe caro al pari degli altri suoi più intimi, e familiari Amici, e sofferse di buon grado la di lui Eroica morte, che sostenne per amor della verità, e per attenersi  sempre fedele, aspra vendetta ne prese. La città di Galatone …

 … haec verba adeo grata bono Principi fuere, ut totum, si quod erat odium, in amorem verteret, tantumque patri meo quoad vixit fidei praestitit, quantum cuivis eorum, quos charissimos habebat, eiusque heroicam mortem, quam pro veritate, et fide servanda passus est, molestissime tulit, atque aspere ultus est. Haec urbs …   

… queste parole furono tanto gradite al buon principe che, se c’era qualche odio, lo cambiò tutto in amore e prestò tanta fiducia a mio padre quanto a ciascuno di coloro che aveva carissimi e sopportò con grandissimo dolore la sua morte eroica che patì in difesa della verità e della fede e lo vendicò fieramente. Questa città …

Continua la narrazione in terza persona della vicenda del padre del Galateo. 

 

(carta 91r) … la ridetta città abbondava di molti sacerdoti Greci, trà gli altri ve ne avea d’uno massimamente in quei tempi, che lo addimandavano il Maestro, da donde surse, e derivò la famiglia del de Magistris, il di cui nipote chiamato Virgilio avendo per venti anni fatto induggio  in Bisanzio …

… haec complures Sacerdotes Graecos doctissimos habuit, sed praecipue unum, quem magistrum appellaverunt, unde Magistrorum familia, cuius nepotem Vergilium, ego puer novi, et proavi mei, quorum unus viginti annis Byzantii versatus est … 

… questa ebbe parecchi dottissimi sacerdoti greci, ma soprattutto uno che chiamarono maestro, donde la famiglia dei De Magistris,il cui nipote Virgilio io fanciullo conobbi, ed i miei proavi, dei quali uno visse venti anni a Bisanzio …

Come c’era da aspettarsi, è saltata la conoscenza personale di Virgilio , nonché il ricordo dei proavi.

 

(carta 99v) …ne’ secoli caduti appressavasi ognuno, che volea sacrificarsi alle scienze nella città di Nardò per istudiare … 

… temporibus patris mei ab omnibus huius regni provinciis ad accipiendum ingenii cultum Neritum confluebant … 

… ai tempi di mio padre confluivano a Nardò da tutte le province di questo regno per acculturarsi …  

Il temporibus patris mei del Galateo nel Tresca è diventato ne’ secoli caduti.

 

(carta 100r) … Era tal paese un tempo da Bellisario Acquaviva. Potrei far altre distinte descrizioni di luoghi ragguardevoli, e rinomati, che furon trà la Giapiggia, ma non volendomi io punto abbusare della pazienza di chi sarà per leggere tal mia descrizione, finisco col verso del Venusino Poeta “Neritum longae finis chartaeque viaeque” riserbandomi in altra disertazione descrivere la Città di Gallipoli. Ed è quanto devo mentre rassegnandomi resto. Lecce li 8 Maggio 1774.

… hic et ego prima literarum fundamenta hausi. Galatana me genuit, haec urbs educavit, et fovit, et literis instituit. Hic Aquaevivus tuus, imo et meus Belisarius, magni Aquaevivi frater, dominatur. Neque ero ingratus, si ut initium descriptionis Tarento, sic et finem Nerito tribuero. Hoc exigit locorum ratio; et conviviorum magistri semper aliquid, quod maxime delectet, in finem reservant, sic “Neritum longae finis chartaeque viaeque”. 

… qui pure io appresi i primi fondamenti delle lettere. Galatone mi generò, questa città mi educò e coltivò e mi avviò alle lettere. Qui domina il tuo, anzi anche il mio, Belisario fratello del grande Acquaviva. E non sarò ingrato se, come ho affidato l’inizio della descrizione a Taranto, così pure affiderò la fine a Nardò. Questo esige la disposizione dei luoghi; e i maestri del convito sempre riservanoalla fine qualcosa che diletti in sommo grado; così “Nardò sia la fine del lungo viaggio e racconto”.

Censurati (e che poteva fare …) nella parte iniziale tutti i dati personali riguardanti il Galateo, per finire più in bellezza rispetto a come aveva iniziato e proseguito, il Tresca mostra di voler essere recidivo con la sua intenzione di fare la stessa operazione con un’altra opera del Galateo. E così fu puntualmente. Nel manoscritto-dossier la quinta lettera, datata Gallipoli li 6 Febraro 1775, la Descrizione della città di Gallipoli occupa le carte 101r-124r.

Non è da escludere che, se avrò tempo da perdere, me ne occupi con la stessa procedura …

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1 Di altro colpevole, ma sempre ai danni dello stesso autore  scippato oggi, per quanto il reato sia meno pesante: https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/.

Un caso meno appariscente in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/02/06/pasquale-oronzo-macri-e-nicola-maria-cataldi-duecento-anni-dopo/.

2

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/19/mattarella-la-cagnetta-mesagne-larcivescovo-brindisi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/24/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-15/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/08/mesagne-luca-antonio-resta-vescovo-laffumicato/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/03/le-torri-costiere-del-salento-nelle-mappe-giuseppe-pacelli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/01/23/storia-e-leggenda-un-emblematico-caso-salentino-anzi-due/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/02/regolamentazione-dei-senza-fissa-dimora-nel-regno-di-napoli-secondo-la-testimonianza-di-giovanni-bernardino-manieri-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/20/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-12/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/26/lalbania-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803-posseduto-suo-tempo-giuseppe-gigli-giallo-nota/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/07/la-grecia-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803/

3 Di lui risulta pubblicato solo il sonetto inserito in Poesie italiane, e latine del sig. d. Damiano Romano avvocato fiscale della sacra regia Udienza di Lecce dedicate all’illustriss. sig. il signor marchese d. Bernardo Tanucci, Viverito, Lecce, 1739

4 Per fortuna questo lavoro del Tresca non fu pubblicato. Ad ogni modo, essendosi salvato il manoscritto, il leccese avrebbe fatto una figura migliore, se avesse optato sic et simpliciter per una traduzione dichiarata del De Situ Iapygìae, seguendo, oltretutto, una prassi consolidata nei secoli precedenti e successivi di dedicare a qualche personaggio importante la traduzione di un’opera famosa. E in questo sarebbe stato il primo, precedendo le traduzioni ottocentesche di Vincenzo Dolce, Rusconi Napoli, 1853, di Gaiancamillo Frezza, Del Vecchio, Lecce, 1853 e di Salvatore Grande, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867.

5 Di Francesco Maria nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto, Lacaita, Manduria, 1999, p. 61 è segnalato pure un sonetto in lode di Giuseppe Ruffo inserito in Componimenti vari in lode di Giuseppe Ruffo Vescovo di Lecce, Benevento, 1737. Per il fratello Berardino, oltre alla dedica  e ai due sonetti  inseriti nell’opera di Francesco Maria rispettivamente alle pp. 3-7, 8 e 288, il citato dizionario ricorda un altro sonetto inserito in Raccolta dei componimenti in lode di Carlo Borbone re delle due Sicilie, Lecce, 1745.

Il Galateo e i brucolachi

di Armando Polito

Il Galateo del titolo non è l’opera di monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e neppure quel complesso di norme di buone maniere che, come nome comune, da esso trae origine. Si tratta, invece, dello pseudonimo, tratto dal centro (Galatone) in cui nacque, del più famoso umanista salentino: Antonio De Ferrariis (1444-1517).

La parte finale del De situ Iapygiae, pubblicato postumo per i tipi di Pietro Perna a Berna nel 1558, Antonio rivolge la sua attenzione al territorio neretino e da par suo dà un colpo decisivo a a quella che ritiene  interpretazione superstiziosa e fasulla dei due fenomeni dei Fuochi fatui1 e della Fata Morgana2 osservati frequentemente nel territorio del Salento.

Riproduco di seguito dell’editio princeps il frontespizio e la parte che ci interessa di p. 117 evidenziata dalla sottolineatura, certo di fare cosa gradita ai bibliofili, ai quali segnalo che l’opera è integralmente scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/objdownload?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABVEE003363&teca=MagTeca%20-%20ICCU&resource=img&mode=all.

Prima di procedere alla traduzione è d’obbligo una nota di natura filologica relativa proprio alla strana parola (brucolachi) che compare nel titolo di questo post. In questa prima edizione compare Brocolarum, come si può leggere più chiaramente nel dettaglio che segue.

non nativo, cioè dell’autore, ma di trascrizione da manoscritto più che di stampa) per Brocolacum, genitivo plurale, che, come vedremo, appare come trascrizione dal greco. L’errore si perpetuò per lungo tempo nelle edizioni successive, di seguito documentate.

Maccarani, Napoli, 1624

p. 90

 

Chiriatti, Lecce, 1727

Di questa edizione curata dal neretino Giovanni Bernardino Tafuri non posso fornire il dettaglio che ci interessa, ma posso assicurare che continua il Brocolarum delle precedenti edizioni, perché esso permane nell’edizione, a cura dello stesso Tafuri, inserita nella collana curata da Angelo Calogerà appresso indicata.

Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, tomo VII, Zane, Venezia, 1722

  1. 194

 

Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum, Ricciardi, Napoli, 1735

 

colonna 620

 

Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851

p. 89

A p. IV dello stesso volume Michele Tafuri così si esprime sull’edizione leccese del 1727 curata dall’antenato.

Da notare l’errata indicazione del tomo della raccolta del Calogerà (VII e non IX).

 

La Giapigia e varii opuscoli di Antonio De Ferrariis detto il Galateo, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867

p. 93

 

Abbiamo la conferma che il Brocolarum sopravvisse fino al 1867. Non so a quale editore è da ascrivere il merito di averlo corretto per primo in Brocolacum. Bisognerebbe passare in rassegna tutte le edizioni del De situ Iapygiae successive al 1851, ricerca, purtroppo, non fattibile, com’è noto,  in rete con testi anche relativamente recenti, ferma restando la mia impressione che in questi ultimi anni il processo di digitalizzazione del patrimonio librario ha subito un rallentamento, probabilmente per motivi di ordine non solo burocratico ma anche finanziario.

Dopo questa lunga parentesi, che lascio volentieri aperta ad ogni integrazione altrui, ecco la traduzione del brano da cui tutto è partito.

Simile è la favola dei brucolachi, che invase tutto l’oriente. Dicono che le anime di coloro che vissero scelleratamente di  notte come globi di fiamme sono solite sorvolare i sepolcri, apparire a persone note ed amici, nutrirsi di animali, succhiare il sangue ai fanciulli ed ucciderli, tornare poi nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture, squarto il cadavere, ne estrae il cuore e lobrucia e getta la cenere ai quattro venti, cioè verso le quattro regioni del mondo e crede che così la maledizione cessi. E se la favola è quella, tuttavia ci offre l’esempio di quanto invisi ed esecrabili siano a tutti coloro che vissero malamente, e vivendo e da morti. Simile è anche la favola di Ermontino di Clazomene citata da Plinioe da Seneca sul sepolcro incantato. Nè mancarono nei tempi antichi simili sciocchezze e illusioni dei sensi umani.

Stando alla descrizione, a parte il tratto iniziale che sembra riguardare i fuochi fatui, il resto evoca il vampirismo, per cui il brucolachi della traduzione è sinonimo di vampiri, voce con cui è reso in tutte le traduzioni meno e più recenti.

Un comune destino sembra unire dal punto di vista etimologico la voce vampiro e quella relativa al suo antenato, il brucolaco. La loro origine, infatti, è incerta. In particolare per la prima l’ipotesi più accreditata è che derivi dal serbo-croato vampir. E per brucolaco? L’attestazione più antica che sono riuscito a trovare è in una relazione di viaggio del 1717..

Alle p. 131-133 si legge quanto di seguito riproduco.

(Vedemmo una scena ben differente e ben tragica nella stessa isola in occasione di uno di questi morti che si crede ritornino in vita dopo il loro seppellimento. Colui del quale mi accingo a raccontare la storia era un cittadino di Micono5 per natura di cattivo umore e lamentoso; questo è un dettaglio da sottolineare in rapporto a pari soggetti. Fu ucciso in campagna, non si sa da chi e come. Due giorni dopo che era stato sepolto in una cappella della città, corse la voce che lo si vedeva la notte passeggiare a gran passi, che veniva nelle case a rovesciare mobili, spegnere lampade, abbracciare le persone alle spalle e fare mille piccoli tipi di dispetti. Lì per lì successe che se ne rise ma l’affare divenne serio quando le persone più sensibili cominciarono ad avere compassione: i papi stessi convenivano sul fatto e senza dubbio che essi avessero le loro ragioni. Non si mancò di far dire delle messe: nel frattempo il cittadino continuava la sua piccola vita senza correggersi. Dopo parecchie assemblee degli ottimati della città, dei preti e dei religiosi giunsero alla conclusione che bisognava, seguendo un non so quale antico cerimoniale, attendere nove giorni dopo il seppellimento. Il decimo giorno si disse una messa nella cappella dov’era il corpo al fine di scacciare il demonio che si credeva esservisi rinserrato. Il suo corpo fu riesumato dopo la messa e si decise di dovergli strappare il cuore. Il macellaio della città, assai vecchio e poco esperto, cominciò ad aprire il ventre invece del petto: frugò a lungo tra le interiora senza trovarvi ciò che cercava; alla fine qualcuno l’avvertì che doveva bucare il diaframma. Il cuore fu strappato tra l’ammirazione di tutti i presenti. Il cadavere nel frattempo puzzava tanto che si fu obbligati a bruciare dell’incenso; ma il fumo misto alle esalazioni del cadavere non fece che aumentarne la puzza e cominciò a riscaldare il cervello di questa povera gente. La loro immaginazione colpita dallo spettacolo si riempì di visioni. Ci si azzardò a dire che il fumo denso usciva da quel corpo: noi non osiamo dire che era quello dell’incenso. Non si credeva esserci che brucolachi nella cappella e nella piazza che è sul davanti: è questo il nome che si da a questi pretesi resuscitanti. La voce si diffuse nelle strade come attraverso ululati e questo nome sembrava essere fatto per far tremare la volta della cappella. Parecchi dei presenti assicuravano che il sangue di questo malvagio era molto vermiglio, il macellaio giurava che il corpo era ancora tutto caldo; da questo si concludeva che il morto aveva il gran torto di non esser morto bene o, per meglio dire, di essersi lasciato rianimare dal diavolo; è precisamente l’idea che hanno di un brucolaco. Si faceva allora risuonare questo nome in maniera incredibile. Entrò in quel tempo una folla di persone che affermavano ad alta voce che essi non erano ben sicuri che quel corpo fosse diventato rigido quando lo si portò dalla campagna in chiesa per seppellirlo e che di conseguenza era un vero brucolaco; questo era lì il ritornello.)

In margine a p. 131  si legge la nota che riproduco ingrandita.

 

Al Vroucolacas iniziale seguono le varianti greche, cioè Βρουκόλακος (leggi Breucòlacos), Βρουκόλακας (leggi Brucòlacas), Βουρκολάκας (leggi Burcolàcas. Subito dopo vien ripetuto Βρουκόλακας per introdurre la definizione: Spettro composto da un corpo morto e da un demone. C’è chi crede che  Βρουκόλακος significa carogna. Βρούκος (leggi Brucos) o Βοῦρκος (leggi Burcos) è questo limo così puzzolente che marcisce sul fondo dei vecchi pozzi, poiché Λάκκος (leggi Laccos) significa fossa.

La nota mi appare preziosa almeno quanto il testo principale  perché costituisce, a quanto ne so, il primo ed ultimo tentativo di ricostruire l’etimo di questa voce misteriosa. L’ipotesi del De Tournefort trova conforto, ma secondo me trae pure origine dalla conoscenza e consultazione del Glossarium ad scriptores mediae et infimae Graecitatis di Charles Du Cange uscito per i tipi di Anissonios, Joan. Posuel & Cl. Rigaud a Lione nel 168 (due volumi)..

Di seguito la parte iniziale delle schede relative rispettivamente dalle olonne 222 e  783 del primo volume.

(Βορκα, βορκος limo, non qualsiasi ma quello che macerato  in acqua già putrescente e mana una pessima fetore. Così l’Allacci nel libro sulle opinioni dei Greci al numero 12)

(Λάκκος [leggi lakkos], per i Greci è la fossa. Presso i medici però viene inteso come la parte del collo che chiamano σφαγλώ [leggi sfaglò), i Latini iugulum. Ipato in un manoscritto sulle parti del corpo umano: σφαγή, ὁ λάκκος τοῦ τραχήλου [gola, la fossa del collo]. Presso lo stesso ἰνίον [leggi inìon; significa nuca] viene spiegato come ὀπισθόλακκος [leggi opistòlaccos; alla lettera fossa che sta dietro], occipite. Λάκκος è pure il pozzo. Glosse manoscritte ai racconti di Gabria: πρός φρέαρ, εἱς λάκκον [verso il pozzo, verso la fossa])

Sembrebbe che l’etimo del nome della spaventosa creatura sia stato trovato, per cui brucolaco alla lettera significherebbe limo della fossa. Sarebbe così privilegiato il dettaglio del fetore che domina alla fine del racconto del Tournefort.

Faccio notare che il primo significato medico di Λάκκος (gola) riportato dal Du Cange evoca suggestivamente il dettaglio del corpo delle vittime dei vampiri ma mal si accorda (anzi, non si accorda proprio) con la prima parte Βορκα (limo puzzolente) e che le altre due varianti registrate nella relazione di viaggio (Βρουκόλακος e Βρουκόλακας) presentano rispetto a Βορκα la metatesi di –ρ-. Non crea, invece, problemi lo scempiamento dell’originario  -κκ- di Λάκκος dal momento che lo stesso glossario registra il derivato λακάζω (leggi lacazo) col significato di seppellire.

Fermo restanto il fatto che la nostra parola appare senz’ombra di dubbio composta, quali potrebbero essere le voci componenti alternative?. Per la prima parte metterei in campo la radice del verbo βρὐκω (leggi briùco), che siggnifica mordere e per la seconda la radice del verbo λακίζω (leggi lachìzo) che significa lacerare, uccidere.

 

Pur nell’incetezza delle sue componenti, credo di poter affermare che il brocolacum del Galateo è la trascrizione del greco  Βρουκολάκων (leggi brucolàcon) genitivo plurale di Βρουκόλακος, con conservazione dunque, della desinenza del genitivo greco

Rimane (per chi ci crede …) il fascino misterioso di questa creatura, ma anche la certezza che più di due secoli prima del De Tournefort del brucolaco aveva scritto il  salentino Galateo e che lo scetticismo da umanista del salentino (dopo tanta fatica mi si perdoni un pizzico di campanilismo …) anticipava quello da illuminista del francese.

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1  Per Fuoco fatuo s’intende il fenomeno costituito da fugaci fiammelle, per lo più bluastre che un tempo si potevano osservare nei cimiteri e in luoghi paludosi. Le mutate condizioni ambientali ed igieniche lo hanno fatto pressochè scomparire, come, con  il cambiamento di quelle culturali e più specificamente sociali, è avvenuto per il tarantismo.

2 il fenomeno della Fata Morgana, volgarmente detto miraggio, è un’illusione ottica dovuta alla rifrazione di immagini lontane in particolari condizioni atmosferiche. Non escluderei, visti i cambiamenti climatici in corso, la loro scomparsa o evoluzione …

3 Plinio, Naturalis historia, VII, 73: Reperimus inter exempla Hermontini Clazomenii animam relicto corpore errare solitam, vagamque e longiquo multa annuntiare, reperimus inter exempla hermotimi clazomenii animam relicto corpore errare solitam vagamque e longinquo multa adnuntiare, quae nisi a praesente nosci non possent, corpore interim semianimi, donec cremato eo inimici, qui Cantharidae vocabantur, remeanti animae veluti vaginam ademerint.  (Troviamo tra gli esempi che l’anima di Ermontino di Clazomene, lasciato il corpo, era solita errare e dopo aver reduce da paesi lontani dare molte notizie che non potevano essere conosciute se non da chi era tato presente, mentre il corpo frattanto restava semianimato, finchè i nemici, che si chiamavano Cantaridi, dopo averlo cremato, non sottrassero come una sorta di guaina all’anima che tornava)

Faccio notare un altro errore, anche questo perdurante nelle edizioni successive documentate per Brocolarum,  presente nell’editio pronceps, dove si legge Hermotini per Hermontini. Per quanto riguarda Seneca al momento non sono in grado di dire a quale sua opera il Galateo si riferisce. Anche per questo non dispero dell’aiuto di qualche volenteroso lettore.

Antonio Ferrariis, detto il Galateo, al marchese di Nardò

di Pier Paolo Tarsi

Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo emette vagiti, ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha da poco finito di consumare la sua frugale cena. È fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito. Con la scienza medica Galateo cura i primi, con la filosofia si occupa dei secondi. Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio per scrivere una lunga lettera. È indirizzata al marchese di Nardò e conclude con queste parole: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.

Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora del tutto iniziata.

Libri| Giovan Battista Della Porta e i segreti della natura

della porta1

LOGICA E MAGIA. GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA E I SEGRETI DELLA NATURA, COLLANA “DELLAPORTIANA. STUDI E TESTI DI FILOSOFIA NATURALE”, AGORÀ & co, Lugano 2017, 174 pp.

 

Primo volume di una nuova collana dedicata a Della Porta e al naturalismo mediterraneo tra Rinascimento ed età moderna, Il libro fornisce un compiuto profilo filosofico di Giovan Battista Della Porta (1535-1615), inserendo la sua opera nei dibattiti scientifici napoletani del Rinascimento. Pensatore ‘più famoso che noto’ – secondo la celebre espressione di Giuseppe Gabrieli – Della Porta è uno dei protagonisti più rappresentativi della cultura filosofica e scientifica del suo tempo. Nato a Vico Equense (per alcuni a Napoli) è il primo ascritto all’Accademia dei Lincei. Si distingue ben presto per i suoi studi di ottica, di fisiognomica e di magia naturale, raggiungendo risultati di gran pregio anche sul versante del teatro.

In un passo del Del senso delle cose e della magia, rievocando i termini di una pubblica disputa con Della Porta, Tommaso Campanella (1568-1639) rivolge al filosofo campano una critica assai dura, accusandolo di essersi approcciato al mondo naturale e ai suoi ‘segreti’ con metodo meramente descrittivo.

Stanno veramente così le cose? Prendendo le mosse da questo celeberrimo episodio della biografia dei due pensatori, il libro ricostruisce l’effettiva posizione di Della Porta circa il tema degli ‘occulti segreti della natura’, approfondendo i rapporti che essa intrattiene con le riflessioni coeve sulla logica e l’astrologia.

In particolare, è preso in esame l’apporto alla formazione dellaportiana delle proposte di pensatori più o meno noti al lettore moderno (ma fondamentali nel dibattito napoletano del tempo) quali Francesco Storella di Alessano, Matteo Tafuri da Soleto, Giovanni Abioso da Bagnolo e Giovanni Pontano.

Se l’opera del salentino Storella – al tempo professore di logica a Napoli – risulta utile alla formulazione dellaportiana di una scienza dei segreti della natura non del tutto estranea all’aristotelismo, le proposte di Giovanni Abioso e di Pontano forniscono a Della Porta le coordinate astrologiche nelle quali inserire la propria riflessione sulla ricerca naturale.

Pur non negando, ma anzi ribadendo, il ruolo di Tafuri nel dibattito astrologico napoletano, il libro mostra come la visione dell’astrologia proposta dal mago di Soleto sia invece alquanto distante da quella poi formulata da Della Porta. In questa prospettiva si inserisce lo studio di un manoscritto astrologico di Tafuri, il Pronostico del nascimento di Hemilio del Tufo (1571), dove sono presenti elementi riconducibili a tradizioni di pensiero messe ai margini da Della Porta.

Per il filosofo campano – che in questo sembra collocarsi nell’ambito dell’albertinismo medievale e del Rinascimento – il mago naturale è colui che, dotato dal cielo di nascita di particolari capacità, mette in relazione, anche tramite un’adeguata preparazione teorica, gli astri e il mondo corruttibile della materia sublunare. A distinguerlo dal filosofo naturale, troppo impegnato nelle ricerca delle ‘ragioni delle cose’, è la consapevolezza che lo sforzo ermeneutico della magia naturale si misura soprattutto nel quadro della comprensione empirica, ma non per questo esente da una doverosa giustificazione logica, delle qualità occulte dei segreti della natura.

della porta

Donato Verardi, dottore di ricerca in Storia (Parigi) e in Filosofia (Pisa), vive attualmente in Francia ed è tra i più accreditati studiosi dell’opera di Giovan Battista Della Porta.

Specialista in storia del pensiero tardo medievale e rinascimentale, la sua riflessione critica è indirizzata soprattutto verso problematiche inerenti l’astronomia, l’astrologia, l’ottica e la meteorologia.

Al pensiero di Della Porta e di molti altri filosofi salentini e meridionali (Cesare Rao, Antonio Galateo, Francesco Storella, Matteo Tafuri, Girolamo Balduino) ha dedicato numerosi saggi, voci enciclopediche e diverse conferenze, in Italia e all’estero.

Antonio De Ferrariis Galateo. Convegno di Studi

Convegno di studi

Antonio De Ferrariis Galateo
L’Erasmo di Terra d’Otranto
a cinquecento anni dalla morte
(1517-2017)
 
che si terrà a Lecce presso l’ex Monastero degli Olivetani nella Sala Chirico.
I lavori inizieranno giovedì 31 maggio prossimo alle ore 16,30 con l’indirizzo di saluto del Magnifico Rettore dell’Università del Salento Vincenzo Zara e proseguiranno come da programma allegato suddiviso in tre sessioni fino al 1 giugno.
Scarica qui il programma:

Alimini: appunti per una storia del toponimo

di Armando Polito

immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Laghi_Alimini#/media/File:Laghi_Alimini_Otranto.jpg
immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Laghi_Alimini#/media/File:Laghi_Alimini_Otranto.jpg

 

 

Per la serie quandoque bonus dormitat Homerus, dopo quanto ebbi occasione di rilevare a proposito di una proposta etimologica del grande Rohlfs (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/), mi permetto oggi, per quanto indegno di Omero, del Rohlfs e di chi sto per nominare,  di ricordare la proposta etimologica che di Alimini fece Giacomo Arditi (1815-1891) nella sua Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Stabilimento tipografico “Scipione Ammirato”, Lecce, 1879-1885. Riproduco  da p. 301 la parte di testo che ci interessa e la relativa nota.

L’Arditi sembra mettere in campo un Λιμυις. Visto che non c’è ombra d’accento debbo rinunciare alla mia consueta lettura/trascrizione per chi non conosce il greco. Tuttavia, qualsiasi accento si ipotizzi, la voce in greco non esiste. Ipotizzando, invece, un errore di stampa (-υ– per –ο-) potremmo pensare in teoria ad una lettura Λίμοις (Lìmois) o Λιμοῖς ( Limòis). Ho detto in teoria perché in pratica Λίμοις non esiste e Λιμοῖς potrebbe essere solo dativo plurale del nome comune λιμός (leggi limòs), che significa fame. Ora, a parte il fatto che non si capisce che origine abbiano la A–  e il –ni– di Alimini, nemmeno λιμός potrebbe essere messo in campo perché in questo caso non si capisce come un dativo, per giunta plurale, per giunta di un nome astratto (anche se i suoi sintomi sono, eccome, concreti …), possa aver dato vita ad un toponimo. D’altra parte neppure l’ipotesi di uno scambio, sempre per errore di stampa, di -ν- con -u- porterebbe a nulla perché anche Λιμvις (qualunque sia l’accento) in greco non esiste.

Tuttavia, prima di prendercela con l’Arditi, non trascuriamo la nota 1, anche se tutto lascerebbe presagire il gioco dello scaricabarile o della fiducia cieca …

Galat. cit. oper. si riferisce al De situ Iapygiae di Antonio de Ferrariis alias Galateo (circa metà del XV secolo-1517), opera uscita postuma per la prima volta a Basilea per i tipi di Perna nel 1558.

Marciano, cit. oper. si riferisce a Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto, di Girolamo Marciano (1571-1628), uscita postuma con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (1638-1685) per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.

Procedo al controllo e riproduco di seguito dall’edizione citata del Galateo il brano che ci interessa; per facilitare la comprensione di quanto dirò, prima della traduzione fornirò la trascrizione.

 

 

 

 

 

In ora Ionii, quarto ab urbe lapide lacus est piscosus, cymbis tantum piscatoriis nabilis, quem incolae afhuc Graecè λίμνην nominant; seu ut Galenus ait, Limnothalassan (ita enim ille appellat lacus qui in mare fluunt,  refluunt).

Lungo la riva dello Ionio a quattro miglia dalla città vi è un lago pescoso, navigabile solo da barche da pesca, che gli abitanti ora chiamano con nome greco λίμνην, oppure, come dice Galeno, Limnotalassan (così infatti egli chiama i laghi che affluiscono in mare e ne rifluiscono).

Intanto c’è da dire che nel Galateo non si trova Λιμοις ma λίμνην, accusativo di λίμνη, che significa acqua stagnante, palude, lago. La voce è legata al verbo λείβω (leggi lèibo), che significa stillare, versare, spandere , con cui è connesso a sua volta il latino libare che significa versare o spargere a terra o su un altare latte, vino e simili in onore degli dei o dei defunti oppure assaggiare oppure sfiorare leggermente, oppure, per traslato, conoscere superficialmente, oppure diminuire, intaccare. L’originaria valenza religiosa di libare, già traballante in latino, è scomparsa completamente nell’analoga voce italiana sinonimo di brindare, per non parlare del significato assunto da libagioni e da illibata, che oggi potrebbe definirre la donna che ha avuto contemporaneamente una decina di relazioni … Parenti stretti  di λίμνη sono λείμαξ (leggi lèimax), che significa prato, e λειμών (leggi leimòn)=luogo irriguo, prateria, con cui è connesso il latino limum=fanghiglia, da cui l’italiano limo , mentre limaccioso è da limaccio, a sua volta dal latino tardo limaceu(m), forma aggettivale dal citato limum. Per completare il commento aggiungo che Limnothalassan è trascrizione del greco  λιμνοθάλασσαv (leggi limnothàlassa), accusativo di λιμνοθάλασσα, composto dal già noto λίμνη+θάλασσα che significa mare.

Passo ora al Marciano col dettaglio di p. 198; lo riproduco più estesamente di quanto sarebbe necessario perché contiene una notizia interessante anche nel riferimento storico che la correda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora è chiaro che dal punto di vista etimologico fa testo il Galateo, travisato, non riesco a capire per quale motivo, dall’Arditi; tuttavia il della Limini del Marciano è prezioso per l’Alimini attuale, perché costituisce la fase intermedia, come vedremo. Limini, infatti è da λίμνη con epentesi di una –i– per ragioni eufoniche. Ancora più vicino a λίμνη per la terminazione in –e si presenta il toponimo Lìmene (nel dettaglio che segue evidenziato in rosso) della carta del Mercatore del 1589.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una sorta di italianizzazione nella desinenza, invece, si nota nel Lìmina che si legge nella carta aragonese della quale mi sono occupato in diverse puntate (per la nostra zona vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nelle carte del secolo XVII si legge: la limine nel Bulifon

 

 

 

 

La Limina nell’Hondius e nel Magini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Limmene nel Castaldi

 

 

 

 

Andando avanti nel tempo: La Limana nel De Rossi (1714)

 

 

 

 

Gli Alimeni nell’atlante di Rizzi-Zannone (1789-1808)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A questo punto, col frettoloso processo di ricostruzione cui ho dato vita, non mi è stato possibile stabilire, per l’esiguità del materiale esaminato, la data di nascita precisa dell’attuale Alimini, anche se essa è presumibilmente da collocarsi verso la metà del XVIII secolo.

Ma dirà il lettore, come si è passati dal limne del Galateo ad Alimini?

Ecco la trafila completa: limne>lìmene (la già nominata epentesi di –e– per motivi eufonici)>la Lìmene>l’Alìmene (agglutinazione della –a dell’articolo1). A questo punto il nome è diventato Alimene e, siccome i laghi che compongono lo specchio d’acqua sono due, l’Alìmine è diventato prima Gli Alìmeni e poi gli attuali (ma il processo, come dimostra la storia, non è destinato ad interrompersi) Alìmini o Laghi Alìmini.

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1 Fenomeni del genere appaiono di origine popolare, perché nascono da un fraintendimento che conduce ad un’errata grafia, la quale poi finisce per imporsi con l’uso, che nella lingua è sovrano, forse troppo sovrano per i miei gusti . Un esempio simile ad Alimini è quello di la radio>l’aradaio>aradio. Tuttavia non mancano casi in cui, al contrario,  la forma corretta si è conservata nella voce dialettale e la scorretta si è imposta nella lingua nazionale, sia pure con la complicità, forse, nell’esempio che farò, di un incrocio con altra parola. All’italiano lastrico corrisponde il salentino àstricu, che è dal latino medievale astracu(m), a sua volta dal greco ὄστρακον (leggi òstracon) che significa coccio, conchiglia (il pensiero corre, giustamente, al cocciopesto). Lastrico nasce proprio dall’incorporazione dell’articolo (l’astrico>lastrico) con lo zampino, forse, di lastra.

Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, l’antico proverbio e la propaganda augustea

di Nazareno Valente

Degli altri colleghi storici Tucidide faceva di tutta un’erba un fascio considerandoli dei semplici logografi («λογογράφοι»), vale a dire narratori che miravano al diletto degli ascoltatori e non certo alla verità1 con l’unico intento, pertanto, di produrre belle storie da declamare in pubblico, senza preoccuparsi della loro fondatezza. Sebbene non l’affermasse esplicitamente, egli ci metteva nel mucchio persino Erodoto, che pure aveva limitato al massimo i facili abbellimenti dovuti a fantasiosi interventi divini, ma che probabilmente non s’era emancipato dalla consuetudine di leggere le proprie storie nelle pubbliche piazze. E, che così fosse, se ne ha una prova evidente in un passo in cui lo storico di Alicarnasso parla della Scizia.

Ce lo possiamo infatti immaginare a Thurii, sua città d’adozione2, che s’affacciava sulla costa occidentale del golfo di Taranto, mentre cerca di spiegare ai suoi concittadini una particolarità dell’estrema propaggine della Scizia e che, per semplificare, utilizza come esempio l’Attica. Poi, temendo che quest’ultima contrada non sia molto conosciuta a chi l’ascolta, ritiene utile ricorrere ad un altro esempio («δὲ ἄλλως δηλώσω») che ha il pregio di non porre problemi interpretativi ai Turini, ovverosia la terra della Iapigia in cui abitano a stretto contatto di gomito i loro più acerrimi nemici (i Tarantini) ed i loro tradizionali alleati (i Brindisini). O, per dirla con le stesse parole di Erodoto, la penisola che inizia dall’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος3»).

Un passo stringato che non necessitava di ulteriori specificazioni, perché i Turini conoscevano perfettamente le due città ma al tempo stesso denso di significati, meritevoli di una descrizione a sé stante, se il nostro scopo non fosse circoscritto a decifrare un antico proverbio. In questa sede pare pertanto utile soffermarsi solo sugli aspetti funzionali alla nostra specifica trattazione.

Si può così rilevare che, quantunque entrambe le cittadine abbiano un porto rinomato, la sola Brindisi ne risulta di fatto caratterizzata, quasi che il porto fosse un’entità distinta dalla città. Erodoto specifica poi che si tratta di λιμήν che, in senso tecnico, è il termine portuale corrispondente al portus latino, con cui è definibile «uno specchio d’acqua chiuso naturalmente o artificialmente, accessibile dal mare, dove le navi possano rimanere sicure in caso di traversia4» e quindi con il requisito essenziale di costituire un sicuro ricovero nei momenti più tempestosi o di inattività invernali. Aspetto quest’ultimo di apprezzabile rilievo, considerato che a quel tempo si navigava quasi esclusivamente nelle belle stagioni.

In definitiva un porto d’eccellenza sin dal periodo classico dell’antichità greca e, pur tuttavia, nulla in confronto alla fama che acquisirà successivamente quando, a seguito della conquista romana, nella seconda metà del III secolo a.C. Brindisi diverrà colonia di diritto latino. Una fama che rivivrà negli scritti successivi pure nelle fasi di declino della città, così come avvenne nel De situ Iapygiae del Galateo.

Siamo all’inizio del XVI secolo, negli anni in cui l’impero ottomano, pur rivolgendo le sue attenzioni ad oriente, fa comunque sentire la propria nefasta presenza ad occidente, con rapide e feroci scorrerie che mettono in un stato di continua soggezione le città costiere. In assenza d’un governo forte, per i porti del basso adriatico l’unica difesa possibile è quella di precludere gli accessi alle rade, ed è per questo che il canale di collegamento al porto interno di Brindisi viene più volte ostruito, tanto che gli storici discutendo tra di loro lo qualificano «volgarmente… ciccato5». Eppure il Galateo6 giudica Brindisi città insigne «inclyta urbs» ed il suo porto famosissimo in tutto il mondo («toto terrarum orbe notissimus») tant’è che dà per coniato il proverbio: «tres esse in orbe portus: Iunii, Iulii et Brundusii», all’apparenza facile da tradurre ma dal significato alquanto oscuro (figura n. 1).

nazareno1

Letteralmente potremmo tradurlo così: “tre sono i porti al mondo: Giunio, Giulio e Brindisi” e non ci sarebbero problemi, qualora ai tre nomi corrispondessero altrettanti porti noti dell’antichità; cosa che, invece, sicuramente non è nel caso di Giunio. Osservato però che Iunius e Iulius sono anche i nomi dei mesi rispettivamente di giugno e di luglio, potremmo adottare quest’altra traduzione: “tre sono i porti al mondo: giugno, luglio e Brindisi”, che mostra l’ulteriore difetto di comparare entità tra loro inconfrontabili.

A tutta prima, quest’ultima soluzione pare la meno soddisfacente, ciò malgrado, i principali cronisti brindisini del XVII secolo la danno per sicura.

Secondo il Moricino, il porto di Brindisi viene comparato ai mesi di giugno e luglio «quasi che a dispetto della natura del mare tale sia quel Porto in ogni stagione, quale suol essere in tutto nelle Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio7».

E, sulla stessa lunghezza d’onda, gli fa eco il Della Monaca: «Quasi ch’à dispetto della naturalezza del mare tal sia quel Porto in ogni staggione, qual essere suole in tutto il tempo il Mare nelle bonaccie di quei mesi Giugno e, Luglio8».

In definitiva, come a dire che nel porto di Brindisi le navi sono sempre al sicuro, al pari di quando solcano il mare nelle bonacce dei mesi di giugno e luglio.

Un’interpretazione già di per sé in contrasto con la mentalità pratica degli antichi romani, poco inclini a fantasticherie così ardite in cui si confrontano i periodi migliori per navigare con i luoghi più idonei ad ospitare i navigli, e che in aggiunta non tiene conto di agosto, vale a dire del mese più favorevole per affrontare il mare. Vanno poi ricordate le consuetudini di quei tempi, che erano strettamente coerenti con le possibilità tecniche dell’epoca.

Come già in parte riportato, tranne rare eccezioni, si prendeva il mare solo nelle belle stagioni mentre in quelle cattive si trovava un buon porto dove ricoverare le navi. Le difese naturali o artificiali del portus erano infatti essenziali per proteggerle da eventuali mareggiate che potevano avere effetti devastanti su imbarcazioni la cui stazza era contenuta. A scanso di equivoci, esse venivano tirate a secco ed a volte protette pure da palizzate e fossati, per cui la bonaccia o la buona stagione non erano condizioni strettamente essenziali per la loro salvaguardia. Al contrario erano proprio le burrasche dei mesi estivi ad essere potenzialmente pericolose in quanto, sopraggiungendo improvvise e inaspettate, potevano comportare effetti disastrosi sulle galee ferme in rade non sufficientemente protette, tant’è che Svetonio9 riferisce come la flotta di Augusto fosse stata distrutta per ben due volte dalla tempesta, e non durante la brutta stagione ma per l’appunto nel bel mezzo dell’estate.

L’ingegnoso collegamento tra mesi dell’anno e porti fornisce perciò una chiave di lettura suggestiva – probabilmente conveniente a stimolare la fantasia e l’adattabilità dei social, dove in effetti impazza sino a trovare ospitalità in un godibile sketch satirico in cui un’analoga esegesi è fornita nientemeno che da Cesare Ottaviano Augusto10 – ma al tempo stesso improbabile. Certo è che essa non trova accoglimento al di fuori del ristretto ambito locale e, di conseguenza, conviene piuttosto considerare l’ipotesi più scontata, vale a dire che Iunius e Iulius siano molto più banalmente dei porti che non si è stati in grado di individuare.

Il Galateo scrisse il De situ Iapygiae in un periodo imprecisato tra il 1508 ed il 1511 ma non era più in vita quando il suo manoscritto fu stampato nel 1558, grazie al marchese di Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio che se ne accollò le spese. In quegli anni non esistevano porti con il nome di Giunio e di Giulio però, ai patiti di antichità romane quest’ultimo toponimo avrebbe potuto dire qualcosa. Del porto Giulio aveva infatti riferito Svetonio nella parte dedicata a Cesare Ottaviano Augusto della sua “Vita dei Cesari”, quando menziona l’inaugurazione presso Baia di un «portum Iulium» creato artificialmente facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno («inmisso in Lucrinum et Avernum lacum mari11»). La struttura portuale rendeva infatti comunicanti tra loro i laghi d’Averno e Lucrino, e quest’ultimo lago con il mare, previo taglio del cordone di sabbia che li separava (figura n. 2).

nazareno2

Voluto da Vipsanio Agrippa, amico e fedele collaboratore di Augusto, per contrastare le scorrerie sul Tirreno della flotta di Sesto Pompeo, il portus Iulius (o portus Iulii) iniziò ad operare nel 37 a.C. nei pressi del vecchio e rinomato porto di Puteoli, nell’ampia area dei Campi Flegrei, che venne così soppiantato da questo nuovo doppio bacino portuale. Si ipotizza che inizialmente avesse prevalenti funzioni militari, essendo stato preventivato l’allestimento d’un arsenale e di strutture idonee per addestrare gli schiavi liberati per inquadrarli tra i rematori, ma che in seguito divenne però scalo commerciale d’una certa importanza. In ogni caso, ricoprì un ruolo strategico di rilievo, se Agrippa decise di intitolarlo al futuro Augusto che, come conseguenza dell’adozione da parte di Cesare, aveva appunto modificato il proprio nome da Octavius a Iulius, e se altri storici lo citarono diffusamente nei loro scritti. Il porto meritò anche una menzione poetica da parte di Virgilio12 che l’elenca («Iulia… unda») tra le laboriose opere («operumque laborem») compiute dalla mano dell’uomo.

Come il porto di Brindisi, anche quello Giulio visse i suoi anni di gloria in concomitanza con l’impero romano e declinò con esso; solo che non si riprese mai più. Anzi scomparve addirittura dalla faccia della terra, a causa dei fenomeni naturali che investirono la regione flegrea modificandone la struttura morfologica. Dapprima, tra l’VIII ed il X secolo, fenomeni bradisismici fecero sì che il mare sommergesse il Lucrino che poi finì quasi per sparire nel 1538, a seguito dei movimenti tellurici che crearono in quel sito il Monte Nuovo.

Al tempo di Moricino e Della Monaca, il porto Giulio non esisteva pertanto più, e non ne era rimasta traccia, se non nelle fonti letterarie antiche. Solo i ritrovamenti archeologici del secolo scorso lo posero nuovamente in luce.

Non c’è quindi dubbio alcuno che lo “Iulii” del Galateo identifichi il porto Giulio, e non il mese di luglio come ipotizzato dai cronisti brindisini; di conseguenza anche Iunii è di sicuro un porto, e non un mese del nostro calendario. Il problema però in questo caso è che non c’è indizio, né possibile accenno nelle fonti letterarie, che diano modo di individuare una città portuale con un tale nome. Il che appare strano, se esso era così famoso da diventare proverbiale.

L’unica ipotesi formulabile appare a questo punto che il passo sia errato; cosa plausibile, considerate le lamentele espresse a volte «ai lettori» dai curatori delle opere del Galateo per le «grandissime difficoltà» incontrate nella traduzione «per la scorrezione dei testi13».

Partendo pertanto dal presupposto che il Galateo (o qualche copista) ne abbia riportato in maniera imprecisa il nome, occorre cercare la città portuale, a quel tempo rinomata, la cui denominazione abbia maggiore assonanza con Iunii. Essendo le località di tal genere in numero limitato, la ricerca riconduce inequivocabilmente al portus Lunae che, tenendosi alla sinistra dell’allora ampia foce del fiume Magra, si affacciava ad est dell’attuale golfo di La Spezia, e che, in antichità aveva goduto di buona fama meritando pure le attenzioni del grande Ennio14 che invitava a visitarlo, perché ne valeva la pena («Lunai portus, est operae. cognoscite, cives»).

Naturale come quello brindisino, il porto di Luna fu probabilmente motivo di contesa tra gli Etruschi ed i Liguri, prima di giustificare le mire dei romani che, con questo scalo, ritennero di poter controllare le rotte dell’alto Tirreno.

La deduzione nel 177 a.C. d’una colonia di diritto romano (civium romanorum) nella città di Luna fu perciò un passo del tutto conseguente (figura n. 3). Tuttavia, il successivo declino della potenza cartaginese creò una situazione di diffusa tranquillità nella zona, che finì per limitare l’importanza della base militare lunense. Solo in periodo augusteo il porto riacquisì rinomanza, quando fu potenziato e trasformato a scalo commerciale per sfruttare appieno le potenzialità delle vicine cave di marmo il cui candore affascinava Roma e tutte le città italiane. Ed è proprio di questo periodo la descrizione più particolareggiata che le fonti letterarie ci hanno conservato.

Nazareno3

Strabone15 ci informa infatti che la città di Luna non è grande mentre il porto è parecchio grande e assai bello, comprendendo più rade, tutte profonde («ὁ δὲ λιμὴν μέγιστός τε καὶ κάλλιστος, ἐν αὑτῷ περιέχων πλείους λιμένας ἀγχιβαθεῖς πάντας»), circondate da alte montagne dove ci sono cave di marmo bianco («μέταλλα δὲ λίθου λευκοῦ») utilizzato per gli edifici più insigni costruiti a Roma e nelle altre città.

Durante la stesura del De situ Iapygiae, il porto di Luna era però da secoli scomparso: il graduale interrimento, causato dai frammenti depositati dal Magra, l’avevano infatti reso paludoso e malarico, sino a costringere i suoi abitanti ad abbandonarlo per spostarsi nell’entroterra. Così non c’è da stupirsi troppo se, tra una copia e l’altra del passo implicato, la del tutto sconosciuta Lunae possa essere stata sostituita da Iunii, magari proprio perché termine ritenuto più in armonia con Iulii, anch’esso non più riconosciuto come scalo portuale.

Comunque siano andate le cose, la stesura originale del proverbio doveva essere la seguente: «tres esse in orbe portus: Lunae, Iulii et Brundusii» stabilendo in definitiva che i porti di Luna, di Giulio e di Brindisi erano gli unici al mondo degni d’essere considerati tali.

Questo almeno nella forma; nella sostanza il messaggio che si voleva veicolare era però forse ben altro.

La citazione del prezioso marmo bianco lunense riportata da Strabone fa infatti venire alla mente il noto passo in cui Svetonio16 riferisce che Augusto si vantava senza sottintesi di lasciare di marmo la città di Roma che aveva ricevuto di mattoni («marmoream se relinquere, quam latericiam accepisset»), facendoci così comprendere che la riorganizzazione del porto di Luna, e la conseguente notevole attività commerciale che vi era confluita, rientrava a pieno titolo nelle politiche economiche di ampio respiro che il princeps andava attuando. Lo stesso può dirsi a maggior ragione per il porto Giulio, creato praticamente dal nulla e che, come già riportato, Agrippa gli aveva persino intitolato perché ne rimanesse perenne memoria. Queste due imponenti iniziative rientravano pertanto, a dirla come il già citato verso di Virgilio, tra le «operumque laborem», vale a dire tra le opere esemplari che Augusto aveva compiuto per creare consenso. Il che fa sorgere il fondato sospetto che il proverbio facesse parte della minuziosa propaganda avviata da Mecenate, una specie di ministro della cultura e dell’informazione del governo augusteo, e che sia stato pertanto coniato ad arte per valorizzare i progetti portuali avviati in quel periodo.

In questa ottica anche la presenza nell’adagio del porto di Brindisi assume un significato diverso e ben più caratterizzante della sua del tutto ovvia notorietà.

Occorre infatti ricordare che il portus Brundusii rappresentava soprattutto una mirabile dimostrazione di opera compiuta dalla natura, come emerge ad esempio nei passi di Strabone17, quando lo qualifica porto spontaneo di grande pregio («εὐλίμενον»), oppure di Lucano18, quando lo descrive dotato di tutte quelle caratteristiche genuine che lo rendono approdo talmente sicuro che le imbarcazioni possono essere assicurate anche con una semplice tremula fune («ut tremulo starent contentae fune carinae»).

Nel proverbio il porto brindisino pare quindi piuttosto utilizzato come modello con cui confrontare i porti realizzati per mano dell’uomo.

A questo punto sembra evidente che, se nella forma il testo del proverbio stabiliva una semplice elencazione di porti importanti, nella sostanza intendeva far percepire che le attività promosse da Augusto sugli approdi portuali erano equiparabili alle migliori opere create dalla natura. In pratica, gli interventi compiuti per fare di Luna lo scalo commerciale che consentiva di sostituire nelle città al mattone il marmo e quelli eseguiti per realizzare dal nulla un bacino artificiale di sicuro ricovero, come avvenuto con il porto Giulio, erano paragonati all’approdo brindisino, ritenuto per l’appunto il portus per eccellenza.

Nella realtà, quindi, un riconoscimento di gran lunga superiore al banale accostamento alle «Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio» celebrato con convinta immaginazione dai cronisti brindisini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Tucidide (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, I 21, 1.

2 Erodoto era nato ad Alicarnasso ma, avendo partecipato alla fondazione della colonia panellenica di Thurii, ne acquisì la cittadinanza.

3 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.

4 G. Uggeri, La terminologia portuale e la documentazione dell’itinerarium Antonini, in Studi Italiani di Filologia Classica, N.S. XL, 1-2, pp. 225-254, Felice Le Monnier, Firenze, 1968, p. 241.

5 G. Antonini, La Lucania, Forni Editore, Sala Bolognese, 1984, ristampa dell’edizione Tomberli, 1794, p. 188.

6 Galateo, De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae, 1558, p. 63.

7 G.M. moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi, manoscritto ms_D12, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 14v.

8 A. della monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674, p. 30.

9 Svetonio (I secolo a.C.), Vita dei Cesari – Augusto, II 16, 1.

10 Tindilo: satira brindisina, Cesare Augusto imperatore, Brindisi, 2016.

11 Svetonio, cit., II 16, 2.

12 Virgilio (I secolo a.C.), Georgiche, II 154-163.

13 La Iapigia e varii opuscoli di Antonio de Ferrariis detto il Galateo, (collana diretta da Salvatore Grande), Tipografia Garibaldi, Lecce 1867, vol. I, p. I.

14 Ennio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Annali I, in persio (I secolo d.C.), Satire VI 9.

15 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, V 2, 5.

16 Svetonio, cit., II 28,5.

17 Strabone, cit., VI 3, 6.

18 Lucano (I secolo d.C.), Farsaglia, II 608-621.

I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: TORRE DI SAN CATALDO (5/6)

di Armando Polito

25r

 

 

 

 

In Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1,  in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: Risulta erronea la notizia, perdurata a lungo negli scritti sul porto antico [di S. Cataldo], di un intervento edilizio promosso dalla regina angioina Maria d’Enghien per la realizzazione di una “ingentem molem longis iunctam lapidibus miro opere” che avrebbe inglobato la struttura romana. Nella documentazione d’archivio a noi nota non compare alcuna menzione della costruzione di un nuovo molo né esistono riferimenti relativi ad una possibile sistemazione di quello preesistente, operazione che avrebbe comportato una ingente spesa di denaro di cui sarebbe sicuramente rimasta traccia nei registri angioini. L’impresa di Maria d’Enghien non deve dunque aver riguardato la costruzione di un molo bensì il restauro del “castello guarnito di monitioni”, con cui si indicava la torre costiera preesistente distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.

Credo che gli autori avrebbero fatto bene a citare la fonte da cui hanno tratto la notizia sulla distruzione della torre ad opera di una mina inglese. Non avendo avuto il tempo per fare un’indagine in tal senso sono costretto a credere sulla fiducia. Per quanto riguarda, invece, l’intervento edilizio di Maria d’Enghien mi piace (non per capriccio ma perché lo ritengo indispensabile) riportare il passo del Galateo che costituisce il contesto della citazione in latino presente nell’estratto.

Dal De situ Yapygiae, Perna, Basilea, 1553, X, 12-13: Inde exeuntibus ad X milia passuum occurrit castellum quod a divo Cataldo, antiquissimo Tarentinorum archiepiscopo, nomen accepit, eo quod  ille ex oriente proficiscens, haec  primum loca attigit, ubi et pusillum templum illi dicatum extat. Hoc quoque castellum Gualterius condidit pro emporio Lupiensium urbi propinquiori, ubi Maria eiusdem haeres ingentem molem longis iunctam lapidibus miro opere construxit. Nunc incuria principum et Lupiensium rebus, post mortem Ioannis Antonii principis et ob continua bella, defectis atque afflictis, pene exaggerata est.

TraduzioneChi procede da lì [da Roca Vecchia] per 10 miglia s’imbatte nel castello che prese il nome da san Cataldo, antichissimo arcivescovo dei Tarantini, per il fatto che egli provenendo dall’oriente toccò dapprima questi luoghi, dove c’è anche un piccolissimo tempio a lui dedicato. Gualtiero fondò anche questo castello per emporio dei Leccesi più vicino alla città, dove Maria sua erede fece costruire con arte meravigliosa un grande molo messo insieme dall’unione di lunghe pietre. Ora per l’incuria dei principi e per la situazione dei Leccesi, deteriorata e duramente provata dopo la morte del principe Giovanni Antonio e per le continue guerre, è quasi in rovina.

Quando si ha a che fare con un umanista del calibro del Galateo bisogna fare attenzione alle parole che usiamo ma soprattutto a quelle da lui usate, anche se come etimologo qualche volta suscita perplessità2.

Il verbo usato per castellum è condidit, per moles è construxit. Da un punto di vista etimologico il primo (da cum+dare) esprime l’atto primario della fondazione (da qui l’importanza dell’eroe-eponimo), il secondo (da cum+struere) privilegia l’esecuzione in sé, il mettere un pezzo su un altro. Detta così la cosa sembrerebbe una distinzione forse troppo sottile. Ma le parole, anche quelle che a prima vista possono apparire come sinonimi, acquistano un’identità più precisa, che spesso dirada le nebbie dell’equivoco sempre in agguato in indagini di questo tipo, grazie al contesto. Così moles in latino può significare massa, edificio gigantesco, molo, diga, sforzo, difficoltà, pericolo. Escludendo il primo significato e gli ultimi tre dall’evidente valore traslato, mi rimangono edificio gigantesco, molo, diga. Credo che con nessuno di essi possa accordarsi un semplice restauro di un castellum (fortino), quale sarebbe stato quello operato da Maria secondo gli autori del testo citato all’inizio. Ma c’è di più. Il concetto di moles che già di per sé, come abbiamo visto, è legato a qualcosa fuori dall’ordinario, qui è ribadito, ove ce ne fosse stato bisogno, dall’attributo ingens (smisurato): segue il particolare descrittivo di longis iunctam lapidibus e una lapis longa (pietra lunga) mi pare più ragionevolmente identificabile con i blocchi regolari di un molo più che con un concio o, meno ancora, con le pietre, per quanto lunghe e piatte, che sarebbero state usate anche in seguito nella costruzione delle torri costiere. Miro opere (con arte meravigliosa), poi, mi pare esagerato per un semplice lavoro di restauro. Tornando, infine, a construxit il verbo potrebbe, dunque, ricordare un ampliamento e probabile contemporaneo restauro, dell’antico porto romano.

Per tornare, infine, alla nostra torre mi pare opportuno soffermarmi su alcuni dati cartografici.

Iacopo Castaldo, Apuliae, quae olim Iapygia, nova chorographia (1595)3:

Johannes Janssonius Itala, nam tellus Graecia maior4 (1640 circa):

 

Invito il lettore a soffermare la sua attenzione sulla rappresentazione del Lupiarum navale (base navale di Lecce).

Henricus Hondius, Terra di Otranto olim Salentina & Iapigia5 (1650 circa):

Antonio Bulifon, Terra d’Otranto6, in Carte de’ regni di Napoli e di Sicilia, loro provincie ed isole adiacenti, s. n. s. l. s. d. (ma sicuramente da collocare nel primo decennio del XVIII secolo).

6

 

Chiara la sua derivazione dalla carta dell’Hondius. Le torri qui sono indicate con lo stesso simbolo riservato alle città. Da notare pure  T. Specchio di Rugiero contro il T. Specchia di Rugiero dell’Hondius.

Carta geografica della Sicilia prima o sia Regno di Napoli disegnata da Antonio Rizzi Zannoni e fatta incidere per ordine del Rè delle Due Sicilie a Parigi nel 17697:

Da notare i due gruppi di tre quadrati (simbolo in comune con le altre torri) a presidiare i lati opposti del porto che ha la stessa conformazione già vista nella carta di Janssonius.

Lo stesso Rizzi Zannoni procederà poi alla revisione della carta del 1769 nell’Atlante geografico del Regno di Napoli in 32 fogli, completato nel 18128. Dal foglio 31 è tratto il dato che segue:

Qui la rappresentazione della fortificazione ha perso completamente il carattere strano che mostrava nella mappa precedente. Molto importante, mi pare, comunque, che essa dimostra la sua esistenza a tale data e la dicitura Castello di San Cataldo spiega eloquentemente l’es algo mas grande de las demas (è un po’ più grande delle altre [torri] e il no siendo mas que torre (non essendo più che torre) del documento.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/11/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-taranto-16/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/18/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-gallipoli-26/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/30/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-otranto-36/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/05/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-lecce-46/

Per la sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/25/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-brindisi-66/

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1 http://www.academia.edu/6576080/Tra_terra_e_mare_ricerche_lungo_la_costa_di_San_Cataldo_Lecce_._Con_un_Appendice_litostratigrafica_di_S._Margiotta

2 Per esempio: Solum pingue et frugum omnium ferax, unde fortasse Lupiae, ab eo quod est LIPARON, id est pinguae, dictae sunt (Il suolo è grasso e ferace di ogni frutto, da cui forse si chiamò Lupiae [Lecce], per il fatto che è LIPARON [in greco significa  grasso], cioè pingue). Meno male che il fortasse (forse) tradisce i dubbi derivanti dalle difficoltà di natura fonetica che tale proposta etimologica comporta.

3 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b530428848/f1.zoom.r=APULIA.langEN

4 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84464435/f1.zoom.r=janssonius.langEN

5 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8490349t.r=hondius.langEN

6 Visibile in alta definizione in http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b530425649.r=terre+d%27otrante.langEN

7 Visibile in alta definizione in http://www.mapsandimages.it/eMaps/autore.htm?idAut=470 (è la terza).

8 Visibile in alta definizione in http://www.davidrumsey.com/luna/servlet/detail/RUMSEY~8~1~246514~5515020

 

La specchia del cavolo*

di Armando Polito

 

* Ringrazio Paolo Cavone per avermi dato l’opportunità di occuparmi qui dell’argomento, dato che la questione non poteva essere liquidata in poche battute, con l’invito rivoltomi in https://www.facebook.com/203849783159662/photos/a.223441477867159.1073741852.203849783159662/244758789068761/?type=1&comment_id=244810595730247&notif_t=comment_mention

 

Mio caro lettore, ti autorizzo fin da ora ad attribuire al cavolo del titolo il noto uso eufemistico se quanto sto per dire dovesse  sembrarti, sia pure alla fine, completamente campato in aria.

Ma cominciamo da specchia, della quale riporto la definizione fornita dalla Treccani on line:  nella penisola salentina, termine usato per indicare cumuli artificiali di pietre in forma di grandi coni, alti fino a 18 m, circondati da un muro, interpretati come torri di vedetta, e di altri di minore altezza, racchiudenti tombe a cassa e corredo di tradizione appenninica misto a forme della prima età del ferro.

Aggiungo che, a parte Specchia, il comune in provincia di Lecce con lo stesso etimo che fra poco vedremo, come nome comune la voce, oltre che accompagnare come apposizione vari toponimi, tende ad entrare ufficialmente nel linguaggio scientifico come già è avvenuto, per esempio, per uluzziano da Uluzzu (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/22/lasfodelo-uluzzu-erba-degli-eroi/)

Il suo etimo è collegato al concetto di sopraelevazione insito nel cumulo: spècula in latino significa osservatorio, altura, vigilanza. Il concetto di base è quello del verbo spècere=guardare, per cui spècula ha come primo significato quello di osservatorio; poi, siccome si guarda meglio stando in posizione elevata, si è passati ai concetti di altura e vigilanza; da spècula, per sincope di –u– si è avuto specla, attestato, insieme con speccla, da parecchi diplomi normanni, e di cui è rimasta traccia nelle varianti sflega (Soleto) e sfleca (Calimera , Sternatia e Zollino), da cui specchia in virtù di un’evoluzione fonetica normalissima (come in màcula>*macla>macchia). La voce specchia oggi indica qualsiasi mucchio di pietre, anche di formazione recente, qual è quello residuale del dissodamento dei campi.

Per il cavolo debbo scomodare una mappa antica e più precisamente quella, dedicata al Regno di Napoli, facente parte  del Theatrum orbis terrarum di Abraham Ortelius pubblicato ad Anversa da Gilles Coppens de Diest  nel 1570. L’opera è visibile e scaricabile in https://archive.org/details/theatrumorbister00orte, link dal quale ho tratto il frontespizio

e la tavola che ci interessa, dalla quale con zoomate progressive ci avvicineremo ora al toponimo sul quale ci soffermeremo.

Siamo arrivati a destinazione, cioè a Torre del caulo. Ci troviamo esattamente nella zona in cui fino a qualche decennio fa erano visibili i pochi resti della Specchia Caulone (nell’immagine di testa in una foto di G. Palumbo tratta dal contributo di Nicola Vacca Noterelle galateane, per i cui estremi bibliografici rinvio alla nota)1.

Che il degrado della specchia fosse già in stadio avanzato da parecchi secoli ce lo prova la testimonianza del Galateo (1444-1517) che nel De situ Iapygiae, uscito postumo a Basilea per i tipi di Pietro Perna nel 1558, scriveva: A castello divi Cataldi  sex millibus passuum abest castellum in Lupiensi agro, cui nomen Caulon; distat a Monasterio Ceratensi, quod videmus, duobus millibus passuum; videtur ingens structura fuisse, nunc nihil est nisi acervus lapidum, qui exusti videntur, deinde tempore exesi; vix duobus a mari distat stadiis, vestigia quae ad mare procedunt adhuc cernuntur. Nescio si fuerit Caulon, quem, remota C litera, Horatius Aulonem dixit: incolae speculam Caulonis  appellant. In huius peninsulae editioribus locis frequentes sunt cumuli lapidum quos incolae speculas nominant:  has numquam me vidisse memini, praeterquam in hoc tractu. Has congeries non nisi magna numerosae multitudinis manu coacervatas fuisse credibile est. Paucis in locis ubi lapides non sunt (omnes enim colles asperi et lapidosi) ex terra facti sunt cumuli tantae magnitudinis ut aspicientibus montes videantur; quamvis tempus et hominum manus et pecus omne non parvam partem decacuminavit.  Monumenta haec fuisse illustrium virorum existimo; mos enim erat vetustissimorum Graecorum et ante illos forte Iapygum super cadavera clarorum virorum ingentem lapidum, aut arenarum molem accumulare; unde fortasse cumuli, aut tumuli sepulchra dicuntur (Dal castello di S. Cataldo dista sei miglia in agro di Lecce un castello chiamato Caulone; dista dal monastero di Cerrate, che vediamo, due miglia; sembra che sia stato di ragguardevole struttura, ora non c’è nulla se non un cumulo di pietre che appaiono bruciate; dista dal mare appena due stadi. Non so se Caulone sia stato quello che, eliminata la lettera C, Orazio chiamò Aulone: gli abitanti lo chiamano Specchia di Caulone. Nei luoghi alquanto elevati di questa penisola sono frequenti i cumuli di pietre che gli abitanti chiamano specchie: ricordo di non averne mai visti se non in questo tratto. C’è da credere che questi cumuli siano stati ammassati non senza la grande fatica di parecchia gente. In pochi luoghi dove non ci sono pietre ( tutti i colli infatti sono aspri e sassosi) sono realizzati con la terra cumuli di tanta grandezza che a chi li guarda sembrano monti, sebbene il tempo e la mano degli uomini e ogni tipo di bestiame ne abbia privato della sommità buona parte. Credo che questi fossero monumenti di uomini illustri; infatti era costume degli antichissimi Greci e prima di loro forse degli Iapigi di accumulare di accumulare sopra i cadaveri degli uomini illustri una grande massa di pietre o di sabbia; perciò forse i sepolcri son detti cumuli o tumuli).

Intanto il nome latino tramandatoci dal Galateo è Caulon, dal cui accusativo (Caulonem) è l’italiano Caulone. Il Galateo suggerisce pure una prima etimologia ipotizzando che il nome del monte Aulon (in italiano Aulone) ricordato da Orazio derivi, per la perdita della consonante iniziale, proprio da Caulon e corrisponda, quindi, alla nostra specchia.

Vediamo cosa dice esattamente Orazio (Odi, II, 6, 5-21): Tibur Argeo positum colono/sit meae sedes utinam senectae,/sit modus lasso maris et viarum/militiaeque./Unde si Parcae prohibent iniquae,/dulce pellitis ovibus Galaesi/flumen et regnata petam Laconi/rura Phalantho./Ille terrarum mihi praeter omnis/angulus ridet, ubi non Hymetto/mella decedunt viridique certat/baca Venafro,/ver ubi longum tepidasque praebet/Iuppiter brumas et amicus Aulon/fertili Baccho minimum Falernis/invidet uvis (Volesse il cielo che Tivoli  fondata dal colono argivo fosse la sede della mia vecchiaia,  il limite, per me stanco, del mare e dei viaggi e della guerra. Se le Parche ingiuste mi tengono lontano da lì possa io raggiungere la corrente del Galeso dolce per le lanose pecore e i campi su cui regnò lo spartano Falanto. Quell’angolo di terra mi sorride più di ogni altro, dove il miele non è inferiore a quello dell’Imetto e l’ulivo gareggia con quello verdeggiante di Venafro, dove Giove offre una lunga primavera e un tiepido inverno e l’amico Aulone dalla fertile vite per nulla invidia  le uve del Falerno).

A me sembra che l’angolo di terra di cui parla Orazio sia caratterizzato dalla presenza dominante e accentratrice del fiume Galeso, che è ben lontano dalla nostra specchia (di seguito evidenziati entrambi nella mappa antica), in territorio tarentino.

E me lo conferma Marziale, Epigrammi, XIII, 125, che a distanza di poco più di un secolo sembra riecheggiare Orazio:  Tarentinum. Nobilis et lanis et felix vitibus Aulon/ Det pretiosa tibi vellera, vina mihi (Il territorio tarentino. L’Aulone famoso per le lane e fertile di viti dia a te lane, a me vini preziosi).

Molto probabilmente la proposta di identificazione/derivazione di Aulon con/da Caulon nasce nel Galateo anche per suggestione del commento di Pomponio Porfirione (II-III secolo d. C.) ai versi di Orazio appena riportati: Aulon locus est contra Tarentinam regionem ferax boni vini (Aulone è un luogo, di fronte alla regione tarentina, che produce buon vino). Torneremo a breve su quel contra=di fronte.

Non aiuta certo a far chiarezza Servio (IV-V secolo d. C.) che nel suo commento al verso 533 del libro III dell’Eneide virgiliana scrive: CAULONISQUE ARCES. Aulon mons est Calabriae, ut Horatius “et amicus Aulon fertilis Baccho”, in quo oppidum fuit a Locris conditum, quod secundum Hyginum, qui scripsit de situ urbium Italicarum, olim non est. Alii a Caulo, Clitae Amazonis filio, conditum tradunt (Le rocche di Caulone. Aulone è un monte di Calabria, come dice Orazio “e l’amico Aulone fertile di vite”, sul quale fu fondata dai Locresi una città che secondo Igino, che scrisse sul sito delle città italiche, da molto tempo non c’è più. Altri tramandano che fu fondata da Caulo, figlio dell’amazzone Clita).

Al di là del passaggio fatto quasi di soppiatto da Caulonis (genitivo che suppone un nominativo Caulon) ad Aulon, quel Calabriae (già da secoli Calabria era il nome dell’attuale Terra d’Otranto, mentre Brutium era quello dell’attuale Calabria), collocherebbe il monte nel nostro territorio ed escluderebbe Caulonia calabrese, nonostante si dica che su di esso venne fondata una città dai Locresi.

Come abbiamo fatto prima con Orazio, leggiamo ora l’originale virgiliano (Eneide, III, 551-553): Hinc sinus Herculei, si vera est fama, Tarenti/cernitur; attollit se diva Lacinia contra/Caulonisque arces et navifragum Scylaceum (Da qui si vede il golfo dell’erculea, se ciò che si dice è vero, Taranto; di fronte si levano la dea Lacinia e le rocche di Caulone e Squillace famosa per i naufragi). Il contra virgiliano consente di capire meglio il contra Tarentinam regionem di Porfirione, in cui avevo lasciato in sospeso quel contra che, dunque, indica una posizione frontale, anche se un po’ defilata, rispetto a Taranto ma non certo rispetto ad un punto ancor più frontale e lontano, addirittura, sulla costa adriatica.

La testimonianza di Virgilio non lascia adito a dubbi. Le rocche di Caulone si trovano di fronte a Taranto insieme con (il tempio del) la dea Lacinia (da cui Capo Lacinio, oggi Capo Colonna) e Squillace; dunque, siamo nell’attuale Calabria e le rocche di Caulone non sono altro che l’odierna Caulonia in provincia di Reggio Calabria.

E, ove ce ne fosse stato bisogno, ecco la conferma di Ovidio (Metamorfosi, XV, 703-706: Linquit Iapygiam laevisque Amphrisia remis/saxa fugit, dextra praerupta Celennia parte,/Romethiumque legit Caulonaque Nariyciamque/evincitque fretum Siculique angusta Pelori (Lascia la Iapigia, evita virando a sinistra le rocce amfrisie [non identificate] e a destra le scogliere Celennie [non identificate] e tocca Romezio [non identificata] e Caulona [l’originale Caulona per Caulonem è un accusativo alla greca) e Naricia [Locri] e supera lo stretto e le insidie del siculo Peloro).

Insomma il padre dell’ipotesi  di Aulone derivante per aferesi da Caulone sembra, per il momento, essere stato Servio che, a complicare ulteriormente le cose, mette in campo anche Caulo il figlio dell’amazzone. Il Caulo del testo originale serviano è un caso ablativo che suppone un nominativo Caulus e un accusativo Caulum da cui dovrebbe derivare in italiano Caulo; e infatti, nella mappa, per non fare torto a nessuno, compare Torre del caulo, con la preposizione articolata e con l’iniziale minuscola, come se fosse un nome comune, quasi italianizzazione del dialettale càulu=cavolo.

A questo punto, con tutto il rispetto per gli autori antichi e per il Galateo (che, pur non citandolo, mostra di conoscere Servio), esibisco troppa e perversa fantasia se mi viene in mente, anche in base alla descrizione data all’inizio della specchia, che quest’ultima nella forma ricorda tutt’altro che vagamente una testa di cavolo e se dico che, quindi, il toponimo potrebbe essere il frutto di una similitudine popolare  (e non solo, come vedremo, in riferimento all’ortaggio …)?

Al cavolo, in un certo senso mostra di credere pure Girolamo Marciano (1571-1628) che in Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto,  uscito postumo nel 1855 a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride, a pag. 397 così si esprimeva: Tra queste due torri [Rinalda e Spiecchiolla (sic, poco prima)] alquanto infra terra si vedono le rovine di un antichissimo castello detto dal volgo la Specchia di Caulone, dove si vede un grandissimo tumulo di pietre guaste, e corrose dal tempo, e le reliquie di una grossa muraglia, che incominciava da questa parte orientale della marina, e passando per il castello trascorreva sino all’altra occidentale, terminando al porto piccolo di Taranto per ispazio di miglia quaranta, come in molti luoghi tra questo spazio se ne vedono molti antichi vestigi, fatto per quanto si dice dai Japigii, nel tempo che debellarono i Messapi, e si divisero la regione tra di loro. Perciocché i Messapi possedevano la parte boreale della provincia, e gli Japigi l’australe, ed il castello da questa parte posero per termine e guardia del mare orientale, perciocché dalla parte occidentale si guardava dalla città di Taranto, chiamandolo Caulone quasichè estremo capo della divisione, e della lunga muraglia, denotando la voce Καυλός (leggi Caulòs) appresso dei Greci l’estremo capo di qualsivoglia lunghezza. Strabone dice che Caulonia nella Magna Grecia, edificata dai Greci, fu prima detta Aulona, quasi Vallonia, dalla vicina valle; perciocchè la voce Αὺλόν (leggi Aulòn) oltre che dinota valle, significa parimente il tratto di un lungo e stretto mare, come il Jonio che si stringe come un canale tra il capo d’Otranto e i monti Cerauni, nella riva occidentale del quale fu edificato questo castello e nell’orientale la città oggi detta Aulona. Si vedono oltre di questo in molti luoghi della provincia grandissimi cumuli, e montetti di pietre misti con terra, che gli abitatori del paese chiamano Specchie, le quali paiono opere di grandissima potenza, e di numerose mani, con tutto che il tempo le abbia in gran parte spianate. Il Galateo stima essere state queste Specchie sepolture di uomini illustri; il che non è credibile, perchè sebbene quegli antichi Greci facevano simili sepolcri e grandi tumuli agli uomini insigni, non per questo è da credere, che le specchie che si vedono in questa regione siano stati sepolcri. Imperciocchè il nome Specchia, derivante dal verbo latino speculor, non significa altro che luogo eminente, donde è solito farsi le guardie, e le spie a’ nemici.  

Pure per il Marciano tutto si riduce ad un’aferesi di C-, ma all’Aulone oraziano egli sostituisce, con un ragionamento arzigogolato e che mi sembra troppo al servizio di una pur sacrosanta ipotesi di lavoro, nientemeno che la città oggi detta Aulona, cioè l’odierna Valona in Albania. Tutto questo con due pezze giustificative.

La prima è di natura filologica ed è basata su Αὺλόν da una parte e Καυλός dall’altra. Su Αὺλόν debbo preliminarmente dire che in greco esiste αὐλός, di genere maschile, con i significati di flauto, tubo, canale, zampillo, sfiatatoio, imbuto. Il Morciano s’inventa un neutro Αὺλόν senza rendersi conto che Aulona è spiegata meglio dalla voce derivata αὐλών/αὐλῶνος (leggi aulòn/aulònos)=gola montana, canale. Quanto a Καυλός quel denotando la voce Καυλός appresso dei Greci l’estremo capo di qualsivoglia lunghezza mi pare una definizione anch’essa strumentale, tirata per i capelli. Basta, infatti, considerare che Καυλός negli autori greci è usato con i significati di estremità della lancia, fusto di pianta arbustacea o di candelabro, cavolfiore, dotto del pene, collo della vescica, gambo di amo. Perciò l’estremo capo di qualsivoglia lunghezza può andare d’accordo  stentatamente solo con il primo significato che ho riportato, che, essendo di evidente derivazione analogica, non è quello nativo.

Colgo l’occasione per far notare come direttamente da questa voce greca deriva il latino tardo càulus che in Vindiciano, (IV secolo d. C.), Epitome Altera, XXVIII, assume il significato di glande (quasi un parente del quarto registrato per il greco): De veretro. Veretrum est oblungum, natura nervosum, forinsecus venosum, membrano coopertum fortissimo, habens fistolam rectam in medio ab inizio usque ad summum. Cacumen eius dicitur caulus sive dartus2 (Il pene. Il pene è lungo, nervoso di natura, all’esterno venoso, coperto da una membrana resistentissima, ha al centro un condotto diritto dall’inizio fino alla sommità. La sua parte terminale si chiama caulus o dartus3).

Dalla voce del latino tardo, poi, è derivato per epentesi eufonica di –v– l’italiano cavolo (che ha conservato pure il significato traslato che, come abbiamo appena visto, è piuttosto datato; nasce dunque per similitudine e, perciò, in italiano secondo me cavolo per cazzo non ha origini, come si potrebbe pensare, eufemistiche, legate, cioè, alla sostituzione della parola “sporca” con un’altra “pulita” avente in comune con la prima la sillaba iniziale) ed il dialettale càulu (usato per indicare solo l’ortaggio, il che corroborerebbe il mio dubbio precedente sul valore eufemistico fin dall’origine di cavolo per cazzo; infatti, almeno nel dialetto di Nardò, è usato a tal fine non càulu ma cagnu=cane; curioso, poi, è il fatto che cagnu sia usato solo a questo scopo e che per indicare l’animale si usi, come in italiano, cane, nonostante cagnu sia il padre di cagnùlu, a Nardò canicèddhu,=cagnolino). Nel latino classico, invece, sempre connesso con la voce greca, è attestato caulis (anche nelle varianti colis e coles) nel significato generico di fusto ed in quello specifico di cavolo. Dall’accusativo di caulis (caulem), infine, è derivato l’italiano caule.

La seconda pezza giustificativa è di natura letteraria, cioè è utilizzata la fonte Strabone (I secolo a. C. – I secolo d. C. ). Ecco le parole originali del geografo greco (Geographia, VI, 1, 10): Μετὰ δὲ Λοκροὺς Σάγρα, ὃν θηλυκῶς ὀνομάζουσιν, ἐφ᾽ οὗ βωμοὶ Διοσκούρων, περὶ οὓς Λοκροὶ μύριοι μετὰ Ῥηγίνων πρὸς δεκατρεῖς μυριάδας Κροτωνιατῶν συμβαλόντες ἐνίκησαν.  Ἀφ᾽ οὗ τὴν παροιμίαν πρὸς τοὺς ἀπιστοῦντας ἐκπεσεῖν φασιν ‘ἀληθέστερα τῶν ἐπὶ Σάγρᾳ.’ Προσμεμυθεύκασι δ᾽ ἔνιοι καὶ διότι αὐθημερὸν τοῦ ἀγῶνος ἐνεστῶτος Ὀλυμπίασιν ἀπαγγελθείη τοῖς ἐκεῖ τὸ συμβάν, καὶ εὑρεθείη τὸ τάχος τῆς ἀγγελίας ἀληθές. Ταύτην δὲ τὴν συμφορὰν αἰτίαν τοῖς Κροτωνιάταις φασὶ τοῦ μὴ πολὺν ἔτι συμμεῖναι χρόνον διὰ τὸ πλῆθος τῶν τότε πεσόντων ἀνδρῶν. Μετὰ δὲ τὴν Σάγραν Ἀχαιῶν κτίσμα Καυλωνία, πρότερον δ᾽ Αὐλωνία λεγομένη διὰ τὸν προκείμενον αὐλῶνα. Ἔστι δ᾽ ἔρημος· οἱ γὰρ ἔχοντες εἰς Σικελίαν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἐξέπεσον καὶ τὴν ἐκεῖ Καυλωνίαν ἔκτισαν (Dopo Locri il Sagra che ha un nome femminile, sulle cui sponde ci sono gli altari dei Dioscuri, presso i quali 10000 Locresi insieme con Reggini, scontratisi con 130000 Crotoniati, vinsero. Dicono che da questo fatto derivi il proverbio riferito agli increduli “Più vero di ciò che successe sulla Sagra”. Alcuni aggiungono la leggenda che nello stesso giorno, mentre ad Olimpia si svolgevano i giochi, pure lì fu annunziato l’accaduto e la velocità di diffusione ne consacrò la veridicità. Dicono che la disfatta fu la causa per i crotoniati di non poter durare ancora per molto tempo per il gran numero di caduti. Dopo il Sagra c’è Caulonia fondata dagli Achei, prima detta Aulonia per la valle che le giace di fronte. È deserta: gli abitanti infatti furono scacciati dai barbari in Sicilia  e lì fondarono Caulonia).

A questo punto è chiaro che il Caulonisque arces/Aulon di Servio è figlio dell’alternanza Aulonia/Caulonia di Strabone, ma rimane il mistero dell’aggiunta di C- (per la quale il Marciano mette in campo l’incrocio tra Αὺλόν e Καυλός) e la presenza della Caulonia siciliana ultima arrivata; comunque, possiamo affermare che tanto con lei quanto con quella tarentina la nostra specchia non ha nulla a che fare. E poi c’è da mettere in conto il fenomeno antico dell’omonimia di tanti toponimi e, con riferimento alla mappa, la loro deformazione o italianizzazione con effetti spesso esilaranti (per non parlare di errori macroscopici come, sottolineato dallo stesso Paolo nel link indicato, un Aletium collocato pari pari nel posto allora come ora occupato da Lecce), tra cui, tutto è probabile, anche quanto ho avuto occasione di dire sulla possibile responsabilità del càulu, per cui Specchia del caulo potrebbe essere italianizzazione di Specchia ti lu càulu.

E, per chiudere, ora, mio caro lettore, cominci a sospettare che il titolo sia stato particolarmente azzeccato? Continua a sospettare, ma auguriamoci che qualche ricercatore della domenica (e pure degli altri giorni della settimana …), suggestionato da quanto ho scritto, non avanzi l’ipotesi che, dopo il menhir, anche la specchia (e a maggior ragione Specchia Caulone, in cui il secondo componente ha tutta l’aria di essere un accrescitivo …) avrebbe il diritto di vedersi riconosciuto il titolo di simbolo fallico …

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1 Caulone e Calone in Cesare Teofilato, Di alcuni Megaliti Sallentini, in Rinascenza salentina, anno I, n. 3 (maggio 1933), XI-XII, pp. 140-150, solo Calone nei pionieri di storia locale: Sigismondo Castromediano, Sulle Specchie di Terra d’Otranto, Lecce, Tipografia Salentina, 1873-74; G. Nicolucci, Brevi note sui monumenti megalitici e sulle così dette Specchie di Terra d’Otranto, Atti dell’Accademia Pontaniana, v. XXIII, Tipografia della Regia Università di Napoli, Napoli, 1893; Charles Lenormant, I truddhi e le Specchie di Terra d’Otranto, in Gazzette archeologique, VII (1881), Parigi, p. 82; L. De Simone, La specchia Calone e L. De Giorgi, Le specchie di Terra d’Otranto in Rivista storica salentina, Lecce, anno II (1904-1905), pp. 313-334 e 481-513; Paolo Dovara, Le specchie della penisola salentina in Corriere meridionale, XXI (1910), Lecce, p. 34; P. Maggiulli, Specchie e trulli in Terra d’Otranto, Tipografia editrice leccese, Lecce, 1909; Calone in altri storici locali  (tutti i contributi di seguito citati sono leggibili in http://www.emerotecadigitalesalentina.it/): Luigi Scoditti, Specchie e Paretoni nel Salento, in La zagaglia, anno II, (1960), v. VIII, pp. 52-56; Nicola Vacca, Noterelle galateane, in Rinascenza salentina, anno XI, 1943, pp. 65-96; Marcellino Leone, Terra d’Otranto dall’origine alla colonizzazione romana, in La zagaglia, anno VII (1965), pp. 308-320; Antonio Franco, Sopravvivenza delle opere d’arte nel Salento, in La zagaglia, anno XVI, n. 56 (dicembre 1972), pp. 292-301; Aldo Caputo, Nella terra dei Titani, in Idomeneo, n. 6, pp. 225-231.

Calone compare in documenti medioevali come nome di un feudo brindisino, ma non so (e vale anche per il Calone del saggio di Primaldo Coco che non ho potuto consultare: Vestigi di vita canonicale in Brindisi sulla fine del secolo XIII e vicende del casale di Calone (presso Mesagne), Tipografia Giurdignano, Lecce, 1913) se corrisponda topograficamente al nostro.

2 Cito  il testo latino da Valentino Rose, Theodori Prisciani Euporiston libri III cum physicorum fragmento et additamentis Pseudo-Theodoreis; accedunt Vindiciani Afri quae feruntur reliquiae, Teubner, Lipsia, 1894, pag. 479.

3 Chiara trascrizione del greco δαρτός (leggi dartòs)=scorticato, scuoiato (fimosi e circoncisione a parte …).

 

 

 

Spigolature gallipoline e noterelle galateane

Gallipoli (ph Vincenzo Gaballo)

di Paolo Vincenti

Sulla contrada che da Gallipoli porta a Chiesanuova si trova il complesso Magettaro, un insediamento rupestre medievale.  Per quanto riguarda Torre Pizzo, un’antica masseria, così denominata dal luogo in cui essa sorge, nei pressi della torre d’avvistamento cinquecentesca, sono stati individuati dei resti di un insediamento risalente all’età romana.

Testimonianze preistoriche ha dato anche Torre Sabea, presso Rivabella, e per l’esattezza testimonianze dell’età neolitica quando questo luogo era frequentato da gente che svolgeva un’attività prevalentemente pastorale.

Un notevole complesso di importanza artistica e storica è San Pietro dei Samari, risalente al Medioevo.

La Chiesa del Sacro Cuore  risale agli inizi del Novecento.Nel 1912, il vescovo Gaetano Muller decise di elevare a parrocchia la chiesa di Santa Maria del Canneto e Monsignor Sebastiano Natali, nominato dal vescovo parroco di questa chiesa, volle edificare nel Borgo un grande centro di accoglienza per i giovani che erano a rischio di devianza ed assicurare a loro un avvenire certo. Il progetto venne elaborato dall’Ing. Luigi Pastore,  e venne approvato dalla Commissione edilizia comunale nel gennaio del 1922. I lavori per erigere la chiesa procedevano a singhiozzo in quanto, nel frattempo, era stato anche progettato l’annesso Istituto Michele Bianchi, che venne inaugurato nel 1930. Anche a causa delle indisposizioni dell’Arch. Napoleone Pagliarulo, che doveva seguire i lavori, la chiesa fu terminata e aperta al culto nel 1943. Il Vescovo trasferì la sede parrocchiale di Santa Maria del Canneto alla chiesa del Sacro Cuore di Gesù, che risulta costruita a pianta basilicale, suddivisa in tre navate, culminanti in tre absidi, da due file di colonne su cui poggiano quattro arcate a tutto sesto. Don Sebastiano Natali, principale promotore della costruzione della Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, nel 1938 pubblicò un raro volume dal titolo “Una storia di un’opera della divina Provvidenza e di una vita di apostolato”, in cui ricordava le sue disavventure con il regime fascista che gli causarono anche il confino a Cefalonia.

Nella Chiesa del Rosario, si trova la tela del patriarca San Domenico di Guzman, recentemente restaurata, che si trova al centro del coro, opera di Giandomenico Catalano (1560-1626). In questo dipinto, San Domenico, in atto benedicente, stringe con la mano destra il Crocefisso e recita il Salmo penitenziale quaresimale “Parce Domine parce populo tuo”, mentre con la sinistra indica la città di Gallipoli chiedendone il perdono e la benedizione. Molto interessante la veduta di Gallipoli nel Seicento. Con lo stesso soggetto, il Catalano realizzò anche due tele nel Santuario dell’Alizza di Alezio, ovvero San Pancrazio e San Carlo Borromeo e un’altra tela raffigurante i Santi Eligio e Menna, un tempo nell’omonima cappella ed oggi nella sacrestia della Cattedrale gallipolina.

Queste le antiche mura fortificate della città di Gallipoli: il torrione trapezoidale nei pressi della chiesa di San Francesco di  Paola; il fortino di San Giorgio, adiacente ad una chiesetta dedicata a San Giorgio, ora distrutta; fortino di San Benedetto; torrione di San Guglielmo, anche detto delle Ghizzene o della Purità, perché situato nei pressi della chiesa della Madonna della Purità; fortino di San Francesco d’Assisi, il più importante Forte di tutta la cinta muraria, adiacente alla chiesa di San Francesco d’Assisi e attiguo convento.Questo Forte venne restaurato nel 1684 e notevolmente ampliato. Vennero apposte le armi della casa regnante e all’interno una statua raffigurante San Fausto, uno dei protettori della città, con una lapide, ora distrutta. La tradizione vuole che la chiesa sia stata fondata per volere di San Francesco che, nel XIII secolo, sbarcò nel Salento di ritorno dalla Terra Santa. Accanto a questa fortezza esisteva anche una  antichissima chiesetta dedicata a Santa Maria del Cassopo, distrutta, assieme alla costruzione fortificata, nel 1819; questa chiesetta era stata costruita in epoca bizantina sui resti di un distrutto tempio pagano e il suo nome, Cassopo, riportava all’origine bizantina del culto e ricordava Corfù con cui Gallipoli intratteneva lucrosi rapporti commerciali; in questa chiesetta era venerata un’antichissima immagine della Vergine che, secondo la leggenda, riferita da Ettore Vergole, in “Il Castello di Gallipoli” del 1933, era miracolosa. Infatti la sacra immagine era riposta in un angolo molto buio e stretto dell’edificio sacro e chiunque volesse conoscere la sorte di qualche familiare che era andato per mare e non era più tornato, si inoltrava nell’angusto passaggio per pregarela Vergine del Cassopo e chiederle se il congiunto fosse vivo o morto; dopo aver rivolto innumerevoli preghiere, sempre senza muovere la bocca ma con contrizione e raccoglimento,  il fedele si affacciava su una finestrella che dava sul mare e gridava il nome del proprio parente di cui voleva conoscere la sorte; angeli o demoni, allora, rispondevano se il parente fosse vivo, morto o gravemente ferito, ecc. ; questo era udito anche da tutti quelli che erano presenti; Torre del Ceraro, così chiamata dai lavoratorio della cera che la frequentavano nel Settecento quando fu costruita; il Forte di forma pentagonale di San Domenico o del Rosario, così chiamato dalla attigua Chiesa del Rosario o di San Domenico con l’annesso convento dei Domenicani; anticamente questo bastione era chiamato Baluardo di Santa Maria delle Servine, per un antico monastero bizantino esistente nelle vicinanze, e poi fu chiamato Torre degli Arsi, a causa di un incendio che, nel 1595, divampò in una fabbrica di polvere da sparo.

Il grande Galateo si occupò di Gallipoli nella “Descriptio urbis Callipolis”, un trattato dedicato all’amico Pietro Summonte in cui descrive Gallipoli del Cinquecento con tutte le sue bellezze ed arriva a definire Gallipoli un angolo di Paradiso, per il suo clima salutare e mite, per i suoi usi e costumi, per le sue bellissime tradizioni popolari. Galateo, medico alla corte aragonese, usava trascorrere a Gallipoli le sue vacanze estive, quando ritornava in patria da Napoli. Accenna a Gallipoli anche nella sua opera maggiore, il “De situ Japygiae”.  Inoltre il Galateo ha anche lasciato un epigramma, dedicato a Nifi, una giovane amata dal poeta, in cui canta la bellezza delle donne gallipoline.

Numerosi i contributi sul Galateo apparsi su Anxa News, rivista di storia e cultura gallipolina, arrivata al quinto anno di vita: “Il Galateo a Gallipoli”, di Vittorio Basile, marzo 2003; “Nifia, la bella gallipolina amata dal Galateo”, con una traduzione dell’epigramma galateano dedicato alla bella Nifia, fatta dall’illustre poeta gallipolino Luigi Sansò ed un’altra fatta dal prof. Gino Pisanò dell’Università di Lecce, settembre 2003; nel novembre 2003, in occasione del 490° anniversario della “Callipolis descriptio” (12-12-1513), Anxa ricorda il grande amore perla Città bella di Antonio De Ferrariis, galatonese di nascita ma gallipolino di adozione, con “Ancora su Gallipoli e sul Galateo” di Vittorio Basile e “Nifi, vamp gallipolina di 500 anni fa”, di Vittorio Zacchino; “Nifi, la bella gallipolina amata dal Galateo”, del gennaio 2004, con  traduzioni dell’epigramma latino del Galateo, da parte di alcuni alunni del Liceo Classico Quinto Ennio di Gallipoli; “Emanuele Barba per Antonio Galateo”, di Vittorio Zacchino, marzo 2004; “La presa di Gallipoli del 1484 nelle testimonianze letterarie di Antonio Galateo” di Vittorio Zacchino, maggio 2004; nel numero del luglio 2004, viene pubblicata parte dell’Introduzione curata da Vittorio Zacchino alla sua recente edizione del De situ Iapygiae, dal titolo “Orgoglio Iapigio”: si tratta di una nuova edizione del capolavoro dell’umanista salentino “Antonio Galateo De Ferrariis, Lecce e Terra d’Otranto – De Situ Iapygiae” (Edi pan 2004),  con prefazione appunto dello Zacchino e traduzione italiana a cura del prof. Nicola Biffi, dell’Università di Bari. L’opera, che presenta anche traduzioni in inglese e tedesco, è un prodotto editoriale di taglio veloce e moderno, rivolto anche ai non addetti ai lavori;  “Il De neophitis del Galateo e Benedetto Croce”, di Vittorio Zacchino, marzo 2005; inoltre Vittorio Zacchino ha recentemente raccolto insieme alcuni suoi contributi sul Galateo apparsi su vari fogli salentini, fra cui anche Anxa News, e li ha pubblicati in una miscellanea dal titolo “Noterelle galateane”, per la collana “I quaderni del Brogliaccio” , diretta da Gigi Montonato. Questo fascicolo è stato allegato come omaggio al numero del dicembre 2005 di Presenza Taurisanese, mensile di politica cultura attualità, diretto dallo stesso Montonato.

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