Potenza della fame

di Giorgio Cretì

In illo tempore, e anche dopo, la gente lavorava una giornata intera per due chili e mezzo di farina, appena per dare da mangiare ad una piccola famiglia; oppure, se aveva di che sfamarsi e possede­va qualche gallina, per dieci chili di cru­sca. Un salario in moneta non era previsto.

Così quando era stata tagliata la roc­cia per allargare la strada di San Vito, così quando era stata alzata la piazza del paese.

Prima la chiesa di San Giorgio era ad un livello più alto di quello della piazza, come tutte le chiese, e per entrarvi si sa­livano tre gradini di pietra di Cursi con­sunti dall’uso secolare. Quei gradini Buonafede Martano saliva di corsa con lo stendardo di San Giorgio che teneva inclinato fino a farlo passare dalla porta e innalzava subito dentro la chiesa, con la forza dei muscoli delle braccia. Uno stendardo che aveva l’asta lunga sei me­tri e che nessun altro era capace di por­tare in processione con il drappo spiega­to al vento. C’era stato, invero, un altro più forte di lui, un certo Giorgio detto Cocculo, che riusciva a sollevare lo stendardo da terra da solo, addirittura con uno sgabello legato alla punta dell’asta, ed era entrato nella leggenda.

La piazza era stata riempita con pietre trasportate da specchie(1) di Cazzafarri, Vignaudhia e delle Urle, con traìne(2), per giorni e giorni.

Di fronte alla chiesa, addossate al ma­gazzino(3) dei Rizzelli, erano ammucchia­te alcune vecchie costruzioni e lì c’era stato l’ufficio postale, nonché un’aula per la scuola. C’era stata anche la bot­tega di mastro Raffaele Ncoppe, vi­naio, e poi quella di mastro Umberto che aggiustava biciclette.

Ora noi conosciamo la piazza così com’è, squadrata e con un marciapiede in mezzo, ma era molto diversa una vol­ta. A fianco delle vecchie case, vicino al cortile di Toitoi, c’era una cisterna con un ampio puteale in unico blocco di pietra, che spesso serviva da scivolo ai ragazzi.

Era una cisterna posseduta in comu­nione da cui più famiglie attingevano ac­qua; trasformata poi in pozzo perdente, ora raccoglie le acque del tombino

Ricordo della madre

di Giorgio Cretì

(Inedito)

Un tempo in una di quelle vecchie case della via del Foggiaro abitava una donna buona di carattere e mite d’indole che si chiamava Eleonora ed era detta Nona, De Luca per via del suo patronimico. Vestiva all’antica con sempre indosso il suo vecchio e liso sciuppareddhu(1) nero, stretto in vita da una cinta pure nera e sempre coperto da uno strato visibile di peli di gatto.

Il marito indossava una camicia di fustagno grigio con la pistagna un po’ sfilacciata ed un paio di calzoni di tela domestica un po’ larghi per la sua corporatura, tanto da doverli reggere con un paio di bretelle di corda incrociate. Si chiamava Raffaele ed era conosciuto come Rafeli, Della Luna per via del suo cognome. All’apparenza era un bonaccione anche lui: quando camminava era di una estrema lentezza, al punto che qualcuno sosteneva scherzando che gli ci voleva mezz’ora soltanto per muovere un passo.

Poveretti, marito e moglie, vivevano così soli in quella casa con dietro un piccolo orto sempre ben ordinato e lavoravano come servitori mezzadri per Giuseppe D’Aprile: Rafeli si occupava anche della stalla e lei infilava il tabacco che coltivavano nel terreno intorno all’aia situata proprio dentro al paese. Non avevano amicizie particolari e non avevano più i genitori ch’erano morti da molti anni.

Dall’altra parte della via abitava Giacomino Vattino che, nella cantina cui si accedeva dalla strada, allevava sempre un paio di mucche che poi vendeva

Una perturbazione proveniente dalla Tunisia

di Giorgio Cretì

Nunzio in quel periodo andava a pesca con suo fratello, con uno schifo lasciato loro in eredità dal padre.

Egli, che era il più anziano, era stato in mare sin da quando aveva avuto quindici anni, con barche che andavano fino ad Otranto, a Sant’Andrea, ad Alimini o, verso sud, fino a Leuca, a San Gregorio, a Murciano e ai Pali. Per quasi dieci anni, poi, aveva fatto parte degli equipaggi di grandi barche da pesca di Amantéa, di Trebisacce, di Ginosa, di Monopoli e di Ostuni. I due fratelli, ora, bazzicavano verso Santa Cesàrea, di fronte alle cave di carparo, quelle cave da cui era uscito tutto il ma­teriale per la costruzione della casa di don Pippi Ciullo e di tut­te le vecchie ville; quando l’abitato di Santa Cesàrea terminava con il palazzo dei Rizzelli all’angolo di fronte al palazzo degli Sticchi, quello con le cupole, che era stato fatto costrui­re dai Papaléo di Bagnolo con maestri veneziani. Nunzio vi aveva lavorato come giovane manovale

A volte gettavano le reti o calavano i palamiti anche di fronte alle Fontanelle, oltre il promontorio della torre, ma più spesso pescavano all’interno della baia di Porto Miggiano, pren­dendo a riferimento lo scoglio detto Pescu Cirumanu o l’Isuleddha, un altro scoglio che emergeva appena da una sottostante piattaforma rocciosa; oppure si fermavano proprio sotto la tor­re, dentro quella piccola insenatura a forma di ferro di caval­lo che chiamavano Rasca. Tràsicu era un altro punto di ri­ferimento, molto difficile da raggiungere per via terra. Suo fratello aveva preso moglie da poco, forse da un anno, a­veva appena battezzata la Dorotea.

I pescatori e gli uomini che tagliavano la roccia si salutavano da lontano e spesso mangiavano il pane assieme. I pescatori portavano la barca a riva, su quella spiaggetta sotto la mon­tagna, e poi facevano un fuoco con rami di cardo scolimo o con altri sterpi ed erbe secche che trovavano tra le rocce.

Vi mettevano sopra, con un treppiedi improvvisato di sassi, un pentolino: un pezzo di cipolla e pochissimo olio per non svuotare in fretta il bottiglino; quando l’olio cominciava a fumare, but­tavano dentro la cipolla. Poi aggiungevano un po’ d’acqua e, quando questa bolliva, vi buttavano dentro anche i pesci. Così potevano inzuppare il loro pane. Se erano in tanti,

Scorfani e triglie di Castro Marina

di Giorgio Cretì

Per tutto il tratto di costa tra Porto Miggiano e Punta Mucurone la profon­dità minima sotto la scogliera è di dieci metri, ma tra la Grotta Zinzulusa e la Grotta Palombara essa raggiunge i tren­ta. La parete rocciosa che emerge dall’acqua raggiunge, poi, l’altezza di sessanta metri e il fondale, man mano che ci si allontana dalla costa, scende repentinamente.

Un tempo quei fondali erano popolatis­simi di cernie ed i pescatori di Castro, malgrado le loro lenze di canapa, ne pe­scavano parecchie, ma negli anni Cin­quanta cominciò a diffondersi la pesca in apnea e nei fondali più bassi i ser­ranidi cominciarono ad essere decimati. Pippi Colafati, farmacista di Poggiardo, ed altri sportivi del Basso Salento erano i pionieri di uno sport faticoso ed affa­scinante. Ricordo che passavano davanti a casa mia, a Ortelle, con le motorette che allora cominciavano a diffondersi dappertutto, e portavano avanti e indie­tro pinne, maschera e fucile. Sotto il sole che accecava.

Poi le cernie cominciarono a scarseg­giare nei fondali bassi e quando sembra­va che le tane oltre i venti metri di pro­fondità fossero sicure, vennero lanciati sul mercato i respiratori ad ossigeno e ad aria compressa e la lotta divenne ve­ramente impari per i pesci. I pescatori subacquei si chiamarono sommozzatori e venivano da ogni parte d’Italia. Qualcu­no aveva anche la casa a Castro.

Nunzio, che per eredità genetica ave­va bisogno di campare e per eredità sto­rica apparteneva alla classe molto dif­fusa dei nullatenenti, poiché era abile marinaio e ottimo conoscitore del lito­rale, si era messo al servizio di alcuni forestieri.

In vita sua non aveva mai visto esem­plari di pesci così belli uscire dal suo mare ed era contento perché le persone per le quali lavorava erano signori di nome e di fatto e con lui erano sempre molto gentili. Pescavano per il gusto di pescare, per il piacere di vivere parte del­la giornata sott’acqua ed il pesce che prendevano lo regalavano quasi tutto. Spesso lo andava a portare lo stesso Nunzio, quando tornavano a terra. E lui, avendo a che fare con molti pezzi grossi, si sentiva anche lui un po’ importante.

Da qualche tempo, il pesce migliore lo mandavano a donna Maria, la moglie di un generale, e Nunzio faceva la con­segna e poi se ne saliva a casa. Ma alla villa

Un mestiere come un altro [le confessioni di un custode cimiteriale]

 

di Giorgio Cretì

Vado ad aprire il cimitero ed inizio la mia normale giornata di custode, cioè di addetto alle pulizie. Scendo le scale della parte vecchia, di quella sotterranea, con il mio secchio e con la scopa e appena arrivo giù, in quell’ambiente poco illuminato e in quel silenzio tombale, percepisco un bisbiglìo lieve lieve di voci che dicono: “speriamo che non se n’accorga”. Non si accorga di che cosa? E chi? Tendo bene l’orecchio e mi guardo attorno, ma non vedo anima viva. Poi scopro che un loculo ha il coperchio riverso ed è vuoto. Ecco che cosa vuol dire “speriamo che non se n’accorga”: qualcuno ieri sera è andato a fare un giro e non si è ancora ritirato. “Bene”, dico ad alta voce, “ora mi piazzo qui e non mi muovo, voglio vedere a che ora si ritira, poi facciamo i conti”. Intanto fingo di fare le solite pulizie. Dopo un po’ vedo arrivare uno scheletro, viene giù dalle scale molto lentamente, ma lo lascio avvicinare. “Allora”, gli faccio: “e tu, a quest’ora, da dove vieni? Lo sai che fuori è già suonata la sveglia ed è stato fatto l’appello?”. Allora lo scheletro con la testa china in segno di rispetto mi risponde: “senta, signor custode, lei lo sa che io, per tradizione, tutti gli anni vado alla festa di Ferragosto ed anche questa volta ci sono andato”.

“Va bene”, gli faccio, “intanto sei uscito senza permesso, ma come mai sei tornato solo a quest’ora?”. “Sa com’è, signor custode, passavo vicino ad una bottega dalla cui porta usciva un odore di pezzetti al sugo molto invitante e non ho resistito alla tentazione di entrare. Poi ho mangiato e bevuto, forse

Cozze de terra

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Nel tempo di Zeus – in età per così dire moderna – ad un certo punto della storia umana, fu scoperta l’alimentazione sofisticata e chi poteva si nutriva con cibi rari che venivano anche da molto lontano. Da quello che sappiamo, però, da ciò che ci hanno lasciato scritto, gli antichi – non tutti naturalmente, solo poeti e scrittori – quando erano stanchi della vita lussuosa che conducevano tutti i giorni, sentivano nostalgia della vita primitiva, quella dei campi, della platonica “cittα del bisogno”, ed invidiavano i contadini che potevano condurla: “Beati voi, guardiani e contadini! Tutte queste fortune, preparate per i padroni, sono a vostra disposizione”, dice Marziale in una delle sue Satire (X, XXX).

In un certo senso, e solo in questo però, Marziale ha ragione quando afferma che certe fortune non le godono i padroni che le hanno accumulate, ma i servi che le sorvegliano. Pensiamo per esempio allo zappatore: d’estate sotto la canicola con la sua zappa da due chili e mezzo puntava nelle fessure del terreno e rivoltava enormi zolle che lasciava esposte al solleone in attesa delle piogge autunnali che le sciogliessero.

Aveva ragione Marziale, perché il contadino – che tempo l’arrivo della sera, avrebbe cambiato colore perché coperto dalla polvere rossa trattenuta dal sudore –, durante la giornata qualche volta rompeva il ritmo del suo lavoro per raddrizzare la schiena dolorante, ma anche per raccogliere qualche frutto nascosto che la terra gli rendeva dal suo profondo. Raccoglieva le monacelle, le lumache marroni in letargo, con il guscio del colore della terra, che apparivano improvvisamente, visibili per il loro bianchissimo opercolo protettivo; le raccoglieva e se le buttava man mano davanti. Allo stesso modo raccoglieva i lampascioni, i grossi bulbi violacei, che a sera metteva nella bisaccia. Erano frutti che il padrone non poteva apprezzare appieno, specialmente le monacelle. Quando il villano interrompeva il lavoro e, al riparo dalla brezza, con la giubba sulle spalle perché il sudore non gli si aciugasse addosso, faceva una fumata con la sua pipa di creta, bruciava una manciata di stoppie e buttava nel fuoco le chiocciole che arrostivano in pochissimi minuti, oppure le mangiava crude prima che iniziassero ad emettere la loro ripugnante bava. Era un privilegio di cui solo lui poteva godere.

Ma il villano, il nostro villano, non raccoglieva quelle chiocciole dal guscio marrone solo quando la terra le rendeva dal loro letargo; con le prime piogge d’agosto, quando uscivano dal letargo estivo in cerca di cibo ne portava a casa panieri colmi e le consegnava alla famiglia per farle spurgare. Erano una leccornia collettiva ed erano dette monacelle per via del colore marrone del guscio e della lamina membranosa bianca con cui il mollusco si chiude all’interno per proteggere il suo sonno. Era la miglior carne del villano, quasi l’unica disponibile, quando c’era. Come gli altri molluschi, di terra e di mare, si chiamava cozza. Tutte le cozze si distinguevano l’una dall’altra per l’aggettivo che le seguiva: le terrestri in tutto erano  sei, anche se una, la cozza palummeddha (Helicella hydruntina), non veniva mai raccolta perché troppo magra ed era facilmente  riconoscibile dall’incavo largo e profondo al centro della sua spirale.

Helicella pisana (ph Giorgio Cretì)

Nel Salento si chiamano cozze tutte le chiocciole. Le limacce si chiamano cozze nude e non c’entrano. Le varietà oggetto di raccolta a scopo alimentare, tolta la palommella, sono, quindi, cinque; le più grosse sono chiamate cirumani, ciammarruchi o anche cuzzuni e sono le famose escargot (Helix aspersa), oggetto di grande commercio e consumo, specialmente in Francia: in molte zone della Terra d’Otranto, però, non sono prese nemmeno in considerazione.

Le cozze più importanti, in ordine di preferenza, sono quindi le cozze moniceddhe o ntuppatieddhi ed anche uddatieddhi e chiuddhi (Helix aperta). La cozza moniceddha è solita rifugiarsi sottoterra con la conchiglia appena affiorante. Se la si tocca emette rapidamente una grande quantità di schiuma creando intorno a sé una barriera dello spessore di qualche centimetro e facendo al tempo stesso un gorgoglìo intermittente abbastanza rumoroso. Se questo suo schiumare e brontolare può essere una tattica di difesa efficace contro alcuni suoi predatori, sortisce però anche l’effetto contrario di svelare la sua presenza al “raccoglitore” umano che, frugando con le mani sul terreno o tra l’erba alta, riesce ad individuarle molto facilmente.

La cozza moniceddha  è molto sensibile alla temperatura ed all’umidità e non appena le condizioni ambientali non sono più ottimali essa entra in ibernazione (se è troppo freddo) o in estivazione (se è troppo caldo o troppo secco) rifugiandosi in una buca scavata nel terreno e sigillando l’apertura della conchiglia con il suo opercolo calcareo. Come tutti gli Helicidae, è una specie ermafrodita insufficiente, cioè ogni individuo possiede sia organi riproduttivi maschili che femminili ma non è tuttavia in grado di autofecondarsi. Ecco perché, molto spesso, in autunno, le cozze moniceddhe si raccolgo a due per volta, i cosiddetti paricchi.

COME MANGIARE LE COZZE DI TERRA

Cozze moniceddhe in soffritto

Kg. 1,5 di monacelle in letargo (con l’opercolo bianco), ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 bicchierino di vino rosso, sale q.b.

Mettere a bagno in acqua fredda le lumache e poi lavarle, strofinandole, per togliere la terra dal guscio.

Una per una, togliere loro l’opercolo ed eliminarne qualcuna eventualmente morta; passarle man mano in un colapasta, e alla fine sciacquarle bene ancora sotto l’acqua corrente.

Scaldare l’olio in una padella di ferro e versarvele tutte assieme.

Farle saltare per qualche minuto a fuoco vivace, quindi aggiungere il vino.

Far evaporare e poi abbassare il fuoco.

Soffriggerle per un’oretta a padella coperta e servirle calde.

Essendo di dimensioni più piccole rispetto ad altre verietà di lumache, si estraggono dal guscio con l’uso di uno stecchino.

Cozze piccinne ndilissate

Kg. 1,5 di cozze piccinne, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 pizzico di origano, sale q.b.,  peperoncino verde fresco a.p.

Lavare bene le cozze, porle in una pentola coperte d’acqua fredda e lasciarle allungare col corpo fuori dal guscio mentre tentano di andarsene. Quando tutte saranno in movimento incoperchiare, accendere il fuoco e tenerlo basso fino a quando i molluschi non si muoveranno più; a quel punto alzare la fiamma e cuocere per un quarto d’ora circa.

Toglierle dall’acqua di cottura, lavarle nuovamente con acqua fresca e scolarle. Salarle, spolverarle di origano, aggiungere il peperoncino fresco tagliato ad anellini ed irrorarle con l’olio d’oliva.

Mescolarle ben bene perché il sale si sciolga e son pronte da mangiare in compagnia come fossero bruscolini.

ph Tommaso Coletta

Cozze piccinne tutte pare

Kg. 1,5 di cozze piccinne, gr. 300 di pomodori a pezzi, 1 spunzale (o un cipollotto verde), 1 ciuffo di basilico, 1 ciuffo di prezzemolo, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, sale q.b.,  peperoncino fresco o secco a.p.

Lavarle per bene e mettere le cozze in casseruola assieme ai pomodori tagliati a pezzi, allo spunzale pure spezzettato, al basilico, e al peperoncino spezzato in due; aggiungere ½ bicchiere d’acqua, salare e irrorare con l’olio d’oliva. Farle andare a fuoco moderato per una ventina di minuti, poi son pronte.

Per estrarre la chiocciola dal guscio ci si può servire di uno stecchino, ma esiste un sistema che ad apprenderlo bene è molto più efficace: si prende la chiocciolina tra pollice e indice e con un canino si fora il guscio a metà della prima spira, poi si dà una bella succhiata e l’animaletto resta in bocca; si pone il guscio vuoto in un recipiente messo lì apposta e si continua così finché ci sono chioccioline da mangiare. Ogni tanto si mangerà anche un pezzo di pane dopo averlo intinto nel brodo e si berrà un mezzo bicchiere di vino rosso di media gradazione alcolica, se si vorrà.

Alla fine le labbra saranno infuocate, ma la soddisfazione dello stomaco sarà molto grande.

Sull’argomento si rimanda ad altri articoli pubblicati nei mesi scorsi su Spigolature Salentine:

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/06/30/gastronomia-salentina-lumache-chiocciole-co/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/07/01/gastronomia-salentina-ricette-con-le-lumache-e-chiocciole-prima-parte/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2012/01/26/voglia-di-cozze-piccinne/

La raccolta del letame

di Giorgio Cretì

Sì, un tempo si raccoglieva il letame che le bestie abbandonavano lungo le strade e anche nelle vie dei centri abitati. Come altre poche cose, allora, il letame era considerato res nullius e quindi disponibile per chiunque lo trovasse per primo, nonché, qualche volta, fonte di lite tra poveraccci. Chi non ricorda la zuffa del racconto “Questione d’interessi” di Renato Fucini nella campagna toscana. Qui da noi non mi risulta che qualcuno si sia azzuffato per lo sterco di un cavallo o di una mucca trovato sulla pubblica via. Sappiamo, però, che il letame, tutto, era ritenuto bene di grande valore nelle pratiche agricole sin dai tempi antichi e il grande Columella nel libro primo della monumentale opera De re rustica dedica un capitolo intero all’agomento.

Emblematica, e direi di ispirazione georgica, a Ortelle è ancora ogggi la figura di Ntoni Tappu che torna a casa dalla non tanto vicina contrada Chianu con sulla zappa una cacata di vacca e in collo una fascina di rovi. Lo sterco gli serviva per concimare il piccolo giardino domestico ed i rovi servivano alla moglie per far cuocere le foje(1)  giornaliere.

Cynara Scolymus (ph Giorgio Cretì)

Per lo più la raccolta del letame era affidata ai bambini, se non altro per tenerli occupati e per abituarli a dare il giusto valore anche alle cose più infime.

Quello che segue è il racconto di una giornata  in cui un bambino di  sette anni, di nome Ciccio, che è il diminutivo di Francesco, riceve l’incarico di andare a raccogliere il letame e si distrae a tal punto che torna a casa con il paniere vuoto ch’è già notte ed il genitore è preoccupato e furioso.

Facciamo parlare il protagonista e rccontare la storia proprio come l’aveva

Spiriti e folletti tra Castro e Porto Miggiano

Tratto di costa salentina visto dalla Zinzulusa (ph Antonio Cretì)

di Giorgio Cretì

Nunzio, quello della cernia di quattordici chili, che con un colpo fortunato aveva risolto il problema alimentare dell’inverno per tutta la sua famiglia, ormai aveva quindici anni e andava in mare già da tanto tempo. Secondo la filosofia del padre, però, che un mestiere non bisognava impararlo in casa ma al di fuori della famiglia, andava a pescare quasi sempre con altra gente. Di solito con suo zio Antonio che la sera, quando era bel tempo, calava le sue reti sempre oltre la punta Mucorone, anche se non andava mai oltre la caletta di Porto Miggiano.

Un giorno lo zio lo chiamò per portarlo all’oparizzi(1) vicino alla grotta Romanelli, appena dopo la Zinzulusa. Era la stagione in cui le boghe si avvicinavano in branchi alla riva, erano facili da prendere ed erano richeste dalla gente che le faceva anche a sarsa(2)  per farle durare il più a lungo possibile. Quel pomeriggio Nunzio aveva vogato con il suo solito vigore giovanile per tutto il tragitto d’andata, poi era rimasto ancora ai remi mentre lo zio calava le reti e dava al nipote i comandi necessari per la buona riuscita

La cernia che rese un tomolo di piselli

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Aveva dodici anni e andava in mare con Carmine, un vecchio pescatore cui mancava una mano, con un pic­colo schifo di non più di nove palmi(1). Suo padre ancora non lo portava con sé, perché riteneva che l’arte del padre, per impararla bene, bisognava stare sotto un altro che fa lo stesso mestiere. Almeno per un po’. D’altra parte, Carmine era una bra­va persona e, malgrado la mutilazione, anche un ottimo marinaio. Da lui Nunzio poteva imparare molte cose.

Con una barca così piccola non andavano molto lontano, ma, quando il mare lo per­metteva, doppiavano Punta Mucurone e si allontanavano, a volte, fino alle Striare dove Carmine conosceva un pascolo sotto una pic­cola sorgente di acqua dolce e, se ne valeva la pena, buttava una botta. Proprio fino a Santa Cesarea non ci arrivavano mai e pescavano sempre tra la Zinzulusa e Porto Miggiano.

Durante il tragitto era sempre Carmine a remare, ma quando si fermavano sopra un banco di sabbia o sopra una colonia di alghe, e bisognava tenere la barca in surplace  senza gettare la màzzara(2), ai remi stava sempre Nunzio.

Carmine non possedeva reti e pescava sempre con la togna(3), ma il pesce che prende­va in quei tempi di miseria profonda, gli era sufficiente per sopravvivere.

Nunzio non sempre si presentava al­l’appuntamento e Carmine, se non lo vede­va arrivare, partiva da solo. Poi, poteva trovarlo so­pra uno scoglio, oltre la Zinzulusa, che pe­scava da terra per conto suo. Le togne dei bambini erano fatte di cordicelle con alla fine legati peli di coda di cavallo strappati alle bestie sulla piazzetta del Porto; Nunzio pescava con quelle e porta­va a casa i pesci che prendeva, tutti pesciolini di scoglio, ottimi per la zuppa che sua madre chiamava brodetto e serviva per mangiare più volentieri il pane. Suo pa­dre a volte si complimentava con lui; altre, però, lo prendeva in giro dicendogli che i pesci grossi non abboccavano ai sui ami per compassione, per non doverselo

L’abbaglio della cicerchia

 

di Giorgio Cretì

Periodicamente, nel corso della storia della cucina hanno avuto luogo movimenti per il  ritorno ai prodotti naturali e periodicamente si è ricaduti nell’errore di puntare più sulla moda che sulla genuinità. All’epoca di Apicio non c’era piatto che non contenesse il garum, ci fu poi un tempo in cui ogni pietanza era sommersa dalle spezie orientali, oggi siamo nell’era del dado, del glutammato monosodico.

Avviene poi che qualcuno si ribella, e torna alla cucina contadina, o perlomeno in essa cerca ispirazione per la propria arte, a volte prendendo anche lucciole per lanterne. L’ulltimo grande abbaglio, secondo me, è costituito dalla cicerchia, passione di molti giovani chef di grido, dal Nord al Sud. E chi non segue il modello non si sente trend. Si vuole spacciare una civaia disprezzata dai nostri nonni per un legume povero ch’entrava nella dieta, povera, di tutti i giorni. Niente di più falso.

A memoria mia e di altra gente anche più vecchia di me, nata nel Sud dove in un periodo in cui i legumi, al pari degli ortaggi e delle erbe spontanee, erano cibo quotidiano, a memoria d’uomo la cicerchia detta anche dolega era un legume al quale si ricorreva soltanto quando non c’era altro da mangiare ed

1880, naufragio del piroscafo Travancore wreck all’Acquaviva

 

di Giorgio Cretì

Travancore (archivio Ninì Ciccarese)

Alla masseria di Capriglia tutto procedeva secondo il susseguirsi delle stagioni e l’attività della gente era legata esclusivamente alle pratiche agricole. Massaro Rosario, oltre che occuparsi delle direttive generali, teneva per sé anche certe incombenze di particolare delicatezza e perizia come, per esempio, la semina e la vendita dei prodotti; Crocefissa badava alla casera e alle faccende di casa e Rocco seguiva tutti i lavori: dall’aratura alla mietitura, dalla mungitura alla tosatura delle pecore, dalla chiamata dei giornalieri al pagamento del vino che essi bevevano nelle botteghe del paese a fine giornata. Gabriella era lì ormai da un anno e s’era integrata nella famiglia: non aveva nessun incarico particolare, a causa del suo impegno continuo con il piccolo Rosario che cresceva bello e sano, ma aiutava qua e là secondo le necessità. Suo padre Peppino ora aveva il lavoro assicurato, ed anche il vino. A volte Gabriella andava nei campi perché erano necessarie anche le sue braccia e allora il bambino restava con Crocefissa, ormai mamma Fissi per Gabriella, che l’adorava e lo teneva in braccio con tanta tenerezza come se tenesse il suo Pasquale ch’era tanto lontano.

Era serena, Crocefissa, e si faceva ogni tanto rileggere le lettere che Pasquale scriveva e specialmente i passi che la riguardavano. Temeva il mare perché lo sapeva infido per i marinai e quando pensava al figlio sopra una nave, le tornava in mente il ricordo di quando, una trentina d’anni prima, c’era stato un naufragio non molto lontano.

Una notte di marzo, un piroscafo inglese che veniva dalle Indie era affondato davanti al canale dell’Acquaviva, alle marine di Marittima. Molta gente allora era accorsa generosamente con le barche, soprattutto da Castro, ed i passeggeri e l’equipaggio erano stati tutti tratti in salvo prima che la nave affondasse completamente; del carico, però, non s’era salvato nulla: al buio era letteralmente scomparso… e non in fondo al mare. Che gente!, pensava.

C’era stata, però, una storia diversa, quella del brigadiere Rizzelli di Gallipoli che, avendo trovato un cofanetto di monete l’aveva subito consegnato al legittimo proprietario, ma gli era toccato solo un encomio. Così erano i carabinieri! I quali, durante le loro perlustrazioni, passavano dalla masseria e v’entravano a salutare chi trovavano ed a scambiare qualche parola: a volte massara Crocefissa regalava loro qualche ricotta o del formaggio da portare a casa. I carabinieri andavano a cavallo o a piedi, ma avevano anche le biciclette. Non erano molto istruiti e la maggior parte di essi sapeva leggere e scrivere quel tanto che serviva  per il proprio ufficio; non davano mai opinioni sugli avvenimenti politici.

Il riferimento al naufragio dell’Acquaviva è tratto dal capitolo terzo di “Poppiiti”, uscito nel 1996 ed io l’avevo ricavato da “La corografia fisica e storica della provincia di Terra d’Otranto”, stampato a Lecce da Giacomo Arditi nel 1879.

L’Arditi afferma che tutto il carico della nave fu oggetto di sciacallaggio e salva solo “la gara ospitale ed umanitaria di alcuni signori e delle autorità accorse”. Nel verbale del processo tenutosi a Londra il 12 aprile successivo si dice, però, che non tutto andò perduto: “they ultimately succeeded in saving a portion of the cargo”.

Scorriamo ora il processo verbale dei fatti come redatto a Londra un mese dopo da quella Camera di Commercio.

Il piroscafo affondato all’Acquaviva si chiamava Travancore e apparteneva alla Peninsula and Oriental Steam Navigation Company. Era addetto al trasporto misto di persone e merci. Misurava 1.903 tonnellate di stazza lorda e 1.172 di stazza netta con motori da 350 c.v. Era partito dal porto di Alessandria in Egitto il 5 marzo ed era diretto al porto di Brindisi, con 108 membri di equipaggio, 57 passeggeri e un migliaio di tonnellate di merci, per lo più cotone.

La nave faceva rotta verso il Capo d’Otranto per poi, ivi giunta a circa un miglio dalla costa, segnalare la sua posizione a terra. Da dove avrebbero telegraficamente avvertito Brindisi del suo arrivo perché si approntasse in tempo il treno speciale, pronto per il trabordo dei passeggeri e della posta nello stesso porto. Alle 11 di sera, il Travancore era in vista del faro di Santa Maria di Leuca e tracciata la rotta per proseguiire il capitano se n’era andato sottocoperta. Il tempo era bello, il cielo sereno e il mare completamente piatto, spirava una leggera brezza.

Poi le cose si complicarono in quanto le valutazioni del comandante e del suo vice non coincidevano ed anche per la nebbia calata sulla zona. Il comandante aveva controllato le carte nautiche e tornando sul ponte, verso le tre del mattino, ordinò di cambiare la rotta, ma improvvisamente si trovò la costa molto vicina e la cambiò nuovamente. E fu proprio in quel momento che la nave urtò violentemente contro uno scoglio della “Baia di Castro dentro Punta Mucurone (Maccarone nel testo inglese) a circa 9 miglia dal Capo d’Otranto”. La prua era staccata dalla riva meno di 50 metri e la poppa meno di 100.  Erano le 4 del mattino. Furono immediatamente calate in mare le scialuppe e portati a terra i passeggeri e la posta. La nave imbarcava acqua molto in fretta, però, ma il capitano e l’equipaggio rimasero a bordo  per tentare di disincagliarla anche se l’acqua entrava sempre più copiosa nelle stive. Alle 7 di sera fu del tutto abbandonata. Ma gli uomini della ciurma vi ritornarono il giorno successivo e riuscirono a salvare una parte delle merci. La nave rimase poi abbandonata al suo destino ma non ci furono perdite di vite umane.

Il 12 aprile pressso Westminister il capitano Robert Scott e Melbourne Denny Blott, vicecomandante, furono processati, ritenuti responsabili del naufragio e condannati alla sospensione per tre mesi della loro patente nautica. Motivo: la nave non era stata governata with proper and seamanlike care, con la necessaria accortezza degli uomini di mare.

L’episodio è rimasto generalmente dimenticato per più di un seccolo, fino a quando nel 2005, il giorno 8 di marzo, l’Amministrazione comunale di Diso, del cui territorio fa parte la frazione di Marittima e quindi dell’Acquavia, non ha deciso di porre una targa con la scritta: “A ricordo del 125° anniversario del naufragio della nave Travancore”.

L’episodio del piroscafo inglese è stato studiato in modo approfondito da Ninì Ciccarese, discendente di una famiglia di Castro, presso la quale alcuni passeggeri della nave avevano trovato ospitalità nel marzo del 1880.

Gli stessi fatti sono stati trattati dal professor Alfredo Quaranta di Marittima con il titolo “La valigia delle Indie” stampato per i tipi di Capone Editore nel 2003. “Valigia delle Indie”, poi, era stato il nome italiano del treno postale e per viaggiatori che da Modane (in Francia) aveva portato a Brindisi, attraverso la penisola italiana, i viaggiatori e corrispondenza da Londra a Bombay (via Canale di Suez) nel periodo  dal  1870 al 1914.

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