Antonio Baldassarre e la Residenza dell’Amore

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di Paolo Vincenti

 

“Io che avevo dipinto sempre paesaggi, mi sono ritrovato  a scolpire e a dipingere scene di amore e di sesso come mai avrei pensato che sarebbe potuto succedere”. Così scrive Antonio Baldassarre, da Ruffano, sulla brochure di presentazione della sua “Residenza dell’Amore”, altare, tempio pagano, monumento  all’amor profano, sito in quel di Cardigliano di Specchia,  a metà fra castello sulla sabbia e cattedrale nel deserto. Come queste, infatti , il museo dell’erotismo di Baldassarre possiede le caratteristiche proprie di tutte le opere d’arte: l’inutilità e insieme la follia. E come tutti gli artisti, Baldassarre ha l’ambizione e insieme l’illusione che qualcosa possa durare per sempre, a dispetto della sua precarietà.  E chissà che Baldassarre,  in barba a pregiudizi  e scetticismo che seguono tutti i visionari, non abbia proprio ragione e che, al di là del suo artefice, il Museo dell’Amore non possa  avere quella memoria più duratura del bronzo e, meglio, quella vita perenne e quella fama immortale, utopia realizzata, cui aspira ogni facitore armato di penna , pennello o scalpello.

Cyrano e Rossana, Isotta e Tristano
Cyrano e Rossana, Isotta e Tristano

Antonio Baldassarre, classe 1950, nato e cresciuto a Ruffano, dipingeva le marine e le strade del nostro Salento, la vita vera di questa nostra terra come solo riesce a fare la sensibilità di chi proviene da una cultura contadina come lui e i colori predominanti erano il grigio e il verde informati ad un certo pessimismo, ma sicuramente di grande resa poetica. Il pessimismo di Baldassarre era quello tipico di chi vedeva come angusti i propri orizzonti e cercava una liberazione dall’amara realtà oscurantista e terragna del Salento di qualche decennio fa, una via di fuga, insomma, nell’arte. E a coronamento degli sforzi del pittore, certi suoi dipinti ad olio costituiscono davvero un effetto compositivo straordinario, trasmettendo con la tecnica dello sfumato e con il sapiente gioco di luci ed ombre, quasi commozione all’osservatore, per quell’aura di soffusa tristezza che sembra avvolgere certi desolati paesaggi. Pessimismo di rigetto, come è stato definito, quello del Baldassarre, sorretto da un impressionismo tanto istintivo quanto lirico.

Giulietta e Romeo
Giulietta e Romeo

Molte famiglie ruffanesi hanno in casa almeno un’opera del maestro Baldassarre ed anch’io ne ho  tre in casa mia. Gli anni Settanta e Ottanta sono stati quelli di più intensa produzione per Baldassarre che mi dice aver  venduto molto bene in quel periodo ma continua a vedere pure oggi  essendo ormai la sua firma molto quotata.  “Paesi e strade, case e campagne trattati con la spatola balzano vivi dalla tela quasi fossero animati”, scrive Giuseppe Albano, “ Sono paesaggi di Puglia cari all’artista che nel suo continuo vagabondare osserva con occhio d’amore gli uomini e le cose e li fa vivere autonomamente nel suo discorso pittorico. Di particolare interesse il contenuto cromatico delle sue opere: prevalgono i toni cupi ed anche se i cieli sono aperti è difficile scorgere in essi i colori festosi della nostra terra. E’ chiaro che l’artista ha l’animo tormentato e dà al nostro cielo il suo colore”.   Scrive Aldo de Bernart: “…I suoi paesaggi, i suoi fiori, i suoi scorci, le sue figure hanno una cromatica singolare, ottenuta quasi sempre con due colori con i quali l’artista sa ricavare le tonalità più intense e le sfumature più delicate. Ma ciò che più sorprende è il gusto con cui il nostro artista sa cogliere gli angoli del suo paese nativo e della sua campagna, pietrosa ed assolata, per trasfigurargli in scene a volte ariose a volte cupe, in un impressionismo non scevro da evidenti reminiscenze ma pur personale nel sentimento…”. I suoi dipinti ad olio, dalla grande armonia, hanno attraversato gli anni e continuano a sussurrare a chi li osserva di questo nostro paesaggio attraverso la loro calda cromaticità con un discorso pittorico nel quale Baldassarre ha intrecciato la sua meditazione intima con una resa estetica particolare, originale. Ma quello che colpisce nella carriera di questo ottimo artista nostrano è la svolta che egli ha impresso alla sua carriera. Infatti,  ad un certo punto della sua vita, Baldassarre , pur senza ripudiare la pittura, abbraccia la scultura e decide di dedicare all’amore sensuale ed appassionato un tempio, che chiama  “La Residenza dell’amore”: un’opera molto ambiziosa, unica nel suo genere, che,  fra pittura, scultura e mosaici, esalta il godimento  dei sensi ed i piaceri della carne. Baldassarre illustra con malcelata fierezza la propria opera, con stanze piene di affreschi e di gruppi scultorei che costellano anche il grande giardino, al centro del quale campeggia una grande “A” di amore ; e poi numerose sculture di donne ed uomini in atteggiamenti inequivocabili, scene orgiastiche di sesso sfrenato e sculture di grande o piccolo formato che hanno come ossessivo leit motiv  gli organi di riproduzione maschile e femminile, che ritornano in tutte le realizzazioni dell’ardito  complesso architettonico-scultoreo. Attraverso la pietra leccese, l’artista ha modellato vicende d’amore delle più disparate, fantastiche e reali, e poi i grandi amanti della storia e della letteratura come  Paolo e Francesca, Otello e Desdemona, Romeo e Giulietta, Dante e Beatrice, Tristano e Isotta,  tutti dominati dalla lascivia , arsi dal fuoco della lussuria. Dal ponte dell’amore,  sotto il quale scorre un fiumiciattolo quasi clandestino, come il sole che illumina questo orgiastico ritrovo, si può avere una visione d’insieme delle creazioni scultoree e della casa che si sposano amabilmente con il verde della natura circostante mentre lo sciabordio del fiumicello crea un piacevole sottofondo musicale all’estasi quasi mistica che rapisce gli esterrefatti visitatori. Tra realtà e mito, i corpi nudi che si intrecciano nell’osmosi della passione sembrano suggerire le movenze di una danza simile a quella che nell’antichità greca le donne simulavano nelle processioni falliche con le quali si propiziavano  la fertilità dei campi e la prosperità della città.  Tutti i soggetti maschili delle rappresentazioni di Baldassarre in effetti sembrano irrimediabilmente colpiti da priapismo, come il dio adorato nell’antica Roma, appunto Priapo, dall’enorme fallo, da cui il nome di questa malattia. E’ difficile  non provare una forte emozione di fronte a questo spettacolo che un uomo ha concepito e realizzato da solo, nonostante un grave problema di deambulazione che lo tormenta da sempre. Fatale quella delusione d’amore che ha portato l’artista Baldassarre a realizzare questa sua utopia, sfidando la morale imposta, preconcetti, ignoranza e finanche paura da parte della società , almeno di quella società che non ama chi non capisce e non capisce chi è diverso. Ma ogni artista è diverso, dagli altri ed anche da sé, un artista non sarebbe tale se non avesse dentro di sé un assillo, come un rovello, un tormento che lo spinge  a creare. Certo, non si può restare indifferenti la prima volta che si visita la residenza dell’amore, dopo una immersione totale nel  regno dell’Eros.

 

Da Castro: via con la vela e un ciao all’Albania

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di Rocco Boccadamo

 

Lunedì ventisette, è, finalmente, caratterizzato da una mattinata eccezionale: venticello di tramontana, sul cielo azzurro nemmeno una piccola nube, mare di colore analogo ma con tonalità più intensa, contraddistinto, a sua volta, da un succedersi d’onde appena accennate, soffici e leggere come le chiome di un bimbo.

E’ ghiotta e propizia, l’occasione, per montare senza indugio sulla barchetta a vela, calata in acqua e armata da qualche giorno e, però, rimasta agli ormeggi a causa delle sfavorevoli condizioni marine, dietro un libeccio particolarmente sostenuto.

Resa ancor più piacevole l’idea di dirigere all’esterno del porticciolo di Castro la prua della  fedele“ My three cats”, dalla presenza, eccezionale in questo periodo, di mia figlia col marito e, soprattutto, della mia bionda nipotina Elena, la quale, pur non avendo ancora compiuto i quattro anni, è stata imbarcata a contatto con le vele amaranto già nelle passate stagioni.

Perfettamente liscia la partenza, facile anche il dispiegamento delle vele, sicché, non appena raggiunto il centro della stupenda rada, spento e sollevato il motore, inizia subito l’andatura con la sola azione del vento, carezzevole anch’essa.

In breve, l’equipaggio a bordo, bimba compresa, è pervaso dalla caratteristica atmosfera, vivibile, con un godimento unico, nella specialissima situazione determinata dal silenzio assoluto, dallo sciabordio leggero della chiglia sulla superficie liquida e, appena un filo, dal soffio della tramontana.

Intanto, lo scafo scivola quietamente sulla sua traiettoria, è molto bello l’avanzare lento di bolina, in questa mattinata, giacché il piccolo legno, di per sé caratteristico e inconfondibile, è praticamente l’unico nell’intero tratto di mare verso sud sino al Capo di S. Maria di Leuca, con l’eccezione di una grossa nave mercantile al largo e molto distante, con meta ovviamente sconosciuta e inimmaginabile.

Insomma, noi diportisti da passeggio sottocosta, ci sentiamo, in certo senso, beneficiari privilegiati di un magnifico immenso palcoscenico, per di più  in un habitat naturale che è risaputo essere fra i più affascinanti della Penisola, eccezionalmente avvincente, con la costa fatta di sporgenze e rientranze, promontori aggraziati, rocce in genere medio alte e, alle spalle, a salire nei primi contrafforti delle Serre Salentine, superfici ammantate specialmente da selve d’argentei ulivi.

castro2Va la barca, sfioriamo, come inizio, l’insenatura dell’Argentiera, poi il tratto delle Marine dell’Aia e, quindi, bypassiamo l’incantevole seno Acquaviva, particolarmente caro, al timoniere del legno, perché lì, un po’ tante decine d’anni addietro, si è cimentato nei primi bagni, ha imparato  a nuotare, ha trascorso infinite e spensierate parentesi a divertirsi, con una cortissima lenza, nella pesca tra una pietra e l’altra, facendo incetta di pesciolini color marrone scuro, in dialetto “fuggiuni”, utilizzati in gustose zuppe, col pomodoro e qualche altro ortaggio, per il pranzo o la cena.

Acquaviva, poi la zona Porticelli, e, così procedendo pian piano, in tre quarti d’ora l’arrivo nella zona Serriti, anch’essa familiare, in quanto vi si trovava, ed esiste ancora oggi, sebbene ridimensionato, nella proprietà di zio A., un terreno di nonno Giacomo, con la caratteristica vigna ad alberello dai grappoli neri e dolcissimi.

Ogni anno, era abitudine, anzi un rito cui l’anzidetto avo teneva moltissimo, vendemmiare con un folto gruppo di partecipanti, formato da figlie, figli, generi, nuore, fratelli, sorelle, nipoti, cugini, fidanzati, altri parenti vari, insomma con la presenza di almeno una trentina di persone.

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Altro particolare, era preannunciata con largo anticipo la data in cui si doveva procedere al taglio dell’uva, si raggiungeva il Serrito la sera precedente, per consumare direttamente sul posto una parca cena all’esterno della casetta di pietre, dormire in compagnia su stuoie spartane ai piedi degli alberi, riaprire gli occhi allo spuntare del sole e mettersi immediatamente all’opera.

La barca andrebbe oltre, ma a questo punto, trattandosi della veleggiata d’esordio del 2013 e dato, altresì, che il vento, del resto in aderenza alle previsioni meteo, va gradualmente crescendo, si pensa di invertire la rotta e ritornare nel porticciolo di Castro.

Davvero fortunato il battesimo stagionale con la vela, ben riuscito, che rimarrà sicuramente impresso nella mente durante tutta l’estate.

Si è divertita specialmente la giovanissima nipotina, ma anche mia figlia e mio genero sono stati entusiasti, la prima sdraiandosi a prendere il primo vero sole dell’anno, l’altro alternandosi con me al timone e alle manovre.

Bene, così martedì 27. Invece, il giorno successivo, già all’atto dell’apertura della finestra una volta svegli, si appalesa nettamente diverso, l’opposto, triste, grigio, sembra d’essere in pieno autunno anziché alle porte di giugno, il cielo è coperto, non fa freddo ma si ha l’impressione che, da un momento all’altro, debba piovere, cosa che invece non succede pur permanendo la copertura, in alto, tra il grigio e lo scuro.

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Sennonché, cosa strana, chi scrive, mentre nel pomeriggio si va dirigendo, per la consueta quotidiana occhiata allo stato delle piante nel minuscolo orto, verso la sua “marina”, non appena si trova liberamente dirimpetto allo specchio del Canale d’Otranto, è colpito dall’apparizione, anomala per il periodo e il tipo di giornata, dello scenario, sul filo dell’orizzonte, delle montagne dell’Albania, in nitida, ottima visibilità, come dire a portata di mano, quasi a toccarle.

Di seguito, avanti d’arrivare alla “marina”, si ferma a salutare un compaesano intento a dare un po’ d’acqua ai propri ortaggi, apprendendo da questi che, nella mattinata, addirittura, la sequenza dei rilievi nel Paese delle Aquile pareva uno spettacolo tridimensionale.

Una bella scena che, almeno, vale a conferire un tocco di meraviglia e vivacità, se non proprio d’allegria, al grigiore diffuso intorno.

Nota agricola collaterale alla visita all’orto della  anzidetta “Marina ‘u tinente”, il contatto con un altro compaesano, pensionato, dalle mani d’oro per interventi particolari a beneficio delle piante, ad esempio per ciò che riguarda gli innesti.

Purtroppo, nel giardino di Via Premuda, un albero di fico, di varietà pregiata, è venuto meno è dovrà essere sradicato; perciò, si rende opportuno cercare di ottenere lo stesso genere di gustosi frutti con un impianto/innesto su un’altra pianta sempre di fico.

L’esperto amico compirà l’operazione già domani.

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (II parte)

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di Alfredo Sanasi

 

…Il cosiddetto “Codice di Maria d’Enghien” riunisce tutte le norme a cui si richiamava il Concistorium Principis e che regolavano quattro materie politico-amministrative della città di Lecce: i dazi, le tasse su uomini e animali, l’ordine pubblico, la manutenzione delle mura e dei fossati.

Certo la contessa-regina non ebbe diretta parte nella compilazione di tale codice, che risale a vari anni dopo la sua morte, ma è fuor di dubbio che la figura di lei domina ovunque con precisi riferimenti; i bandi appartengono al suo governo o sono da lei ispirati: si legge infatti spesso in essi l’espressione “de voluntate et comandamento de la maiesta de Madama Regina Maria”.

Quegli anni di pace, che Raimondello e Maria dedicarono soprattutto al buon ordinamento politico-giudiziario e alle opere d’arte, quali degni antesignani dei principi più illuminati del Rinascimento italiano, dovevano finire allorché i due principi ruppero fede al re Ladislao e si riaccostarono al partito angioino, seguendo Luigi II d’Angiò.

Raimondello si rese conto che il re Ladislao avrebbe espresso la sua indignazione con un atto di guerra e perciò preparò un forte esercito per difendere il suo principato, ma proprio allora , all’inizio del 1406, egli morì a Lecce. Maria d’Enghien non si perse d’animo. Occultò per il momento la morte del marito e affrettò i preparativi di guerra, per fronteggiare risolutamente l’attacco di Ladislao d’Angiò Durazzo. Anticipando coraggiosamente l’eroismo di Giovanna d’Arco di alcuni decenni, infiammò arditamente gli animi dei suoi sudditi vestendo una pesante armatura e spronandoli alla difesa della patria. L’esercito napoletano cinse d’assedio Taranto, ma ben presto il re Ladislao si doveva rendere conto che Maria d’Enghien era pressocchè imprendibile, tanto era solida la difesa della città dai due mari, a cui avevano portato aiuto i Sanseverino, ora alleati di Maria contro il comune nemico, quel re Ladislao che pochi mesi prima aveva messo a morte e lasciati insepolti quattro signori Sanseverino. L’assedio si protrasse per tutto l’anno 1406 con varie vittoriose sortite dei Tarantini, a tal punto che il re, scornato dalle continue vittorie d’una donna, se ne tornò a Napoli, lasciando il comando delle truppe a don Antonio Acquaviva, duca d’Atri. Anche al duca la principessa inferse delle sconfitte e ottenne da Luigi II d’Angiò l’investitura del principato di Taranto per il figlio Giannantonio Orsini del Balzo; se questi fosse morto senza figli, il principato sarebbe passato al fratello Gabriele e, nel caso d’un decesso di quest’ultimo, alle sorelle Maria e Caterina. Poi la principessa si ritirò ad Oria ad attendere le mosse di Ladislao. Nel marzo dell’anno successivo 1407, Ladislao tornò con un esercito potentissimo di cavalieri, fanti e navi. Quando tale notizia giunse alla principessa Maria, ella lasciò Oria e alla testa di alcune centinaia di cavalieri passò attraverso le file degli assedianti e rientrò a Taranto, sostenendo fieramente l’assedio, che si annunciava lungo e difficile.

Gentile da Monterano, consigliere del re Ladislao, ad un certo punto suggerì di risolvere quell’assedio snervante e forse dall’impossibile riuscita, proponendo al suo re una inaspettata soluzione: sposare Maria d’Enghien! Il re approvò e Maria accettò l’offerta del re. L’indomita amazzone accolse Ladislao sulle porte di Taranto non vestita d’oro e d’argento tra i broccati, ma in completa armatura e le nozze si celebrarono il 23 aprile dello stesso anno 1407 nella cappella di San Leonardo del Castello Aragonese di Taranto, dove ogni anno si svolge ancora oggi una rievocazione in costume di quell’evento storico. Sicuramente varie molle spinsero Maria d’Enghien ad accettare l’offerta del re sino a ieri suo implacabile nemico: il fasto della corte napoletana, il desiderio di eguagliare o addirittura offuscare famose regine di Napoli, Giovanna I d’Angiò e Margherita di Durazzo, un conscio o inconscio calcolo politico. Neppure i timori instillati in lei dai Sanseverino valsero a trattenerla, anzi ad uno di loro, che le aveva detto che il re , una volta avutala, l’avrebbe messa a morte, rispose sicura:”non me ne curo, perché se moro, moro regina”.

Il mese successivo la regina Maria partì da Taranto alla volta di Napoli, ma sola, perché Ladislao resto in Puglia per la sistemazione del nuovo grande possesso. E’ certo veramente che ella venne accolta dal popolo napoletano con grandi festeggiamenti e tra grida di gioia accompagnata sino alla mole di Castelnuovo, ma da quel momento cominciarono per lei le delusioni. La favorita del re, Maria Guindazzo, continuava a dimorare a Castel dell’Uovo e altre due amanti, la Contessella e Margherita di Marzano, per ordine del re, si insediarono a Castelnuovo, allorché nel mese di giugno Ladislao rientrò finalmente a Napoli. Trascorsero sette anni di lotte e guerre condotte dal re con alterne vicende, prima nel tentativo di riprendersi il trono d’Ungheria, poi guerreggiando a Roma, in Toscana ed in Umbria fino al 1414, quando perì tragicamente, forse avvelenato dai Fiorentini. Quegli anni Maria trascorse in Castelnuovo quasi dimenticata e quindi non si prese neppure in considerazione, alla morte del re, una sua successione, anzi, secondo il Coniger, Giovanna II, succeduta al fratello Ladislao, avrebbe allora fatto rinchiudere in carcere Maria e i suoi quattro figli.

Se non proprio prigioniera Maria d’Enghien fu comunque trattenuta a Napoli dalla regina Giovanna II e solo l’anno dopo, nel 1415, potè rientrare nel possesso della contea di Lecce, conservando il titolo di regina. Fu questo per Maria il periodo più attivo e fattivo nei confronti dei sudditi e dei suoi possedimenti, che ad uno ad uno riuscì a riconquistare o con le armi o con le trattative amichevoli, anche grazie agli interventi  di un grande cavaliere francese, Tristano Chiaramente, duca di Calabria e conte di Copertino, che ella volle quale sposo della figlia Caterina Orsini del Balzo. Per il regno di Giovanna II questo fu un periodo torbido e convulso di lotte, che raggiunse il suo culmine quando ella sposò Giacomo de la Marche, che tra gli altri dispiaceri arrecati alla regina aggiunse, non potendolo difendere, la vendita del principato di Taranto a Maria d’Enghien e a suo figlio Giannantonio. Giovanna II dovette, suo malgrado, riconfermare il Principato agli Orsini del Balzo. Maria d’Enghien iniziava una grande nuova ascesa, rafforzata ancor più dalle nozze nel 1417 del figlio Giannantonio con Anna Colonna, nipote del Papa Martino V. Giannantonio eguagliò il valore e l’ardimento del padre Raimondello e nelle lotte tra Angioini e Aragonesi per la successione al regno di Napoli finì con l’appoggiare apertamente Alfonso d’Aragona.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina

per la prima parte si veda

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

 

Gli affreschi di Cesare Maccari a Nardò visti con gli occhi del popolo e raccontati da un poeta dialettale

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Non è raro il caso in cui leggendo la recensione di un libro, di un quadro, di una singola poesia vengono in mente le parole di Azzeccagarbugli al povero Renzo: – All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle –. Ora è vero, per esempio, che una parola comune usata da un poeta acquista per lo più nuovi significati, ma pare grottesco complicare ad ogni costo anche le cose più semplici e chiare. Così si ottiene solo un risultato: la superfetazione della stessa parola critico che diventa criptico, impegnato solo a trovare gli agganci più strani, le immagini più complicate, le parole più roboanti, le citazioni più o meno logore, anche quando basterebbero otto parole comuni per chiarire le quattro di loro usate, tal quali, dal poeta …

Sull’importanza, poi, del giudizio, espresso con questa oscena messinscena (dell’ossimoro non si è potuto fare a meno …) soprattutto in occasione di incontri, conferenze e simili eventi spacciati per culturali ma di taglio unicamente pubblicitario,  non sprechiamo parole, facciamo solo notare che il fatto che mai compaia una stroncaturina, magari solo parziale, dovrebbe far capire molte cose sull’onestà, anzitutto intellettuale, di autori, editori e recensori e sulla loro poco libera intelligenza, quando quest’ultima c’e.

La poesia che segue, tratta come le altre di Francesco Castrignanò fin qui lette dalla raccolta Cose nosce del 1909, è prevalentemente descrittiva ma riesce anche a coniugare felicemente il registro moderatamente didattico o didascalico del cicerone di turno (una guida che, comunque, si direbbe di estrazione popolare, insomma nnu cicerone fattu a ccasa) con l’espressione del sentimento popolare di orgoglio e meraviglia per un evento importante quale fu quello della decorazione del coro, dell’abside e della volta del presbiterio della Cattedrale di Nardò, eseguita da Cesare Maccari (Siena, 1840-Roma, 1919) tra l’estate del 1896 e la fine del 1899 su commissione del vescovo Giuseppe Ricciardi (1888-1908); decorazione tanto più coinvolgente perché alcune rappresentazioni (Traslazione delle reliquie di San Gregorio Armeno e Miracolo del Cristo nero) del ciclo riguardano memorie, antiche e ben radicate nella religiosità popolare, della storia neretina. Le foto, laddove non compare specifica indicazione, sono degli autori.

Autoritratto di Cesare Maccari (1914) custodito nel deposito della Galleria degli Uffizi; immagine tratta da http://www.polomuseale.firenze.it/inv1890/scheda.asp

Cristo in trono che accoglie l’Assunta/ San Giuseppe, San Gioacchino, San Giovanni Battista, San Lorenzo, Santo Stefano, San Giacomo Maggiore/ i profeti Geremia, Daniele, Isaia

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La figura che, accanto al soldato, osserva allibita il miracolo è l’autoritratto del Maccari. Difficile dire se fu abitudine vanitosa quella di lasciarci suoi autoritratti in parecchie opere. Uno tra i più famosi è quello presente nel dipinto realizzato nel 1887 nella Sala del Risorgimento nel Palazzo pubblico di Siena e raffigurante il trasporto della salma di Vittorio Emanuele II al Pantheon (di seguito vista intera e dettaglio).

immagine tratta da http://www.iltesorodisiena.net/2011/09/palazzo-pubblico-gli-affreschi-della.html
immagine tratta da http://www.iltesorodisiena.net/2011/09/palazzo-pubblico-gli-affreschi-della.html

 

Leone XIII (1878-1903) in un’immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Leo_XIII..jpg e nella rappresentazione del Maccari in un’immagine tratta da http://194.242.241.172/opencms/opencms/system/modules/com.culturaitalia_stage.liberologico/templates/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Aartpast.org%3A160017175

Monsignor Ricciardi nella rappresentazione del Maccari; immagine tratta da http://194.242.241.172/opencms/opencms/system/modules/com.culturaitalia_stage.liberologico/templates/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Aartpast.org%3A1600171755

Nell’anno 2000, al quale risale la sottostante foto degli autori, il dipinto raffigurante il Ricciardi era in restauro.

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1 Sarebbe veramente interessante sapere, tramite un’indagine (che lasciamo a chi ne ha voglia e tempo) nell’archivio della curia,  se cinquantamila lire corrisponde, più o meno, alla spesa reale oppure è, sempre più o meno, sinonimo dei nostri una cifra, una  fortuna o un sacco di soldi. A pelle ci pare più plausibile la prima ipotesi. Crediamo, comunque, che qualche notizia in merito debba esserci in Andrea Cappello e Bartolomeo Lacerenza, La Cattedrale di Nardò e l’arte sacra di Cesare Maccari, M. Congedo, Galatina, 2001, testo che non ci è stato possibile, almeno fino ad ora, consultare.

2 Alla lettera fiato. Per il resto vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/01/13/due-improbabili-anzi-impossibili-coniugi-la-fiata-e-lu-fiatu-la-fiata-e-il-fiato/

3 Il tema fu successivamente trattato dal Maccari in una tela ad olio eseguita nel 1903 e custodita ad Imperia nella chiesa di S. Maurizio. Crediamo di poter affermare, però, che tale dipinto non sembra tener conto della struttura compositiva di quello neretino ma dell’Assunzione di Tiziano conservata nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia (foto in basso a destra).

Immagini tratte, rispettivamente, da:

http://194.242.241.172/opencms/opencms/system/modules/com.culturaitalia_stage.liberologico/templates/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Aartpast.org%3A0700020419

http://2.bp.blogspot.com/-rAx4WBWx5uY/TxsxONgUYjI/AAAAAAAABd0/XJER_Ie41II/s1600/04+TAVOLA+DELL%2527ASSUNTA+DI+TIZIANO.jpg

4 Da babbare, per il cui etimo vedi la nota 1 del post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/02/quando-unagenda-vale-come-e-piu-di-un-libro/

5 Trattasi di parte dell’avambraccio portato secondo la tradizione a Nardò nell’VIII secolo dai monaci armeni in fuga dalla furia iconoclasta di Costantino Copronimo.  Era contenuto in un reliquiario a forma di braccio terminante con una mano benedicente, fatto realizzare dal vescovo Cesare Bovio (1577-1583). Fu trafugato nel 1975 e l’originale, fino ad ora non ritrovato, fu sostituito con una teca ovaliforme contenente un metacarpo che prima faceva parte delle reliquie conservate a Napoli, dono fatto nel 1985 dal cardinale Corrado Ursi già vescovo di Nardò (1951-1961), poi arcivescovo di Acerenza e dal 1966 arcivescovo di Napoli.

6 Corrisponde all’italiano garbo.

7 Corrisponde all’italiano gabbo.

8 Oggi la forma in uso è strusce, da struscire, corrispondente all’italiano strùggere.

9 Oggi la voce in uso a Nardò è beddha; caleddha è diminutivo femminile del greco καλή (leggi calè)=bella. Da notare come caleddha forma con il successivo beddha un tipo di  rima (con parole legate dallo stesso significato) che non ha, a quanto ne sappiamo, un nome particolare di classificazione. Proporremmo rima semantica o concettuale.

10 È un crocefisso ligneo che attualmente si trova nell’omonima cappella nella navata sinistra della Cattedrale. Secondo alcune fonti il 18 maggio 1255 i Saraceni tentarono invano di asportare dalla chiesa il Crocifisso per bruciarlo insieme con altri arredi sacri;  urtando la porta, si spezzò il mignolo della mano sinistra. Alla vista del sangue che ne uscì  i soldati fuggirono atterriti  e abbandonarono Nardò.

Il dito spezzato, di cui non si aveva più notizia,  è stato ritrovato durante il restauro effettuato nel 1955 dall’Istituto Centrale per il Restauro di Roma, nascosto in una cavità sulla spalla.. Quanto alla datazione del simulacro, studi recenti la spostano al XIII secolo, mentre la tradizione voleva che fosse stato portato a Nardò nell’VIII secolo dai monaci basiliani insieme con le reliquie di S. Gregorio.

11 Ci pare di poter cogliere in reale un’ambiguità, non sappiamo quanto consapevole: cosa degna di re, ma anche cosa concreta, destinata a durare.

 

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

Da contessa di Lecce a regina di Napoli.

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

 

di Alfredo Sanasi

 maria d'enghien

Se questa domanda venisse posta ai Salentini, anche di non modesta cultura, molti di essi sarebbero in difficoltà a rispondere circa questa nobile e grande figlia del Salento, che segnò di sé la storia antica del meridione d’Italia e che anticipò le grandi eroine dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata: l’Ariosto e il Tasso avrebbero tanto gioito di conoscerla personalmente (ma chi può escludere che un eco del suo grande animo non giunse veramente alla fantasia dei nostri grandi poeti del Rinascimento?).

Il suo animo eroico ella mostrò in varie circostanze e operazioni di guerra; ma qual era fisicamente questa nobile Salentina, prima contessa di Lecce e poi principessa di Taranto e regina di Napoli?

È molto difficile dirlo con esattezza, perché non esistono pitture del tempo che la ritraggano realisticamente e poco ci fanno intravedere un medaglione scolpito sul portale del castello di Copertino (l’ultimo a destra) e una piccola immagine scultorea sul basamento della tomba del figlio, Giannantonio Orsini del Balzo in S. Caterina di Galatina. Forse qualcosa di più possiamo dedurre da alcuni affreschi nella basilica di S. Caterina, che, se pure ritraggono altri personaggi, probabilmente riproducono le fattezze di Maria d’Enghien, a cui allusero indirettamente i frescanti del ‘400, grati verso la munificenza della loro mecenate. Almeno tre degli affreschi di S. Caterina s’ispirano alla figura di Maria d’Enghien.

In primo luogo nella volta dei Sacramenti la splendida figura coronata nella scena del matrimonio: la sposa (“forse un ricordo della nobile regina committente”, dice Marisa Milella, direttore storico dell’arte della Sopraintendenza di Bari e Foggia) indossa la pellanda, maestosa sopravveste a maniche ampie foderata di vaio, caratteristica proprio degli ultimi decenni del Trecento e nel primo Quattrocento.

Sempre nella seconda campata della navata centrale, in basso a sinistra, è raffigurata S. Caterina: anche questa figura coronata, coperta da un mantello rotondo, senza maniche, lungo fino ai piedi, foderato di vaio, nei lineamenti e nell’abbigliamento, fa pensare alla nobile committente.

Terza probabile immagine di Maria d’Enghien possiamo intravedere in uno dei Re Magi che rendono omaggio alla Sacra Famiglia a Betlemme nella navatella destra di S. Caterina a Galatina.

Una delle tre figure ha tratti decisamente femminili, al centro tra i due Magi barbuti: un paggio le solleva la corona dai biondi capelli, perché evidentemente ella vuole genuflettersi dinanzi al Bambino Gesù, come ha  fatto il più anziano dei Magi. Gli Orsini del Balzo (in questo caso i tre Magi sarebbero Raimondello, Giannantonio e Maria) vantavano la loro discendenza proprio da uno dei Re Magi (Baldassarre) e quindi non sarebbe tanto strano che il frescante, in omaggio alla munifica committente, avesse sostituito ai tre personaggi antichi i tre grandi discendenti Orsini del Balzo.

Fra le tre figure che abbiamo ipotizzato possano riferirsi ai tratti somatici di Maria d’Enghien v’è inoltre una notevole somiglianza, che ci convince sempre più che il modello di riferimento sia proprio la contessa di Lecce. Molti critici in passato l’hanno timidamente e vagamente pensato, noi lo sosteniamo con maggior convincimento dopo i recenti restauri del 2000-2004, che ci permettono di vedere e confrontare le tre immagini con notevole chiarezza. Né è da supporre, come aveva fatto qualcuno in passato, che la somiglianza fosse dovuta al fatto che si sarebbe impiegato lo stesso cartone di base, perché notevolmente differenti sono le dimensioni e la posizione della testa e del collo.

Se è difficile delineare l’immagine fisica di Maria d’Enghien altrettanto vaghi e imprecisi sono i fatti della sua adolescenza e prima giovinezza. Noi vorremmo almeno precisare come a lei pervenne la contea di Lecce.

Gualtiero VI di Brienne, duca d’Atene e conte di Lecce, morendo da prode nella battaglia di Poitiers nel 1347 non lasciò alcun diretto successore, quindi erede universale dei suoi vasti domini divenne la sorella Isabella, che fin dal 1320 aveva sposato il nobile francese Gualtiero III d’Enghien. Dei suoi vari possedimenti Isabella assegnò al figlio Giovanni la contea di Lecce e da costui e da Sancia del Balzo, principessa reale, tale contea passò prima al figlio Pietro e, una volta morto costui nel 1384 senza eredi, passò quindi alla figlia Maria. Ecco come Maria d’Enghien a soli 17 anni si trovò contessa di Lecce, sotto la tutela del barone di Segine, Giovanni dell’Acaya.

Siamo in un periodo di scismi e di lotte tra papi e antipapi. L’Italia meridionale sotto il regno di Giovanni I fu dilaniata dalla guerra civile, perché i signori feudali di Puglia si divisero a seguire gli uni il papa, gli altri l’antipapa e Luigi I d’Angiò, adottato da Giovanna I, regina di Napoli.

I d’Enghien si schierarono con gli Angioini e quindi il re Luigi I, non appena Maria d’Enghien entrò in possesso del suo vasto feudo, comprendente larga parte del Salento, volle darla in sposa ad un suo nobile e valoroso guerriero, Raimondo Orsini del Balzo, che da poco aveva lasciato il papa ed il suo protetto Carlo III d’Angiò Durazzo ed era passato alla parte angioina di Luigi I.

Le nozze furono celebrate un anno dopo che Maria era diventata contessa di Lecce, non certo gradite ai Leccesi, che anzi inscenarono una sommossa contro Raimondello, sedata, secondo un cronista leccese, soltanto dopo svariati arresti. Seguirono anni di guerra continua tra gli Angioini e i Durazzeschi, durante i quali Raimondo Orsini oscillò tra le due parti, finchè nel 1399 egli non passò apertamente dalla parte di Ladislao Durazzo, succeduto a Carlo III e il giovane re investì l’Orsini del principato di Taranto. Raimondo e Maria d’ Enghien fecero il loro solenne ingresso nella città dei due mari, prendendo pieno possesso di quel principato che spettava loro di diritto per una legittima successione, perché Raimondello era il più diretto discendente di Maria del Balzo, sorella di Giacomo, che era stato l’ultimo principe di Taranto, morto senza eredi.

Il principato di Taranto, al tempo degli Angioini e in parte anche degli Aragonesi, è da considerare quasi “un regno nel regno” (come è stato spesso definito da vari storici), era costituito da un vastissimo territorio che si estendeva dallo Ionio, da Policoro e Matera, sino all’Adriatico con Ostuni e Brindisi e scendendo sino ad Oria, Nardò, Gallipoli, Ugento.

Dopo le nozze di Raimondello Orsini del Balzo e Maria d’Enghien il principato di Taranto si estese ancora di più, comprendendo anche Lecce, di cui, come abbiamo detto, era contessa Maria, oltrechè Soleto e Galatina, già feudi di Raimondello.

Questo “regno nel regno” e i successi politici e militari di Raimondello attirarono su questo principe gli odi di molti baroni ed in particolare dei Sanseverino, potenti signori di tanti feudi e di notevoli città, come Nardò e Conversano.

Anche il re Ladislao d’Angiò Durazzo ad un certo punto non vedeva più di buon grado lo strapotere degli Orsini del Balzo, che addirittura quasi superava il suo potere e le sue rendite. I due principi Maria e Raimondo anzi avevano istituito un vero tribunale feudale che col figlio Giovanni Antonio fu un vero Concistorium principis, perché costui fino alla morte, che avvenne nel 1463, si arrogò il potere di giudice d’appello, che era una prerogativa spettante solo al re.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

C’è un cuore che batte nel cuore di Lecce

di Paolo Vincenti

 

costantino piemonteseCostantino Piemontese è uno di quegli artisti per i quali più che mai sembra appropriato l’aggettivo “poliedrico”: anzi, se fosse possibile, si direbbe che proprio pensando a lui questo termine sia stato coniato.

Classe 1953, artigiano della cartapesta, pittore, scrittore, organizzatore di cultura. “C’è un cuore che batte nel cuore di Lecce”, direi, parafrasando la nota canzone di Antonello Venditti: Costantino Piemontese ama la propria città e ne vive tutti gli aspetti, gli angoli poetici e nascosti, le bellezze come le discrasie, facilitato dal suo andar in bicicletta, più spesso a piedi, turista per scelta che sembra per caso, all’insegna dell’ecosolidarietà e del rispetto ambientale.

All’amore per i luoghi, infatti, e per Lecce in particolare, si legano molte delle sue battaglie civili, condotte insieme con il fratello gemello Beniamino, per dare testimonianza delle quali ci vorrebbe un’ulteriore trattazione.

E’ difficile scrivere più di poche righe su Costantino Piemontese, senza che salti fuori il nome del fratello gemello, e questo è un “destino”( per citare il titolo di un suo libro)che i gemelli conoscono bene e sul quale mi è capitato di intrattenermi più diffusamente con lo stesso autore, in una conversazione a metà fra il divertito e il filosofico. Fatto sta che da quando è nato, il percorso di Costantino intreccia inevitabilmente quello di Beniamino, sia nell’arte che nella vita privata.

Originario di Foggia, Costantino vive stabilmente a Lecce dal 1978. Da giovane, ai tempi dell’Università, vuole fare l’attore e lo scenografo; in effetti è coinvolto in diverse esperienze teatrali e fa parte anche del gruppo di animazione diretto dalla dott.ssa Rita Cappello, sociologa e musicoterapeuta.

Il 1977 è l’anno della svolta perché, insieme al fratello Beniamino, apre la bottega d’arte “I Messapi”, nel centro storico di Lecce, di fronte alla Basilica di Santa Croce. Un’esperienza formidabile, quella della cartapesta, che fa entrare di diritto Costantino fra i più rinomati maestri salentini di quest’arte antica e rappresentativa. Realizza maschere ed elementi scenografici per le più importanti compagnie teatrali e di danza del Salento e contemporaneamente porta avanti la sua passione per il teatro sociale con spettacolari rappresentazioni in giro per Lecce e il Salento.

Costantino è attore, voce recitante, regista, ideatore e “ragazzo di fatica”: si fa carico, insomma, di tutto quello che gira intorno a questa macchina così impegnativa che è il teatro vagante. Inizia anche la carriera di scrittore. Nel 2006 pubblica “Destino, il Libro dei Gemelli” (Editrice Salentina), raccolta di racconti d’infanzia scritti a quattro mani col gemello Beniamino, con Presentazioni di Gloria Fazia, Direttrice del Museo Civico di Foggia, Alessandro Laporta, Direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce e dell’editrice Grazia Manni. Interessanti le schede biografiche finali, da cui si ricava buona parte della carriera artistica dei due autori. Nel 2009 pubblica “Barocco per Duo – Romanzo contemporaneo”(Il Filo Editore), in copertina: “Carte barocche”, collage dello stesso Costantino Piemontese. Ha composto inoltre numerosi racconti e poesie che sono in attesa di essere pubblicate. Nel 2008 è stato regista del video “Edoardo!”, una sequenza di “Icone” inscenate dal fratello come affreschi della vita di De Candia, pittore naif morto poverissimo, tra i ruderi dell’Abbazia bizantina di San Salvatore assediati dalle ruspe. Costantino, infatti, è stato attivo in quel sodalizio culturale capeggiato da Antonio Verri, di cui faceva parte Maurizio Nocera, suo fraterno amico.

Ed è proprio grazie a Nocera che anch’io ho conosciuto i Piemontese, qualche anno fa, a Lecce, in occasione della pubblicazione di un mio libro su Maurizio Nocera. Insieme al fratello Beniamino, scrittore, musicista e operatore culturale, Costantino ha dato vita all’ “Osservatorio Torre di Belloluogo. Associazione Ideale Anna Maria Massari – Antonio Leonardo Verri – Marianna Casto – Giorgio Di Lecce – Luigi Mura”. Questa associazione prende il nome dall’omonimo complesso architettonico di Lecce (tanto amato anche da Verri), recentemente restaurato proprio grazie agli sforzi incessanti della famiglia Piemontese.

Tornando alla passione per la pittura di Costantino, il 30 aprile al Castello Carlo V di Lecce, è stata inaugurata la sua personale “La strada di casa” (che terminerà il 25 maggio), con presentazione critica di Maurizio Nocera, autore di un bellissimo articolo sull’arte di Costantino apparso su “Il Paese Nuovo on line” del 5 aprile 2013.

La mostra prende il titolo da una delle opere esposte. Ma “La strada di casa” è anche un brano musicale originale composto dal suo gemello Beniamino  ed eseguito dallo stesso autore con la sua Cornetta in Mi b (Flicornino sopranino) e dedicato alla Personale di Pittura del fratello. In rete, si può vedere il Maestro Beniamino Piemontese eseguire questo brano presso la Torre di Belloluogo. Costantino infatti, è molto presente sulla rete, con un sito on line veramente ricco: www.Messapi.info, curato da Beniamino.  Sul sito, oltre alle attività artistiche, sue e di Beniamino, trovano spazio le numerose battaglie sociali e politiche condotte con il fratello, attraverso l’attività dell’Osservatorio Torre di Belloluogo, con numerosi filmati e fotografie ad opera dei due gemelli. Anch’io ho visitato la mostra “La strada di casa” al Castello Carlo V, ed ho avuto il privilegio di ascoltare dalla viva voce del suo autore le ragioni intime, essenziali, profonde, che sono alla base di questa mostra e del suo titolo bello ed evocativo.

Mi ha raccontato di personaggi, alcuni fantastici, altri reali, e di fatti, incontri, esperienze di vita vissuta, libri, memorie che ora, “riportando tutto a casa”, come nel famoso album di Bob Dylan ( o come direbbe pure lo scrittore Nicola Lagioia), lo hanno indotto a ripercorrere quella strada. Costantino è un animo puro, se così posso dire, incorrotto, che sa ancora stupirsi ed indignarsi, capace di raccontarti per ore di un episodio anche minimo che ha colpito il suo immaginario. E questo coltivar stupori lo si ritrova nella sua pittura. Così lievi, delicati, i suoi pastelli, che fanno pensare davvero a quell’aerea leggerezza che solo un cuore bambino può avere: un cuore che si fa trasportare sulle ali della fantasia in volo su quelle contrade spesso riarse e rocciose, a volte aduggiate di ombre, scabre e massicce ma anche colorate e profumate che sono “le strade di casa”. Questi sono i sentieri della nostalgia, quella per il tempo perduto, quella di una primavera ormai sfiorita ma viva nel ricordo. “ C’è una strada che ti porta via da casa, ed una che ti ri-porta a casa. Sono entrambe la mia strada di casa”, mi dice Costantino, “perché non ci sarebbe una senza l’altra,  e non ci sarebbe la casa che amiamo, se non ci fosse quell’altrove che abbiamo scoperto da soli, magari col cuore che ci batteva forte per il timore, la paura, l’ansia… che ci hanno però guidato e accompagnato nella scoperta dei nostri luoghi, e che hanno fornito alla nostra mente ed alla nostra anima il desiderio di tornare a casa. O, almeno, di cercarla o ricercarla, altrove”.

Uno stile lineare, il suo, con il quale ritrae alberi e paiare, camminamenti e strettoie, il mare di questa nostra terra e tutto sembra adombrato da una inconsistente ma pervadente malinconia. Dopo la visita alla sua personale, sentendomi ancora carezzato dai suoi colori rarefatti e caldi, con mille discorsi cominciati e da proseguire, rivolgo fra me  e me una preghiera alle Muse perché possano conservarci chi, con la penna o la fotocamera, col pennello o con uno strumento musicale, sa con la sua arte regalarci emozioni.

Iò, la pica, li cirase e Nerinu …. (Io, la gazza, le ciliegie e Nerino …)

di Armando Polito

 

Una ciliegia tira l’altra è la locuzione proverbiale che poi ha dato vita alla similitudine, non necessariamente riferita a un frutto, come le ciliegie: una tira l’altra.

Lo sanno bene anche le gazze che per due anni consecutivi mi hanno fatto fesso ripulendo in pochissimo tempo i miei due alberi di ciliegio (ne sopravvive solo uno, ma credo non per molto) i cui frutti avevo seguito affettuosamente nella loro maturazione. Ogni volta tutto era pronto: il rosso era al punto giusto e pure il paniere per la raccolta programmata per il giorno successivo. La prima volta, non vedendo nemmeno una ciliegia sull’albero, pensai che mia moglie , molto più mattiniera di me, mi avesse preceduto. Entrambi, invece, eravamo stati bruciati sul tempo dalle gazze. Forse l’amore che ho per gli animali aveva reso meno traumatico la perdita di quel frutto che pure avevo amorevolmente seguito, tant’è che l’inconveniente si ripetè l’anno successivo. Bisognava ricorrere ai ripari e negli anni successivi applicai i suggerimenti fornitimi da chi aveva tentato di risolvere il problema, scartando a priori la gazza morta da appendere a un ramo e il cannoncino che spara colpi ad intervalli più o meno regolari. Per qualche anno tirai avanti con un  grande orsacchiotto di peluche che qualcuno aveva abbandonato vicino al cassonetto della spazzatura. Sistemato tra i due alberi funzionava, sì, ma difettosamente perché le ciliegie che restavano per me non erano nemmeno la metà di quelle consumate dalle gazze. Siccome sapevo che sono animali molto intelligenti dovevo escogitare per l’anno successivo un altro rimedio. Mi venne non so come l’idea di stendere fogli di giornale sotto ogni albero fissandoli con delle pietre perché l’eventuale vento non li portasse via. Incredibile a dirsi, quell’anno le gazze non toccarono neppure una ciliegia. Secondo me, avvicinatesi agli alberi, erano rimaste, più che attratte dalle ciliegie, incuriosite dai fogli di giornale; ma, leggendo le notizie (l’ho detto, sono animali intelligenti …), erano rimaste traumatizzate ed erano volate via. Pensavo di aver risolto il problema ma l’anno successivo, nonostante avessi sistemato i fogli di giornale che nel corso dell’anno avevo accuratamente scelto in base alla drammaticità delle notizie, non assaggiai neppure una ciliegia. Secondo me le gazze, diventate dopo un anno, loro sì …, ancor più intelligenti, si erano accorte che la data di quei fogli non era recente, oppure avevano fatto anche loro il callo alle brutte notizie …

Mi consolai parzialmente pensando al proverbio Macari ca mangi pane e ccirase, mara alla entre ca pane no ttràse! (Puoi pure mangiare pere e ciliegie, guai al ventre in cui non entra pane!).

Poi venne Nerino e l’unico albero sopravvissuto ebbe, finalmente, il piacere (più che altro mio …)  di farmi gustare tutti i suoi frutti. Gli ho dato uno sguardo pochi minuti fa: domani riempirò il panierino …

 

* Sono due anni che in questo periodo per Armando ho fatto pure gli straordinari notturni e per ricompensa mi ha dato solo i rimasugli di quelle schifezze che è abituato a mangiare.  Ora basta! Quest’anno fa’ pure con comodo, così impara a comprarmi le scatolette che dico io!

** Grazie! Grazie!

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1 Dal latino medioevale ceràsea(m), a sua volta dal classico ceràsium che è dal greco κεράσιον (leggi cheràsion). La voce è rimasta nella denominazione scientifica del ciliegio amaro (Prunus cerasus L.); il ciliegio dolce, che è poi il nostro, nella nomenclatura scientifica è Prunus avium L., alla lettera susino degli uccelli, a conferma della predilezione che questi animali, le gazze in particolare, hanno per la ciliegia.

Sul ciliegio ecco le principali testimonianze degli autori greci e latini in ordine cronologico (per brevità riporto solo la mia traduzione del testo originale):

Teofrasto (IV-III secolo a. C.): Historia plantarum, III, 13: È per natura peculiare l’albero del ciliegio, notevole per grandezza, tanto che cresce fino a 24 braccia. Cresce molto diritto ed è tanto largo da avere un perimetro di due braccia oltre la radice. La foglia è uguale a quella del nespolo, molto verde e più grande, così che per il colore l’albero è visibile da lontano.  Ha la corteccia per levigatezza, aspetto e spessore simile al tiglio, per cui realizzano da esso panieri come anche dal tiglio. Cresce non diritta né in cerchio uniformemente ma si estende a spirale  dal basso verso l’alto come il contorno delle foglie e quando si scortica si scortica in questo modo, altrimenti  è tagliata e non ha valore. Parte di essa viene asportata allo stesso modo spaccata in spessore sottile come una foglia,  il resto può restare attaccato e salva l’albero man mano che cresce. Asportata la corteccia quando viene scorticato, allora stilla umore. E, quando viene asportata solo la corteccia superficiale, la restante si annerisce come per umidità mucosa e di nuovo l’anno successivo cresce altra corteccia al posto di quella ma più sottile. Cresce anche il legno simile per le nervature alla corteccia curva avviluppata. E subito i rami nascono allo stesso modo. Crescendo l’albero succede che quelli i rami inferiori muoiono, quelli in alto crescono. Tutto l’albero non ha molti rami ma meno nodosi del pioppo nero. Ha molte radici, superficiali e non molto grosse. L’andamento della radice e della corteccia intorno ad essa è lo stesso. Il fiore è bianco simile a quello del pero e del nespolo, composto di flosculi, simile a favo. Il frutto rosso è simile nell’aspetto al miglialsole, della grandezza di una fava, eccetto il fatto che il nocciolo del miglialsole è duro, quello della ciliegia molle. Nasce negli stessi luoghi in cui nasce il tiglio, soprattutto dove ci sono fiumi e posti ricchi di acque.  

Properzio (I secolo a. C.), Elegie, IV, 2, 15-16: Qui vedi rosseggiare le dolci ciliegie, qui vedi le prugne in autunno e le more in estate.

Plinio (I secolo d. C), Naturalis historia, XV, 30; XVI, 30; XVII, 47 : In Italia non ci furono ciliegi prima della vittoria di Lucio Lucullo su Mitridate fino all’anno 680 dalla fondazione di Roma. Egli li portò per la prima volta dal Ponto e dopo 120 anni giunsero oltre l’Oceano fino in Inghilterra. Essi, come ho detto, in Egitto non poterono crescere nonostante ogni accorgimento. Tra le ciliegie le più rosse sono le Aproniane, nerissime sono le Lutazie, le Ceciliane rotonde. Le Giuniane hanno un sapore gradevole, ma (vanno consumate) sotto il loro albero poiché sono tanto tenere da non tollerare il trasporto. Detengono il primato le duràcine che la Campania chiama Pliniane, nelle Fiandre le Lusitane. (Ci sono) anche sulle rive del Reno, hanno un terzo colore tra il nero, il rosso e il verde, sempre simile come se cominciassero a maturare. Son passati meno di cinque anni da quando vennero fuori quelle che chiamano lauree, di un gusto amaro non sgradevole, innestate sull’alloro. Ci sono anche le Macedoni, dalla pianta piccola, che raramente supera tre braccia, e da una più piccola ancora le camecerase. Questo frutto è quello che tra i primi dà al contadino il guadagno dell’anno. Si trova a suo agio a settentrione e nei luoghi freddi; si secca anche al sole e si conserva, come l’oliva, in vasi.  

Amano I monti ricchi di acque l’acero, il frassino, il sorbo, il tiglio, il ciliegio.

Rende precoci Ie ciliegie e le costringe a maturare la calce accostata alle radici.

La testimonianza di Plinio sull’introduzione del ciliegio in Italia nel 73 a. c. (a questa data corrisponde il 680° anno dalla fondazione di Roma avvenuta nel 753 a. C.) è smentita da ritrovamenti archeologici di semi di ciliegio risalenti all’età del bronzo. Fra l’altro, a Pompei non sono stati fatti finora ritrovamenti che confermino la ricordata conservazione del frutto secco. Solo ciliegie carbonizzate, invece, sono state rinvenute nel giardino di una casa pompeiana, nonché l’affresco in basso riprodotto (Casa del frutteto, I, 9, 5, 2° cubiculo a sinistra dell’atrio).

 

Celso (I secolo d. C.), De medicina, II, 24 e 29 : Fanno poi bene allo stomaco i cibi di sapore aspro, anche quelli che sono acidi e moderatamente salati … tra i frutti la ciliegia …; Muovono invece l’intestino il pane lievitato …, la ciliegia …

Dioscoride (I secolo d. C.), De materia medica, I, 157: Le ciliege mangiate anche acerbe favoriscono lo svuotamento dell’intestino, secche bloccano la diarrea. La gomma del ciliegio assunta sciolta nel vino cura la tosse cronica, rende di bel colore la pelle, accresce l’acutezza della vista e l’appetito, bevuta col vino giova anche ai sofferenti di litiasi.                                           

 

 

Una foto ricordo dalla torre dell’Alto

torre dell'alto

di Salvatore Calabrese

 

A proposito della torre costiera di Santa Maria dell’Alto, sulla quale nel giugno 2012 Salvatore Muci scrisse una ricca e dettagliata descrizione riguardo la sua
storia, vorrei aggiungere alcune mie piccole annotazioni relative
all’uso ed alla funzione che questa torre ebbe durante l’ultima
guerra mondiale. Vecchi ricordi e notizie frammentarie che sopravvivono da dettagliate descrizioni e foto tramandatemi da mia mamma e dai miei nonni, che all’epoca abitavano in una tenuta agricola delle Cenate Vecchie (contrada Vernaglione).

Durante il secondo periodo bellico degli anni 40 del secolo scorso,
la Torre dell’Alto (per il suo consolidamento strutturale, quasi
integro e comunque efficiente, per la sua strategica posizione posta
in cima ad una rupe dalla quale si poteva e si può osservare tutto il
golfo di Gallipoli, con vista che liberamente spazia da Taranto alle
coste lucane e calabresi), fu utilizzata dai comandi militari della
marina italiana come postazione fissa di avvistamento  e di controllo
su tutto il mare prospiciente.
La torre era abitata da un un gruppo di marinai, comandati dal sottufficiale Gaetano Castellano di Meta di Sorrento, i quali utilizzavano l’acqua potabile piovana sita in un cisternone posto nelle fondamenta della Torre, che attingevano tramite dei secchi collegati a delle lunghe funi; per la cucina utilizzavano invece
un camino posto al piano superiore.
A conferma di ciò allego una foto del 1943 comprendente il gruppo dei marinai che in pantaloncini posavano sui gradini della scala. Il primo, in basso a
sinistra, è il comandante Castellano; gli altri sono i suoi subalterni, uno dei quali tiene in braccio un cagnolino che avevano adottato come mascotte del gruppo.
Dopo quel periodo, nel 1958 e nel 1963 il comandante del
gruppo, Gaetano Castellano, insieme alla sua famiglia, tornò come
ospite nella casa dei miei nonni per rivedere quei posti e per farli
conoscere a sua moglie e alle sue ragazzine, una delle quali la
scorsa estate, dopo 49 anni, è ritornata ed è stata mia gradita
ospite.

I fastidi del vento: fossero i soli!

castro 15 maggio 2013

di Rocco Boccadamo

 

Soffio sostenuto, proveniente da ovest sud ovest: per i nativi, come pure per i villeggianti e/o vacanzieri, della fascia costiera del Basso Salento, non è la condizione meteo propriamente ideale e gradita. Anzi, nel soffermare lo sguardo sull’accentuato broncio grigio scuro della distesa marina, sfociante, da ultimo, in diffuse valanghe di schiuma contro la scogliera, si prova una sensazione di tristezza e sconforto.

E però, maggio sta per finire e l’estate s’accinge a spalancare le porte, così che, vento e onde mosse a parte, ieri, il piccolo battello a vela “My three cats” è stato riadagiato nel porticciolo e anche armato a puntino: con l’auspicio che, nel volgere di qualche giorno, il tempo si rimetta al bello e dia modo, ai familiari qui giunti dal Nord Europa per uno scampolo anticipato di ferie, di concedersi piccoli, ameni giretti e, insieme, i primi bagni e tuffi nella stupenda rada di Castro.

Intanto, l’anziano pescatore Nino, classe 1924, si presenta intento a dare una mano di colore blu marino all’interno del suo piccolo gozzo in legno, provvisoriamente tirato a terra: ”Le fiancate esterne, questa volta, le lascio come stanno” – dice – “giacché mi sono fatto vecchio”, quando, invece, nella luminosità degli occhi e sotto i baffetti, si legge benissimo che non vede l’ora di riprendere in mano il suo “conzo” (lunga lenza con centinaia d’ami) e catturare i suoi amati saraghi o altre varietà ittiche pregiate.

Gina e la figlia Lucia, da un pezzo, hanno riaperto il chiosco bar e, al solito, fanno i turni per intrattenere i clienti, abituali e nuovi: la scena della loro presenza che ritorna puntuale è, in fondo, un segno di continuità nell’immagine del minuscolo e raccolto scalo marittimo.

Evento assai atteso e di notevole importanza, pare che, nei prossimi giorni, inizino i lavori di ricostruzione della Piazzetta, ossia a dire il rifacimento delle unità abitative rimaste danneggiate o completamente distrutte a causa del terribile crollo avvenuto il 31 gennaio 2009. E’ previsto che, per l’estate 2014, tutto sia ultimato e che la marina si presenti nuovamente con il suo più classico, affascinante e amato volto, sistemato nel  miglior modo possibile.

Vite che rinascono e altre che si concludono, nel giardino di Via Premuda, lo storico albero di fico, per la precisione di “culummi di San Giovanni”, è improvvisamente morto di vecchiaia; da un giorno all’altro, non ce l’ha fatta più, lasciando i numerosi frutti, già a metà crescita, rattrappiti da far pena e, quindi, destinati a cadere ingloriosamente sulla terra rossa sottostante, senza guadagnare la canonica stagionale maturazione.

castro1

Nota avulsa dalle scansioni e dagli eventi della natura, il mese di giugno, anche quest’anno, si approssima sotto l’insegna dell’IMU, la vituperata, discussa e contrastata imposta sugli immobili. L’impressione è che, tale balzello, non si riesca in alcun modo ad abolirlo e cancellarlo del tutto.

Le casse pubbliche, il tessuto produttivo e il mercato dell’occupazione, non navigano per nulla a gonfie vele. Addirittura, il Presidente di “Confindustria” ha appena dichiarato che “il nord dell’Italia è sull’orlo del baratro”.

Non c’è che dire, visto che noi, comuni mortali, non abbiamo, autonomamente, grandi capacità, il Padre Eterno, almeno Lui, ce la mandi buona.

Una grande donna dell’Ottocento nella celebrazione di un poeta neretino.

di Armando Polito

Oggi non so se ancora esiste con questo nome, ma certamente i suoi contenuti sono cambiati. Parlo del sussidiario1 che ai miei tempi dedicava molto spazio agli eroi del Risorgimento, sicché nomi come Cesare Battisti, Carlo Pisacane, Amatore Sciesa, Daniele Manin erano molto familiari, anche se le loro gesta, nonostante l’enfasi retorica, ad essere sincero, non mi coinvolgevano per nulla e dedicavo loro il tempo strettamente necessario solo per mero dovere scolastico.

Forse, senza che allora me ne rendessi conto, era proprio quell’enfasi retorica, non ridimensionata adeguatamente per rendere il ricordo veramente coinvolgente sotto il profilo emozionale, a rendere un pessimo servizio a questi martiri della libertà. Peccato, perché alla luce di un’interpretazione più disincantata (chi sa parlare dice revisionista) degli eventi dei decenni immediatamente successivi, questi personaggi hanno acquistato paradossalmente ai miei occhi un’aureola più luminosa, avendo sacrificato inconsapevolmente (i confini tra la stupidità e l’idealismo sono molto labili, come quelli tra la genialità e la pazzia) la loro vita per preparare l’unità del paese con un processo che mi ricorda molto quello della relativamente recente unificazione europea.

Non è motivo di conforto, a maggior ragione, sapere che oggi i giovani a distanza di quasi un secolo e mezzo sanno benissimo chi è Cesare Battisti: peccato che si tratta non del patriota ma di un suo omonimo, terrorista. Poteva andar peggio: pensate se la storia ci avesse tramandato il nome di un Fabrizio Corona patriota …

Comunque. tra i personaggi oggetto di studio della mia verdissima età non ho citato a bella posta i fratelli Cairoli: Benedetto fu uno dei Mille e rimase gravemente ferito nel corso della spedizione;  durante la stessa morì di tifo nel 1860 Luigi; Ernesto era morto nel 1859 combattendo  tra i Cacciatori delle Alpi; Enrico, dopo aver partecipato pure lui alla spedizione dei Mille, morì nello scontro di Villa Glori nel 1867; due anni dopo, per i postumi delle ferite riportate in questo scontro, morirà Giovanni.

Non ho citato all’inizio i cinque fratelli perché intendevo cedere, come faccio, la parola al poeta dialettale neretino  Francesco Castrignanò del quale  mi sono ripetutamente occupato in precedenti post. In essa protagonista è, però, la madre Adelaide (1806-1871) e i fratelli appaiono come comprimari e non solo perché ad Adelaide toccò ripetutamente il destino più atroce che possa capitare ad un genitore: seppellire il proprio figlio. A lei, morta nel 1871, sopravvisse dei figli maschi solo Benedetto , mentre le due figlie Rachele ed Emilia erano morte entrambe nel 1856.   Quando ella morì il Castrignanò, che era nato nel 1857, aveva quattordici anni. La poesia, perciò non è il frutto di un’emozione vissuta personalmente ma, risalendo Cose nosce (il volume da cui è tratta) al 1909, di un ricordo sufficientemente sedimentato e che doveva fatalmente essere stato oggetto di studio, per quanto scolastico, emotivamente più coinvolgente di quanto non sarebbe stato il mio a distanza di quasi un secolo.

 

Adelaide Cairoli con i ritratti dei figli morti (1869). Immagine tratta da http://www.150anni.it/webi/index.php?s=58&wid=1864

Adelaide con i ritratti dei figli morti (1869). Immagine tratta da http://www.150anni.it/webi/index.php?s=58&wid=1864

 

Che poi Adelaide sia stata una grande donna lo dimostra non solo questo pesantissimo tributo che con rassegnazione e coraggio pagò alla vita ma anche il suo impegno politico e sociale, le sue lettere e, infine, queste sue parole: Prima ancora dunque che alla causa femminile, io mi ero votata a quella della mia patria e il mio amore per la prima nacque dal mio amore per la seconda.

Peccato che simili memorie vengano poi barbaramente strumentalizzate, come fu per Adelaide sotto il fascismo, com’è stato qualche giorno fa per Enzo Tortora. Sono i casi in cui sarebbe meglio, non fosse altro che per rispetto, far esprimere quel poco di intelligenza residua  con il pudore del silenzio.

 

 

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1 Sulla sua storia vedi http://www.treccani.it/scuola/dossier/2010/150anni_istruzione/cossetto.html

2 Si tratta del monumento inaugurato nel giardino dell’asilo infantile il 24 ottobre 1875 a Gropello Cairoli (Pavia), opera dello scultore Gerolamo Masini, alla presenza del figlio Benedetto (foto seguente).

Immagine tratta da http://www.museicivici.pavia.it/risorgimento/risorgimento/opere/img/C8_0001b.jpg
Immagine tratta da http://www.museicivici.pavia.it/risorgimento/risorgimento/opere/img/C8_0001b.jpg

 

Il monumento oggi. Immagine tratta da http://www.vallinorestauri.com/curriculum.html
Il monumento oggi. Immagine tratta da http://www.vallinorestauri.com/curriculum.html

 

Il ricordo dell’evento è in Baccio Emanuele Maineri, Il monumento ad Adelaide Cairoli in Gropello Lomellino, 24 ottobre 1875, Zanaboni, Milano, 1876. Proprio a questo monumento probabilmente allude l’articolo uscito sul settimanale L’emporio pittoresco (anno VIII, n. 344 del  2-8 aprile 1871) in cui, dopo la notizia  della morte di Adelaide, si legge: Una madre piemontese all’annunzio della morte della sublime donna ideò un monumento degno di lei, ed invita per mezzo della stampa tutte le madri italiane ad una quota di cinquanta centesimi per raccogliere la somma necessaria ad innalzarne una statua da collocarsi in quella città d’Italia che venisse prescelta, oppure nel sepolcreto della famiglia Cairoli in Gropello, dove, insieme ai resti mortali de’ suoi quattro figli, giace ora la spoglie della madre magnanime, tipo perfetto di bontà e di abnegazione! Chi tra le madri di cuore italiano non risponderà al patriotico e pietoso appello?  È molto probabile che, avendo il poeta nel 1876 diciannove anni, questa poesia sia stata scritta parecchi anni dopo.

2 Credo che con signura motu ricca e curaggiosa il Castrignanò intendesse esprimere la sua meraviglia che una donna ricca si votasse al sacrificio. Io, però, mi chiedo: se Adelaide non fosse stata ricca sarebbe stata tanto curaggiosa, cioè avrebbe trovato voglia e opportunità di affermare la sua forte personalità, cosa che ancora oggi con difficoltà riesce ad un uomo, figurarsi ad una donna? Rimane, comunque,  la nobiltà, quella vera, del suo modo di essere, al servizio di un ideale superiore e non del potere, mentre avrebbe potuto benissimo condurre, essendo ricca, un’esistenza più tranquilla. A chi state pensando, per contrasto?

 

150 anni fa moriva Don Marino Manco, vittima del brigantaggio (*)

 

Melissano, Piazza del Mercato Vecchio. (foto Velotti)
Melissano, Piazza del Mercato Vecchio. (foto Velotti)

di Fernando Scozzi

 

Terra d’Otranto visse solo di riflesso le vicende dell’unificazione nazionale, ma i problemi di quel difficile periodo (fra i quali il brigantaggio) non mancarono di interessare anche la nostra provincia dove Quintino Venneri,  detto “Melchiorre”, costituì una banda brigantesca della quale fecero parte, tra gli altri, Barsanofrio Cantoro, di Melissano, Ippazio Ferrari, di Casarano, Vincenzo Barbaro, di Alliste e Ippazio Gianfreda, di Casarano.

Una delle vittime di questa banda fu il prete Don Marino Manco, giudice conciliatore della Frazione Melissano e nemico dei briganti sia per la sua adesione allo Stato unitario che per vecchi rancori con il compaesano Barsanofrio Cantoro.  Questi confessò in tribunale: Ce l’avevo con lui da tanto tempo perché prima di andare per soldato, amoreggiavo con una giovane di Melissano ed in cena, don Marino, vedendomi ricevuto in quella casa, mi discacciò.

Per Barsanofrio fu facile convincere gli altri briganti dell’opportunità di colpire quel prete che   aveva cantato due “Te Deum” per Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie  e che, spesso, ospitava nella sua casa i Carabinieri di Gallipoli, i rappresentanti di quello Stato sconosciuto al quale si erano ribellati. Così, verso le ore tre della notte del 24 giugno 1863, i briganti, capitanati da “Melchiorre”, penetrarono a Melissano. Alcuni di essi presidiarono le uscite del paese, altri si fermarono in piazza. L’arciprete, don Vito Corvaglia, intuendo le loro intenzioni e riconosciuto il compaesano Barsanofrio Cantoro gli disse: Guardati che il paese non abbia a soffrire qualche disastro per causa tua – ma questi gli rispose: ritìrati.  I briganti, quindi, bussarono alla porta del Manco. Apri, sono un messo di Gallipoli, porto un plico pressante del Sottogovernatore, disse uno di loro con voce affettata da piemontese.  Don Marino – testimoniò la domestica – ebbe qualche sospetto e non voleva aprire, ma al picchiare violento del culacchio dei fucili da far crollare la porta e alle grida “Apri carogna fottuta”, si alzò e aprì. Otto individui, vestiti alla contadina, armati di fucili, sciabole e pistole, irruppero in casa.  Don Marino – disse “Melchiorre” – mi servono mille ducati ebestemmiava dicendogli: “Assassino che sei, ai carabinieri continuamente dai da mangiare e a noi non vuoi dare nulla? Frugarono in ogni angolo della casa e rinvenute solo 170 piastre minacciarono di morte il malcapitato. Per la Madonna del Carmine, non ne tengo più – diceva il prete – ma  i briganti lo obbligarono a chiedere in prestito altro denaro, scortandolo a casa dei suoi parenti. Lo vidi in piazza, in mezzo a due briganti, scalzo, sconvolto, vestito dei soli pantaloni. “Ho bisogno  di  duecento  piastre, voglio salva  la vita, disse Don Marino a Vincenzo Manco che, insieme a Pietro Paolo Corvaglia e all’arciprete raccolsero la somma richiesta. Mentre “Melchiorre” contava il denaro, Barsanofrio disse ad un brigante che voleva uccidere don Marino: Basta! Che altro pretendi? Allontanandosi da Melissano, i briganti frantumarono gli stemmi dei Savoia posti sul corpo di guardia e sul botteghino delle gabelle.

Ma  don   Marino  non  era  persona  che  subiva  senza  reagire. Il giorno seguente, infatti,  denunciò l’accaduto alla giustizia mandamentale di  Casarano, producendo  formale  istanza di punizione di Barsanofrio Cantoro e della compagnia da lui condotta e riservandosi di costituirsi parte civile nell’eventuale giudizio. In questo modo, don Marino sottoscrisse la sua condanna a morte perché i briganti, venuti a conoscenza della denuncia, decisero di vendicarsi.

Il  loro proposito divenne di pubblico dominio e lo stesso don Marino fu avvertito da alcuni conoscenti  di stare in guardia perché si voleva attentare alla sua vita. Tuttavia, egli non adottò particolari precauzioni e prevedendo un altro assalto notturno, dormì nella cantina della sua abitazione. Ma la morte non arrivò di notte.

L’arresto  del  fratello  di “Melchiorre”, accusato ingiustamente  di essere in  possesso  del  denaro  rubato al prete, determinò il tragico epilogo della vicenda. La madre del Venneri si precipitò presso il nascondiglio della banda per avvertire “Melchiorre” di quanto era accaduto. Questi, propose  di “sollevare” la  popolazione  di  Alliste  e  affrontare la   forza   pubblica.  Partirono   immediatamente  ma,  per strada, “Melchiorre” cambiò idea e disse ai compagni: “Andiamo a saziarci di sangue! Ad uccidere Marino Manco”.

Erano le ore 13 del 27 luglio, don Marino uscì dalla chiesa parrocchiale e rientrò nella sua abitazione  perché – affermò una testimone –  diceva volersi recitare l’ufficio. Verso le ore 14, nella piccola borgata immersa nella calura estiva, si sentì urlare: Dov’è il brigante papa Marino? Il prete aprì la porta: due colpi di fucile lo raggiunsero al volto e al petto. La vittima  cadde a terra in una pozza di sangue, il braccio sinistro proteso, il destro piegato sul torace. Io  sono stato il boia, ho tirato il primo colpo – disse Ippazio Ferrari –  Quintino Venneri, il secondo.

Barsanofrio  Cantoro non partecipò all’assassinio e si rifugiò  in campagna. Lo trovai vicino al mio pozzo – testimoniò un contadino – mi chiese da bere. In quel momento sorse un vento così impetuoso che lo stesso Barsanofrio si sorprese dicendo:” Questa è l’anima di papa Marino”. Io gli chiesi:” L’avete ucciso?” E quegli:”Lo lasciavamo…? Poi, il brigante fuggì verso il bosco del Belvedere. Lì fu catturato il 13 novembre 1863; condannato a 30 anni di reclusione, morì in carcere. “Melchiorre”  riuscì ad evadere dalla prigione e dopo numerose azioni delinquenziali rimase ucciso in un conflitto a fuoco con carabinieri, il 24 luglio 1866, dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano. Il suo corpo fu esposto come monito, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano.

 

 

(*) La vicenda è stata ricostruita mediante la consultazione degli atti processuali conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce.

Lettera aperta a Massimo Bray, titolare del Mibac1

Cattedrale di Nardò, particolare degli affreschi del Maccari nel coro
Cattedrale di Nardò, particolare degli affreschi del Maccari nel coro

di Armando Polito

Nardò, 26 maggio 2013                    Oggetto: i monaci brasiliani a Nardò

Caro ministro, il tono confidenziale con cui mi permetto, è un mio diritto, di scriverle quanto segue è legato  non al piacere, che pure avrei, di conoscerla ma solo al valore etimologico della parola ministro, nonché al fatto che lei è un mio conterraneo.  Non è secondario, neppure, il fatto che lei è stato direttore dell’Istituto editoriale dell’Enciclopedia Treccani e l’artefice, a quanto leggo, della sua immissione on line. Per me basterebbe quest’ultimo dettaglio per attribuirle una specifica benemerenza nel campo della promozione culturale. Lei, però, conosce meglio di me i rischi di diffusione dell’errore che la digitalizzazione ha amplificato in progressione geometrica in confronto alla carta stampata per via del copia-incolla che, rispetto alla lettura e trascrizione tradizionali, ha anestetizzato il controllo e l’esercizio dello spirito critico. Quando, poi, l’informazione è data da una fonte autorevole qual è  la Treccani, anche chi è avvezzo al beneficio d’inventario cede alla tentazione di farne a meno.

Ho avuto occasione di citarla già una volta su una questione2 che poteva pure essere, non per me, oggetto di discussione, ma l’inconveniente, questa volta inequivocabilmente tale per chi abbia un minimo di cultura, si è ripetuto recentemente.

Nella scheda relativa a Cesare Maccari3 a firma di Teresa Sacchi Lodispoto si legge: “Il programma iconografico, dettato dal committente, era dedicato alla storia della salvezza dell’uomo e agli episodi locali del Trasporto delle reliquie di s. Gregorio Armeno, protettore della città, da parte dei monaci brasiliani e del Miracolo del crocifisso nero”.

Poiché nemmeno sotto tortura posso neanche sospettare che colpevole di tale obbrobrio possa essere stata l’autrice della scheda, la prego, in virtù del suo precedente incarico, di voler provvedere tempestivamente alla correzione prima di coprirci di ridicolo a livello planetario.

Sarà mia cura segnalarle eventuali (tutt’altro che improbabili, visti i precedenti …) altre perle. Nel frattempo la saluto cordialmente e le auguro buon lavoro, nell’attesa, da troppo disattesa, che la cultura non continui a vedersi tagliati i fondi e ad essere, al di là delle belle parole che ormai possono fare effetto solo sugli idioti, una presa per i fondelli.

Armando Polito

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1 Per chi non ha dimestichezza con gli acronimi: MI(nistero per i) B(eni e le) A(ttività)  C(ulturali). Non bastava, anche in omaggio alla spending rewiew,  il MIUR [M(inistero dell’) I(struzione), U(niversità e) R(icerca)]?

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/29/certi-cardi/

3 http://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-maccari_(Dizionario-Biografico)/

Salgado a Roma, la sua “Genesi” vista da Resci

di Francesco Greco

 

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Un maestro assoluto della Fotografia contemporanea visto da Giuseppe Resci, maestro “work in progress”. Sebastião Salgado a Roma per la terza volta (all’Ara Pacis, sino al 15 settembre, poi sarà anche a Londra, Toronto e Rio de Janeiro). “Roma mi ama –sorride il fotografo brasiliano – e anche io la amo…”.

250 foto suddivise in 5 sezioni. Titolo: “Genesi”. Un lungo viaggio nel 46% del pianeta rimasto intatto (dall’Antartico all’Amazzonia), dove il nostro mondo appare com’era alle origini. Salgado esplora le radici di questo Paradiso dandone una lettura polisemica: distanze sconfinate e abbaglianti, varietà vegetali, popolazioni umane e animali, vulcani e ghiacciai, la luce e l’ombra, i silenzi densi di allegorie dettati dai quattro elementi della Natura nelle infinite facce, spettacolari e di grande tensione emotiva, dilatata sino alla poesia pura.

Salgado osa sino a scarnificare, denudare gli archetipi catturandone l’anima più arcaica. Attenti! – pare dire però con l’immenso amore per l’Universo e per l’Uomo che nutre attraverso la sua Arte – questo “mondo nuovo” che ho incontrato può essere devastato da un modello di sviluppo aggressivo e suicida, l’incanto resettato e la bellezza potrà svanire per sempre. Ma come vede questo gigante Giuseppe Resci, fotografo professionista, che ha appena visto la mostra?

 

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   Domanda: E’ appropriato considerare Salgado uno dei più grandi fotografi d’ogni tempo, da Robert Capa a Helmut Newton?

Risposta: “Assolutamente sì, è una delle stelle più luminose di quel firmamento.

Già nel 1979 entra a far parte della celeberrima agenzia Magnum Photos, la stessa galassia nella quale brillano stelle come Henry Cartier-Bresson e Steve Mc Curry ma, ancora prima (1975), entra prepotentemente alla Sygma con il reportage sulla rivoluzione portoghese. Oggi gestisce la prestigiosa Amazonas Images, un gioiello autonomo, tutto suo, dedicato ai suoi progetti e alla sua opera. Inoltre, non si limita a lanciare un singolo messaggio, come Newton, che si è essenzialmente concentrato sulla donna, o meglio, sul potere della donna.Oppure Cartier – Bresson, considerato “l’Angelo del bizzarro”, o Robert Capa, che ha sviscerato le dinamiche e i volti della guerra”.

D. Come definirebbe il suo modo di fotografare?

R. “Credo sia riduttivo descriverlo come fotografo documentarista o reporter. Si capisce subito che è, prima di tutto, un fervente filantropo, paladino dei diritti dell’ Umanità, capace di sforzi eroici che non si fermano davanti al dolore, al disagio sociale o a situazioni oggettivamente complesse, anche estreme. Possiede la virtù di saper rappresentare il soggetto attraverso un’immagine potente, che trabocca di bellezza, grazia, equilibrio, eleganza e raffinatezza compositiva. Poco conta che lo scatto catturi un dramma piuttosto che una meraviglia della natura, il risultato è sempre lo stesso: si resta senza fiato… Provo a fare un esempio, in apparenza esagerato, di un’altra virtù simile che riguarda il Caravaggio: se osserviamo la Conversione di San Paolo, notiamo che il Santo non è canonicamente collocato al centro del dipinto, ma per terra, in una stalla sporca e poco illuminata; il cavallo, invece, riempie il resto della tela, gli passa sopra lentamente guardandolo per evitare di ferirlo. Decisamente insolito per i suoi tempi, insolito anche oggi, eppure sfido qualunque osservatore a non aggettivare le proprie percezioni al riguardo se non in nome della bellezza pura e semplice. Gli stessi sentimenti si provano davanti ad un’opera di Salgado”.

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D. E’ quindi evidente che sappia cogliere gli aspetti essenziali di un luogo, l’essere umano, una terra, per poi fissarla sulla pellicola…

R. “Prepotentemente evidente, direi. Ogni fotografo degno di tale appellativo sa che, in un determinato luogo bisogna cercare il ‘Genius loci’ e che, in una certa situazione, è necessario ‘cogliere l’attimo’ per scrivere un messaggio usando la luce. Del resto, faceva e fa ancora scuola Alfred Stieglitz, che auspicava di poter ‘…riuscire a trasmettere quello che vidi e sentii…”. Salgado, però, fa di più: concepisce e pianifica meticolosamente progetti ambiziosi, che richiedono anni di viaggio per lo sviluppo, continua a documentarsi anche durante la fase esecutiva, a prescindere che si tratti di un reportage di impronta umanitaria o tematiche di maggior respiro. Corona la conclusione di questi sforzi con colossali, pregevoli pubblicazioni di libri da centinaia di pagine, tradotte poi in almeno sei lingue e accompagnate da mostre nei più grandi, prestigiosi musei del mondo, percepite e attese come veri e propri grandi eventi”.

D. Cosa spinge un fotografo ad avventurarsi nei continenti del pianeta?

R. “La propria missione. Salgado si muove e opera per l’Umanità. Basti ricordare i suoi antecedenti scatti nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile, frutto di una ricerca volta a documentare lo sfruttamento e l’abuso dei diritti umani dei lavoratori, o meglio, schiavi. Migliaia di loro vengono raffigurati in gigantesche e polverose cave, arrampicati su una moltitudine di scale rozze, con una potenza narrativa che solo Gustavo Dorè riusciva a rendere nelle celebri incisioni, quando realizzava gli scenari dei gironi danteschi. Nel caso di questa mostra cullata nella solennità dell’Ara Pacis, prima tappa delle altre otto previste nel resto del mondo, vuol farci vedere in tutta la sua magnificenza un mondo che noi non conosciamo: quel 46% del Pianeta rimasto ancora intatto perché non contaminato dagli Esseri Umani. All’Umanità un solenne monito, quindi, lanciato dalla bellezza stessa del Pianeta Terra, passata attraverso il suo obbiettivo. 250 scatti-capolavoro di grande formato che narrano di altrettanti capolavori della Natura integra, una Natura che non immaginiamo nemmeno più, ma che siamo pronti a profanare e distruggere in modo sistematico, irrimediabile. Mi spiace, ma credo che nessun visitatore possa mai riferire con la parola cosa si provi dopo aver visto il Paradiso Terrestre. Posso solo assicurare che, su di me, il monito ha funzionato in modo fulmineo, quasi violento… Una mostra può essere insignificante, brutta o bella. Questa è davvero fantastica e ti cambia dentro. Dopo averla vista, posso dire che guardo la Natura con occhi diversi. E’ curata in modo ineccepibile dalla moglie, Lélia Wanich Salgado, fedele collaboratrice anche per questa splendida realizzazione. Sono stati necessari ben 8 anni di viaggio nei 5 continenti per regalarci tanta Arte”.

D. Come mai Salgado è fedele a una tecnica fotografica originaria e rifiuta le nuove tecnologie digitali?

R. “Per tre buoni motivi: usa corpo macchina e lenti Leica, padroneggia la tecnica di ripresa e di stampa e ossequia con rigore le regole della Fotografia: in primis quelle dettate dal sistema zonale di Ansel Adams. In aggiunta, impreziosisce la resa dei toni in fase di stampa, applicando con un pennello uno sbiancante sulle ombre troppo intense. Credo sia questo tocco finale che aggiunge ciò che definisco ‘il terzo elemento’ al suo bianco e nero: una gradevolissima tonalità argento (vedi foto), quasi cromo che, in sinergia con la gestione magistrale del contrasto, dona alle immagini grande profondità. Ne deriva un effetto di tridimensionalità impressionante: ammirando una sua stampa, ci si sente davvero proiettati all’interno dello scenario, da protagonisti. Con queste capacità connaturate, non vedo perché dovrebbe ridursi a gestire gli algoritmi del digitale. Sarà curioso, ma i pochi fotografi ancora fedeli alla fotografia analogica spesso operano con strumentazione Leica. Con il dovuto rispetto per ogni altro brand sul mercato, posso dire, avendone usata una, che la differenza che intercorre tra un’immagine che ha attraversato un obbiettivo Leica, piuttosto che un altro, è la stessa che passa tra lo champagne e una bibita gasata. Basta usare una compatta digitale giapponese – che monta gruppi ottici Leica – per avere indizi molto seri su quello che sto dicendo. Cartier-Bresson sosteneva che una foto si fa con il cuore, la tecnica e il cervello. Parole sacrosante. E’ però anche vero che, se un violino Stradivari capita – per fortunata circostanza – nelle mani di Uto Ughi, il risultato finale è che si resta basiti”.

D. Perché Salgado privilegia il bianco e nero?

R. “La prerogativa del bianco e nero è la sintesi e Salgado se ne avvale pienamente potenziando il risultato finale.Ogni sua Opera, per quanto concettualmente semplice e fruibile da chiunque, rappresenta un insieme variegato di contenuti profondi e toccanti. Bisogna considerare che la variabile del colore, anche quando scaturisce da un buon management, richiede pur sempre un’analisi aggiuntiva da parte dell’osservatore e i suoi scatti non ne hanno assolutamente bisogno. Proprio come non ha mai avuto bisogno di alcuna analisi complementare la scultura classica del Bernini”.

 

 

Sebastião Salgado è nato l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile.

Vive a Parigi. Dopo studi di Economia, Salgado ha cominciato la sua carriera come fotografo professionista nel 1973 a Parigi, lavorando con le agenzie fotografiche Sygma, Gamma e Magnum Photos fino a quando, nel 1994, insieme a Lélia Wanick Salgado, ha fondato Amazonas images, un’agenzia creata esclusivamente per il suo lavoro.

Ha viaggiato in oltre 100 paesi per realizzare i suoi progetti fotografici. Molti di questi, oltre ad apparire in diverse pubblicazioni sulle riviste internazionali, sono stati raccolti in libri come Other Americas (1986), Sahel: l’homme en détresse (1986), Sahel: el fin del camino (1988), La Mano dell’uomo (1993), Terra (1997), IN cammino e Ritratti (2000), Africa (2007).

 

Omaggio a Portoselvaggio

di Armando Polito


Insignificante è questo mio doppio tributo se confrontato con le sensazioni, emozioni e suggestioni che questo magico luogo ha regalato a me ed a tutti coloro che hanno avuto il privilegio di esserne ospitati. È il miracolo che solo la bellezza della natura è in grado di operare, almeno su quanti di noi restano ancora in grado di capirne il significato … e di rispettarlo.

Nella canzone (mia e di Francesco Carrino)  che commenta il video che segue (cliccare su Portuservaggiu, ma prima attivare gli altoparlanti) si parla di sole ti maggiu, ma è per pura esigenza di rima: Portoselvaggio è per tutto l’anno!

Portuservaggiu

 

 

La telefonata

I  R A C C O N T I  D E L L A  V A D E A

L A  T E L E F O N A T A

di Pippi Onesimo

Le lampe (bicchieri da un quarto colmi di vino), rappresentavano il baratto privilegiato per pagare la commissione della telefonata.

Ma anche alcune foglie secche di tabacco o un sacchiettino di trinciato, insieme cu nnu pacchettu de cartine (pacchetto di strisce rettangolari di carta velina, lunghe circa sette centimetri, bianche, sottili e trasparenti, gommate su un lembo del lato lungo e adatte per confezionare, al bisogno, sigarette artigianali) avevano lo stesso valore.

A volte l’esigenza di fumare (“mi sigge na tirata”, ripeteva spesso lu Cheròndula) la avvertiva già prima di telefonare, specialmente dopo aver bevuto più di una lampa.

Serviva anche per darsi un tono e un contegno e con studiata teatralità confezionava, all’istante, una sigaretta fatta a mmanu (artigianale).

La procedura del confezionamento era molto semplice, anche se era necessario possedere una certa esperienza, una buona perizia ed una non comune dose di abilità.

Prima estraeva dal pacchetto una cartina e la posizionava, leggermente arcuata per tutta la sua lunghezza, fra il pollice e l’indice della mano sinistra, ai quali rimanevano strettamente collegate alle altre dita, piegate in dentro a mo’ di protezione.

Poi con la mano destra pizzicava del tabacco secco triturato, o del trinciato ricavato da foglie umide finemente tagliuzzate,direttamente dalla tasca dei pantaloni, o dal taschino della camicia, o da un sacchetto di stoffa, disponendolo in quantità sufficiente e distribuendolo in modo uniforme sulla cartina.

A questo punto subentrava la fase più delicata: inumidiva leggermente, ma senza bagnarlo, uno dei bordi lunghi della cartina, passandolo delicatamente sulla punta della lingua e immediatamente lo ripiegava su quello asciutto, arrotolandolo con una leggera pressione del pollice, aiutato dall’ indice e dal medio insieme, di entrambe le mani.

Eliminava, infine, qualche eventuale residuo di tabacco dalle due estremità e la sigaretta era già bella e confezionata, alla faccia dei monopoli di Stato.

Cu nnu pòsparu a tàvula (un fiammifero di legno), sfregato sul muro e tenuto ben saldo fra l’indice e il pollice della mano destra, accendeva la sigaretta delicatamente sorretta fra le labbra, mentre riparava dal vento la tenue fiammella con la mano sinistra, portata vicino alla bocca e arcuata a mo’ di schermo.

Fra una boccata e l’altra, aspirava voluttuosamente il fumo acre e biancastro.

A volte lo arrotolava nella bocca socchiusa a semicerchio, riuscendo abilmente a formare sottili rotelle di fumo.

Con sequenza concentrica il fumo saliva in alto, dondolando leggero e trasparente, mentre i cerchi si dissolvevano nell’aria, creando, così, una disincantata magia surreale.

Con malcelato sussiego, non privo di una certa affettazione di importanza, si conferiva, in quel modo, un tono presuntuosamente dignitoso e altezzosamente sostenuto.

E in questa scenografia, così puntigliosamente costruita, si inseriva la telefonata de lu Cheròndula.

La sua specialità, quasi un copyright, era quella fatta con l’Aldilà, o meju, cu lli morti toi(i tuoi parenti defunti).

Il suo cellulare, senza alcun limite di campo, poteva metterti in contatto con chiunque ed ovunque.

Il rituale della telefonata ( quella più solenne era fatta preferibilmente in piedi ), era molto semplice: lu Pietruzzu si toglieva la coppula, riponendola nella tasca posteriore dei pantaloni, e si addossava al muro di un vicino fabbricato .

Poi dava uno sguardo in giro con fare circospetto, come per conferire più solennità al gesto che stava per fare.

Intanto spegneva la sigaretta, stropicciando la punta accesa col pollice, l’indice e il medio ; poi conservava accuratamente lu muzzone (il mozzicone) nel taschino del gilet.

Insieme alla mano, che poggiava arcuata sul bordo del padiglione auricolare, al fine di amplificarne la ricezione, infine accostava l’orecchio sinistro preferibilmente vicino ad una crepa o ad una fessura, come quella usata per presa d’aria nei cucinini o nei bagni di servizio delle vecchie abitazioni.

A volte, ma solo raramente, se era stanco o più spiritoso del solito, preferiva fare la telefonata sdraiato per terra, a pancia in giù e a gambe divaricate, con l’orecchio leggermente schiacciato su un tombino dell’acquedotto, o lievemente adagiato sul coperchio della condotta della fognatura bianca.

Gli spettatori, intanto, accostati al muro della Chiesa della Purità, prospiciente sull’ansa che si modella fra l’Istituto Immacolata e il Palazzo Vallone, dopo così lunga e paziente attesa, cominciavano a dare segni di insofferenza per il noioso e snervante rituale della preparazione.

Ma era inutile spazientirsi.

Al punto in cui si era arrivati, bisognava prendere o lasciare, avendo commesso l’imprudenza di pagare con largo anticipo la commissione.

Oltretutto l’ebbrezza dell’aleatico de lu Muscia, che aleggiava ancora sorniona su tutta la compagnia, non era definitivamente del tutto svaporata, mentre il nervosismo cominciava a prendere pericolosamente il sopravvento e… si rischiava de ssire alle vigne dell’arciprèvate (uscire fuori strada, scantonare, perdere il senno o la ragione ).

Lu Pietruzzu, vientu de nanzi e tramuntana de retu (impertubabile), continuava a prendersela comoda e, impassibilmente serafico, rimaneva accostato al muro.

Poi, dopo una ennesima pausa, finalmente, con un lento, misurato atteggiamento pontificale allargava il braccio destro, in uno studiato rituale scenico, per dare il segnale d’inizio.

Dopo aver chiesto e ottenuto il silenzio dei presenti, roteava freneticamente il braccio, piegato ad angolo retto, mentre teneva il pugno chiuso come se girasse la manovella di un vecchio apparecchio telefonico, di quelli che la Sip usava allora installare, appendendoli al muro ad altezza d’uomo.

Intanto imitava con leggeri, susseguenti, intervallati e studiati borbottii della bocca il rumore della sua suoneria.

Quindi, finalmente, esordiva: “Prontu, prontu… parlu cu lli morti de mesciu Ntoni Pizzicazzi?“ (pronto, pronto… parlo con i defunti di maestro Antonio Pizzicazzi ?, che era uno dei committenti della telefonata, presente nel gruppo).

I soprannomi o le ngiurie costituivano una anagrafe parallela a quella ufficiale tenuta dal Comune e, a volte, la superavano per la particolarità dei dettagli e per la inappuntabilità dei riferimenti storici e genealogici.

Infatti allora (più di oggi), esse identificavano con precisione quasi maniacale le famiglie galatinesi e, volendo, potevano individuare, senza alcun margine di errore, tutta la relativa strappigna (la discendenza, l’albero genealogico).

L’indicazione del cognome diventava superfluo, anzi inutile.

Dopo una breve pausa, l’espressione del volto con gli occhi pensosi e semichiusi e la fronte corrucciata preannunciavano un improbabile contatto telefonico.

Poi proseguiva: ”Si… si sentìtime sanu: lu Ntoni, lu menzanu de li frati vosci, vu manda a ddire ca li mancati tantu e ca vulia tantu cu bbu viscia” (“ Si, si ascoltatemi con attenzione: Antonio, il mediano dei vostri fratelli, vi manda a dire che gli mancate tanto e che desidererebbe tanto rivedervi).

Cce ttanu dittu “ (che ti hanno detto?), chiedeva mesciu Ntoni, fingendo di stare al gioco.

Ca… se propriu cci tieni tantu cu lli vidi, cce spetti… cu bbai lli trovi!“ (se ci tieni veramente tanto a vederli, sbrigati a partire e quindi a… morire!), era la impietosa risposta fulminante de lu Pietruzzu.

Tutti scoppiavano a ridere, tranne mesciu Ntoni, ca rimania ‘mpalatu (rimaneva di sasso).

Poi, riprendendosi dallo smarrimento, lo rimproverava con tono bonario: “na stu mucculone! (uomo di poco conto) Mo ti cazzu le mpuddhre (adesso ti punisco). A ‘mie, ca taggiu sempre crisciutu a muddhriculeddhre (con le briciole), mi faci sti scherzi!

In altri termini gli traduceva, in modo paterno ma deciso, il suo pacato risentimento: “ingrato, non puoi mancarmi di rispetto, perché sono stato sempre generoso con te!“.

Lu Pietruzzu, impassibile, chiudeva il telefono (cioè abbassava il braccio e toglieva l’orecchio dal muro), mentre si copriva accuratamente il capo cu lla coppula, che recuperava dalla tasca dei pantaloni, dove l’aveva momentaneamente riposta prima della recita.

Con tutta la calma serafica, che la solennità del momento imponeva, si concedeva una breve pausa, come se fosse riportata sul copione di una fantasiosa sceneggiatura improvvisata, mentre aspirava con evidente e studiata voluttà un’altra boccata di fumo, dopo aver riacceso lu muzzone, che aveva recuperato dal taschino.

Intanto la punta del mozzicone, tenuto in precario equilibrio fra le labbra ruvide e screpolate, ad ogni tirata si arroventava ad intermittenza, bruciando parte della cartina e parte del tabacco, mentre liberava nell’aria qualche breve, fugace favilla.

La cenere biancastra, man mano che il fuoco si ritirava consumando la sigaretta, si staccava a grumi compatti e, rotolando giù, pennellava impertinentemente il gilet e la sua camicia con una polverina sottile e irriverente.

Qui, la commedia della telefonata, ben assortita e ottimamente interpretata, si concludeva.

 

 

Francesco Politi (1907-2002), illustre figlio della nostra terra

 

di Paolo Vincenti

 

Francesco Politi (1907-2002), nato a Taurisano, germanista, docente universitario, fu saggista, autore di numerosi contributi, in particolare sulla letteratura tedesca e sulla letteratura inglese.  Fu poeta e promotore culturale all’estero, soprattutto in Germania. Come italianista, pubblicò diversi studi su Dante, Bandello, Ariosto, Goldoni, Carducci, Pirandello, e numerose traduzioni. Sterminata la sua produzione, peraltro non raccolta mai in bibliografia. Lunghissima la sua collaborazione con le pagine di  “Presenza Taurisanese”, mensile di  politica, cultura e attualità diretto da Gigi Montonato.

“Presenza Taurisanese” dedicò allo studioso, subito dopo la morte, avvenuta a Roma, una plaquette con numerose e qualificate testimonianze e poi, nel 2007, in occasione del centenario della nascita, un volume intitolato “In memoria”, con saggi di Donato Valli e Mario Marti e postfazione di Gigi Montonato.

Questo libro, con il ricordo dei figli, Marco e Alessandro, raccoglieva testi e traduzioni del professore ed  è la più completa testimonianza su una personalità davvero poliedrica come quella di Francesco Politi, medaglia d’oro (insieme all’altro illustre taurisanese Antonio Corsano, storico della filosofia), targa d’argento e attestato di civica benemerenza del Comune di Taurisano.  Politi , da poeta ( “beato  tra i poeti” come dice Donato Valli), scriveva anche in dialetto salentino con assoluta libertà metrica e linguistica, e quindi riusciva sorprendentemente  a passare dai classici latini, come Orazio o Lucrezio, alla lingua materna (o paterna), il cosiddetto “rusciaru”: anzi, compose addirittura un’antologia,  “Poeti del mondo in dialetto salentino”,  in cui rielaborava i più grandi e importanti autori della letteratura antica e moderna in dialetto (raccogliendo le traduzioni apparse su “Brogliaccio salentino”).

Nel suo ventennale sodalizio con “Presenza Taurisanese”, dal 1985 fino alla morte, in effetti, Politi esplicò sulle pagine della rivista le sue molteplici attività creative e culturali, soprattutto di traduttore e poeta. Ed ora, in allegato al numero di aprile 2013 della rivista, Gigi Montonato dedica  all’amico scomparso  un’altra pubblicazione, da lui curata,  “Pirandello narratore e altri studi di italianistica”, uscita per le “Edizioni di Presenza”.

I testi qui riproposti, come spiega Montonato, risalgono agli anni tedeschi di Marburg Lahn e Monaco di Baviera, l’ultimo periodo trascorso in Germania da Politi prima di tornare in Italia per insegnare Letteratura Tedesca e Filologia Germanica all’Università di Lecce e riallacciare quindi quel cordone ombelicale mai reciso con la sua piccola patria, il taurisanese “borgo natìo  (forse perché “I più grandi uomini sono sempre legati al loro secolo da una debolezza” si potrebbe dire con Goethe).

Si trovano nel presente opuscolo  studi su Pirandello, su Aldo Palazzeschi, su Quasimodo e contributi di linguistica. Per avere uno spettro più completo della carriera di un illustre figlio della nostra terra ma cittadino del mondo,  studioso di grande caratura, uomo di alto sentire.

 

Nardò. Dalla chiesa abbaziale alla chiesa cattedrale. Convegno di studi

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CONVEGNO di NARDO’  del 31 maggio e 1° giugno 2013

                          Dalla chiesa abbaziale alla chiesa cattedrale

 

Nardò- Sala Roma (di fronte alla cattedrale). Iscrizione e partecipazione gratuita.

 

  31 maggio 2013 Venerdì ore 9,00 –

   1^ Sessione

– Indirizzi di saluto (vescovo, sindaco, presidente della provincia, etc.)

Incipit: don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò.

Presiede Mario Spedicato (Università del Salento)

Relazioni:

-Benedetto Vetere (Università del Salento), La cattedra vescovile e la bolla d’istituzione

Rosario Jurlaro, (Decano Emerito dei Bibliotecari Pugliesi), La presunta bolla di papa Paolo I del 761

Francesco Panarelli (Università della Basilicata), L’abbazia di Santa Maria di Nardò, una storia istituzionale

Pietro De Leo (Università della Calabria), Dall’ora et labora alla cura fidelium: vescovi neritini paesani e  forestieri tra XV e XVI secolo

Giancarlo Vallone (Università del Salento), I prodigi dell’antiquaria e due vescovi galatinesi di Nardò

 

   31 maggio 2013  Venerdì ore 16, 00

    2^ Sessione

Presiede Rosario Coluccia (Università del Salento)

Relazioni:

-Pasquale Corsi (Università di Bari), Le comunità ellenofone del Salento nel Medioevo.

-Mons. Louis Duval-Arnould (Biblioteca Apostolica Vaticana), Les communautés de moines et chanoines au moyen âge: le cas de Sainte-Marie de Nardò.

-André Jacob (Università di Chieti), Le diocesi di Gallipoli e Nardò tra Greci e Latini.

-Maria Domenica Muci (Università di Lecce), Il copista Giovanni di Nardò e la diffusione dei Tria Syntagmata di Nicola-Nettario di Casole.

-Anna Gaspari (Antonianum, Roma), Greci e francescani nel Salento tardomedievale, con particolare riferimento alla diocesi di Nardò.

-Mons. Michel Berger (Pontificio Istituto Orientale, Roma,), La cripta dell’Arcangelo a Copertino e l’arte bizantina nelle diocesi di Nardò e Gallipoli.

-Roberta Durante (Università di Udine), La cripta di Sant’Antonio nell’agro di Nardò.

-Patrizia Durante (Conservatorio di Lecce), Gaudeat Ecclesia. Tradizione musicale francescana in diocesi di Nardò tra Medioevo ed Età moderna.

 

   1 giugno 2013 Sabato ore 9,00

     3^ Sessione

Presiede Benedetto Vetere (Università del Salento)

Relazioni:

Francesco Danieli (Università del Salento), Catechesi tridentine a Nardò nella pittura di Donato Antonio D’Orlando.

-Maria Rosaria Tamblè (Archivio di Stato di Lecce), La primavera tridentina e l’episcopato di Ambrogio Salvio: 1569-1567.

Maria Luisa Tacelli (Università del Salento), Cesare Bovio, un vescovo post-tridentino

Vittorio Zacchino (Società di Storia Patria),  Antonio de Ferrariis Galateo e sue relazioni con i vescovi neretini

-Giovanni Giangreco (Sovrintendenza Beni Architettonici e Artistici della Puglia), La fabbrica della Cattedrale di Nardò.

-Giancarlo De Pascalis (Università del Salento) La Cattedrale di Nardò e il tessuto urbano: modelli e confronti.

Paolo Vetrugno (Università del Salento),  Classicità e classicismo nella scultura neritina del Cinquecento

Meglio morire zitella!

di Armando Polito

 

L’ispirazione per quanto sto per dire mi è stata data dal recente post Donne d’un tempo da maritare1 di Emilio Rubino, in cui l’autore con dovizia documentaria delinea quello che poteva essere considerato il problema principale della donna fin quasi alla fine del secolo scorso: il matrimonio, più che l’amore …

La poesia che segue, di Francesco Castrignanò, tratta come le altre che ho precedentemente presentato da Cose nosce del 1909, mi è parsa molto interessante perché tenta di ribaltare la consueta posizione della donna (sempre quella di un tempo …) di fronte al rischio di zitellaggio. E così la leggiadra immagine delle farfalle libere e innamorate, da iniziale occasione d’invidia, diventa motivo di compassione e più avanti lo stesso nido, simbolo classico della famiglia, è visto come fonte di dolore per la coppia di uccelli che se lo son costruito. I figli stessi perdono la loro aureola di benedizione del Signore e il verso li fili cchiù crèscinu li pene … è, anche con i suoi efficacissimi puntini di sospensione,  il riassunto di tutta una serie di proverbi popolari su questo tema decisamente inquietanti2. La riflessione consolatoria per cui il restare zitella appare, in fin dei conti, più auspicabile del matrimonio, si stempera, però, nel grido finale (Malidittu l’amore!) che efficacemente riassume il nostro rapporto con un sentimento contraddittorio, al di là dei propositi matrimoniali allora dominanti ed intesi, in qualche modo, come sistemazione … e non solo per la donna). La protagonista della poesia, comunque, appare come una pensatrice originale e rivoluzionaria. Chissà che titolo e sottotitolo avrebbe dato ad un suo libro sul tema (qual è quello della foto di testa, uscito a Modena nel 1996) se avesse avuto la possibilità, in quei tempi, di scriverlo e, ancor più, di pubblicarlo!

 

Chi fosse interessato a conoscere la variazione maschile sul tema, che non prevede il coinvolgimento dei figli per motivi che a breve si capiranno,  può ascoltare la canzone che segue, composta da me (musica e parole, queste ultime in realtà un collage di antichi proverbi) e dall’amico Francesco Carrino (musica); c’è, però, un dettaglio: risale a più di vent’anni dopo … il mio matrimonio e la nascita di Caterina ed Elisabetta e, colpo di scena finale!, oggi, come forse ieri …, non sono sicuro di condividerne il contenuto. Malidittu l’amore!

Prima di cliccare su sempre zzitu attivate gli altoparlanti!

sempre zzitu

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/22/donne-da-maritare/

2 Riporto solo quelli che mi vengono in mente al momento. Qualsiasi integrazione sarà, perciò, graditissima. Tra tutti ritengo il terzo un capolavoro per la sua lapidarietà (quattro parole, sette sillabe), per la similitudine (la filatura della lana)  e per il gioco di parole (fili/filanu).

Ci tene corne tene pane, ci tene figghie femmine cu nno ddica puttane, ci tene fili masculi cu nno dica latri! (Chi ha corna ha pane, chi ha figlie femmine che non dica puttane, chi ha figli maschi che non dica ladri!)

Figghi piccicchi pene piccicche, fili crandi pene crandi (Figli piccoli pene piccole, figli grandi pene grandi).

Li fili ti filanu (I figli ti filano).

Nnu sire mantene tece fili, tece fili no mmanteninu nnu sire (Un padre mantiene dieci figli, dieci figli non mantengono un padre).

Tre so’ li suttili: li monaci, li prieti e cci no ttene fili (Tre sono i furbi: i monaci, i preti e chi non ha figli).

3 Stessa etimologia di polline che è dal latino pòlline(m)=fior di farina, polvere. La voce dialettale potrebbe aver seguito questa trafila: pòlline(m)>*pònnile(m) (metatesi)>*pònnila (regolarizzazione della desinenza)>pònnula; in alternativa più probabile:  da pòllina (plurale del neutro pollen  che è variante del maschile pollis da cui il pòllinem prima citato)>*pònnila (metatesi)>pònnulaPònnula nel dialetto neretino è pure la piccola farfalla in cui si trasforma quando raggiunge lo stadio di adulto la larva del tarlo (Anobium punctatum). La voce è un esempio di metonimia [qui (la protagonista del)l’effetto per la causa] perché il fior di farina, polvere non sarebbe altro che il rosume del tarlo. Pònnula è anche il nome della colla a base di farina usata dai cartapestai, nonché, in generale, una farfallina bianchiccia dei cereali; per questo non è da escludere che il rapporto metonimico sia più genericamente tra il bianco della farina e quello delle ali dell’insetto o della polverina biancastra che sembra ricoprirle. E il ciclo della vita sembra ripetersi pensando a farina>polline>insetto>impollinazione. 

4 Diminutivo di pònnula.

Luigi Cannone, pittore. Dal mito alla contemporaneità

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di Paolo Vincenti

 

Lecce. In un vicolo ritorto della città vecchia sta la bottega atelier di Luigi Cannone pittore. E lì mi porta la mia irrefrenabile  curiosità, in un piccolo spazio che oltre allo studio del pittore ospita l’associazione  H24 Fabrìka, guidata dalla combattiva operatrice culturale Rosanna Gesualdo,  trait d’union fra me e l’artista Cannone.

Luigi è persona modesta e non molto loquace che lascia parlare le proprie opere,  in questo avamposto urbano di passione e creatività, fumo e cultura, vino e arte, incontri e convivialità, che è il piccolo contenitore culturale che mi accoglie, in vico Dietro Spedale Pellegrini, 29/a.

Luigi, non so se per calcolata scelta o per l’istinto del momento, ha deciso di farmi ammirare due cicli pittorici: quello delle sirene e quello delle torture. Sistema le sue opere sulle panchine di pietra e nelle rientranze delle pareti della bottega  a formare quasi un tondo, un semicerchio magico nel quale sarei rinchiuso se non fosse per una parete, quella dov’è la porta,  rimasta vuota  e dove intanto Rosanna  conversa con altri avventori, ospiti dello studio.

Luigi Cannone, leccese, classe 1955, ha iniziato a dipingere giovanissimo. E’ docente di Arte e Immagine nelle suole medie  e , tra personali e collettive, vanta oltre quaranta esposizioni, tenutesi in giro per l’Italia. Nella sua pittura dominano i colori azzurro e blu e le tematiche trattate sono le più varie ma in particolare colpiscono il tema erotico e quello onirico-fiabesco.

Appassionato di fotografia e anche di arte antica, in particolare bizantina, so che realizza ottime icone con tecniche tradizionali.

Ma veniamo alle sirene. Mi sembra una tipica pittura d’ispirazione preraffaellita, con venature romantiche. In queste pitture, i colori vertono sul binomio  blu- arancio oppure sul  viola-giallo, il gioco luci -ombre è suggestivo e attraente. Cannone si serve dei miti classici per calare nella nostra contemporaneità un messaggio che potrebbe avere del simbolico, come potrebbe essere messaggio sociale-civile;  ma potrebbe anche essere, la sua, totale resa all’estetismo puro, alla Ruskin,  senza alcuno scopo precostituito, come dire  “l’arte per l’arte”, per usare un’espressione di Oscar Wilde simbolo di quel movimento artistico del secondo Ottocento.

Scrive Ivan Serra: “Pittore di solida classicità, Luigi Cannone esalta composizioni di vigorosa precisione mediante tagli di colore limpido e luminoso con i quali accarezza e suggerisce le linee di forza dei suoi quadri.
Per Cannone il mondo è un luogo in cui cromatismo e linearità si intersecano e dialogano fra di loro con energica e poetica dialettica. Sfumature di colore, lancinanti e melliflue, innervano un’opera che costruisce la sua suggestione su di un tessuto compositivo articolato attraverso effetti cangianti di colore.”

Il mito delle sirene affascina gli uomini fin dalla notte dei tempi.  Figure femminili metà donna e metà uccello: così si presentavano nelle antichissime mitologie pre-greche,  e in questa forma appaiono nell’ “Odissea” di Omero ad Ulisse che, grazie ai consigli ricevuti dalla maga Circe, riesce ad attraversare indenne quel tratto di mare insidiato dalla loro presenza. Figlie del dio fluviale Acheloo, infatti, queste sirene erano esseri pericolosi per i naviganti i quali, allettati dal loro canto, perdevano il controllo delle navi ed andavano a sbattere sugli scogli dove venivano divorati dalle voraci creature. Ulisse riesce però con un abile stratagemma a superare il loro  pericolo, come testimonia l’ immagine raffigurata su un vaso attico di Vulci risalente alla metà del IV secolo a.C., in cui si vedono Ulisse legato all’albero della nave e questi uccelli dalla testa di donna precipitare irrimediabilmente in mare (ma potrei citare anche il dipinto di J.W. Waterhouse, del 1891, che riporta lo stesso episodio, tanto per rimanere nella tradizione preraffaellita nella quale mi è piaciuto inscrivere Cannone). Secondo la leggenda, è proprio in seguito a questo episodio che le sirene (che comparivano già nel mito degli “Argonauti”, poi ripreso da Apollonio Rodio), da esseri a forma di uccello assumono la forma di pesci,  forma nella quale siamo abituati a conoscerle e della quale si è impossessata tutta la cinematografia contemporanea nei numerosi  film alle sirene dedicati. Nei bestiari medievali le sirene sono rappresentate sempre come esseri metà donne metà pesce  ( e in questa forma ittimorfa sono raffigurate nel celebre episodio dell’Odissea da un altro pittore preraffaellita, H.J. Draper, nel 1909). Nella letteratura moderna, da esseri demoniaci, simili ad arpie, queste dee assumono infinite connotazioni, come quella sensuale, e significati aggiunti. Guadagnano quindi valenza benefica, positiva, come nella celebre fiaba di Andersen, “La sirenetta”, del 1836.

Ulisse e le Sirene di Herbert James
Ulisse e le Sirene di Herbert James

Ma le sirene sono anche legate al nostro Salento. Infatti secondo un’altra tradizione, riportata da Licòfrone di Calcide (IV-III sec. a. C.) nel suo poema “Alessandra”, dopo essere state sconfitte da Ulisse, le tre sirene incantatrici, Partenope, Leucasia e Ligea, terminarono la loro vita nelle acque del Tirreno, mutando la loro natura prima di morire e dando così origine a tre diverse città. Partenope diede origine a Napoli, Leucasia, naufragando nel profondo Salento,  diede origine alla nostra Leuca, Ligea invece andò a naufragare nel golfo di Santa Eufemia in Calabria. Questa versione del mito risponde alla tradizione orfica del  katapontismòs, secondo cui il tuffo avrebbe trasformato le strane creature in rupi.

Le sirene di Cannone sono una figura simbolica, rappresentano l’ archetipo femminile primordiale e, per il pittore, simboleggiano l’attrazione fatale, con il loro canto ammaliatore, il piacere dietro cui si nascondono tante insidie. La scelta è fra restare attaccati alla ragione, come all’albero della nave Ulisse, oppure seguire il loro desiderio e lasciarsi andare alla perdizione. Seguire la propria fantasia, l’immaginazione erotica sottesa ai dipinti di Cannone, può voler dire infatti diventare vittima dell’inganno delle passioni. Il rischio è alto, commisurato alla posta in gioco.

Del nostro artista, scrive Silvia Cazzato: “…che accanto alla grande ricchezza interiore dell’uomo Cannone vi sia una particolare rilevanza delle tecniche pittoriche che si evolvono senza essere sperimentalistiche ad ogni costo. Crediamo che siano questi i requisiti che fanno di una persona che dipinge… un artista”. E ancora: “ Dall’analisi della produzione pittorica si può dedurre quanto Luigi Cannone sia esempio autorevole di come si possa avere padronanza dei principi estetici e attingere alle profondità della poesia, pur restando ancorati a più tematiche ”, afferma Alfredo Noccia.

Il secondo tema trattato è quello delle torture, con tante donne nude, dalle giunoniche forme, tutte legate da sottili fili di nastro rosa o azzurro a far da leit motiv fra le opere. Ma questa tematica, se non fosse per quella galleria di strumenti da tortura non a caso relegati in un apposito dipinto, mi sembra magari vicina al fetish o al bondage e alle pratiche sadomaso, con gli espliciti riferimenti erotici che quelle carni voluttuose suggeriscono, piuttosto che a torture vere e proprie (penso al ciclo di Abu Ghraib di Botero, per restare ad un contemporaneo). Mentre  mi aggiro nel semicerchio magico  e fotografo le opere, Rosanna Gesualdo, protettrice delle arti e promotrice della pittura di Cannone, sembra approvare e benedire il nostro incontro. Ma intanto il negramaro nei bicchieri è finito e così anche il mio tempo di questa recensione.

 

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

 

A PROPOSITO DELLA ANATOMIA DEGL’IPOCRITI

DI A. T. ARCUDI

 

galatina letterata

di Giovanni Vincenti

Era già stata rilevata l’esistenza di una doppia edizione dell’operetta Galatina Letterata composta dall’erudito galatino fra’ Alessandro Tomaso Arcudi (1655-1718) e pubblicata il 1709. Non si trattò tuttavia «di una prima insoddisfacente sul piano formale seguita da una seconda migliorata e corretta»1, ma di una mera ristampa del solo frontespizio che presentava un evidente errore nel nome del dedicatario: “D. Filippo / Romualdo Orsino, / Duca di Gravina, Prencipe di Solo- / fra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 1], corretto in “D. Filippo / Bernualdo Orsino, / Grande di Spagna di Prima Classe / Duca di Gravina, Prencipe di So- / lofra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 2]. Da una comparazione approfondita, i due testi sembrano perfettamente identici.

Ma simile malasorte pare sia toccata, come si cercherà di dimostrare, al un’altra opera dell’Arcudi, l’Anatomia degl’Ipocriti pubblicata «sotto nome anagrammatico diCandido Malasorte Ussaro». Era stato lo stesso stampatore veneziano Girolamo Albrizzi ad anticipare, il 1697, con una sua nota apparsa ne La Galleria di Minerva, la notizia della imminente pubblicazione della Anatomia opera «di novella invenzione, piena d’erudizione sacra e profana, copiosa di dottrine e di scritture» rivelando altresì che «il vero autore di quest’opera che si trova sotto il mio torchio, sia P. Alessandro Tomaso Arcudi dell’Ordine de’ Predicatori»2.

Un trattato massiccio ed interminabile che, dedicato al teologo e cardinale agostiniano fra’ Enrico de Noris (1631-1704)3, vide la luce il 1699 «non ostante l’infelicità della Stampa, ed infedeltà dello Stampatore»4, nel quale il padre Arcudi distende su un metaforico lettino anatomico l’Ipocrisia e la seziona in ogni sua minima parte. Nell’opera «si rispecchia già tutt’intera una vita, in modo compatto e coerente spesa per il proprio ideale di santità e condotta fra amarezze e delusioni, insofferenze mordaci e inghiottite rassegnazioni, reazioni a mala pena frenate ed esplosioni d’indignazione»5.

Sull’infelicità della stampa già lo stesso autore, nella pagina a chi legge, consapevolmente aveva avvertito: «La Malasorte dell’Autore è stata ereditata dal libro. E’ solito infortunio delle stampe qualche difetto di ortografia, e di sillaba: ma di questo figlio sventurato non può dire il Venusino: Egregio inspersor reprendas corpore naevos: mentre non solo di nei, ma di brutti tagli porta sfregiato il volto, e le membra: più che non ha l’Autore tirati all’Ipocrisia. Il semplice titolo che portava d’Anatomia de gl’Ipocriti, crebbe così ampolloso, e farisaico, che l’Autore à primo aspetto dubitarebbe se questo fusse il suo libro. Si mutino almeno così tre righe del frontespizio. Illustrata colle divine Scritture, Sancti Padri, e Scrittori profani. Il bellissimo fregio dell’Indice, col nome d’Anatomia del Libro, corrispondente a gli numeri, che tu vedi nelle margini in faccia de’ Capiversi, l’è stato tolto non so perché, con non ordinario del Padre suo, la cui lontananza dà Venezia fino all’estrema punta dell’Italia, è stata la cagione d’ogni dissordine. Io compassionando le sue disgrazie, ho medicato le piaghe più ampie, e risarcite le vesti più lacere in tutti quei volumi che sono capitati nelle mie mani. Gl’errori di mano conto non pregiudicano alla sua intelligenza. Prega il Cielo, che l’altre opre dell’Autore non avessero la sempre sua mala sorte»6. E più avanti ribadiva: «Non mi arrossisco confessare molti errori in quest’opra […]. Vero è che molti errori son della stampa, e non minori della mia penna, perché l’intelletto applicato alla sostanza, non ha possuto con accuratezza attendere alle parole»7.

L’espressione infedeltà dello Stampatore usata dall’Arcudi, poco chiara, sin qui, ora assume significato nuovo dopo il rinvenimento di una seconda edizione dell’Anatomia. Consideriamo i due frontespizi, il primo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / In Dieciotto Membri Divisa / Opera Nuova / Illustrata col testimonio infallibile del Pentateuco, Santi / Evangelii, Atti Apostolici, e di Moltissimi / Santi Padri Ecumenici. / Utilissima à Predicatori della Verità Evangelica, con varie / e peregrine Interpretazioni de Sacri Testi. / A’ Confusione dell’Ipocrisia de’ moderni Farisei. / Consacrata / All’Eminentiss.mo e Reverendiss.mo Principe, e Sig. / Il Signor CARD. FRA’ ENRICO / DE NORIS / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori” [fig. 3], mentre il secondo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / Opera / Utilissima à Predicatori Evangelici; Illustrata con varie, e / Peregrine Interpretazioni de Sacri Testià confusionedell’Ipocrisia d’Oggidì. / Consacrata / All’Illustriss. e Reverendiss. Sig. il Signor / LIVIO LANTHIERI / Conte del S.R.I. Libero Barone di Schenhaus, e Baum- / chirchenturn; Copiere ereditario di S. M. Cesarea / nell’Illustriss. Contado di Gorizia; Signore / di Vipaco, & Raifemberg, &c. / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori “ [fig. 4].

Ma le differenze proseguono anche all’interno del libro. Lo stampatore infedele infatti, elimina le cinque pagine dedicatorie All’Eminentiss.mo Signore il Sig. Card. Enrico de Noris firmate dall’«Umilissimo ed Obligatissimo Servo Candido Malasorte Ussaro» e datate S. Pietro in Galatina, li 8 luglio 1699, la nota critica Graziano Dissamato a chi legge e le tre pagine di errata Corrige. Queste vengono sostituite con una lettera dedicatoria al conte Livio Lanthieri con la quale «consacrare à V. S. Illustrissima questa Anatomia degl’Ipocriti, come figlia delle mie Stampe», firmata dall’«Umiliss. Osseq. Riveritisi. Servo Girolamo Albrizzi» e datata Venezia, li 14 luglio 1699, con un Sonetto [fig. 5] ed un Madrigale di un anonimo Accademico Gelato Agli Ipocriti per il viaggio dell’Inferno [fig. 6].

L’Anatomia degl’Ipocriti – scrive l’Arcudi il 1709 – fu «ricevuta con tanta grazia (gloria a Dio) da letterati di Europa: e lo confessano le lettere scrittemi da molte parti d’Italia: e tanto avidamente letta da gl’eruditi: […] comparve appena nella mia Patria, che un nasuto fermando la pupilla su la coperta, cercò censurare la Grammatica del suo titolo: asserendo con pedantesca prosopopea, benché non pedante di professione; ch’io non dovevo scrivere Anatomia, ma Notomia. Se costui fusse stato Cirusico, e non Leggista, accetterei la censura, e ad imitazione di Apelle corretto il titolo: ma nec sutor ultra crepitam. Credendo far il Dottore appresso gl’idioti, si palesò idiota appresso i dotti. Non intese questo novello Asinio quanto più spiegativo, e proprio all’invenzione di quel Volume fusse il vocabolo Anatomia, secondo l’etimologia della Grecia; la quale al Lazio prestò il nome. Non intese, quanto più maestoso era il titolo di Anatomia, che cominciando, e finendo colla più sonora, più squillante, più bella, e perciò prima lettera dell’Alfabeto; e replicandosi nella seconda sillaba: con dar bando alla O, di suono men naturale, e men dolce: empiva l’occhio a vederla, e l’orecchia a sentirla, con maggior simpatia: come primogenito parto dell’anima, (così la chiama l’eruditissimo, ed ingegnoso Tesauro) e prima lezione insegnatagli nascenti bambini dalla natura. Onde questo vocabolo appare sul frontespicio del libro come Re sedente sul Trono: non come Notomia, bastardo fantaccino, che da se stesso si scopre, e si vergogna. Perché il Critico, aveva letto Notomia in qualche moderno: senza penetrar più dentro alla forza, e proprietà della voce; per non avere salutato, che i primi vestiboli della Grammatica; credette aver detto assai, quando sapea tanto poco. Ma la censura non è degna di risposta, ma di risate. Tanto è vero, che il compiacere a tutti chi scrive, non solamente è difficile, ma eziandio impossibile. Né questa è la prima volta, che omnibus, et verbis nostris insidiatus, et sillabis: come appresso l’Angelico mio Dottore, 2.2.q.II.a.2.ad.2. scrisse il Pontefice S. Leone a Proterio Vescovo Alessandrino»8.

Qui emerge prorompente tutta la vis polemica del nostro padre fra’ Alessandro Tomaso Arcudi predicatore.

 

 

1G.L. De Mitri – G. Manna, Presentazione a A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, rist. anastatica, Maglie 1993, p. XII.

2 Cfr. G. Albrizzi, Anatomia degl’Ipocriti di Candido Malasorte Ussaro, ne “La Galleria di Minerva”, Venezia 1697, II, p. 306-307.

3A.T. Arcudi, S. Atanasio Magno, Lecce 1714, p. 272.

4A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, pp. 12-14.

5 M. Marti, Schizzo di un minore letterato insofferente e geniale: Alessandro Tomaso Arcudi di Galatina, in “Urbs Galatina”, II, 1993, 1 (gennaio-giugno), p. 170.

6A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti, Venezia 1699.

7A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti etc., cit., p. 15.

8A.T. Arcudi, Galatina Letterata etc., cit., pp. 12-14

Donne d’un tempo da maritare

cranineddha 1

Cosa erano costrette a fare le giovani d’un tempo

Donne da maritare

di Emilio Rubino

Il sogno o il bisogno di avere un uomo tutto per sé inizia a essere avvertito dalle ragazze ancor prima di raggiungere l’età puberale. Infatti, già nella pre-pubertà, la bambina si pone il problema di sapere come nascono i bambini e non è raro che si metta a fare la mamma o la moglie. Quando, poi, l’adolescente comincia a “mpizzutare” (età puberale), quei primi larvati desideri si tramutano in bisogni concreti e assillanti alla ricerca dell’uomo della propria vita.

Ma come procurarselo?

Per arrivare a ciò ogni donna fa ricorso a mille e mille espedienti. D’altra parte, l’esempio della mela con cui Eva ammaliò e sedusse l’ingenuo Adamo è sufficiente a spiegare le armi della seduzione utilizzate dalle donne.

Oggi è molto facile “rimorchiare” un uomo: basta fare gli occhi languidi e vogliosi, una strizzatina d’occhio, un gesto inusuale ma mirato, per fare abboccare il “fiero” maschio. Basta mandare un semplice sms o una mail per arrivare subito al “quantum”. Ma, ieri, quando la società era prevalentemente contadina e involuta, tra maschio e femmina non vi era la possibilità di incontrarsi liberamente e di scambiarsi le rispettive emozioni, perché le ragazze vivevano da recluse le loro giornate entro le “quattro mura di casa”. Per tale motivo progettavano con rabbia propositi vendicativi verso i genitori, e, in modo particolare, verso la madre carceriera. Una simpatica poesiola neritina ne giustifica la portata.

Tegnu ‘na mamma tantu telicata

ca no’ mi lassa nu mumentu sola:

vae alla chiesia e mi tene sirrata

comu nu ceddhru chiusu alla caggiola,

ma ci quarche fiata

ccappa ca mi lassa sola

‘acante fazzu bbacchia la caggiola!

In questi versi si nota il deludente risultato di una rigida e assurda condizione di vita, in cui l’uomo, tra angherie e tabù, era considerato un “pericoloso cacciatore” di donne.

Da qui il bisogno di isolare i due sessi in casa: la stanza delle figlie era nella zona più lontana, a tutela degli sguardi e delle voglie dei maschi. Ciò, però, era possibile solo quando l’ambiente-casa lo poteva permettere, altrimenti bisognava rischiare eventuali incesti. Anche in chiesa gli uomini venivano sistemati da un lato della navata e le donne dall’altro con l’imperioso divieto di comunicare con gesti o anche sguardi. A scuola la situazione non cambiava, anzi peggiorava: vi erano classi maschili e classi femminili, situate rispettivamente in corridoi diversi e i cui insegnanti erano rigidamente dello stesso sesso degli alunni. Roba d’altro mondo!

E gli uomini, che facevano, cosa dicevano? Non è poi vero che siano stati tutti mascalzoni, da cui guardarsi e tenersi lontano. Al contrario, bisognava solo saperli prendere, plasmarli, curarli e amarli.

E le donne? Sempre in maggioranza numerica rispetto agli uomini, in tante rischiavano di restare zitelle e di sentirle cantare lamentosamente:

“E mo spiccia ca sole ristamu

senza mancu cu llu pruamu!”.

Stante questa assurda situazione, la fantasia popolare faceva ricorso a sistemi molto strani e bizzarri grazie ai quali una ragazza poteva prevedere il suo futuro. Ad esempio, il 23 giugno, vigilia del giorno dedicato a San Giovanni Battista, le ragazze, dopo aver raccolto in campagna un “cardunceddhru”, lo passavano velocemente tre volte sulla fiamma viva. Se all’indomani mattina il fiore non era “ammosciato” era un buon presagio, per cui la ragazza avrebbe trovato quanto prima marito, viceversa sarebbe rimasta nubile.

Nonostante questa e altre trovate folcloristiche e nonostante la bellezza di certe donne, spesso accadeva che dei tanto invocati spasimanti non si vedesse traccia, neanche a pagarli a peso d’oro. Erano proprio le belle donne a soffrire le pene dell’inferno e a essere anche schernite.

Beddhre, beddhre, piccete sta’ chiangiti?

mo ci li brutte sontu tutte mmaritate

s’onu pigghiatu li cchiù bbeddhri zziti

e b’onu lassatu li cchiù scartiddhrati!”.

Oltre a San Giovanni Battista, altri santi venivano supplicati per una fattiva intercessione nelle faccende d’amore.

“Sciati addhrà Santu Nicola

e scià chiangiti,

‘na cràzzia cu’ llu core li circati:

Santu Nicola, ci no’ ndi mmariti

paternosci ti nui no’ ndi spittare!”.

Più che un’invocazione era un avvertimento.

Ma l’uomo, il marito, il dispensatore di felicità, come sarà?

Ogni ragazza sognava a 360 gradi e si chiedeva: “Avrò un marito bello oppure brutto?… sarà ricco o povero?… sarà un contadino o un artigiano?… un impiegato o un carabiniere”. Insomma ogni ragazza non smetteva mai di sognare!

Il destino, a volte, riservava sorprese negative, come nel gioco della “pesca reale”. Le ragazze usavano lanciare un sasso in strada, augurandosi che il futuro marito svolgesse la stessa attività del primo uomo che passava dopo il lancio della pietra, accompagnato dalla preghiera:

“Pi’ San Piethru, pi’ San Po’

menu la petra a ci passa mo’”.

Un altro sistema per predire se nel proprio futuro ci fosse un marito, era quello di fondere del piombo e di versarlo in una bacinella piena d’acqua fredda. Solidificandosi, il piombo assumeva varie forme e con un po’ di fantasia si poteva intravvedere la forma di una zappa, di una falce o di un vomere, attrezzi tipici del contadino, oppure una forma di pialla, il che richiamava l’idea del falegname, o di un rasoio o di un pennello, per un marito barbiere, o infine una cattedra, per un marito professore, banchiere o notaio.

Un’altra bizzarra trovata era quella di mettere sotto il guanciale tre fave: una con la buccia, una sbucciata e la terza priva dell’occhio gemmario. Al risveglio la ragazza doveva “pescare” a caso una delle tre fave, senza ovviamente sollevare il cuscino. Se la ragazza avesse pescato quella con la buccia, il suo futuro marito sarebbe stato ricco e l’avrebbe ricoperta di ogni ben di Dio, se avesse prelevato la fava priva della gemma, il marito sarebbe stato così e così, mentre se avesse, ahilei, scelto quella senza buccia, il futuro sposo sarebbe stato un poveraccio, forse anche privo di… mutande.

Infine, un segnale inequivocabile lanciato dalle ragazze neritine era quello di fasciarsi, all’arrivo delle prime mestruazioni, la caviglia destra con una benda per indicare chiaramente di aver raggiunto lo stato di fertilità e quindi far sapere all’intera città di essere già pronta al matrimonio. Una specie di sms “gratuito” inviato a tutti i maschi, belli e brutti.

Oggi le ragazze in amore si comportano in modo molto diverso. Sono intraprendenti, sfacciate, protagoniste della propria vita, anticipano le mosse dei maschietti.

Tutto ciò a dimostrazione che è ormai è stata raggiunta la completa parità dei sessi, almeno in questo ambito. Però, in tutta onestà, è venuto meno quel gran rituale d’un tempo, quando il maschio ricorreva ad ogni mezzo, soffriva, scalpitava, si addolorava, piangeva per conquistare una donna. Lei, invece, forse perché diffidente e insicura, si concedeva a lui poco per volta, sino a costringerlo a dimostrare i propri sentimenti con una pubblica dichiarazione di amore. Ma quelli erano ben altri tempi, molto distanti da quelli attuali. Allora i sistemi di vita erano medievali e assurdi, anche se romantici e sentimentali;  oggi, in piena età moderna e futuristica, sono soltanto goderecci e consumistici.

 

Studia, bardascia! (Studia, giovanotto!)

di Armando Polito

Ai  genitori qui raffigurati era stata posta la domanda:“Per svolgere quale professione suo figlio sta studiando?”
Ai genitori qui raffigurati era stata posta la domanda: “Per svolgere quale professione suo figlio sta studiando?”

 

L’esortazione del titolo è di altri tempi … ma ha da passà ‘a nuttata!

L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. Così esordisce la nostra Costituzione da molti considerata per alcuni aspetti superata e da riformare. Tutti, però, sono d’accordo a conservare il primo articolo così come fu formulato senza rendersi conto che, se proprio non si vuole cambiare in L’Italia è una repubblica pseudodemocratica fondata sul latrocinio e gli intrallazzi, non esiste altro rimedio se non darsi da fare per rispettare il primo comma dell’articolo 4 (La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto). Come in questi ultimi decenni sia stato fatto da chi doveva è sotto gli occhi di tutti. La crisi, poi, è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso troppo pieno di quella melma che ora rischia di travolgerci.

Al di là dell’indecoroso balletto di dati statistici propinatici quotidianamente, al di là di sondaggi che più che tastare il polso alla situazione sembrano tentare maldestramente, anche attraverso i contorsionismi verbali e concettuali delle domande, di ridimensionare l’insostenibilità dello stallo, anzi,  della caduta attuale, al di là di economisti più o meno autoilluminati che propongono soluzioni contraddittorie, la tragedia più grande, perché è la madre di possibili sviluppi ancora più nefasti, è la mancanza di lavoro.

E se, relativamente al sacrificio,  per un adulto della generazione precedente la mia, per la quale esso era un’attitudine, non sarà certo facile farlo diventare nemmeno un’abitudine,  col rischio corrente di passare dal lavoro più o meno sicuro alla precarietà o, peggio, alla disoccupazione, non è difficile immaginare la condizione, anche psicologica, dei più giovani cresciuti ed educati dal consumismo e dai valori subliminali e non sublimi trasmessi da certi programmi televisivi, dal leccaculismo che ha affossato il merito e portato sul miserabile altare del potere disonesti e incompetenti, incapaci perfino di scrivere correttamente un disegno di legge …

Purtroppo è vero che i migliori se ne vanno … all’estero, condannando per responsabilità, anzi irresponsabilità altrui, il nostro paese a non avere un futuro.

Rimane, indomabile, la speranza eduardiana che la notte passerà e ci appigliamo in più alla visione vichiana della storia e al dubbio che il presente probabilmente all’uomo è sempre apparso più spaventoso in quanto vissuto personalmente e non filtrato dal tempo.

E poi, pur dubitando che  tutto il  mondo è paese, siamo proprio sicuri che anche sotto quest’aspetto il passato fosse migliore e che, invece, non valga il niente di nuovo sotto il sole d’Italia?

Il dubbio lo fa venire la lettura di un’altra poesia di Francesco Castrignanò1, ma è un dubbio che dura poco: se, infatti, le distrazioni giovanili  lì ricordate (andare a caccia di uccelli, salire sugli alberi, rubare fichi) possono essere molto forzatamente assimilabili a quelle dei nostri tempi (tv, discoteca, videogiochi … e  mi fermo qui) l’importanza dell’istruzione ricordata al ragazzo protagonista della poesia trova sì un  corrispettivo, ma  amaramente paradossale, nei nostri tempi. Come si fa a dire che la cultura (che è figlia dell’istruzione) è scarsamente considerata quando, per reagire a modo loro ad un evidente complesso di inferiorità, persone pubbliche col pubblico denaro si procurano uno o più diplomi (meglio abbondare, anche se si resta deficienti …), una o più lauree e questo o quel master e personaggi dell’intellighenzia televisiva ne millantano il possesso?

Così, però, la nottata metaforica  promette di essere, rispetto al giorno,  infinitamente più lunga di quella astronomica …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/10/nardo-vista-da-un-poeta-del-primo-novecento-tasse-incluse/

2 Dall’arabo bardaǵ =giovane schiavo; anticamente bardasso era sinonimo di giovane depravato e di tendenze omosessuali; successivamente bardasso (o bardascio) e bardassa nell’uso regionale furono sinonimo di ragazzetto o ragazzetta in genere (senza connotazione spregiativa). Probabilmente il bardascia neretino (che sembra variante di bardassa) conserva, nella sua forma femminile, il ricordo della negatività del significato originario ed è una testimonianza di quello che, in riferimento ad altre voci, ho avuto occasione di chiamare maschilismo linguistico.

3 Dal greco moderno κουκουβάγια (leggi cucubàghia), dal classico κικκαβάζω(leggi chiccabazo)=squittire (della civetta), a sua volta da κικκαβαῦ (leggi chiccabàu), il verso della civetta, di origine onomatopeica.

4) Da fitire, dal latino foetère.

5 Ho tradotto strìnculu con capriccio per brevità; in realtà la voce definisce il riso smodato al quale spesso, senza apparente ragione, si abbandonavano i ragazzini. Sull’etimo di strìnculu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/19/strinculu-c-metafore-animalesche-o-idiozia-umana/

6 Forse dal campano guagnì=piagnucolare, di origine onomatopeica.

7 Stessa origine di capitombolo (da capo+tombolare, dall’antico tombare=cadere,  affine al francese tomber) con sostituzione del capo con il culo e epentesi espressiva di –r-.

8 Dal latino quod velles=quello che tu voglia.

9 Imperativo di minàre (stessa etimologia dall’italiano menàre, che è dal latino tardo minare=spingere un animale a furia di grida e di frustate, a sua volta dal classico minari=minacciare). Minàre nel dialetto neretino è usato solo nel significato di buttar via (aggiu minatu li mundezze=ho buttato la spazzatura) e in forma riflessiva in  quello, meno energico, di adagiarsi stanco sul letto o affini (sta vvò mi menu nnu picca=sto andando a riposarmi per un po’) e l’imperativo mena, come in questa poesia,  anche come invito a sbrigarsi.

10 Da manisciare (alla lettera darsi da fare con le mani) usato sempre riflessivamente. Corrisponde formalmente all’italiano maneggiare ed ha lo stesso etimo (da mano). Per il suffisso –isciare vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/22/un-relitto-greco-in-latino-in-italiano-e-in-neretino/

11 Mentre l’italiano schioppo è dal latino scloppu(m) di origine onomatopeica, scuppètta appare trascrizione del francese escopette, forma diminutiva con la stessa indicata etimologia di schioppo.

12 Di origine onomatopeica.

13 Da ritiddhicare, forma intensiva dell’italiano titillare (che è, tal quale, dal latino titillare) con sostituzione in testa di t– con r– forse per incrocio con la particella ripetitiva re-.

14 A due km. circa dal centro abitato, sulla provinciale che collega Nardò alla statale Lecce-Gallipoli. Nei paraggi c’è la masseria fortificata Castelli Arene.

15 Zona a 2 km. a sud-ovest di Nardò  in cui sorgeva l’abazia di  S. Angelo della Salute.

16 La zona, anche questa a circa due km. dall’abitato, prende il nome dalla chiesetta di Santa Maria della Grotta. Per chi volesse saperne di più:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/note-storiche-e-decrittive-della-chiesetta-di-santa-maria-della-grotta-in-agro-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/non-ci-sono-alibi-2/

17 Da riccugghire, per il cui etimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/16/cugghire-ccugghire-e-riccugghire/

18 Da ddiscitare, che è dal latino excitare=svegliare, con aggiunta in testa della preposizione de.

19 Qui il letterato ha preso il sopravvento con un’improbabile, per quanto riguarda l’uso, traduzione dialettale della nota locuzione latina che dall’originario significato di tavoletta per scrivere, la cui cera è stata rasata (con cancellazione, dunque, di ogni nota prima impressa) è passata ad indicare persona del tutto priva di cognizioni in un dato campo e, estensivamente, testa vuota.

Senza additivi, correttori del gusto e conservanti … una volta, oggi non si sa.

di Armando Polito

 

Da noi comincia a spopolare il suo succo, ma in altri paesi, come Armenia, Israele  e Turchia è abbastanza diffuso il consumo del suo vino, anche se sarebbe più corretto chiamarlo salsa, visto che viene utilizzato su insalate, come noi facciamo con l’aceto, aromatico e non, formaggi, come noi  salentini facciamo con il cuettu (vin cotto) sulla ricotta, o frutta fresca.

Sto parlando della melagrana. Il suo vino, però, non è un’invenzione recente. Anche se è facile immaginare che sia molto antica, tuttavia la più datata testimonianza, almeno quella che io conosco come tale, sul metodo di preparazione risale al IV secolo d. C. e la dobbiamo a Rutilio Paolo Emiliano Palladio (De re rustica, IV, 19): Vinum de malis granatis conficies hoc modo: grana matura purgata diligenter in palmea fiscella mittes et in cochlea exprimes et lente coques usque ad medietatem: cum refrixerit, picatis et gypsatis vasculis claudes. Aliqui succum non excoquunt sed singulis sextariis libra mellis singulas miscent, et in praedictis vasculis ponunt et custodiunt  (Ricaverai in questo modo il vino dalle melagrane: metterai in un cestello fatto con foglie di palma i grani maturi accuratamente puliti, li spremerai in una coppae li cuocerai lentamente finché non si riducono a metà; dopo aver fatto raffreddare il tutto lo chiuderai in vasetti sigillati con pece e gesso. Alcuni non cuociono il succo ma per ogni sestario mescolano una libbra di miele e lo mettono e conservano nei predetti vasetti).

Questo post mi è stato ispirato dal nostro Marcello Gaballo con una sua specifica domanda che mi ha fatto ricordare di una certa bottiglietta portatami tre anni fa dalla Turchia da mia figlia Caterina. L’ho trovata ed è quella che campeggia nella foto di testa. Questa sera me la scolerò alla salute di chi legge e anche alla mia, nonostante sia scaduta da più di un anno …

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1 Nel latino classico il cucchiaio era còchlear o cochleare (da còchlea=guscio di lumaca), strumento sicuramente di piccole dimensioni, utilizzato per estrarre le lumache dal guscio.  Il nostro cucchiaio è dal latino medioevale cochleàriu(m) o cocleàriu(m), forma aggettivale sostantivata che, però, nel latino classico significava allevamento di chiocciole. Qui il nostro autore usa addirittura la madre di tutti (còchlea) nel significato di cucchiaio, naturalmente di dimensioni maggiori rispetto all’antenato o, più verosimilment,e anticipa il significato di vaso per bere, coppa, che còchlea assumerà in epoca medioevale.

 

 

Lecce, un giorno di tarda primavera

scioping

di Gianni Ferraris

 

Passeggiando per Lecce, un giorno di tarda primavera, ci sono turisti che sciamano, gruppi con fotocamere, abbigliamento d’ordinanza da turista: i signori in pantaloni che arrivano al polpaccio, molto spesso calzettoni  al ginocchio che rendono, oltre che orrendi da vedere, assolutamente inutili i pantaloni finto corti. Le signore normalmente, escluse alcune ammirevoli eccezioni, hanno più aplomb. Comunque Lecce dovrebbe vivere di turismo, anche questo lo ripetiamo ad ogni piè sospinto. Tuttavia ci sono amministratori che ritengono, che il barocco, i palazzi antichi, il centro storico, siano cosa altra, diversa, avulsa dalla città tutta. Per meglio capire il concetto, se esiste un patrimonio culturale ed artistico notevole, questo rimane un’isola attorno alla quale il mare può essere sporco, inquinato, maltrattato, pieno di rifiuti e lasciato al degrado. Così non è, se vedo un mare simile prima di sbarcare sull’isola  arriverò prevenuto e disgustato. Il problema è che piccoli episodi (apparentemente piccoli) creano disagio fra gli stessi abitanti della città sicuramente più bella del centro sud. L’approssimazione regna sovrana. Accanto all’Hotel President, il più grande vicino al centro storico e frequentatissimo da comitive che hanno pagato anche la tassa di soggiorno alle scassate casse comunali, c’è una piazzetta. Il nome non esiste, ho dovuto chiedere ai commercianti per sapere che si chiama Piazzetta Alleanza. Va bene, il pre dissesto consiglia di risparmiare anche sulle targhe. Lì si affacciano Bar e negozi vari e dovrebbe essere un biglietto da visita per i turisti che vanno verso il centro storico, normalmente a piedi vista la vicinanza. Ed era anche un posto di sosta per i leccesi che vanno verso lo scioping (non è un refuso, è scritto così da un giovane burlone sulle palizzate che coprono da almeno sei anni il teatro Apollo). In quella piazzetta ci sono, meglio, c’erano quattro panchine, neppure troppo belle, in ferro dipinto di nero, ebbene, tre delle quattro sono inutilizzabili perché rotte da almeno un anno. I

panchine

n fotografia se ne vedono due solamente. Sull’unica ancora viva c’erano quattro persone e non era bello starle a fotografare. Evidentemente le panchine servono.  Il turista che passeggia si chiede come mai la sua tassa di soggiorno non possa servire anche per rendere dignitosa la città. Mistero. Comunque la cura del verde è ineccepibile nella città barocca, accanto alle panchine è piantato in terra un cartello che dice testualmente che nelle aiole (accanto alle ex panchine) “è vietato introurre anali e calpestare uole”. Più chiaro di così…

aiuole

Leggende salentine tra Giuggianello, Roca e Leuca

ph Donato Santoro
ph Donato Santoro

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Ho già scritto, su queste stesse pagine, che “siamo quello che eravamo”.

Noi, che per avere un regalo bisognava aspettare la Befana. Ed essere promossi a scuola. Quando a scuola (come ovunque) si andava a piedi. Con scarpe risuolate, e magari fornite di tacce (sorta di piccole mezzelune d’acciaio, sistemate sotto i tacchi e la punta), a salvaguardia dei punti nevralgici delle nostre preziose calzature. Le quali dovevano durare fino e perfino oltre la crescita di numero del nostro piede!, e che comunque resistevano – mai saputo come – ad ogni più frenetica scorribanda, o alle nostre interminabili partite di pallone fra i pini e sul piazzale della “Stanzione” ferroviaria.

Era quello un tempo contadino, ingenuo e puro, che ora appare anch’esso da leggenda.

I libri, legati con un mollettone di gomma, li avvolgevamo in fogli di carta-paglia, per conservarli meglio, dovendo servire poi ai nostri fratelli minori. Come le giacche, che venivano più volte rivoltate e passate in eredità.

Nessuno spreco insomma. Nessun consumismo. Nessun capriccio. Spesso le nostre merendine erano costituite da una semplice fetta di pane appena irrorata d’acqua e spolverata di zucchero…

Eppure eravamo felici.

Poi siamo pian piano (o forse troppo rapidamente) cresciuti. Da adolescenti, quando il primo sputnik si è levato verso lo spazio, sognavamo che un giorno avremmo percorso distanze enormi in un solo secondo, più veloci della luce. Infatti, dopo più di cinquant’anni, ci troviamo imbottigliati nel traffico, alla disperata ricerca di una via d’uscita o di un parcheggio.

Qualche anno prima dello sputnik, anche a Galatina, in piazza san Pietro, era stata presentata alla popolazione una scatola magica, che si accendeva premendo un pulsante: dentro c’era un uomo che dava le notizie, poi appariva un gregge di pecore con la scritta “Intervallo”, di nuovo un altro signore che spiegava come sarebbe stato il tempo di domani, e un altro ancora che faceva domande come a scuola, a persone adulte, però, che quando sapevano rispondere vincevano un premio in gettoni d’oro…

Ancora non sapevamo che quella scatola, col tempo, ci avrebbe rubato i nostri sogni, e le favole della nonna, e il gioco dell’oca, o il prodigioso ntartieni, che noi pensavamo fosse un oggetto misterioso, ed era invece il segnale segreto, quando ci mandavano a ‘prenderlo’ da una zia o da una cugina più grande, che dovevano appunto intrattenerci, senza darlo a intendere, e lo facevano inventando per noi cunti e leggende, che più belli non si può…

 

 Sono ritornato di recente a Giuggianello, paesino tra i più simpatici del nostro territorio, tra Maglie e Otranto, abitato da gente cortese, e con varie interessanti curiosità.

La più nota è sicuramente l’area primordiale detta dei Massi de la Vecchia, di cui ci siamo fugacemente occupati in altra occasione: un grandioso ‘parco’ naturale, costituito da una serie di blocchi di roccia giganteschi, di età preistorica, ubicato dentro un uliveto appena fuori il paese. Fra tali rocce ce n’è una particolarmente spettacolare, costituita da una sorta di ‘torre’ stratificata, a forma vagamente di fuso, detta per l’appunto lu Furticiddhu (cioè la conocchia, nella parlata locale), culminante con un masso oblungo e schiacciato, che dà l’impressione di vacillare sulla sommità, e che per questo viene anche identificato come “la pietra oscillante”.

Ebbene, in questo posto di per sé molto fascinoso, sono inevitabilmente fiorite alcune leggende. Intanto, qui pare che abiti da tempo immemorabile il famoso Nanni Orcu (che è notoriamente il marito della Vecchia), terribile personaggio dei cunti del Salento, che da bambini ci ha fatto tremare le vene e i polsi (e che anche da grandi è meglio non incontrare).

Ma l’indicazione più interessante riguarda la famosa acchiatura (termine equivalente a tesoro: dal vernacolo acchiare, trovare), composta da dodici lumache d’oro massiccio, deposto in un luogo segreto della campagna, e custodito notte e giorno dalla Vecchia in persona. La quale, se avrete la sfortuna (o fortuna) d’incontrarla il 24 giugno, giorno di san Giovanni, vi potrebbe porre tre semplici domande oscure e misteriose, con queste due opposte conseguenze: rispondendo esattamente ai quesiti, conquisterete la preziosa acchiatura e ve ne tornerete a casa liberi e ricchissimi; in caso contrario, sarete pietrificati per l’eternità, e farete parte anche voi della spettacolare collezione di quei Massi,che adornano le campagne di Giuggianello da tempo immemorabile.

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ph Donato Santoro

 A proposito di acchiatura, bisogna sapere che il tesoro più importante e grandioso del nostro Salento si trova ancora nascosto in un tratto di territorio del versante adriatico, compreso tra Roca Vecchia e Torre dell’Orso, ed è a disposizione di chi abbia per primo la ventura di trovarlo.

Per i ricercatori più audaci e avventurosi, diamo qui alcune utili indicazioni (basate su teorie storiche e scientifiche, che si tramandano di generazione in generazione), augurando che qualche nostro Lettore, dopo secoli di inutili tentativi, porti finalmente a compimento l’impresa, ricordandosi altresì di questo prezioso contributo fornito da Il filo di Aracne.

Va intanto tenuto in conto che la favolosa Acchiatura di Roca è sepolta a sud-ovest della Torre di avvistamento. A nascondere il tesoro, per tener fede ad un voto religioso, fu, nella notte dei tempi, la Regina Isabella, aiutata da sette suoi fedelissimi servitori. Per trovare il prezioso nascondiglio, fate attenzione ad un segnale preciso e inconfondibile: un arco di dodici grosse pietre, attraversato da una specie di freccia in legno d’ulivo. Nella direzione della freccia si conteranno trentatrè passi, dopo di che si potrà cominciare a scavare, fino a raggiungere la profondità di un metro. Se si troverà una croce di ferro, vorrà dire che si è nella direzione giusta, e bisognerà scavare per un altro metro. Dovrebbe a questo punto affiorare una tavoletta di bronzo con l’immagine a rilievo della Madonna di Roca, segno anche questo che il percorso è esatto. Si scaverà ancora per un altro metro, e in fondo al ‘pozzo’ si troverà finalmente un forziere pieno di monete d’oro, gioielli e pietre preziose di inestimabile valore, che potrete riportare in superficie, sempre che, ovviamente, riusciate a dare la risposta esatta ad un arcano indovinello che vi sarà posto dalla solita Vecchia de lu Nanni Orcu, arcigna guardiana anche di questo luogo…

Sempre a Roca Vecchia si narra ancora di una giovane Principessa che ogni giorno, all’ora vicina al tramonto, amava fare il bagno in una grotta, restando in acqua fino al sorgere della luna. Una sera, un Poeta piuttosto timido la vide di nascosto, e se ne innamorò. Così ne parlò con un suo amico, anch’egli poeta, e questi ad un altro, e quest’altro ad un altro ancora, finché tutti i poeti del Regno non accorsero alla Grotta per ammirare la Principessa e comporre i versi più sublimi in onore della sua bellezza.

Ancora oggi, quella grotta è appunto conosciuta come Grotta della Poesia, e si dice che basta che due amanti vi entrino una sola volta per innamorarsi poi eternamente.

 

 Restando in zona, diremo che al Capo di Leuca, fanno… capo diverse leggende particolarmente suggestive, e qualcuna anche piuttosto drammatica.

Una di esse narra che San Pietro, arrivando dall’Oriente, abbia messo piede proprio alla punta estrema della penisola salentina, e da qui abbia poi proseguito verso Roma nella sua opera di evangelizzazione delle popolazioni italiche. A questa sosta del primo Apostolo della Chiesa è strettamente collegata la tradizione che vuole che nessuno possa entrare in Paradiso se, da vivo oppure da morto, non abbia fatto pellegrinaggio per almeno una volta al Santuario di Santa Maria de Finibus Terrae. Sicché, molte anime di buoni cristiani, che in vita non ebbero la possibilità di effettuare tale visita, si fermano a pregare nel Santuario della Madonna prima di volare in cielo.

Sempre nel Capo, dove giocano e più spesso si azzuffano i due mari Adriatico e Jonio, s’intrecciano altre storie fantastiche. Come quelle che riguardano schiere di feroci dèmoni, i quali, per invidia delle bellezze di quei luoghi (che all’origine erano splendidamente rigogliosi), hanno via via sconvolto la costa, erodendo scogliere, o rendendo aspro e spigoloso il paesaggio, o creando infine grotte ed anfratti inaccessibili, che tuttavia, senza volerlo, danno a questi stessi luoghi un’insolita selvaggia bellezza.

Proprio da quelle grotte frastagliate, un’altra leggenda vuole che, durante le notti di tempesta, specialmente in inverno, escano ancora oggi torme di streghe scarmigliate che, sciogliendo i venti di burrasca, agitando le onde e accendendo con le loro fiaccole il cielo di fulmini, si mettono a ballare per ore in un turbinio di canti lamentevoli e cupi, allo scopo di attirare nel loro irrefrenabile sabba qualche solitario viandante.

Per cui, se proprio non se può fare a meno, nelle tempestose notti d’inverno, meglio starsene a casa.

“Lu pittaci”, il quartiere di un tempo in una poesia di altri tempi.

di Armando Polito

* Finora si era limitato solo alle parole, oggi sta dando pure i numeri …
* Finora si era limitato solo alle parole, oggi sta dando pure i numeri …

 

Non pensate a Nerino e seguitemi, se avete tempo da perdere, nel ragionamento (?)!

Casa a corte : pittaci = condominio : quartiere

La proporzione che questa volta costituisce il titolo  conserva tutto il suo nativo valore matematico, per cui, per esempio, un estremo è uguale al prodotto dei medi diviso l’altro estremo:

 

Siccome, però, pittaci è assimilabile a quartiere, semplificando l’espressione con l’eliminazione di entrambi, il primo dal numeratore, il secondo dal denominatore, mi rimane casa a corte=condominio. Analogamente in

 

semplificando con l’eliminazione degli assimilabili condominio e casa a corte mi rimane quartiere=pittaci.

Inoltre c’è un ulteriore rapporto direttamente proporzionale interno: quanto maggiore sarà il numero delle case a corte tanto più grande sarà il pittaci  e allo stesso modo quanto maggiore sarà il numero dei condomini tanto più esteso sarà il quartiere.

Se la vita matematica della proporzione è chiara, perché i fenomeni messi in gioco dai quattro termini (non a caso termine è il nome di ognuno dei quattro elementi che costituiscono la proporzione, oltre che essere sinonimo di vocabolo, parola) possano essere compresi nella loro diacronicità è necessario fare un discorso più articolato.

La casa a corte rappresenta un modello abitativo in passato tipico delle nostre zone, poco visibile, ormai, nei centri storici in cui il tempo, se non  ha cancellato l’aspetto originario,  ha comunque eliminato alcuni dettagli compositivi di estrema importanza . Essa corrisponde al moderno condominio, essendo costituita nella sua struttura, all’origine probabilmente monofamiliare, da alcune unità abitative autonome aventi uno spazio di servizio e di aggregazione in comune, la corte appunto, in cui avevano un ruolo fondamentale il pozzo e la pila (sono questi i dettagli di cui ho detto poco fa,  rinvenibili ormai quasi soltanto in fotografie d’epoca).

Nardò, casa a corte. Immagine tratta da  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/19/antiche-tipologie-abitative-a-nardo/
Nardò, casa a corte. Immagine tratta da https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/19/antiche-tipologie-abitative-a-nardo/

 

Galatone, casa a corte. Immagine tratta da http://culturasalentina.files.wordpress.com/2009/07/suggestiva-casa-a-corte-nel-centro-storico-di-galatone.jpg
Galatone, casa a corte. Immagine tratta da http://culturasalentina.files.wordpress.com/2009/07/suggestiva-casa-a-corte-nel-centro-storico-di-galatone.jpg

Il tempo, però, non è passato invano e ha fatto registrare una profonda evoluzione. Basti pensare che per lo più lo spazio comune dei condomini è costituito dall’androne d’ingresso, dall’ascensore, dalle scale e nella parte sotterranea dalla rampa d’accesso ai box o posti macchina e al locale caldaia laddove l’impianto è ancora centralizzato.  Il ritmo frenetico della vita moderna ha poi fatto sì che, soprattutto nelle grandi città, un condomino non conosca l’altro e le stesse assemblee ondominiali, se non vanno deserte, hanno un carattere, per usare un termine dell’ultim’ora mediato dalla politica, divisivo1 più che aggregante. La nuova struttura, insomma, ha reso paradossalmente difficoltosi, se non impossibili, quei rapporti umani che la casa a corte, invece, favoriva.

Di regola processi di questo tipo hanno risvolti a livello macroscopico, nel senso che questa sorta di disgregazione ambientale ed umana nel passaggio dalla casa a corte al condominio manifesta le sue conseguenze parallele nel passaggio dal pittaci al quartiere. Così, se in passato il pittaci era un esteso nucleo abitativo con la sua identità umana e amministrativa, oggi gli abitanti di un quartiere non sembrano avere alcun legame affettivo con il territorio e gli stessi consigli di quartiere, laddove ci sono, sembrano organi creati solo per soddisfare una forma di protagonismo minore con la proliferazione di una malintesa e troppo estesa rappresentatività che vanifica di fatto il concetto di responsabilità propiziando, quando qualcosa va storto, il collaudato giochetto dello scaricabarile.

Il troppo storpia e in medio stat virtus possono essere applicati pure nel nostro caso, tanto più che sicuramente nemmeno nella casa a corte e nel pittaci tutto andava a gonfie vele. Lo dimostra l’espressione femmina ti pittaci con cui ancora oggi per traslato si indica una donna che ha fatto della violazione della privacy altrui il suo sport preferito. E se questa figura, rappresentata collettivamente, trova la sua celebrazione poetica nel componimento che mi accingo a presentare, penso al gossip di oggi riguardante non più il vicino di casa ma questo o quel personaggio che in certi programmi televisivi (spazzatura che nessuno di coloro che esercitano il potere vuole rimuovere perché al pari del calcio distrae  o, peggio ancora, blocca e poi atrofizza il cervello) e in certe pubblicazioni specializzate trova l’altare dove viene celebrata la sua vanità e pochezza. E mi chiedo chi mai, come il Castrignanò fece a suo tempo, tratterà in poesia questo costume del nostro tempo, tanto più che Mara Venier, solo per fare un nome, non mi sembra proprio all’altezza per farlo … 2

Con piacere debbo dire che questo giudizio totalmente negativo non sfiora nemmeno un giornale locale  che ha fra gli altri meriti quello di essere stato il primo del Salento ad uscire  on line fin dal 2003. Eppure il suo nome, il Pittacino, non lasciava presagire nulla di buono …

Vi lascio alla poesia di Francesco Castrignanò, tratta, come le altre precedentemente lette, da Cose nosce (Tipografia Neritina, Nardò, 1909) nella ristampa fatta dall’editore Leone a Nardò nel 1968.

 

_______________

1 Questa volta la politica ha il merito non di aver introdotto un neologismo ma riesumato un vocabolo già esistente, anche se  limitato all’uso tecnico della critica letteraria  e della logica formale. Ma tutto questo la politica non lo sa …

2 L’affermazione non è in contraddizione con la mia critica precedente alla tv spazzatura. Ho l’abitudine di esprimere un giudizio sulla scorta dei fatti personalmente esaminati. Per questo periodicamente (speranza inconscia di qualche cambiamento? …) mi tappo metaforicamente il naso  (lo farò contemporaneamente in senso letterale quando la tv sarà in grado di trasmettere anche i profumi o i fetori) e apro bene occhi ed orecchie per vedere e sentire quali progressi sono stati fatti sulla strada dell’idiozia. Debbo riconoscere che, a parte momenti sostanzialmente e formalmente ripetitivi e monotoni, fino ad ora da queste incursioni periodiche ho sempre avuto da imparare (?).

3 Per l’etimologia di pittaci vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/08/zzippu-ti-pitaccia-e-lei-linventore-della-zip/

I pittagi medioevali a Nardò erano 4: Pittagio Castelli Veteris, Pittagio Sant’Angelo , Pittagio San Paolo e Pittagio San Salvatore. Ogni pittagium era suddiviso in un numero variabile di vicìnia, plurale di vicìnium, voce di genere neutro,  cui corrisponde nel latino classico il femminile vicìnia, da vicinus/vicina/vicinum=vicino, a sua volta da vicus=quartiere.  È interessante notare che, mentre nei documenti meridionali la forma usata è sempre quella medioevale (vicìnium), negli altri è sempre quella classica (vicìnia).

4 Nota psicologica di grande spessore; il gossip diventa addirittura un comodo alibi per vendicarsi dell’invadenza altrui, reale o presunta, poiché è quasi  impossibile distinguere chi è stato il primo a violare la privacy.

5 Alla lettera: insulta.

6 Non c’è da meravigliarsi per la presenza di animali nel centro abitato ai primi dello scorso secolo. Ricordo che fino alla metà degli anni ’60 a Nardò, anche se in una strada di periferia, vi era una stalla con mucche, attigua all’abitazione del lattaio, che ogni mattina faceva il giro per rifornire i clienti con l’armamentario in basso raffigurato avvertendoli del suo arrivo con il suono di un campanello (nella seconda foto è visibile anche il caratteristico misurino; alla bicicletta, però, negli anni ’60 era già subentrato il ciclomotore). L’olezzo che si sentiva passando da quella via non era certo una goduria per le narici, ma è altrettanto certo che era infinitamente più salutare dei gas di scarico dei cavalli meccanici di oggi …

immagine tratta da http://fuorisalone.it/2011/presses/detail/34
immagine tratta da http://fuorisalone.it/2011/presses/detail/34

 

http://valtollacountry.wordpress.com/2012/10/13/civilta-biciclette-da-lavoro-e-necessita/
http://valtollacountry.wordpress.com/2012/10/13/civilta-biciclette-da-lavoro-e-necessita/

 

7 Il Rohlfs invita ad un confronto “con il latino medioevale zitus presente nei documenti medievali di Bari premesso a nomi di giovani non ancora sposati”. Nei vocabolari d’italiano zito è registrato come variante del toscano citto=ragazzino, uomo non sposato, fidanzato. Citto forse è riduzione di piccitto affine a piccino. Con citto forse è connesso zita o zito (in neretino tipo di maccherone grosso e bucato) per metafora sessuale più facilmente ravvisabile nella forma maschile, anche se proprio la compresenza dei due generi potrebbe indurre a supporre che fosse in passato il formato di pasta tipico nei pranzi di matrimonio.

 

“Strìnculu” & C.: metafore animalesche o idiozia umana?

di Armando Polito

* MENO MALE CHE IO SONO MASCHIO E CON “GATTA” , A PARTE QUELLO CHE VI LASCIO INTUIRE …,  E “GATTAMORTA” NON HO NULLA A CHE FARE!
* MENO MALE CHE IO SONO MASCHIO E CON “GATTA” , A PARTE QUELLO CHE VI LASCIO INTUIRE …, E “GATTAMORTA” NON HO NULLA A CHE FARE!

 

 

Potrei fare innumerevoli esempi di quella presunzione tutta umana che ha spinto noi esseri detti pensanti a pensare (questa figura retorica si chiama tautologia ed è tipica del politichese, ma il mio cognome non è implicato …) di utilizzare i nomi di alcune cosiddette bestie per stigmatizzare alcuni tra i più odiosi (quelli morali) e più odiati (quelli fisici) difetti della nostra specie.

Segue, comunque, un elenco, in ordine alfabetico,  certamente incompleto ma prezioso a fini statistici, come dirò dopo.

Acciuga, allocco, ameba, anguilla, araba fenice, ariete, arpia, asino, avvoltoio, baccalà, balena, barbagianni, becco, bertuccia, biscia, bisonte, bue, bufalo, brocco, cagna, caimano, calabrone, camaleonte, canchero, cancro, cavalletta, cavallo, cane, capra, cavallona, cerbero, chimera, cicala, cimice, cinghiale, ciuco, ciuccio, civetta, cocotte, coniglio, cornacchia, corvo, cozza, elefante, faina, falco, falena, farfalla, farfallone, gallina, gatta, gattamorta, gazza, ghiro, giraffa, gorilla, gufo,  iena, istrice, lucciola, lucertola, lumaca, lumacone, maiala, maiale, mandrillo, manza, marmotta, marpione, marrano, merlo, mignatta, montone, moscerino, mucca, mulo, muschillo, oca, orso, pantera, papera, pappagallo, pavone, pecora, pecorone, pescecane, piattola, pidocchio, piovra, pitonessa, porco, pulce, riccio, rinoceronte, rospo, sanguisuga, satiro, scarafaggio, scimmia, scimpanzé, scoiattolo, scorfano, scorpione, scrofa, serpente, sfinge, squalo, stallone, stoccafisso, tafano, tartaruga, tigre, tordo, toro, torpedine, tricheco, troia, trota, vacca,  vampiro, vipera, volpe, zanzara, zecca, zimbello, zoccola.

Per il significato metaforico specifico rinvio per brevità il lettore ad un buon vocabolario. Io mi limiterò qui solo ad enucleare alcuni gruppi comprendenti voci che hanno assunto un significato più ampio e non solo individuale del semplice difetto o eccesso, fisico o morale che sia, e in alcuni casi sono diventati nomi di uno strumento.

Hanno assunto connotazione politica falco e colomba, militare ariete, torpedine e maiale, spionistica e investigativa corvo, talpa e cimice, eufemistica cocotte (alla lettera gallina) falena e lucciola per prostituta, ha subito un parziale ridimensionamento dell’originario significato negativo gorilla, addirittura canchero ha assunto la valenza di voce offensiva mentre cancro è passato ad indicare addirittura una malattia non da poco; altre voci presentano una serie sinonimica in alcuni casi particolarmente estesa: somaro, ciuco e ciuccio; cagna (senza o con aggiunta di in calore), lupa, maiala, porca, scrofa, troia e zoccola; maiale e porco (senza ombra di accenno alla prostituzione, come, invece, nella serie precedente che, oltretutto è notevolmente più lunga, il che per me è una delle caratteristiche di quel che definisco maschilismo linguistico …); mignatta e sanguisuga; pescecane e squalo.

Mandrillo, montone, riccio, toro e il generico stallone sono altrettanti nomi di animale in competizione fra loro per traslare all’uomo l’idea della loro intensa attività sessuale; per la stupidità gareggiano allocco, merlo, pollo e tordo.

Vantano un’origine mitologica araba fenice, arpia, cerbero, chimera, satiro, sfinge ed una favolistica orco. Un’etimologia insospettabile esibiscono marpione (dal francese marpion=piattola, composto da mords, imperativo di mordre=mordere+pion=soldato a piedi), marrano (dallo spagnolo marrano=porco) e zimbello (dal significato di uccello vivo usato come richiamo, a sua volta derivato dal provenzale cembel=piffero, a sua volta dal latino cýmbalum).

Non mancano le voci gergali: cavallo (piccolo spacciatore di droga) e muschillo (bambino assoldato dalla malavita a Napoli specialmente per lo spaccio di droga).

C’è poi  chi ha visto rinnovati i suoi fasti dall’uso privilegiato fattone da personaggi televisivi (il capra! di Vittorio Sgarbi) e chi da pochi anni ha cominciato a vivere la sua esistenza metaforica (il caimano di Nanni Moretti e il bossiano trota).

Cito solo, sempre per brevità, i nessi lupus in fabula, homo homini lupus, topo d’appartamento, topo di biblioteca, pianto di coccodrillo, cavallo di Troia, iena ridens, etc. etc.

A proposito di cavallo di Troia: meno male che Troia non riguarda il già visto troia (che è voce del latino medioevale, forse di origine onomatopeica), perché quest’animale sembra il più tartassato nei sui vari sinonimi maschili (porco e maiale) e femminili (scrofa, porca e maiala)! Come se non bastasse, poi, c’è da dire che il povero maiale che sembrava in parte nobilitato da meriti militari (maiale fu chiamato per evidente somiglianza di forma  il mezzo d’assalto simile a un siluro, guidato da uomini muniti di attrezzature subacquee, usato dalla Marina Italiana durante la seconda guerra mondiale per colpire le navi nemiche ferme nei porti) finisce per assumersi colpe non sue se si pensa che iena è dal latino hyaena, a sua volta dal greco ὕαινα (leggi ùaina), femminile di ὗς (leggi iùs)=maiale (ancora lui!). La voce greca ὗς aveva in origine un ς iniziale, come dimostra il latino sus=porco, il cui aggettivo derivato suinus/suina/suinum ha dato l’italiano suino.

Quanto a iena ridens (il ridens si riferisce al verso che l’animale emette durante le sue battute di caccia notturne con il muso vicino al suolo e con un suono che da una tonalità grave passa via via ad una più acuta, simile a una risata) una sorta di stupidità (che è sempre figlia di ignoranza) di ritorno, tutta umana c’è, a mio avviso, perfino nella barzelletta che qui riporto, immortalata da Andrea Camilleri in Un mese con Montalbano: due amici vanno allo zoo, uno legge l’etichetta, apposta su una gabbia, che recita Iena ridens. Vive nel deserto, esce solo di notte, si nutre di carogne, si accoppia una sola volta all’anno. Disorientato si rivolge all’altro e dice: – Ma che ride a fare? -.

Laddove, però la nostra presunzione (pure questa figlia di ignoranza) celebra il suo trionfo è nel licantropo e ancor più nel vampiro.

Licantropo [dal greco λυκάνθρωπος (leggi liucànthropos), composto da λύκος (leggi liucos)=lupo e ἄνθρωπος (leggi ànthropos) =uomo]  è termine usato in letteratura e nella novellistica più che nel linguaggio scientifico, corrispondente all’immagine del lupo mannaro nella superstizione popolare, soprattutto ottocentesca.

Vampiro (dal serbo e croato vampir, attraverso il francese vampire) è nelle leggende e credenze popolari dell’Europa centro-orientale, poi nella letteratura fantastica della fine del secolo XIX (celebri i romanzi Il vampiro di John Polidori (1819) e Dracula scritto da B. Stoker nel 1897) e da qui in diversi film horror del XX secolo, una creatura demoniaca, dotata di poteri soprannaturali e forza eccezionale, che torna a rivivere ogni notte e, uscendo dalla propria tomba, aggredisce persone vive (soprattutto giovani donne … mica è fesso) per succhiarne il sangue dal collo attraverso le ferite prodotte dai due canini lunghi e aguzzi, le soggioga e le contagia, sicché morendo queste diventano esse stesse vampiri; incarnazione del male, non sopporta la vista della croce, l’odore dell’aglio e, soprattutto, non può esporsi alla luce del sole: è quindi vulnerabile di giorno, ma può essere ucciso solo con una punta acuminata di legno di frassino conficcatagli a colpi di martello nel cuore. Come termine di zoologia è stato introdotto dal naturalista francese G. L. Buffon nel 1761, con riferimento alle abitudini del pipistrello cui fu dato questo nome. Insomma non fu un pipistrello a trasmettere il suo nome all’essere diabolico (più vicino ad un uomo che ad un animale …) ma viceversa.

Qualcosa di simile, anzi di decisamente più assurdo, è successo con donnola, che è dal latino tardo dòmnula(m), diminutivo del classico dòmina=signora (da cui il nostro donna). Donnola venne adottato in sostituzione del latino classico mustèla in riferimento alle forme aggraziate dell’animale. Gli autori classici ci informano che nelle case la mustela aveva il compito di eliminare serpenti e topi. Topo in latino fa mus e in greco μῦς (leggi miùs) e, sempre in greco, significa tana di topi la voce μυστήριον (leggi mustèrion) composta dal citato  μῦς+la radice del verbo τηρέω=sorvegliare, custodire, aspettare. Il latino mustèla per me potrebbe avere la stessa origine, ma con prevalenza del significato non di custodire  qualcosa o qualcuno (i topi) ma di proteggere qualcosa (la casa) dai topi, aspettarli al varco. Mustela verrà adottato come nome scientifico da Linneo ma nel volgare verrà soppiantato da donnola a partire dal XIII secolo non solo per le forme aggraziate di cui ho già detto ma proprio perché mustela evocava l’immagine indirettamente sgradevole di cacciatrice di topi. Poi si pensò bene di usare zoccola nel significato che tutti conoscono. Ma, siccome zoccola deriva molto probabilmente, secondo l’opinione corrente, da un latino  *sòrcula diminutivo femminile del classico sorex/sòricis=sorcio, ecco che il nostro topo, dopo la momentanea riabilitazione di mustela con donnola, condivide il triste destino di vampiro e maiale,  riprecipitato in basso in questa stupida altalena tutta umana …

Anche cèrbero [dal latino Cèrberu(m), dal greco  Κέρβερος (leggi chèrberos) , nome del mitico cane a tre teste posto a custodia delle sedi infernali] ha mediato il suo significato di persona intrattabile, intransigente e severa dal personaggio mitico e, come già successo per vampiro, è diventato  il nome di un genere di serpenti. E, a proposito di serpenti, nemmeno il pitone scherza avendo dato vita a Pitonessa [nome della maga della Bibbia (Samuele, 28, 7) che Saul andò a consultare e che prediceva il futuro invasata da un demone chiamato Python], divenuto poi nome comune a significare donna che, ritenendosi ispirata da un dio o da forze soprannaturali, presume di predire il futuro, anche, scherzosamente, chiromante, cartomante. Pitonessa è anche il nome alternativo di Pizia, la sacerdotessa di Apollo.

E cosa dire della Chimera, favoloso mostro con la testa e il corpo di leone, una seconda testa di capra sulla schiena e una coda di serpente? L’araldica ne ha ancor più complicato l’iconografia rappresentandola con una testa di donna, petto e zampe posteriori d’aquila, zampe anteriori di leone e coda di serpente. Non è cambiato, purtroppo, il significato che ha assunto come nome comune, oggi addirittura sinonimo di ciò che nel primo articolo della nostra Costituzione è nominato come il fondamento dello Stato: il lavoro.

E come non definire araba fenice (l’uccello mitologico che risorgeva dalle proprie ceneri) ognuno dei tanti politici puntualmente riciclati (altro che rottamazione!) o dei tanti delinquenti, per lo più ammanicati con i politici, che dopo aver dissestato un ente pubblico, per premio, per esempio, viene messo a dirigere una banca che, pur essendo privata, continua a succhiare dalle mammelle sempre più secche di una mucca pubblica sempre più macilenta?

Inqualificabile poi la nostra incoerenza nel definire il cane come il nostro migliore amico e usarlo poi come epiteto offensivo tanto come voce primitiva (cane!) che derivata (canaglia!) e, semplicemente, canaglia; e poi canea, e canizza; e questo dopo esserci serviti della sua compagna (cagna) nel significato già detto e per i derivati cagnara e in cagnesco.

Le voci elencate all’inizio sono 120. E di animali che impersonano pregi umani non ce ne sono? Io ne ho trovati pochissimi e riporto anche questi di seguito.

Agnello, aquila, cerbiatta, chioccia, colomba, colombo (al plurale per coppia di innamorati), cucciolo, drago, fenice, formica, furetto, galletto, leone, libellula, lince, lupetto, micio, micione, micetta, passerotto, piccione,  piccioncino (al plurale per coppia di innamorati), pantera, pesciolino, porcellino, pulcino, scricciolo, sirena, sorcino, tigrotto, topino, topolino.

In parecchi di loro il valore positivo è dovuto al fatto che la forma, diminutiva, è riservata ai bambini, in qualche caso con coinvolgimento dello sport (pulcino) o l’appartenenza a qualche associazione giovanile (lupetto). Per gli adulti rimane solo sorcino che inizialmente rta aggettivo significante del colore del sorcio, passato poi come sostantivo ad indicare il fan di Renato Zero.

Per far rientrare questo post nell’alveo della tematica tipica di questo sito e raccordarmi con il titolo chiudo con strìnculu, voce che definisce l’eccesso di brio dei ragazzi, un’irrequitezza che trova espressione il più delle volte in un riso irrefrenabile e ricorrente senza apparente motivo. La voce è diminutivo di un inusitato strignu, deformazione della variante strignu (non usata a Nardò), che è a sua volta da strignare (nemmeno questo è usato a Nardò) che definisce il corvettare del cavallo e ad Aradeo il nitrire. Strignare si collega al greco στρηνίαω (leggi streniao)=abbandonarsi ad eccessi o intemperanze.

Tante bestie scomodate per stigmatizzare i nostri difetti. Ma, alle bestie, se dovessero farlo con i loro, sarebbe sufficiente fare riferimento, per qualsiasi difetto, fisico e, ancor più,  morale,  ad un unico animale: l’uomo. A tutte loro auguro di cuore lunga vita e in particolare per i veri squali e per i veri caimani che le loro acque si conservino a lungo pulite e trasparenti, indenni dalla merda umana, reale e metaforica.

Ottorino Santaguida, valente fotografo di Martano (1913-1990))

OTTORINO SANTAGUIDA.

di Paolo Vincenti

 

Ai Cistercensi, a Martano, si è tenuta una interessante mostra fotografico-pittorica: “Vi lascio una fotografia”, inaugurata sabato 4 maggio presso il Monastero Santa Maria della Consolazione, negli spazi dedicati all’arte del noto complesso religioso polifunzionale.

Si tratta di una mostra commemorativa in occasione del centenario della nascita di Ottorino Santaguida, valente fotografo martanese (1913-1990), che la sua famiglia ha voluto ricordare con questa antologica che ha destato il nostro interesse.

Mezzo secolo di storia di una comunità ritratta nei suoi usi e costumi e nei suoi abitanti, dalla lente di questo fotografo  che con dedizione e amore per la professione divenne a Martano una vera e propria istituzione. Ottorino non fu solo fotografo ma anche artista, in particolare ritrattista e paesaggista, e la sua arte veniva da lontano, dal momento che già suo padre Luigino di Lecce, anch’egli fotografo, era stato gestore di un teatro di burattini, itinerante, per la gioia di adulti e bambini. E così anche i figli di Ottorino ( ben otto, avuti dalla moglie Carmela Corlianò) hanno ereditato la passione paterna: in particolare Enrico la pittura, e Ferruccio e Claudio la fotografia.

Un percorso nella memoria dunque questo dei ritratti di Ottorino Santaguida,  “volti e storie in bianco e nero” come titola la recensione della mostra l’ultimo numero di “Qui Salento” (maggio 2013):  una carrellata di facce da “amarcord”, momenti di vita reale, battesimi, fidanzamenti, matrimoni,  feste di paese, processioni, eventi religiosi, e poi i muretti a secco, la campagna salentina, gli strumenti del lavoro contadino, animali e cose, vecchi , donne e bambini di un tempo che fu. Deve essere un momento di alto valore umano, sociale e civile per una comunità la riappropriazione della propria identità attraverso la memoria storica di documenti come queste foto del Santaguida, che testimoniano in maniera lampante quello che un paese è stato ed ha vissuto.

A maggior ragione oggi, nell’era della tecnologia più avanzata, in cui il digitale ha del tutto soppiantato la pellicola, questo foto di carta, ingiallite dal tempo, oltre che reperti da archeologia artistica, hanno una valenza simbolica ed  un sapore retrò che, lungi dall’essere sterile operazione nostalgia o inappropriato rivendicazionismo, rappresentano un “memento” per le giovani generazioni  perché solo la conoscenza di ciò che è stato può dare slancio a ciò che sarà.  Dei figli di Ottorino, Enrico, appassionato di pittura, realizza opere di pittura astratta e naif, anch’esse esposte in un a sala del Monastero di Martano; Feruccio (oggi scomparso) e Claudio invece hanno sviluppato l’amore per la fotografia:  in particolare Claudio realizza ritratti e anche paesaggi. Dalla famiglia Santaguida dunque,  a Martano,  per una full immersion nelle arti visuali.

Sarà la dolcezza a salvare il mondo?

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di Paolo Rausa
Certi comportamenti degli uomini si sono persi, se consideriamo che la dolcezza nel mondo antico era la cifra che denotava la nobiltà d’animo: per es. Ettore è pianto da Elena ed è ricordato oltre che per il suo valore anche per la dolcezza, lo stesso atteggiamento di dolcezza provava Patroclo, l’amico di Achille, nei confronti di Briseide, schiava concubina di Achille; dolce a volte è lo stesso Zeus, padre degli dei, nei confronti di Atena, e Ulisse l’astuto, polumétes, dal multiforme ingegno, è ricordato da Mentore come sovrano giusto e dolce. Dunque è necessario che noi recuperiamo la dolcezza nei nostri comportamenti e sicuramente questo metterebbe un freno alle pretese e persino alle violenze!

Leandro Ghinelli, scrittore, insegnante e critico, pittore e scultore

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di Paolo Vincenti

 

La vastità di interessi e il suo essere artista a tutto tondo, fanno di Leandro Ghinelli un personaggio tipicamente novecentesco.

Scrittore,  insegnante e critico, pittore e scultore, egli ha percorso i vari campi dello scibile con passo lieve,  competenza e passione. Nato a Firenze nel 1925 ma salentino nell’anima, è attivissimo operatore  e animatore culturale (vedansi  i suoi numerosi articoli pubblicati negli ultimi tempi  sul sito www.culturasalentina.com e i suoi saggi apparsi in “Note di storia  e cultura salentina” , Argo Editore, annuario della Società di Storia Patria per la Puglia sezione di Maglie), a dispetto dei suoi ottantotto anni (comunque portati splendidamente).

Fra i suoi libri: “Pensieri e riflessioni” (Argo 1998) e “ E apparve la donna” (Laterza  2009). Come scultore,  potrei citare i suoi ritratti di Giovanni Paolo II, nel Duomo di Lecce, di Aldo Moro, nell’Atrio di Palazzo Adorno, e poi  di Francesco Petrarca, Quinto Ennio,  Donato Moro,  Ennio Bonea, Francesco Politi, ecc., ma impossibile sarebbe passare in rassegna  il suo curriculum senza trasformare questa mia breve segnalazione in una lunga elencazione di titoli ed opere.

Di Leandro Ghinelli,  in allegato con il  numero di marzo di “Presenza Taurisanese”, mensile di storia, cultura e attualità diretto da Gigi Montonato, è stato distribuito l’opuscolo  Canti della vigilia (poesie), per I Quaderni del Brogliaccio (n.10 marzo 2013). Si tratta appunto di una raccolta di poesie voluta e curata da Gigi Montonato, come omaggio al raffinato artista, collaboratore di lungo corso della suddetta rivista. Infatti alcune di queste poesie che compongono la raccolta sono già uscite proprio su “Presenza Taurisanese”, mentre altre su “Il Galatino” ed altre ancora nel libro “E apparve la donna”. Sulla copertina del libriccino, un’opera dello stesso Ghinelli:  “Le tre Grazie Madri”. Si tratta di poesie che vivono in una dimensione sospesa, quasi rarefatta, e trattano di moti dell’anima, di un intimismo soffuso, quasi velato. Scritte in metrica oppure in versi liberi, tutte comunque rincorrono una certa musicalità a  voler farsi trasportare dal ritmo interno che le anima. Come scrive Montonato: “ Direi che il suo linguaggio poetico non appare intenzionalmente comunicativo, ma semplicemente vocativo: un rivolgersi in silenzio vocale, se si può dire, ad un destinatario che gli è più dentro che fuori. Una poesia priva di ambientazione e di corporeità, nessun paesaggio di sfondo, in una dimensione rarefatta, fuori della storia”. “Quale vigilia cantano queste poesie?”, mi sono chiesto sfogliando la breve silloge: le “dolci vigilie” del Foscolo oppure quelle infelici di Leopardi? Forse quella  vigilia di cui fa parlare Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno “Padre” Dante, vale a dire la veglia della vita, contrapposta al sonno della morte?  Probabilmente, la vigilia di un viaggio “sulle ali dell’infinito”: quell’infinito che, secondo il poeta, vive dentro l’uomo “inquieta fiamma pensante nell’eterna Fiamma”.

 

 

Fracking o hydrofracking in Puglia

mappa fracking

di Gianni Ferraris

Si legge nel blog della Dott.ssa Maria Rita D’Orsogna, italiana che vive e lavora negli U.S.A. presso la California State University at Northridge  Los Angeles, alla pagina: http://dorsogna.blogspot.it/2013/05/fracking-foggia.html  un interessante articolo. L’autrice da sempre si batte perché l’Italia non subisca lo scempio della petrolizzazione. In fondo non siamo un paese ricco di petrolio e, come ormai norma e consuetudine, gettiamo alle ortiche le nostre ricchezze. Quale altro sciagurato governante, se non quello di stirpe italica, permetterebbe il crollo di Pompei? Quale altro essere umano mediamente capace di intendere e volere penserebbe ad un faraonico ponte sullo stretto, devastante, senza prima ultimare l’autostrada Salerno Reggio Calabria che è cantierizzata da almeno 40 anni? Eppure si concede, contro il parere di tecnici, il permesso a fare della nostra terra un colabrodo. Che sotto ci siano interessi che vanno oltre il ritrovamento del petrolio viene spontanei pensarlo. Ma veniamo all’articolo della D’Orsogna. Intanto io non sapevo cosa fosse il fracking, ho fatto quello che chiunque può fare, anche i parlamentari che concedono permessi, ho cercato su wikipedia:

La fratturazione idraulica, spesso denominata con i termini inglesi  fracking o hydrofracking, è lo sfruttamento della pressione di un fluido, in genere acqua, per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso[1]. La fratturazione, detta in inglese frack job (o frac job)[2][3], viene eseguita dopo una trivellazione entro una formazione di roccia contenente idrocarburi, per aumentarne la permeabilità al fine di migliorare la produzione del petrolio o dello shale gas contenuti nel giacimento e incrementarne il tasso di recupero

Le fratture idrauliche possono essere sia naturali che create dall’uomo; esse vengono create e allargate dalla pressione del fluido contenuto nella frattura. Le fratture idrauliche naturali più comuni sono i dicchi e i filoni-strato, oltre alle fessurazioni causate dal ghiaccio nei climi freddi. Quelle create dall’uomo vengono indotte in profondità in ben precisi strati di roccia all’interno dei giacimenti di petrolio e gas, estese pompando fluido sotto pressione e poi mantenute aperte introducendo sabbia, ghiaia, granuli di ceramica come riempitivo permeabile; in questo modo le rocce non possono richiudersi quando la pressione dell’acqua viene meno.

Rischi ambientali 

La fratturazione idraulica è sotto monitoraggio a livello internazionale a causa di preoccupazioni per i rischi di contaminazione chimica delle acque sotterranee e dell’aria. In alcuni paesi l’uso di questa tecnica è stata sospesa o addirittura vietata.

Rischi sismici

Le tecniche di microfratturazione idraulica del sedimento possono, in taluni casi, generare una micro-sismicità indotta e molto localizzata. L’intensità di questi micro-terremoti è di solito piuttosto limitata, ma ci possono essere problemi locali di stabilità del terreno proprio perché i sedimenti sono superficiali. Sono stati comunque registrati alcuni terremoti probabilmente indotti superiori al 5º grado della Scala Richter. Ad esempio nel Rocky Mountain Arsenal, vicino a Denver in Colorado, nel 1967, dopo l’iniezione di oltre 17 milioni di litri al mese di liquidi di scarto a 3.670 metri di profondità, furono registrate una serie di scosse indotte localizzate nell’area, con una punta massima di magnitudo compresa fra 5 e 5,5.

 

Vediamo cosa dice la D’Orsogna:

Durante il periodo 15-17 Aprile 2013 un gruppo di ricercatori ENI ha presentato un lavoro dal titoloRevitalizing Mature Gas Field Using Energized Fracturing Technology In South Italy presso la 2013 North Africa Technical Conference and Exhibition a Il Cairo, Egitto.

Gli autori, Luis E. Granado, Roberta Garritano, Raffaele Perfetto, Roberto Lorefice, Roberto L. Ceccarelli, tutti dell’ENI, affermano di avere “rivitalizzato” un pozzo di gas già sfruttato in passato usando nuovissime tecniche di fratturazione idraulica che incluono l’uso di fluidi “energizzanti” a base di zirconati.

Il campo scelto e’ quello di Roseto-Montestillo, nei pressi di Lucera e la concessione e’ la Tertiveri.

Nel testo si dice che a causa della delicatezza delle operazioni, si sono dovuti usare molti accorgimenti in tutte le fasi di progettazione, trivellamento, completamento e successiva stimolazione dei pozzi.  E’ stato necessario usare “elevatissime pressioni di pompaggio” e hanno avuto problemi con i proppanti, che servono a mantenere aperte le fessure dopo le operazioni di fracking. Alla fine pero’ sono arrivati ad “ottimi guadagni” in produttivita’ e allo stesso tempo hanno ridotto il quantitativo dei fluidi di perforazione.

Purtroppo l’unico sito da cui la notizia e’ reperibile e’ quello della “Society of Petroleum Engineers” e i dettagli sono pochi.

Dai siti ministeriali non vi e’ traccia di tale intervento: i pozzi nella concessione Tertiveri sono elencati tutti come in produzione o non produttivi e non vi sono altre specifiche.

Le domande che ci si pongono allora sono sempre le stesse:

Perche’ queste cose le dobbiamo apprendere dalla “Society of Petroleum Engineers” in un convegno al Cairo e non da appositi enti informativi italiani?

L’ENI aveva i permessi per fare fracking? Cosa esattamente hanno pompato nel sottosuolo? Quanto tempo sono durate queste operazioni? Quando e’ successo? La gente lo sapeva?  In quali altre localita’ si vuole fare fracking in Italia?

I nostri ministri lo sanno cos’e’ il fracking?

E veramente vogliamo andare avanti cosi, a casaccio? Che chi prima arriva fa un po quel che gli pare e poi lo dobbiamo venire a sapere da una mezza paginetta di un convegno in Egitto? E se non c’era il convegno quando l’avremmo saputo?

Cosa aspettiamo ad aprire un dialogo nazionale, non solo sul fracking ma in generale sul modo in cui intendiamo proteggere (o non proteggere) il sottosuolo dalle trivelle – di petrolio, gas, con fracking, senza fracking, in mare, in terra o per stoccaggi di dubbia utilita’?

Infine: perche’ non seguiamo l’esempio della Francia che ha vietato il fracking gia’ nel 2011?

Dalla fotografia alla pittura, Carlo Casciaro e Ortelle

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di Paolo Vincenti

Ortelle è un giorno di sole e il caldo che ti segue fra le stradine del centro.

Ortelle è la Madonna della Grotta e la Fiera di San Vito.

Ortelle è il culto di San Vito e Santa Marina, testimonianza di quella devozione popolare che impasta la cultura di questi piccoli borghi della nostra penisola salentina.

Ortelle sono i volti allegri spensierati, tristi malinconici, stirati, rugosi, ritratti da Carlo Casciaro. E Ortelle è Carlo Casciaro, che vado a trovare in una mattina in cui schiocca scirocco fra le pieghe delle case calcinate, di un bianco rilucente e abbagliante; e nella mia fantasia , il paese si identifica totalmente con il suo cantore, aedo del pennello, celebratore di  luoghi e persone, pietre e stagioni, percorsi della memoria.

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Dalla fotografia alla pittura, Carlo Casciaro  comunica attraverso la sua arte e mi sembra perfettamente integrato con  il microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio e dalla quale osserva il mondo esterno,  senza spostarsi da casa, indagatore dell’anima, collezionista di memorie, archivista di emozioni.

Carlo è un viaggiatore fermo, un nomade stanziale, se mi si perdona l’ossimoro. Da Milano, dove ha vissuto e lavorato diversi anni, è ritornato al paesello, nella sua amata Ortelle, e qui ha ripiantato radici,  la sua è diventata  una scelta di fede, perché è facile essere attaccati al paese dove si è nati, ciò è naturale e scontato, ma quando invece lo si risceglie in piena consapevolezza,  dopo essere stati via per anni, e lo si rielegge a propria residenza,  questo ha un valore raddoppiato. Così  Carlo ha deciso di vivere qui, nell’antica Terra Hydrunti,  a fotografare vecchi e vecchine, parenti, amici, sdentati  e sorridenti personaggi schietti e spontanei  di quella galleria di tipi umani che offre l’ecclesia ortellese, a immortalarli nei suoi ritratti a matita e pastello e ad appenderli con le mollette a quei fili stesi nella sua cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza. “Anime appese” le chiama Carlo Casciaro, “catturate con armi di matita e passione”, a vantaggio di coloro che possono ammirarli nelle personali che di tanto in tanto egli tiene, come l’ultima sua mostra svoltasi nell’agosto del 2012 e dalla quale ha tratto un piccolo catalogo che mentre torno a casa porto con me, prezioso omaggio amicale. E in questa brochure leggo le osservazioni critiche sulla sua arte ad opera di Paolo Rausa, Nino Pensabene e Raffaella Verdesca, tutti nomi a me noti ed al mio uniti dalla comune militanza nelle file del cenacolo culturale  “Fondazione Terra D’Otranto”.

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E trovo anche fotografata su una polverosa carrareccia a ‘Vignavecchia’ in agro di Vitigliano,  frazione di S.Cesarea Terme, l’anziana madre di Carlo, “Mamma Eleonora” con le sue 90 margherite di giugno. E trovo suo padre, u Totu camillu “sigaretta nturtiiata” una matita su cartoncino : e questo soprannome, che allude all’antica abitudine dei nostri contadini di arrotolare le sigarette artigianalmente o anche di masticare il tabacco, mi riporta sorprendentemente allo stesso Carlo che, come tanti di questa nostra generazione, hanno ripreso ad arrotolare cartine (come dire, laddove non arriva la nostalgia, ci pensa la crisi). L

’oggetto privilegiato dalla pittura di Casciaro, pronipote di ‘Tata Peppe’ , ossia Giuseppe Casciaro (Ortelle 1861-Napoli 1941), pittore di scuola napoletana, è il paesaggio salentino.  Il suo è un naturalismo che richiama quello dei più grandi maestri salentini,  fra tutti Vincenzo Ciardo. Un paesaggismo delicato, abbastanza fuori dal convenzionale, dal naif.

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Scrive Raffaella Verdesca:  “Casciaro ama la sua terra e ce ne regala i colori migliori attraverso immagini che nel passato scovano l’armonia del vissuto, del semplice, di quel palpitare non più ovvio se immortalato nei volti che quelle stesse strade e piazze hanno abitato. Ed ecco affacciarsi i ritratti di personaggi che hanno il sapore della storia, forse della favola. In caso di dubbio sulla giusta direzione, è a loro che Carlo ci suggerisce di chiedere”.

Nelle sue tele, dai vivaci colori, in cui vengono quasi sezionati i reticolati urbani dei nostri paesini, più spesso le aree della socialità come le piazze, gli slarghi, le corti, si ammirano animali come pecore, buoi, galline, gazze, convivere in perfetta armonia con oggetti e persone, in un’epoca ormai lontana, fatta di ristrettezze e di fatica, quella della civiltà contadina di qualche decennio fa. E poi un cielo attraversato da nuvolette dispettose; il  sole non appare mai in tutto il suo splendore ma sempre filtrato dalle nubi passeggere di un cielo velato madreperlaceo, occhieggiante fra le fenditure e i recessi del paesaggio  incantato, così salentino ortellese. Sembra quasi un minuto prima della pioggia, quell’aria di sospensione, in cui gli animali restano assorti immobili nella percezione dell’addiveniente. Oppure, la quiete dopo la tempesta, con quelle strade slavate e quelle pozzanghere ancora imbevute e già il contadino che si mette in cammino per la campagna e l’artigiano che ritorna all’opera usata.

Il segno colore di Casciaro dà ai suoi paesaggi un’immagine di gioia temperata, di una serenità appena percepita, voglio dire non un idillio a tutto tondo, tanto che il cielo incombente sulle scene di vita quotidiana sembra sempre minaccioso e il sole, come già detto, non si mostra mai. Intanto i volti ci guardano dall’acrilico delle sue tele, ci scrutano, mentre chiacchieriamo amabilmente di un tempo perso che più perso non si può, il tempo dell’arte, quello che fuga le mene e le paturnie della  vile quotidianità. I volti di Carlo, a dire il vero, sembra che scrutino più me, che forse ho l’aspetto troppo urbano per stare a mio agio in questo posto così semplice e austero,  ma è solo un pregiudizio, perché io mi trovo bene in ogni luogo in cui si respira arte e cultura,  e ora mi metto anch’io ad arrotolare sigarette con Carlo e a ricambiare quegli sguardi scrutatori dei suoi volti di carta, mentre con l’autoscatto della sua macchinetta fotografica immortaliamo il nostro incontro.

Saluto Carlo che si rammarica perché mi dice che nel paesello non c’è nemmeno un bar dove possa portarmi ad offrirmi un caffè. Io lo ringrazio comunque perché di caffè, a quell’ora della mattina, in genere ne ho già bevuti  di più di quanti magari lui ne berrebbe in tutto il giorno, e lo saluto affettuosamente. Accomiatandomi, mi accorgo che i suoi  volti disegnati non mi guardano più di sottecchi ma iniziano forse a prendere famigliarità con questo cronista che è venuto a rompere la loro calma assidua assorta silenziosa silente. Ma è troppo tardi, perché nel frattempo io sono già sulla mia scatarrante jeep,   “sulle strade di Carlo Casciaro”.

 

 

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Si chiamava Anna, la mia nonna paterna, e come tutte le nonne è stata, e lo è ancora, un’ispiratrice magnifica del mio benessere spirituale, della mia gioia di vivere, e soprattutto della mia fantasia.

Quando talvolta succede di sentire quell’irrefrenabile voglia di memorie, mi basta pensarla e lei arriva, chissà da dove, invitandomi a sedere sulla vecchia panca di noce, dietro il grande tavolo ovale, pronta a raccontarmi una storia.

Che mondo sarebbe senza la fantasia, forse è meglio non immaginarlo.

La fantasia apre le porte ad un universo di sogni e di gioia, quantunque le fiabe e le storie di tutti i tempi siano anche popolate di personaggi tenebrosi, protagonisti di avventure spesso spaventevoli, e costellate di orchi, di maghi, di draghi, di diavoli e streghe, di fantasmi e spiriti folletti, e di animali che parlano, tappeti che volano, passaggi segreti di castelli che si aprono al semplice suono di una potente formula magica, e ancora di luoghi misteriosi, immersi in notti buie e tempestose, e in cammini inenarrabili, dove il tacito desiderio della nostra disperata speranza si materializza in una tenue luciceddha luntana luntana

Un rifugio, la fantasia? Forse, ma non soltanto. La fantasia è un modo di essere, una scelta, uno stile di vita. O infine una specie di gioco fatato, che spesso permette di osservare il mondo con l’innocenza e il sorriso di un bambino.

Noi stessi – chissà – potremmo anche essere inconsapevoli personaggi fantastici di un libro mai cominciato e mai finito.

Come quello delle leggende.

 

Il ‘Salento immaginifico’, che nelle precedenti puntate ci ha accompagnato alla scoperta di tempi e luoghi misteriosi della nostra tradizione, riprende il suo racconto con un viaggio quasi interamente dedicato a Otranto, quale sincero e dovuto omaggio all’antica ‘capitale’ della nostra terra.

veduta di otranto (dal Pacichelli)

Otranto associa in sé atmosfere di storie fantastiche, ed ogni suo luogo può dirsi che richiami all’intrigante fascino di eventi inverosimili e arcani. Come molti vogliono, qui approdò Enea dopo la distruzione di Troia, guidando un manipolo di fedeli compagni alla ricerca di una nuova patria. Secondo gli storici più autorevoli, la descrizione minuziosa dello ”sbarco degli eroi” resaci da Virgilio non lascerebbe infatti alcun dubbio che il preciso punto d’arrivo sia individuabile nel sito idruntino, con buona pace di altre congetturose ipotesi, che indicherebbero, quale possibile alternativa, ora Leuca ora Castro (l’antica Castrum Minervae).

“Avea l’aurora già vermiglia e rancia / scolorito le stelle…” – canta il Poeta – “…allor che lunge scoprimmo / d’Italia i lidi”. E di seguito, Virgilio quasi dipinge l’antico porto naturale di Otranto: “È di ver l’Oriente un curvo seno / in guisa d’arco, a cui di corda invece / sta, d’un lungo macigno un dorso avanti, / ove spumoso il mar percuote e frange: / nei due corni ha due scogli, anzi due torri, / che con due braccia il mar dentro accogliendo / lo fa porto e nasconde, e sopra il porto, / lungi dal lido, di Pallade è il tempio…

Con chiaro riferimento, in questi ultimi versi, al Colle della Minerva, dov’era a quei tempi l’area sacra dedicata alla dea. Proprio quel fatale Colle della Minerva che il 14 agosto del 1480 fu teatro del terribile eccidio perpetrato dai Turchi di Gedik Ahmet Pashà, che portò alla decapitazione di 800 otrantini maschi sopra i quindici anni di età, i quali affrontarono senza esitazione la morte, piuttosto che rinnegare la fede cristiana.

Straordinariamente miracolosa risulta l’epica resistenza del sarto Antonio Primaldo, che fu il primo ad avere la testa mozzata da un colpo di scimitarra e che, nonostante gli sforzi dei carnefici per abbatterlo, mantenne saldo in piedi il suo corpo, finché non cadde l’ultimo dei suoi sventurati compagni.

Com’è noto, i Martiri di Otranto furono poi dichiarati Beati da papa Clemente XIV nel 1771 (al termine di un lungo processo canonico, iniziato nel 1539), e prescelti come Protettori della città.

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La famosa Torre del Serpe, un monumento tanto emblematico per Otranto da campeggiare nello stemma della città, è protagonista di un’altra curiosa leggenda, che ha peraltro varie versioni, delle quali riportiamo qui la più suggestiva.

L’antico baluardo difensivo – eretto probabilmente in epoca romana, fatto restaurare da Federico II, e oggi fortemente diroccato – si eleva su un piccolo rialzo della roccia antistante il porto, e per tale strategica posizione fu a lungo adibito a faro. All’interno della sua sommità aveva infatti un grande fanale con una fiamma alimentata da olio lampante, al cui controllo erano adibite a turno alcune sentinelle.

Si narra che la notte di un anno imprecisato (e comunque precedente al 1480, allorché avvenne il tristemente famoso assedio dei Turchi e il drammatico eccidio degli 800 martiri di cui si è detto) il faro si spense improvvisamente. Ad una immediata ispezione, il guardiano scoprì che tutto l’olio della grande lampada si era esaurito con largo anticipo, e senza cause apparenti. Sicché ne rimise nel contenitore un congruo quantitativo, riaccese la fiamma e si appostò, ben nascosto, in attesa di risolvere il mistero. Fu così che, di lì a poco, al sorgere dell’alba, poté scoprire che una serpe, uscita da una crepa del muro superiore, si avvicinò alla fiamma e ne succhiò tutto l’olio, spegnendola nuovamente.

Nel frattempo, dalle scogliere vicine, le vedette avevano avvistato all’orizzonte una temibile flotta di pirati saraceni che evidentemente, nel buio della notte, non avendo potuto scorgere alcun riferimento luminoso della costa di Otranto, avevano proseguito più a nord, attaccando poi il porto di Brindisi. In sostanza, la serpe – quanto meno in quella occasione – aveva salvato la città da una sicura incursione piratesca.

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Dall’Adriatico allo Jonio,ed esattamente a Taranto, ci spostiamo per un’altra leggenda che, se fa parte integrante delle specifiche tradizioni di quella città, è altresì assai nota e diffusa, pur con qualche variante, in molti altri luoghi della penisola salentina.

Si tratta dell’usanza, detta del “bambino della pioggia”, dove – come vedremo nella fattispecie, e come, più in generale, si può rilevare in tutta la storia del folclore – sacro e profano, superstizione e religiosità si fondono insieme, integrandosi e fortificandosi. Specialmente nei casi in cui emerge la primordiale necessità dell’uomo di controllare con ogni mezzo possibile (alla bisogna anche magico e trascendente) le preponderanti forze avverse della natura.

Fino a non molti anni fa, nella ’città dei due mari’ e nelle campagne circostanti, i contadini e la gente del popolo, in vista del sopraggiungere di un temporale, usavano esporre un bambino sull’uscio di casa, sollevandolo verso il cielo, e gli facevano gettare per aria tre piccoli pezzi di pane, mentre ad alta voce, da tutti i presenti, saliva la seguente invocazione, più o meno simile a quella che si tramanda in tutte le contrade del Salento: “Òziti, san Giuvanni, e no durmiri, / ca sta visciu tre nùuli viniri: / una d’acqua, una de jentu, una de tristu mmalitiempu! / Ddò lu purtamu ‘stu mmalitiempu? / Sotto na crotta scura, / ddò no canta jaddhu, / ddò no luci luna, / cu no fazza mali a me, / e a nuddha criatura!” (Alzati, san Giovanni, e non dormire, / ché vedo tre nuvole venire: / una d’acqua, una di vento, una di terribile maltempo! / Dove lo portiamo questo maltempo? / Sotto una grotta scura, / dove non canta gallo, / dove non splende la luna, / ché non faccia male a me, / e a nessuna creatura!).

Una domanda, in conclusione, potrebbe sorgere spontanea: “E chi in casa non avesse avuto bambini, come avrebbe fatto? ”. Beh, la risposta è una sola: le leggende non si discutono, si amano.

 

 

Cugghire, ccugghire e riccugghire

di Armando Polito

 

* AVRESTI POTUTO PARLARE PURE DI TE SFRUTTANDO LE PRIME DUE SILLABE DELLA PRIMA PAROLA CON L’AGGIUNTA DI SOLE TRE LETTERE!
* AVRESTI POTUTO PARLARE PURE DI TE SFRUTTANDO LE PRIME DUE SILLABE DELLA PRIMA PAROLA CON L’AGGIUNTA DI SOLE TRE LETTERE!

 

* COSÌ IMPARI A COMPRARMI LE SCATOLETTE CHE DICO IO!
* COSÌ IMPARI A COMPRARMI LE SCATOLETTE CHE DICO IO!

 

Cosa nota e non smentibile è che la civiltà nasce contadina. Ne consegue che anche il linguaggio è strettamente legato alla civiltà contadina e che l’agricoltura ha ispirato tante metafore. Sinceramente non so se la civiltà industriale, ammesso che essa sopravviva, sarà in grado di fare altrettanto visto che anche la moderna agricoltura tra veleni e genetica potrà ispirare al massimo immagini desolanti e funeree e nomi di nuove malattie …

Quanto è distante il tempo in cui da una sola radice derivarono coltura e cultura, colto e culto! Diversa origine dal citato colto (persona che ha cultura) ha in italiano un secondo colto (participio passato di cogliere). Mentre il primo, infatti è da cultu(m), participio passato di còlere=coltivare, il secondo è da collectu(m), participio passato di collìgere=radunare, composto da cum=insieme+lègere=raccogliere, esaminare, leggere, scegliere, eleggere.  Se si pensa che prima dell’agricoltura l’unica fonte di nutrimento dalla terra era la raccolta dei suoi prodotti e che dopo il suo avvento essa cominciò a costituire il momento più gratificante del proprio lavoro, si comprendono, dando una rapida scorsa ai significati riportati di lègere, gli strettissimi legami, nonostante l’indipendenza etimologica, tra coltura o coltivazione propriamente dette e cultura da una parte e cogliere dall’altra, con risvolti di natura pure politica.

Le metafore contadine hanno più probabilità di sopravvivere e di essere comprese laddove quella civiltà non è completamente scomparsa. È il caso di oggi con i tre verbi del titolo. Il primo e il secondo sono fratelli, nel senso che entrambi sono corrispondenti all’italiano cogliere e ne condividono l’etimologia già riportata. C’è, però, tra di loro una piccola differenza semantica: cugghìre è usato nel senso di colpire (anche l’italiano cogliere può avere questo significato); ccugghìre, invece, significa solo raccogliere, anche nel nesso (espressione di pietà per chi soffre o, al contrario, di augurio impietosamente malevolo) lu Patreternu cu ndi lu ccogghie (il Padreterno se lo prenda con sé). Difficile dire se il raddoppiamento della consonante iniziale sia proprio, questa volta, in funzione di distinzione semantica e non di natura espressiva o compensativa della caduta di qualcosa (raddoppiamento sintattico), da ad+cugghìre>*accugghire (assimilazione a contatto regressiva)>ccugghire (aferesi, per cui si dovrebbe scrivere più correttamente ‘ccugghire).

Riccugghire ha il suo corrispondente italiano nel letterario ricogliere e ne condivide l’etimologia (dal latino recollìgere). Il suo uso è riferito, a differenza di quanto avviene per ccugghire, esclusivamente agli oggetti (panni sciorinati, elementi vari sparsi), mai ai frutti. Tuttavia va ricordato che la sua forma riflessiva è usata come sinonimo di rientrare a casa e, per traslato, di sbrigarsi nel fare qualcosa (ieri s’è rriccotu tardu ti la fatìa=ieri è rientrato tardi dal lavoro; ògghiu bbèsciu quandu ti riccuegghi=voglio vedere quando ti sbrighi).

E questa è una di quelle metafore contadine prima ricordate,  questa volta per giunta doppia, esclusive del dialetto e non sopravvissute (forse mai nate) nella lingua nazionale.

Gli ulivi pugliesi invocano l’arte!

ciccarese ulivi

 di Mimmo Ciccarese

Paesaggio

Il campo
di ulivi
si apre e si chiude
come un ventaglio.
Sopra l’uliveto
c’è un cielo inabissato
e una pioggia scura
di stelle fredde
Tremano giunco e penombra
sulla riva del fiume.
Si arriccia il vento grigio.
Gli ulivi
sono carichi
di grida.
Uno stormo
di uccelli prigionieri,
che muovono le loro lunghissime
code nell’ombra.

Federico Garcia Lorca

 

Scandiscono le canzoni popolari intorno alle stagioni;  densità di ritratti, milioni di ulivi e urli d’angoscia quando si abbattono senza alcuna ragione e rispetto.

 

La canzone dell’ulivo

“Tu, placido, pallido ulivo,
non dare a noi nulla; ma resta!
ma cresci, sicuro e tardivo,
nel tempo che tace!
ma nutri il lumino soletto
dell’ultima pace!”
G.Pascoli 

 

Gli ulivi sono tessuti di poesia, esplosioni continue di gemme,  che incidono gli animi intorno ai loro corpi ripiegati, agrodolci espressioni di popoli elusi.

Tra i due capi della regione più lunga d’Italia gli ulivi sorvegliano come eserciti silenti, avamposti e ripari di perdute crociate e di duri lavori, in attesa di nuovi rinforzi.

Il richiamo degli ulivi attraverso i varchi della poesia, descritti dai più grandi artisti toccano la coscienza; se ne erano già avveduti poeti come Dante, Pascoli, Foscolo, Hikmet e grandi pittori come V. Van Ghogh. Ulivi, come pagine di saperi, dunque, essenze mordaci affioranti tra pietre fitte e frantoi medievali, capolavori che varcano da millenni la soglia dell’arte che non rimane indifferente.

Arte che consola la marcia di uomini, appassionati e sensibili, locomotiva e fiumana in difesa di un patrimonio inestimabile. Questo accade in Puglia, dove da semplici dialoghi di periferia, si diffondono i comitati e si invocano gli artisti a loro sostegno.

Complimenti al mio ex allievo!

di Armando Polito

Nel commento ad un recente post di Marcello Gaballo sulla chiesetta di Santa Maria della Grotta1  Piero Barrecchia sottolineava la somiglianza di un affresco con uno del 1656, raffigurante S. Oronzo, opera di Andrea Coppola, presente nel Duomo di Lecce, giungendo alla conclusione che ne sarebbe una delle tante copie.

Siccome la foto del post originale non consente di cogliere i dettagli, ne ho qui ritagliato due da una foto che scattai una decina di anni fa, il che, credo, consente un agevole esame comparativo.

 

 

Leggermente diversa mi pare solo la postura della testa del santo.

 

Un’epigrafe2 presente nella chiesetta è datata 1640, per cui è ragionevole supporre che il dipinto ricalchi l’abituale schema iconografico ma non sia di derivazione coppoliana, a meno che non sia stato realizzato successivamente a tale data.  È certo, però, grazie alla segnalazione di Piero, che esso raffigura S. Oronzo.

Partendo da ciò si potrebbe ipotizzare che tutte le figure facciano parte di un unico ciclo e che quelle non individuate abbiano a che fare con San Giusto, San Fortunato e Santa Petronilla (nobile romana, e questo potrebbe giustificare la corona). Ma io da solo non ce la faccio …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/note-storiche-e-decrittive-della-chiesetta-di-santa-maria-della-grotta-in-agro-di-nardo/

2https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/non-ci-sono-alibi-2/

Galatina. Una lite per la precedenza con la confraternita delle Anime del Purgatorio (1780)

LA CONFRATERNITA DEI SETTE DOLORI

Una lite per la precedenza con la confraternita delle Anime del Purgatorio (1780)

di Giovanni Vincenti

Una clamorosa controversia insorse, il 1780, tra il pio sodalizio laicale della Vergine dei Sette Dolori e quello delle Anime del Purgatorio circa la precedenza delle rispettive processioni. Avvenne infatti, che i primi tenessero la loro processione «in ogni prima domenica di mese, […] con messa solenne coll’esposizione del Santissimo», ma in quel mese di aprile di quell’anno questa cadeva proprio nella Domenica in Albis lo stesso giorno in cui, i secondi, solennizzavano la Festa della Resurrezione con «la consueta processione colla statua del Risuscitato Redentore». Ognuna delle due congregazioni si arrogava il diritto di precedenza in quella pubblica processione adducendo le proprie ragioni: la confraternita delle Anime Purgatorio sosteneva il motivo di anteriorità del suo Regio Assenso sulle Regole, risalente al 30 aprile 1767, mentre quella dei Sette Dolori avanzava lo stesso privilegio in virtù del Regio Assenso, ottenuto il 16 ottobre 1776, sia sulla Fondazione che sulle Regole.

confraternita delle anime

Quella del regio assenso era la condizione necessaria per il riconoscimento giuridico dell’istituzione confraternale secondo la legislazione concordataria del 1741 alla quale fece seguito il real dispaccio del 19 giugno 1769 emanato dal primo ministro Bernardo Tanucci: «Il regio assenso è necessario nella fondazione di qualunque corpo, senza il quale assenso è questo illecito, e dee dismettersi, e riputarsi per non esistente, non bastando l’assenso ottenuto sulle regole, le quali riguardano la qualità, e non l’esistenza del medesimo corpo a rendere legittimo quel, che di principio fu nullo, ed incapace per ogni riguardo, ed a qualunque effetto». A questo seguì un successivo Reale Rescritto del 29 giugno 1776, il quale introdusse il principio secondo cui alle confraternite munite di Regio Assenso sulle regole poteva accordarsi la sanatoria apponendovi la clausola usque ad Regis beneplacitum, senza assoggettarle a nuovo assenso in forma regiae Cancelleriae, ed a quelle sprovviste di assenso era fatto obbligo di richiedere l’assenso sulla fondazione e le regole senza rischiare la nullità e quindi la soppressione, lasciando però illese le ragioni delle parti per gli acquisti fatti precedentemente, e proprio in virtù di questo la confraternita delle Anime del Purgatorio regolarizzerà la sua posizione giuridica, il 19 giugno 1784, inserendo, tra l’altro, anche la clausola «d’ammettere le femmine alla partecipazione de’ benefici spirituali». La precedenza spettava dunque, stando alla normativa, alla confraternita del Sette Dolori tuttavia, poiché la questione, «non edificando il popolo e pugnando alla carità, ed umiltà cristiana, potrebbe divenire pericolosa, e di cattive conseguenze per lo bene spirituale, e temporale di ambidue d.e Congregazioni», si addivenne ad una salomonica soluzione, suggerita dal canonico D. Antonio Tanza, che i Prefetti dei due rispettivi sodalizi, mastro Carmine Antonaci e notaio Giuseppe Costantini, stipularono a futura memoria giungendo ad una amichevole composizione, e concordia.

Erano queste dispute non effimere ove solo si pensi che le confraternite con i loro riti devozionali e funzioni processionali scandivano la vita cittadina a ritmi vorticosi coinvolgendo l’intera società in tutte le sue articolazioni. Si pensi, ad esempio, alle feste e cerimonie solennizzate dalla confraternita dei Sette Dolori: «In ogni prima domenica di mese, e nel giovedì dopo la quinquagesima messa solenne coll’esposizione del Santissimo; Settena colla Esposizione del SS. nella festa della Vergine Addolorata, in cui si recitano ancora i corrispettivi Sermoni col panegirico, alla morte di qualche Fratello o Sorella, oltre la bara, e l’associazione, la Congrega fa celebrare in suffragio del defunto, o defunta, 9 messe basse, ed una cantata, oltre un Rosario, che da tutti si recita nella domenica susseguente la morte; nella prima domenica di novembre si celebra anniversario solenne per tutti i Fratelli, e Sorelle defunti; in tutte le domeniche di Quaresima si fa la Via Crucis». Oppure a quelle solennizzate dalla confraternita delle Anime del Purgatorio: «Messa solenne coll’Esposizione del Santissimo Sagramento in ogni seconda Domenica di Mese; Nella Domenica di sessagesima; in tutto l’Ottavario de’ Morti, nel quale si fanno anche le quarantore, ed i Sermoni; Novena, e festività della Vergine delle Grazie tutelare della Chiesa, Festa della Resurrezione nella Domenica in Albis; Alla morte di ogni Fratello, e Sorella si fornisce la bara, si fa l’associazione, e si celebrano una Messa Cantata di requiem, e dieci Messe piane, oltre la recita del Rosario in Chiesa nella Domenica susseguente alla morte; Nel 2 Novembre, e nell’ottava si celebra l’Anniversario solenne per l’anima di tutti i Fratelli, e Sorelle defunti, ed una Messa in ogni lunedì dell’anno».

Nel verbale del 31 marzo 1780 tratto dal Libro delle Conclusioni, che qui proponiamo integralmente, viene descritta quella vertenza e la sua successiva composizione:«Oggi, che sono li trentiuno Marzo 13.ma Indiz.ne del 1780. Costituiti in pubblico testimonio, e nella pre.za nostra li mag.ci Not.ro Giuseppe Costantini Prefetto della Venerabile Congregazione sotto il titolo delle Anime del Purgatorio di questa Città, aggente in d.o nome, ed interveniendo alle cose infrascribende per se, e per tutti li Prefetti suoi successori di d.a Congregazione, ed in nome ancora dell’istessa a tenore della Conclusione celebrata da’ F.lli di d.a Congregazione la quale infra.ta si inserirà da una parte. E mastro Carmine Antonaci Prefetto della Venerabile Congregazione di questa medesima Città, sotto il titolo della Madonna dei Sette Dolori, aggente in d.o nome, ed interveniendo alle cose infrascribende per se, e per tutti li Prefetti suoi successori di d.a Congregazione, ed in nome ancora dell’istessa a tenore della Conclusione celebrata da’ F.lli di d.a Congregazione la quale infra.ta si inserirà dall’altra parte. Le anzid.e parti hanno asserito, come ne’ giorni passati insorsero fra d.e Congregazioni alcune differenze a cagion, che pretendeva d.a Congregazione delle Anime del Purgatorio nelle pubbliche Processioni, e funzioni la precedenza sopra quella del titolo della Vergine Addolorata, appoggiandosi, fra gli altri motivi, all’anteriorità del Reale Assenso ottenuto su le di lei Regole. Contradicente all’incontro d.a Congregazione de’ Dolori, e pretendendo essa la precedenza fondandosi tra gli altri motivi all’anteriorità del // Reale Assenso ottenuto su la di lei fondazione, quale di fra esse Congregazioni preparata si era una simil contesa, la quale non edificando il popolo e pugnando alla carità, ed umiltà cristiana, potrebbe divenire pericolosa, e di cattive conseguenze per lo bene spirituale, e temporale di ambidue d.e Congregazioni. Hanno asserito parimenti, che mossa una tal differenza si preparò la Congregazione delle Anime del Purgatorio a festeggiare, secondo il solito nel di lei Oratorio la Domenica in Albis, e per fare la consueta processione colla statua del Risuscitato Redentore, avendone a tale oggetto ottenuto le opportune licenze, colle clausole espresse nelle med.me alle q.li. All’incontro la Congregazione de’ Dolori preparata anco era per festeggiare nel suo Oratorio la prima Domenica dell’imminente mese d’Aprile, che in quegli Anni ricade appunto nella seguente Domenica in Albis colla Esposizione del Venerabile, e colla solita processione per ragion di cui, e per gloria maggiore del SS.mo, dalla Curia Arcivescovile d’Otranto ne aveva ottenuto il permesso di fare la processione nel sud.o divisato giorno della Domenica in Albis. In tali circostanze di cose seriamente pensando d.i Sig.ri Prefetti delle anzid.e rispettive Congregaz.ni a’ sconcerti, e gare profane, che potrebbero facilmente avvenire dal proseguimento di d.a lite su la precedenza, ed a’ pericoli di dissordini, che anco avvenire potrebbero dal farsi nell’istessa mattina della prossima Domenica in Albis, le anzid.e rispettive processioni per qual motivo da d.a Curia Arcivescovile si avea disposta la previdenza contro i temuti // moti, o leve che avrebbe con ciò il divin culto dell’adoratissimo Signore a scemarsi, e dividersi; quindi per ovviare ad ogni inconveniente, e per sentirsi, come per lo passato tra d.e Venerabili Congregazioni, la vicendevole carità in edificazione del popolo, e de’ F.lli, col consiglio del Rev.do D. Antonio Tanza, sono venuti nel nome anzid.o, alla seguente amichevole composizione, e concordia. Primo che l’una e l’altra Congregazione cedendo a qualunque suo diritto, titolo, e preminenza, da qui innanzi, et in perpetuum si consederassero in tutte le funzioni pubbliche, ove accadesse, che l’una, e l’altra intervenisse di egual grado, e prerogativa, e perfettamente eguale di modo che l’una all’altra per verun titolo potesse, o dovesse precedere. E se per fatto avverrà, che l’una si ritrovasse, o prendesse luogo dell’altra più degno, con tal atto niuna delle parti pregiudichi dovesse, restando tutte e due nell’istesso suo grado, ed egual prerogativa. E per vieppiù confirmare tale eguaglianza, esse parti si sono concordate, che nelle funzioni accorrende alternativamente ad una volta per cadauna d.e Congregaz.ni dovessero precedere, e la prima volta quella Congregaz.ne precedesse, cui toccarà per sorte. Rinunciando ciò esse parti alla sopra descritta lite, ed a tutti gli altri per avventura formati, da’ quali nium conto si dovesse, né in Giudizio, né fuori. Secondo, che riguardo alle rispettive di sopra descritte funzioni la prossima Domenica in Albis, la d.a Congregazione del Purgatorio, precedente onorevole, ed amichevole invito, si contentasse, siccome promette, di associare in corpore, e con lumi suoi propri la processione, che a maggior gloria del Signore si farà in d.o dì dalla Congregazione sotto il titolo // della Vergine Addolorata nel suo Oratorio, e nella processione, tam quam invitati, avesser d’avere la precedenza i F.lli, e gli Uff.li della Congregazione delle Anime del Purgatorio, la quale nel d.o dì asterrà di far la consueta funzione, e celebrità di Gesù Cristo Resuscitato, posponendo la Processione, e la Festa per questo Anno in altro giorno; nel quale risolvendo detta Congregazione del Purgatorio di fare la sua Festa, si contentasse, siccome promette, d.o Prefetto della Congregaz.ne de’ Dolori di associare in corpore, e con lumi suoi propri la processione di Gesù Cristo Risorto, nella quale siccome ancor dentro l’Oratorio, tam quam invitati, dovessero aver la precedenza i F.lli, e gli Uff.li della Congregazione de’ Dolori, per qual oggetto saranno invitati con onore, e con amicizia ad intervenirci. Terzo, che in ogni futuro senza eccezione alcuna nel giorno della Domenica in Albis, anco se fosse la prima domenica del mese, non potesse la Congregazione sotto il titolo de’ Dolori uscire processionalmente girando porte, o tutta la Città, dovendo in d.o giorno restar libero l’esercizio di sue funzioni alla Congregaz.ne del Purgatorio, la quale trovasi già nel possesso di far la processione, come sopra descritta; e al pari questa Congregazione non mai potesse in ogni futuro tempo uscire processionalmente nella terza Domenica di Settembre, né girare porte, o tutto il paese con processione, mentre in d.o giorno dovrà, secondo il suo solito, farsi da d.a Congregaz.ne de’ Dolori, la sua Processione, e Festa in onore della sua Vergine titolare. E per la osservanza delle anzid.e cose, e a futura loro memoria, esse parti volendo stipulare in pubblico, e sollevare istrumento».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

Note storiche e descrittive della chiesetta di Santa Maria della Grotta in agro di Nardò

di Marcello Gaballo 

A pochi chilometri da Nardò, in contrada La Grotta, in quello che anticamente era denominato feudo di San Teodoro, sopravvive una interessantissima testimonianza architettonica, a torto considerata tra le chiese minori extra moenia. Ci riferiamo alla chiesetta di S. Maria della Grotta (in catasto al fg. 84, p.lla 68), talvolta denominata anche S. Maria della Grottella.

Un tempo della prebenda della Prepositura, oggi proprietà privata, è soggetta a vincolo con D.M. dell’ 11/11/86, grazie alle pressanti segnalazioni dell’ associazione Nardò Nostra (allora da me presieduta)[1], sebbene fosse stata già segnalata al Ministero dei BB. CC. il 9/9/981 per il riconoscimento di interesse storico-artistico ai sensi della L. n° 1089 del 1/6/939. Difatti “l’edificio sacro riveste notevole interesse storico-artistico, rappresentando un’insigne testimonianza di architettura religiosa campestre legata alle forme liturgiche proprie della cultura contadina dei centri minori del Salento nel XVII sec.”.

Nella successiva relazione del novembre 1986 della Soprintendenza viene descritta quale “tipico prodotto di architettura religiosa del XVII secolo legata ad un contesto economico-sociale non urbano bensì rurale… caratterizzato da peculiarità stilistiche e formali che lo pongono a pieno titolo nel ricco e complesso fenomeno figurativo comunemente definito come barocco salentino. Rispetto a tale fenomeno il piccolo monumento in questione occupa un posto che, sotto il profilo strettamente stilistico, non può dirsi prioritario; dal punto di vista storico e documentario esso è, tuttavia, ugualmente significativo per comprendere la varietà e la molteplicità delle manifestazioni originatesi da un’ unica temperie culturale ed estetica e ciò lo rende, dunque, meritevole di essere tutelato dal vincolo al pari di tanti altri episodi architettonici maggiori”.

la chiesa con la scala di accesso, vista dall’interno

L’ edificio è costituito da due corpi di fabbrica strettamente connessi, dei quali uno è occupato dalla chiesetta e l’ altro da locali di servizio, dei quali almeno uno già esistente nel 1678, come attesta la visita pastorale del vescovo Fortunato, in cui si legge essere  concamerata.

Il prospetto principale presenta un paramento murario, interamente intonacato, provvisto di due aperture e la cortina muraria degli altri tre lati “è realizzata, invece, in conci di pietra calcarea a faccia vista la cui tessitura contribuisce, insieme alla semplice cornice sagomata di coronamento, ad esaltare l’ essenziale volumetria della struttura parallelepipeda, interrotta soltanto dalle finestre a leggero strombo che si aprono sui fianchi”.

Dalla porta di destra del prospetto si accede, tramite una scalinata alquanto ripida, all’interno della chiesa, il cui piano di calpestío è di circa quattro metri più basso del livello esterno del terreno che circonda l’ edificio.

la volta della chiesa

La peculiarità dell’edificio, senz’altro attribuibile alle celebri maestranze neritine, oltre al vano ipogeo, è data dalla volta lunettata e dalla navata unica di notevole altezza. Ancor più caratterizzante il grande festone “a motivi fogliari scolpiti a forte aggetto che la solca longitudinalmente e che si apre in chiave di ogni campata per includere grandi rombi  decorati in forme diverse, a rosette dai petali rilevati o a racemi incornicianti il monogramma di Cristo. Un’analoga ornamentazione plastica segna i reni dei singoli pennacchi della volta, mentre sui blocchi d’imposta degli stessi compaiono lunghe foglie acquatiche dalla punta ricurva. L’insieme è trattato con evidente finezza ed eleganza e conferisce un piacevole aspetto dell’ambiente che doveva essere ulteriormente arricchito dall’ originaria decorazione pittorica di cui sussistono poche tracce nella parete di fondo”.  Inevitabili i richiami di questa decorazione a quelle della chiesa di S. Maria della Rosa e, soprattutto, della chiesa agostiniana dell’Incoronata, sempre a Nardò.

Occorre infine sottolineare che “singolare è il sistema di illuminazione naturale congegnato mediante alte finestre che attingono la luce dal di fuori e la convogliano mediante le doppie unghie sferoidiche all’interno costituendo diversi piani di luce e ombra che vivacizzano la volta. Le unghie sferoidiche della volta si intersecano in chiave  realizzando il singolare disegno del quadrato ruotato a quarantacinque gradi sottolineato da un cordolo di fiori chiusi, che segnano le linee di tensione della struttura voltata”[2].

una delle finestre

La chiesetta aveva un solo altare, distrutto negli ultimi decenni dai soliti “cercatori di tesori”, mentre le pareti retrostanti ospitavano alcuni dipinti a tempera, oggi a stento visibili, dei quali uno forse raffigurante la Vergine o un santo con lunga capigliatura[3], l’altro  una Crocifissione (vi esisteva infatti un beneficio omonimo) ed il terzo un vescovo con i suoi mitra e pastorale, inquadrato in cornice floreale anch’essa dipinta. Quest’ultimo è raffigurato su un ingresso murato della parete sinistra, probabilmente creato nel Seicento, quando fu dato il definitivo assetto alla chiesa, per ostruire una cavità che è riemersa dagli “scavi” dei soliti sciagurati “cercatori”. Risaltano speroni  rocciosi sulla parete sinistra, avanzati da una possibile grotta originaria, che successivamente fu inglobata nell’edificio. Sulla parete di fronte è murato lo stemma del vicario Granafei, con un’ epigrafe datata 1640, dalla quale si evince che l’ attuale chiesa fu ricostruita essendo abate Marcello Massa.

particolare della volta con il monogramma JHS

Quest’ultimo, già rettore nella visita pastorale del vescovo Luigi de Franchis del 1613, risulta ancora beneficiario nel trentennio successivo, come attestano le visite del vicario Granafei e del vicario Corbino, quando gli si  ordina  che facci far l’ astrico. Nel 1678 è rettore l’abate Girolamo delli Falconi. La chiesetta è censita nella visita del vescovo Sanfelice del 1723 come S. Maria de Griptella in feudo di Agnano; in quella del Lettieri del 1830 risulta officiata dal preposito don Pasquale De Laurentis, che forse fu l’ultimo a celebrarvi la Messa domenicale.

L’occasione è utile per ribadire, ancora una volta, che ci troviamo di fronte ad un monumento di grande interesse nel totale abbandono, che non può essere alla mercè di chi voglia accedervi, magari continuando a smantellare le poche parti ancora integre. Facciamo dunque appello ai proprietari, che non sembrano voler recuperare il bene, perché provvedano a impedirne il crollo, come sembrano minacciare le crepe sul lato destro.

Si preoccupino perlomeno di chiudere gli accessi e il cancello esterno, per evitare curiosi intrusi ed ulteriori vandaliche azioni che ci priverebbero, ancora, di parti di un patrimonio collettivo che ci è stato lasciato in consegna e che abbiamo l’obbligo di consegnare integro ai posteri.

dipinto con il santo vescovo
dipinto del santo o santa con corona, bordone e saccoccia. Tutte le foto sono di M. Gaballo

[1] Per le segnalazioni dell’ associazione Nardò Nostra v. “Quotidiano di Lecce”; “La città”, a. V, n°5, giugno 1986; “Il Salento Domani”, maggio 1986. Parte delle notizie le ho riportate in nota alla scheda compilata da Emilio Mazzarella in Nardò Sacra.

[2] cfr G. DE CUPERTINIS-L.FLORO, La chiesa di S. Maria della Grotta, in “La Voce di Nardò”, dic. 1995, p.17.

[3] Il dubbio è legittimo in quanto la figura, coronata, che regge con le mani quella che sembra una lunga croce astile o un bordone da pellegrino, è ben distante dalla nota iconografia mariana. Potrà aiutare nell’identificazione del santo quella che parrebbe essere una bisaccia, tenuta tra le mani.

 

Pubblicata su Il Filo di Aracne

Non ci sono alibi…

santa maria della grotta

di Armando Polito

La tecnologia mette oggi a nostra disposizione strumenti preziosi per conoscere e conservare le testimonianze del passato. Indagini impensabili fino a qualche decennio fa sono rese possibili da sofisticatissimi strumenti che trovano nell’informatica il partner ideale per l’elaborazione e la comparazione dei dati, alla ricerca di verità nascoste o offuscate dalle offese del tempo. Da qui le ricostruzioni in realtà virtuale che consentono di rivivere il passato, sia pure con i rischi di spettacolarizzazione che nell’era dell’immagine sono sempre in agguato. E sul piano della conservazione? Il discorso qui è molto più complicato perché coinvolge risorse umane ma, soprattutto, finanziarie. In un paese, come l’Italia, che detiene una parte notevolissima del patrimonio culturale dell’umanità il problema non è stato mai particolarmente sentito, nemmeno quando erano i tempi delle vacche grasse, figuriamoci oggi! Se gli affreschi a Pompei lentamente ma inesorabilmente svaniscono (ma qualcuno è pure svanito in un istante nel nulla…), se ai graffiti antichi si sovrappongono quelli moderni di visitatori idioti, che importa? Ci sono ben altri problemi da risolvere! Se penso ai cassintegrati ed alla schiera di giovani in cerca di un lavoro che non comporti lo sfruttamento schiavistico delle loro competenze, finisco, non guardando alle responsabilità oggettive che stanno a monte della crisi, per essere anch’io d’accordo con questo atteggiamento. Allora, se Pompei è destinata ad andare in rovina, se è fatale che manoscritti e libri antichi siano oggetto dell’attenzione privilegiata dei topi e delle muffe, se un fabbricato antico diventato nel corso del tempo rudere fra dieci anni dovrà essere solo un ammasso informe, perché non procedere sistematicamente almeno alla riproduzione digitalizzata del suo stato attuale? Nell’era del decentramento basterebbe che ogni amministrazione comunale utilizzasse le stesse attrezzature riservate ad immortalare, per lo più,  le gesta della maggioranza di turno; gli operatori, poi, potrebbero essere, naturalmente a titolo gratuito, quei numerosi cittadini che in ogni centro danno prova di amore disinteressato per la loro città e per la sua cultura. Ogni riproduzione, ancora, prima di essere immessa in un catalogo generale, dovrebbe essere certificata dalle istituzioni competenti per evitare il rischio dell’intrufolamento di qualche immagine falsa o ritoccata da parte del solito idiota. Tutto ciò comporta preliminarmente l’abolizione di tutti i lacciuoli e le esclusive che attualmente impediscono al privato cittadino di effettuare riprese fotografiche in edifici  aperti al pubblico di qualcosa che è, in fondo, patrimonio di tutti. Il consenso alla ripresa, insomma, resterebbe solo nel caso di edificio privato…non in palese stato di totale abbandono.

Per dare spessore concreto al mio discorso prenderò in esame l’epigrafe presente in un ambiente di quella che era la fabbrica della chiesa di Santa Maria della Grotta1, nell’immediata periferia di Nardò.

La mia foto in basso, elaborata per accrescerne la leggibilità, risale al 2006.

L’epigrafe consta di sette linee, delle quali sono ancora agevolmente leggibili le prime quattro contenenti, come vedremo, il nome dell’intestatario e la brava serie di titoli suoi e del suo “principale”; purtroppo le condizioni del manufatto degradano irrimediabilmente nella metà inferiore (molto probabilmente perché più soggetta alle conseguenze di qualche dissennata attività di tiro a segno o, addirittura, di sovrascrittura), proprio quella che doveva contenere le motivazioni che avrebbero potuto darci qualche ulteriore lume sulla storia della chiesa, sicchè pare un colpo di fortuna che nell’estremo lembo destro si sia  conservata appena leggibile l’indicazione dell’anno.

Eccone la trascrizione:

J(ESUS) H(OMINUM) S(ALVATOR)2 JOANNES GRANAPHEUS BRU(N)DIS(INUS)

U(NIUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERA)LIS HOD(IE)

D(OMINI) FABII CHISII NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)

HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HA(N)C ECCL(ESIAM)

……………A REPR……….O

…………..ANTE…….

AN(NO) DOM(INI)3 (?) MDCXL

Va subito detto che molto probabilmente la tendenza all’abbreviazione delle parole fu conservata anche nelle linee ora illeggibili, sia pure in misura ridotta, dal momento che non vi dovevano comparire, come nella parte precedente, titoli ma solo indicazioni circa l’intervento effettuato sulla chiesa.

Traduzione:

GESÙ SALVATORE DEGLI UOMINI.  GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI4,

DOTTORE DI ENTRAMBE LE LEGGI, PROTONOTARIO APOSTOLICO, PREPOSITO REGOLARE, OGGI VICARIO GENERALE

DEL SIGNOR FABIO CHIGI5 VESCOVO DI NARDÒ ED IN GERMANIA

OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO, QUESTA CHIESA

…………………

…………………

NELL’ANNO DEL SIGNORE(?) 1640

Lascio al lettore immaginare cosa sarà dell’epigrafe fra qualche decennio e cosa sarebbe stato possibile a quella data ricostruirne senza l’ausilio di una foto più o meno datata.

______

1 Il lettore che abbia interesse all’argomento può trovarne ampia e dettagliata notizia in Emilio Mazzarella, Nardò  sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina,  1999, pagg. 377-378 e figg. 116-122.

2 JHS è il trigramma, acronimo rivisitato dell’originale greco IHS, abbreviazione di IHSOUS (Gesù).

3 Il dubbio riguarda solo se la formula era riportata in modalità estesa o abbreviata.

4 Nativo di Mesagne, marchese di Carovigno, dottore delle due leggi e protonotario apostolico, inviato a Nardò dalla S. Sede quale vicario apostolico, fu poi fatto nominare vicario generale da Fabio Chigi e l’8 giugno 1635 prese possesso della diocesi. Nel 1636 fu nominato canonico della Cattedrale e nel 1639 preposito.

5 Ordinato sacerdote nel 1634, vescovo di Nardò dal  9 gennaio 1635 al 13/5/1652,  non mise mai piede nella diocesi né mai conobbe Nardò, impegnato a Malta come generale inquisitore e delegato apostolico, alla fine del 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere. Mentre era a Colonia fu nominato prelato domestico ed assistente al soglio pontificio. Dal 1655 al 1667 fu Papa col nome di Alessandro VII.

Ai cipressi di Borgagne

cipressi

di Pino de Luca

 

Il cipresso è un albero strano. Sempreverde (Cupressus sempervirens) alto e dalla chioma stretta e con radici dal medesimo disegno. Non serve, dicono, praticamente a nulla. La sua ombra è inesistente, magari potrebbe fare lo gnomone di una meridiana gigantesca. Fitto e dai rami sottili, difficile farci i nidi. Brucia male.
I cipressi sono li, a guardia dei morti, o a coronare viali dal fondo polveroso e sconnesso, sabbie mobili per passi perduti per chi cammina senza una meta precisa.
E invece il cipresso è nobilissimo, il primo albero dell’Eden si dice. Del suo nobile e aromatico legno era la freccia dell’arco di Eros, lo scettro di Zeus e la clava di Ercole.
Segno della salvezza (“Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori.” Genesi, 6,14) e della vita (“Se proprio non vuoi bruciare, torna a vivere” disse San Francesco piantando un rametto di cipresso. Quel cipresso è ancora a Santa Croce …)
Segno di eros e di amore perenne. Il suo nome è legato a Ciparisso, giovanetto che, insieme a Giacinto, era l’amato di Apollo.
Apollo, per ringraziarlo della sua disponibilità, gli regalò un cervo ma, un brutto giorno, giocando con il giavellotto Ciparisso colpì il cervo ferendolo a morte. Addolorato per la perdita chiese ad Apollo di rendere perenne il suo pianto e il dio lo trasformò in albero: il Ciparisso o cipresso.
E le galbule? Dioscoride ne fa uno dei medicamenti primari financo contro il veleno degli scorpioni.
Poi, poi viene l’oblìo e, con esso, l’ignoranza. E il cipresso diventa l’albero dei morti e della “sfiga”, l’albero che non ha senso coltivare perché non fa ombra e non fa frutti. Cresce lentissimo e, cosa imperdonabile per gli umani del tempo della fretta, è longevo, molto longevo.
E allora si segano gli alberi, si tagliano e si buttano, perché lo decide qualcuno che magari va in chiesa tutte le mattine e non sa nemmeno di quali legni è fatta la croce di Cristo. Palma, Ulivo, Cedro e Cipresso, per chi lo avesse dimenticato.
Si segano e si buttano incuranti della storia che hanno visto e che possono raccontare.
Sono indifesi gli alberi, non possono fuggire né ferire. Sono lì a guardarci da vivi e anche da morti, a dirci che loro c’erano quando noi non c’eravamo e ci saranno quando noi non ci saremo.
Ma sono utili gli alberi e si possono tagliare, l’importante è che qualcuno sappia per quale ragione, da spiegare ad una cozza che, nel Salento, ricorda i cipressi di Borgagne.
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