Gli squadristi a Galatina durante il Ventennio fascista

La storia delle “camicie nere” a Galatina

GLI SQUADRISTI A GALATINA

DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Erano noti come gli squadristi di don Vito

 

di Carlo Caggia1

Quando nel 1967, sollecitato da Tommaso Fiore, pubblicai il mio primo libretto di storiografia politico-sociale – allora completamente estraneo alla tradizione salentina – (“Carlo Mauro, pioniere del socialismo salentino”), venendo a trattare degli albori del fascismo a Galatina, così mi esprimevo: “Galatina non era, non fu e non sarà mai fascista (…). I fascisti furono e rimasero sempre una sparuta minoranza. Solo quando Vito Vallone, fratello di Antonio, aderì al fascismo, subito dopo la marcia su Roma, Galatina fu “fascista”. Tolta però quella minoranza di cui si è detto e che caratterizzò anche qui per la sua violenza e tracotanza, gli altri “fascisti” furono in sostanza dei moderati tanto che il popolo stesso, onde distinguerli, spontaneamente li chiamò “i fascisti di don Vito”.

Questa minoranza di esagitati, però, si coprì di azioni delittuose di notevole gravità, omettendo in questa sede quelle “minori” e cioè “purghe”, bastonate, minacce di incendio delle case dei “sovversivi”. Gli episodi a cui facciamo riferimento sono esattamente tre:

  1. l’incendio della Camera del Lavoro del 23 dicembre 1922;

  2. l’assassinio del giovane Giuseppe Monte del 12 novembre 1922 a Sogliano Cavour (“un gruppo di fascisti di Galatina uccise il giovane Giuseppe Monte “Pietro Refolo, Lecce, Argo, pag. 82);

  3. l’assassinio di Salvatore Campa avvenuto a Noha di Galatina nel febbraio 1923 (“ad opera di una squadra di fascisti di Galatina“).

D’altra parte la formazione del nucleo originario fascista (la sezione del Fascio nacque a Galatina “dopo” la marcia su Roma) fece breccia in alcune famiglie dell’alta borghesia, nella masse piccolo-borghesi rurali ed artigiane con la presenza anche di elementi sbandati.

Naturalmente l’evoluzione del Fascismo nei suoi vent’anni di dominio portò all’adesione di “persone per bene” che trovavano nel fascismo la risposta alle loro esigenze di “ordine”, a cui però sacrificavano il primo diritto dell’uomo, cioè la libertà.

D’altra parte, come ha già ricordato onestamente il presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante, in tempi successivi tanti giovani aderirono alla Repubblica di Salò e ciò rende necessario capirne le ragioni.

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E’ noto che gli squadristi agivano indisturbati perché protetti dalle forze dell’ordine e perciò naturalmente più forti e spavaldi. Qualche scaramuccia ci fu a Galatina, oltre che con i Socialisti, anche con le Camicie Azzurre Nazionaliste e, anzi alcuni Arditi – che erano confluiti nel fascismo – quando questo rilevò il suo volto violento e prevaricatore, si ritirarono a vita privata.

L’episodio più spettacolare e, in un certo senso più drammatico, fu l’incendio della Camera del Lavoro. Tra piazza San Pietro e corso Garibaldi si svolse il grande falò del 23 dicembre 1922 al quale parteciparono venticinque squadristi.

Ciò che colpì e disgustò i galatinesi fu che gli incendiari bruciarono, oltre alle suppellettili, anche “un busto di Edmondo De Amicis, una cassa da morto e la lapide dei morti in guerra”.

L’aver bruciato l’urna dei Muratori fu un gesto considerato sacrilego dalla buona gente di Galatina e il suo ricordo ha accompagnato molte generazioni di galatinesi.

Tanto per concludere, non si può qui omettere che, dopo venti anni di avventure e di ubriacature, di isolamento internazionale, politico e culturale dell’Italia, il 25 luglio del 1943 a Galatina non si trovava più un fascista a pagarlo a peso d’oro.

Lo “squagliamento” fu generale e corale. Solo intorno al 1946, smaltita la paura, fecero la loro ricomparsa i “nostalgici”.

L’epurazione era stata fatta all’acqua di rose e l’amnistia di Togliatti aveva fatto il resto.

1 Questo articolo è stato tratto dalla raccolta “Scritti sparsi di fine millennio”, pubblicato da Arti Grafiche Panico di Galatina nel 2000, con prefazione di Antonio Liguori.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

LA SCUOLA A GALATINA NEL 1906

Albert Anker - Passeggiata scolaresca

Scrivevano i nostri padri…

Dal “CORRIERE” del mese di gennaio 1991

 

a cura di Carlo Caggia

Nel mio archivio privato di pubblicazioni antiche galatinesi, esiste un numero di una rivista, “LA SCUOLA PER LA VITA”, datato1 giugno 1906 (anno 1, n. 2).

Il sottotitolo è: Rivista mensile per l’educazione e l’istruzione delle Classi popolari. Redattori i proff. Pietro Papadia-Baldi e Pietro Baldari. Una copia £ 0,15, stampatore “Tipografia economica”.

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Come ogni conoscitore di cose salentine sa, il 1906 è un anno particolarmente importante per le durissime lotte politico-sociali che si svolgevano nel nostro territorio, in particolare da Galatina sino al Sud del Capo di Leuca, per l’emancipazione delle classi contadine ed operaie che rivendicavano, attraverso le Leghe di Resistenza, condizioni di vita e di lavoro più umane e civili (orario di lavoro, paga, ecc.). Non dimentichiamo che nel 1905 a Maglie e nel 1906 a Galatina si hanno i primi contratti di lavoro stipulati in Italia per i contadini e per le raccoglitrici di ulive.

Le organizzazioni operaie si ponevano però anche il problema dell’istruzione popolare, attivando Scuole serali per analfabeti, con l’aiuto e la collaborazione di maestri e professori la cui formazione culturale era positivistica o (quanto meno) socialisteggiante.

È interessante scorrere le pagine di questa rivista di piccolo formato e di sedici pagine perché si potrà avere uno spaccato di qual era la situazione socio-culturale di Galatina. È di particolare rilievo, a pagina 6, una lettera aperta al Cav. Avv. Pasquale Galluccio, Sindaco di Galatina, dal titolo “Pro analfabetismo”. Da questo articolo si ricava che su di una popolazione di 14.086 abitanti (censimento del 1901), solo 4.000 soggetti sanno leggere e scrivere, mentre gli evasori dall’obbligo dell’istruzione elementare (fanciulli dai 6 a 12 anni) sono ben 1.300.

Dice la rivista: “…ci siamo convinti che la maggior parte dei figli dei lavoratori non vanno a scuola o perché i genitori non hanno denaro per comprare loro il pane, qualche vestitino e le scarpe, o perché essi hanno bisogno di sfruttare il lavoro dei teneri figli per provvedere al gramo sostentamento delle famiglie…”.

E continua: “Gli adulti poi non s’istruiscono perché qui mancano le scuole serali e festive”.

Ed ancora: “Ciò premesso, noi ci rivolgiamo alla S.V. per pregarla di fare le pratiche necessarie per istituire, col concorso dello Stato, nel prossimo mese di novembre, corsi regolari serali e festivi per gli adulti…”.

Ed inoltre: “Costituisca dunque la S.V. un comitato delle principali autorità cittadine, di professionisti, insegnanti, ricchi proprietari, caritatevoli e gentili signore, e vedrà, in poco tempo, sorgere nella nostra città le cucine economiche per gli alunni poveri, la refezione scolastica…”.

Sotto il titolo “La sorte di molte idee-pratiche” (pag.14) si riporta un brano apparso sulla rivista “I diritti della Scuola”, in cui si riprende un’idea dell’on. Luigi Cedraro – ex sottosegretario all’Istruzione – che invitava le Società Operaie e le organizzazioni operaie e contadine a fare “obbligo per statuto ai propri soci di mandare a scuola i figlioli”, pena l’espulsione per “coloro che non si sottoponevano a quest’obbligo”.

A circa cent’anni da allora, possiamo rilevare l’ingenuità (per lo meno) di quest’idea, considerando che l’atteggiamento dei genitori-lavoratori era determinato da ben altre motivazioni.

 

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Altre notizie si possono ricavare dalla rivista: in incitamento per l’erezione di un monumento a Pietro Siciliani “gran filosofo, gran pedagogista, grande educatore”; una nota circa il servizio automobilistico in provincia di Lecce (Tricase-Galatina-Lecce, ore 8 di viaggio!), una nota per restauri nella chiesa di Santa Caterina, indirizzata all’on. Antonio Vallone; l’istituzione di una Scuola di Recitazione (ad iniziativa dei signori Pietro Cesari, Giacinto Bardoscia ed Emanuele Bernardini); un corso tecnico-pratico di Lingua Francese, tenuto dal prof. Tommaso Luceri; una serie di lezioni teorico-pratiche sulle concimazioni (Prof. G. Ceccarelli); una conferenza “dell’illustre scienziato Cav. Dott. Cosimo De Giorgi” su “I terremoti salentini e le nostre costruzioni edilizie”.

 

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Ampio spazio viene dato a due scuole superiori: la Scuola Tecnica “P. Cavoti”, con tre sezioni (a tipo comune, commerciale, agrario), con un totale di due classi con 85 alunni, di cui 44 “forastieri” e 25 “giovanette”. Il Consiglio di Amministrazione era composto dal Cav. Avv. P. Galluccio, Presidente effettivo; Cav. Avv. C. Bardoscia, Ing. P. Micheli. Direttore: Prof. Pietro Cesari. Insegnanti: Ceccarelli Giuseppe, Cesari Pietro, Coluccia Maria, Congedo Giuseppe, Leone Emilio, Luceri Pietro, Marra Luigi, Mauro Giuseppe, Panico Giuseppe, Papadia Pietro, Susanna Alessandro.

Il Convitto P. Colonna contava invece 74 convittori, di cui 66 “forastieri” ed era diretto dal Sac. Dott. Rocco Catterina; Censore, Alfonso Castriota, Vice-Censore Ippolito De Maria. I 74 convittori erano divisi in quattro “compagnie” con a testa i relativi “istitutori”.

Circa un secolo è passato da quando si pubblicavano queste cose e si sviluppavano queste tematiche. Quanta acqua è passata sotto i ponti!

Oggi i tempi sono mutati: vecchi problemi sono stati cancellati ma nuovi e più drammatici (basti pensare a droga e disoccupazione giovanile) premono sui nostri giorni.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Galatina. La spaccata

la spaccata

di Pippi Onesimo


La sceneggiata de le Signurine coinvolte nel rituale della quindicina della Rusetta si svolgeva con partenza da Piazza San Pietro, dal lato del Castello, e si sviluppava con studiata lentezza, costeggiando tutto il sagrato della Chiesa Madre.

Pare che il Parroco, stando alle male lingue che trasmettevano da “Radio Fante“, avesse più volte tentato di far cambiare piazza e abitudini. Ma invano!

Ingoiò amaro per alcuni anni; ma alla fine (cu llu tiempu e cu lla paja se mmatùranu le nèspule) riuscì a realizzare la sua piccola, silenziosa, sottile rivincita.

Con l’aiuto della politica e… della Democrazia Cristiana, in particolare, ottenne il clamoroso (per quei tempi) risultato di far chiudere la Rusetta, ancor prima che la legge Merlin entrasse in vigore.

Sempre la stessa Radio riferiva che, cercando il pelo nell’uovo, si riuscì a compiere il misfatto con la scusa della carenza di alcuni requisiti igienici riscontrati nei locali della Casa.

Ma, secondo l’ipotesi più accreditata e più attendibile, le fortune della Rusetta finirono quando si scoprì, dopo tanti anni di onorato servizio, che non sapeva leggere.

E, apriti cielo, il suo analfabetismo le fu fatale!

La stessa Autorità che le aveva concesso la licenza, dopo molti anni si accorse misteriosamente (ma non tanto) che la Rusetta non aveva i titoli culturali per esercitare quel mestiere.

Infatti sorse spontanea subito una angosciante domanda: chi controllava i documenti di identità dei clienti per accertare la maggiore età (allora 21 anni), la sola che consentiva l’accesso nelle alcove?

E fu così che anche la Rusetta dovette constatare con profonda amarezza, che quando te pija de punta una triade vincente, e allora lo era veramente, fatta de prèvati, sacristìe e democristiani èranu(?) mari!

In molti sostennero che fu fatta una questione di lana caprina, perché alla Rusetta bastava il naso e l’esperienza per distinguere l’età dei clienti.

Ma la legge è legge, anche per la Rusetta: e, a malincuore, raccozze li fierri (sbaraccò) e chiuse i battenti.

A Lei rimase il sapore dell’affronto, ai clienti solo quello della delusione.

Anche perché non era ancora previsto nel nostro codice penale il reato di sfruttamento della prostituzione.

Oggi, invece, non solo è in vigore, ma è anche balzato prepotentemente agli onori della cronaca, per certe presunte frequentazioni eccellenti, anche col “bunga bunga“, le quali, se vere, al di là dei cavilli procedurali e della loro contestata e disquisita valenza penale, provocano, per l’evidente indecenza dei messaggi che ne deriva, disgusto e imbarazzo.

Comunque sia, qualunque attività, soprattutto economica, ha avuto sempre bisogno di una adeguata pubblicità. Era, ed è, una elementare legge di mercato.

In altri termini, la spaccata (l’attraversamento solenne e pomposo del centro del paese) doveva cominciare proprio da lì. E la Rusetta, che conosceva profondamente il mestiere in tutti i suoi particolari, non trascurava certo nessun pur minimo dettaglio e, quindi, sapeva benissimo come pubblicizzare la sua mercanzia!

Infatti, pe lle Signurine, dopo le prescritte visite mediche presso un medico condotto con bottega nelle immediate vicinanze di Piazza San Pietro, come in un copione non scritto, diventava di rigore fare la spaccata a piedi, accompagnata da brevi bisbigli, velati sorrisi e da occhiate intense ed eloquenti, sulla via de l’Oruloggiu (Corso Vittorio Emanale).

Questa strada, insieme alla via de lu Municipiu (Corso Umberto 1°), alla Chiesa Madre, alla Chiazza (Piazza San Pietro) e alla via de lu Tàrtaru cu lla Chiazza cuperta (il mercato coperto comunale), era veramente, allora, il centro propulsore del tessuto cittadino.

Non a caso si usava dire: “mò vau e bbegnu de la chiazza”, o, ”mò rrivu ‘n attimu alla chiazza“, magari per ascoltare i comizi elettorali (mitici quelli de lu Chirenti, de lu Moru, de l’Onurevule, de lu Petrujaru), o per incontrare gli amici, o per fare acquisti, o intrecciare affari fra Piazza San Pietro, la Pupa e Piazza Alighieri, dove si svolgeva anche il mercato settimanale.

Al loro passaggio, proprio all’imbocco del Corso, i clienti de la piscialora (per lo più vecchietti con problemi di prostata, che visitavano di frequente i gabinetti igienici), costruita dalla Amministrazione comunale con spudorata irriverenza proprio sul lato sinistro della Chiesa Madre e poi demolita verso gli anni ’50, rallentavano il passo.

E, nonostante l’urgenza, si fermavano per brevi istanti, macari thrinchiandu (trattenendo a stento), ma incuriositi, divertiti e… quasi scurnusi per i cattivi, anche se solo platonici, pensieri.

La probabilità di incrociare, qui, qualche terzetto de pizzoche ‘ndolurate (pie donne) non era tanto remota, stante la vicinanza della sagrestia; e, se succedeva, potevi ascoltare un breve, sommesso, velato, appena sussurrato, o quasi biascicato, ma bruciante commento: “nnu bbu scurnati, brutte pulandhre scamuse” (oggi si dice escort con benevola finzione!).

Le Signurine, maliziosamente indifferenti, oltrepassavano, da sinistra, lu stagninu (mesciu ‘Raziu Caballu) che, anche lui frastornato, nonostante l’età, per un attimo riponeva il martello col quale batteva le cazzalore (le pentole) de rame russa per gustarsi il passaggio.

Subito dopo si affacciavamesciu Cici Putenza, trascurando brevemente tarloci e sveje in riparazione, per dare una sbirciata di circostanza, o forse per sbollire un po’ di amarezza e di rabbia per una minaccia di sfratto dall’ angusto sgabuzzinu di proprietà della Parrocchia, prima preannunciata e poi attuata.

Da destra, le putie de ”Caccia e pesca” e de li ”Cappieddhri” de lu Rumanu , a quell’ora, erano quasi deserte.

Subito dopo, sulla sinistra, lu Turicchiu , breve, alto, sottile in camice bianco (il gestore di un noto e attrezzato negozio di generi alimentari) compariva come un’ombra sull’uscio, disinteressandosi della sua “salame allu pistacchiu o allu pepe“ (la mortadella), che solo lui riusciva a tagliare a fette sottili, quasi trasparenti, con una abilità altamente chirurgica, per evitare “menamentu“ (residui invendibili), diceva, manovrando con rara abilità una affettatrice azionata a mano.

Lasciavano, sulla loro destra, la Cartoleria Mengoli, piena zeppa di quotidiani, riviste, giornalini (mitici quelli di Topolino edi Tex), pupazzetti, bamboline, tombole, dadi, dame, scacchi, panarini pe lla mescia, cartelle e valigie di cartone e di stoffa, pennini, calamai, quaderni a righi de prima pe ll’aste, de seconda pe lle vucali e a quadretti, libri di lettura e sussidiari per le scuole elementari, lapis e gomme, modellini di automobili (indimenticabile la serie che riproduceva tutti i modelli Fiat fino allora prodotti ), pipizze e tamburelli, e poi tante altre incredibili, inimmaginabili cianfrusaglie.

Accanto si poneva la Pethrina Nuzzu con le sue indecifrabili chincaglierie, che esercitava di fronte alla putia de lu Scarpa, con la quale duellava in una inevitabile, sottile, rispettosa e leale concorrenza… merceologica, anche se sulu lu Scarpa deteneva, con legittimo vanto, il primato della vendita de li buttuni (di tutti i colori, di tutte le qualità e di tutte le grandezze, ma non quelli foderati, di competenza esclusiva de lu Solidoru).

Spulette, matasse, cumìtuli de cuttone e de lana, bucate de madreperla, buttuni, achi, disciatali pe lle nfiamature , chiusure lampu pe lle gonne e pe lle pitacce, làstiche, ciappe e buttuni automatici pe lle carzunette, nasthri e nashtrini ( compresi quelli tricolori), spille (anche quelle di sicurezza ), spilloni, frange e cordoncini, methri e forbici de sartu ecc… erano le loro armi di battaglia.

Lu Bar de le signurine Ascalone, all’angulu de lu Monte de Pietà, che profumava sempre de crema, pasticciotti e mustazzòli, attirava la loro attenzione, ma…passavano prudentemente oltre, anche perché la cera de la signorina Filomena (zzi’ Nena, per pochi intimi), quasi sempre stirata, con in mano l’immancabile tazzina di caffè e con la testa avvolta in un eterna aureola di fumo di sigaretta, non incoraggiava certo la visita di certe clienti.

Di fronte, ben in evidenza, luccicavano nieddhri, spille, ricchini, tarloci, cuantiere d’argentu e ppendindiffi, (dal fr. pendentif: ciondolo applicato alla collana)esposti, come specchietti per le allodole, nella vetrina della Oreficeria de lu Pignatelli.

Superavano Corte Taddeo, con in fondo, subito dopo la sacrestia, abbastanza defilata la Casa paterna dei “De Maria”, poi la putia de l’Astarìta col suo odore misto di concimi, di spezie e di muffa, e la putia de mobili de l’Angiulinu Belfiume, dove una stanza da letto, allestita ben in vista, ammiccava con inopportuna sfacciataggine.

Inevitabilmente sfilavano de fronteallu Corpu de Cuardia, allora sotta ‘lla Torrre de l’Oruloggiu, da dove il piantone di servizio con la sua candida divisa, lustra ed immacolata, in piedi e a capo scoperto sul portone d’ingresso, osservava il corteo in doverosa compostezza istituzionale.

Accanto alla Barberia Mengoli sostavano in religioso silenzio, in attesa di ricevere ordini dal Capucuardia, lu Ttammone Cchiappacani e lu Cici Schiancatu, i quali, più che incaricati di pubblico servizio, erano due istituzioni civiche: uno addetto al controllo dei cani randagi, l’altro responsabile della nettezza urbana.

Due servizi gestiti direttamente dal Comune, che funzionavano egregiamente (allora) per lo scrupolo ed il senso del dovere degli addetti ai lavori.

L’occhi, però, loru menàvanu spittareddhre, anche se ostentavano una malcelata, diplomatica, marpiona indifferenza.

Don Pantaleo, lu Capucuardia, che aveva osservato tutta la scena, seminascosto nel buio in fondo allo stanzone, li richiamava all’interno degli Uffici per affidar loro qualche mansione.

Forse, era solo una scusa per un scrupolo recondito e inespresso di pudore!

Allora, la dignità e il rispetto per le Istituzioni, quelle che sonointese come espressione democratica della collettività e non come orticello personale,erano due valori che avevano ancora un senso.

Oggi c’è solo avanspettacolo, affarismo e ricerca disperata di visibilità mediatica. Anche a livello locale.

Basterebbe assistere, se si ha stomaco, a qualche seduta delle Camere, o, senza andare lontano, di Consiglio Comunale!

Lu Corpu de Cuardia era accampato, fino a pochi anni fa, a piano terra (ora è a Palazzo e si chiama Corpo di Polizia Locale: come dire, è salito di piano e di… tono) in un solo androne con due stanzette di quattro metri quadri ciascuna adibite, una a Ufficio Comando e l’altra a ufficio amministrativo, poi destinata al vice Capucuardia.

Vi era anche un bagnetto di in…decenza, talmente angusto e ristretto da consentire una sola sconfortante postazione, che si raggiungeva superando un gradino sottoposto.

L’arredo era composto da poche, misere suppellettili: poche sedie, un armadio di legno, due serie di attaccapanni a quattro posti appese al muro, una rastrelliera per le biciclette ed un separé, che delimitava una parte dello stanzone, costruito diligentemente in compensato con sportello e davanzale, sul quale era poggiato il registro degli ordini di servizio e quello di registrazioni delle contravvenzioni.

Al di là, operava il Piantone. Vi sostavano momentaneamente anche le cuardie, che, dopo aver consultato il registro dei servizi, erano già pronte ad andare in strada col passante della visiera della còppula, tirato in giù ed usato come sottogola.

Questo era il segnale che erano comandate in servizio di viabilità.

Tale abbigliamento (il sottogol), semplice e disadorno, era anche il segno delle grandi ricorrenze e delle cerimonie ufficiali: la scorta al Gonfalone, al Sindaco pe llu Còrpusu, ai lati dell’Altare e del Monumento ai Caduti pe lla festa de lu quatthru novembre e pe lla Messa de Santu Sebastianu.

E, a tal proposito, don Pantaleo, le cuardie, lu Sindacu e lu Ucciu De Donnu, quasi nascosti cu quatthru pizzoche nella navata sinistra del Sacramento nella Chiesa Madre, celebravano la ricorrenza del Protettore, partecipando alla prima Messa mattutina e poi, in silenzio, senza clamori e passerelle, ritornavano tutti in servizio.

Una coppia de cuardie, destinata alla perlustrazione delle strade di periferia, intanto trascinava giù dai gradini del portone d’ingresso due biciclette prelevate dal parco ciclomezzi (la rastrelliera), ma si fermava un attimo in attesa che la sfilata finisse.

Già prima, all’interno, avevano accuratamente controllato la pressione delle ruote, utilizzando pompa manuale e curasciùlu ( rigorosamente di dotazione ) e la integrità della borsetta dei ferri, appesa sotto la sella.

Le prime mitiche moto “le Gilera o le Guzzicu lluUcciu e l’Aureliu, che elevavano contramenzioni con inflessibile determinazione, “piacqua o non piacqua “, erano ancora nel libro dei sogni.

Accanto a un armadio, quasi seminascosta, era poggiata al muro una ingombrante pedana per pizzardone, distratta da tempo dal suo compito istituzionale e usata solo il giorno dell’Epifania per ricordare la ricorrenza della “Befana del Vigile“.

Infatti veniva posizionata in Piazza San Pietro, dove cittadini e commercianti depositavano i loro doni.

Quel rito, spontaneo e simpaticamente paesano, che, al di là del suo valore venale, aveva sopratutto il senso di pesare la stima e l’apprezzamento della collettività, andò avanti per alcuni anni; poi si dissolse nel nulla, senza alcun editto, in silenzio così come era nato.

I tempi erano già cambiati!

 

Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne autorizzato la riedizione

 

Scultura dell’Otto e Novecento nel museo Cavoti di Galatina

 

di Lorenzo Madaro

L’interesse per la scultura pugliese dei secoli XIX e XX da parte del mondo degli studi storico-artistici ha registrato negli ultimi anni un netto aumento; non sono mancate, difatti, importanti iniziative editoriali ed espositive. Nell’orbita di questo interesse vanno inquadrati questi appunti sulla collezione di scultura conservata nel Museo Civico “P. Cavoti” di Galatina, di cui ringrazio il personale, in particolare Silvia Cipolla, per la disponibilità accordatami durante i miei sopralluoghi.

Situata in un’ala dell’ex Convento dei P.P. Domenicani di Galatina – dal 2000 sede del Museo civico, dopo il trasferimento delle collezioni dalla vecchia sede di Palazzo Orsini inaugurata negli anni trenta ed attiva solo per pochi anni – la sezione scultura del XX sec. comprende una consistente e disomogenea raccolta di opere di alcuni artisti nati o attivi sul territorio salentino tra otto e novecento ed è da annoverare tra le raccolte più significative del territorio pugliese. È senz’altro la donazione Gaetano Martinez il nucleo più consistente con poco più di trenta opere, alcune delle quelli tra le più interessanti del suo percorso di ricerca, che sono state donate dallo stesso artista nell’agosto 1928 (Specchia, 2003). Così come confermano alcune iscrizioni poste sul retro delle sculture, la donazione di alcune opere del maestro si è certamente protratta anche in anni più recenti, come nel caso di un Nudo femminile del 1947 donata da Giovanni Giunta di Roma nel 1988. Nato a Galatina nel 1882, dopo una prima formazione avvenuta nella locale Scuola di Arti e Mestieri diretta da Giuseppe De Cupertinis, si trasferisce a Roma nel 1911, ma solo per un breve periodo. Al 1922 è datato il suo definito trasferimento nella capitale; nello stesso anno esegue il Caino, tra le sculture più affascinanti della sua produzione, in cui si avverte un forte senso di tragicità espresso tramite suggestioni rodiniane. A Roma non manca di avviare meditazioni sulla sintassi quattrocentesca, come attesta il gesso intitolato Adolescente (1926) al Museo Cavoti, ma gli interessi dello scultore sono molteplici. Numerose le opere degli anni trenta esplicitamente legate a quel senso arcaicizzante e monumentale tipico dell’indagine di un Arturo Martini, anche se in questo stesso decennio non rinuncia a un divertissement slegato apparentemente dalla sua ricerca, considerato che il Ritratto caricaturale conservato nella raccolta è datato 1935. Il decennio successivo, come avverte Federica Riezzo – curatrice, assieme a Giancarlo Gentilini, di una mostra antologica allestita nel 1999 a Palazzo Adorno di Lecce – si apre con la partecipazione alla Biennale di Venezia (1942) con una sala personale. Un riconoscimento al valore di un artista che in questi anni avvia “una singolare produzione di ‘teatrini’ in terracotta” (Gentilini, 1999) interrotta bruscamente dalla morte avvenuta nel 1951.

Un gesso di Pietro Siciliani, filosofo e pedagogista nato a Galatina nel 1832, ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, il legame profondo e autentico con la storia della città in cui è ospitata l’istituzione museale. L’autore dell’opera è Eugenio Maccagnani; nato a Lecce nel 1852 si forma inizialmente presso lo zio Antonio, celebre cartapestaio, per completare poi gli studi all’Accademia di San Luca di Roma, città in cui ha un ruolo preminente nella grande impresa del Vittoriano, inaugurato nel 1911. Autore di un nucleo alquanto consistente di sculture pubbliche e da camera, non troncherà mai i rapporti con la sua città natale; nella Villa Garibaldi, tra gli altri monumenti, si conserva proprio un Busto di Siciliani datato 1891. Muore a Roma nel 1930.

Giacomo Maselli, quasi ignorato dalle fonti pugliesi fino a tempi recenti, è autore di un ritratto in bronzo del Siciliani che restituisce un aspetto più intimista del filosofo, a differenza dei tratti fieri e vigorosi espressi dal Maccagnani. Nato a Cutrofiano nel 1883, nel 1904 si trasferisce a Milano, dove opera attivamente fino al 1958, anno della sua scomparsa. L’opera della raccolta galatinese è un doveroso omaggio a un cittadino illustre a cui è dedicata, tra l’altro, la Biblioteca Comunale ubicata nel medesimo stabile in cui è ospitato il museo.

La presenza delle due opere Gruppo antropomorfo e Vendetta, entrambe databili intorno al 1940, firmate da Pietro Baffa, esorta a qualche accenno, per lo meno biografico, sull’artista nato nel 1885 a Galatina. Si forma presso il locale Regio Istituto Artistico “G. Toma” e, come il compaesano Martinez, nel 1911 emigra a Roma. Frequenta il Museo Artistico Industriale, il neonato giardino zoologico – sin da questi anni si caratterizza come artista animalista – e lavora presso lo Stabilimento di mobili Loreti, dove perfeziona le sue competenze di ebanista, già parzialmente acquisite nel laboratorio paterno. Nel 1914 si sposta a Napoli; insegna presso il locale Istituto Artistico e respira per sei anni la cultura artistica partenopea. A Lecce diviene uno dei più validi maestri del Regio Istituto Artistico fondato dal Pellegrino. In Gruppo antropomorfo le masse dei due animali si fondono fino a diventare un tutt’uno, invadono lo spazio con uno spirito fantasioso che caratterizza ad esempio Tigre e Orso (Galatina, coll. privata), due terrecotte invetriate degli anni venti, assimilabili a un gusto liberty. Echi gemitiani, ricercatezza e raffinatezza esecutiva caratterizzano il satiro che con veemenza sguscia una lumaca in Vendetta, un gesso patinato, la cui replica in bronzo è conservata in una collezione privata leccese.

Rimorso, un gesso patinato del 1935 firmato dallo scultore neretino Michele Gaballo, è un’opera che testimonia l’operatività di un “autore di un numero assai considerevole di sculture in marmo, gesso patinato, bronzo, di vario genere” (C. Gelao, 2008), ma al contempo non ancora studiato approfonditamente. L’artista, nato nel 1896, dopo una prima formazione a Lecce presso la scuola di disegno annessa alla Società Operaia, si trasferisce a Napoli e, dopo poco, a Roma, dove collabora alla realizzazione della statua di Benedetto XV nelle grotte Vaticane (1923). Dopo il suo rientro a Nardò si dedica all’insegnamento; muore nel 1951. L’opera conservata nel museo galatinese ben s’inserisce nella sua ricerca plastica legata a certe istanze novecentiste che si ravvisano in particolar modo nella semplificazione dei tratti del volto.

Appartiene allo scultore leccese Raffaele Giurgola il ritratto di Carlo Delcroix che afferma quel forte senso di plasticismo che connota la sua produzione plastica. Nato nel 1898 si forma alla scuola di disegno della Società Operaia, per proseguire poi gli studi a Napoli, dove è allievo di Achille D’Orsi. Celebre per aver eseguito numerosi Monumenti ai Caduti nel Salento, è stato per quasi un trentennio docente presso l’Istituto Pellegrino di Lecce, città in cui è morto nel 1970.

Vittorio Vogna, artista nato a Galatina nel 1916, si forma nel Regio Istituto Artistico Industriale di Lecce, dove entrerà in contatto, tra gli altri, con lo scultore galatinese Pietro Baffa, docente di scultura con cui intratterrà rapporti amicali anche durante il suo trasferimento a Napoli, dove studia presso la Facoltà di Architettura. Ritorna poi nel Salento dove insegna nel suddetto istituto artistico e avvia la sua attività di architetto. Muore nella sua città natale nel 1995. Poche sono le opere note e si attende pertanto una prima analisi del suo percorso creativo che andrà eventualmente confrontato con i documenti conservati presso eredi e conoscenti. Il Museo custodisce, altresì, una Testa di fanciulla firmata da Nikkio Nicolini, autore misconosciuto che, secondo quanto affermato da Michele Afferri (in C. Gelao, 2008), ha eseguito quest’opera secondo i dettami di un gusto legato al recupero dei valori formali arcaici. Altri ritratti di uomini illustri cui Galatina ha dato i natali si riscontrano, così come per il citato ritratto di Siciliani del Maccagnani, in un corridoio interno al museo, dove sono collocati, altresì, dei ritratti di Baldassarre Papadia, Macantonio Zimàra, Alessandro Tommaso Arcudi e Pietro Colonna firmati, rispettivamente, da M. D’Acquarica, P. Bardoscia e C. Mandorino. Attenzione ai temi animalier si riscontrano poi in due pannelli di I. Montini, mentre è dello scultore A. Trono una Testa virile datata 1927 e difatti conforme a taluni orientamenti stilistici dell’epoca, come l’interessante maternità a firma di A. Duma, altro autore che meriterebbe un approfondimento. Restano poi alcune opere anonime, tra cui un Bozzetto di monumento, tutte da studiare e contestualizzare, anzitutto cronologicamente.

Bibliografia essenziale consultata:

Scultura italiana del Novecento. Opere tendenze protagonisti, a cura di C. PIROVANO, Milano 1993. Gaetano Martinez. Scultore, a cura di G. GENTILINI, F. RIEZZO, Matera, 1999. A. FOSCARINI, Arte e Artisti di Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, a cura P. A. VETRUGNO, Lecce 2000. A. PANZETTA, Nuovo Dizionario degli scultori italiani dell’ottocento e del primo novecento, Torino 2003. Museo Comunale Pietro Cavoti di Galatina, a cura di D. SPECCHIA, Galatina, 2003. M. AFFERRI, Cento anni di scultura salentina, in Arte e artisti in Terra d’Otranto, a cura di A. CASSIANO, M. AFFERRI, Matera 2007. Gaetano Stella e la scultura da camera in Puglia, a cura di C. GELAO, Venezia, 2008.M. GUASTELLA, Scultori in Terra d’Otranto delle generazioni del secondo Ottocento, in Raffaele e Giuseppe Giurgola, “tradizione salentinità ironia”, a cura di L. PALMIERI, Galatina s.d. [ma 2010].

Due garibaldini galatinesi: Gioacchino Toma e Fedele Albanese

G. Toma, O Roma o morte
G. Toma, O Roma o morte

di Vittorio Zacchino

 

Come ovunque, in Italia e nel mondo (vale la pena di leggere la superba monografia dedicatagli dal compianto Alfonso Scirocco, Garibaldi, Milano Ediz.Corriere della Sera 2005), anche in Salento e a Galatina Garibaldi fu amatissimo, addirittura idolatrato. Nonostante l’oleografia, l’agiografia e la retorica che hanno invaso e stravolto la storiografia risorgimentale, occorre ammettere che la gente non aveva saputo resiste al fascino travolgente di questo campione dal temperamento forte e deciso, indomabile, generoso, ardimentoso, Giuseppe Garibaldi da Nizza, l’esatto contrario di un carrierista della politica e delle curie.

Nell’agosto 1860 sul punto di varcare lo stretto per puntare su Napoli, dopo aver liberato “le terre sicane / dal giogo” – come cantò il brindisino Cesare Braico – e con la regia di un Giuseppe Libertini giunto apposta da Londra per far insorgere simultaneamente le province meridionali, tanti salentini, ben cinquecento, corsero a indossare la camicia rossa, ad imitazione dei molti conterranei della prima ora che avevano fatto parte dei Mille, dal Braico al Mignogna, dal Carbonelli al Trisolini. Nonostante, turbamenti e crisi di coscienza, roghi di ritratti reali, sommosse legittimiste, assalti ai conventi, istigazioni di preti retrivi e scorribande di briganti per tutta la Terra d’Otranto, i nostri giovani vennero attratti irresistibilmente dal biondo nizzardo e, qua e là, i nostri popolani cantarono: Ci passa Carribbardi / caribbardinu m’agghiu affà.

G. Toma, I figli del popolo
G. Toma, I figli del popolo

Galatina, si diceva, fu tra le città nostre che dettero un contributo rilevante alle campagne di Garibaldi: come le notizie della sua rapida vittoriosa campagna siciliana si diffusero in città, l’entusiasmo scoppiò irrefrenabile e diversi corsero ad indossare la leggendaria camicia rossa, il pittore Gioacchino Toma, il pellettiere Antonio Contaldo che dismise l’uniforme di soldato borbonico per seguire Garibaldi il quale si distinse a Gaeta guadagnandosi una medaglia, e perfino il pretino Pietro Andriani secondogenito del barone di Santa Barbara. Quest’ultimo, qualificato sovversivo e testa calda fin da quando frequentava il seminario, gettò via la tonaca e si arruolò tra i garibaldini. Dopo il 1860 fece di tutto per campare, ma premuto dalla fame e dal bisogno, fu costretto a rientrare nel gregge. Ma le figure più prestigiose restano Gioacchino Toma, pittore di notorietà nazionale, e Fedele Albanese patriota e giornalista.

Gioacchino Toma
Gioacchino Toma

Nato nel 1836, “spirito irrequieto e insofferente di qualsiasi soggezione”, rimasto orfano a soli 10 anni, dopo un’adolescenza difficile e ribelle, trascorsa per sette anni fra i cappuccini di Galatina e un orfanotrofio di Giovinazzo (a carico della Provincia di Lecce) dove lo avevano rinchiuso, Toma se ne era fuggito a Napoli in cerca di fortuna. Qui, mettendo a profitto l’inclinazione al disegno e alla pittura coltivata in collegio, il giovane aveva cercato di sbarcare il lunario. Ma come Garibaldi si affacciava sullo stretto per lanciarsi alla conquista di Napoli, eccolonostro Gioacchino diventare patriota quasi per caso e senza volerlo. Narra il Foscarini che una seravenne arrestato e tradotto nelle carceri della Vicaria ,donde uscì dopo un mese e mezzo per andare al confino in Piedimonte d’Alife. Testa calda e spirito irrequieto e talvolta turbolento, era inevitabile che venisse coinvolto nella rivoluzione in corso. Sicché allorquando Francesco II tentò di salvare il trono con la tardiva concessione delle libertà costituzionali, Toma entrò nelle file dei cospiratori e alla testa di rivoltosi assalì e distrusse la caserma borbonica. Seguì l’ arruolamento nelle file dei garibaldini, nella Legione del Matese, e dopo la presa di Benevento ottenne la nomina a sottotenente. Racconta che mentre la legione ripiegava verso Padula “venne un dispaccio ad annunziare che Garibaldi era entrato in Napoli, ed io,che ero stato un de’ primi a sentir quella notizia,corsi subito a darla ai nostri soldati, che erano alloggiati in un convento. Diventarono quasi matti per l’allegria;mi presero sulle spalle,mi sollevarono in alto ,e gettandomi addosso la paglia in cui dovevano dormire, mi fecero girar così tutti quei corridoi,fino a che stanchi, fra un diavolio da non si dire, mi buttarono a terra e là mi seppellirono di paglia.

ancora un dipinto di Gioacchino Toma
ancora un dipinto di Gioacchino Toma

In seguito Toma aveva preso parte a diversi fatti d’armi, a Santa Maria Capua Vetere, a Caserta, in Molise. Catturato a Pettoranello di Isernia il 17 ottobre, egli era stato condannato alla fucilazione, da cui riuscì a scampare per puro caso, Dai suoi Ricordi di un orfano(Galatina Congedo 1973 per la cura di A. Vallone) togliamo il brano significativo in cui dopo essere stato dato per morto, e dopo aver attraversato “tutta la lunga strada di Isernia al fianco del Generale Cialdini, va a ritrovare a Campobasso i correligionari in camicia rossa che non credono ai propri occhi “ nel vedermi vivo, mentre nella certezza che io fossi morto, avevan già, come ho detto, raccolto il denaro per farmi il funerale. Grande fu l’allegrezza loro e, servendosi di quel denaro, festeggiarono con un pranzo la mia risurrezione e mi diedero in ricordo di quel giorno, un bellissimo pugnale”. Poco dopo,sciogliendosi l’armata garibaldina, diedi anch’io le dimissioni e tornai in Napoli (…).

Compiuta l’annessione del Sud al Piemonte il nostro si dette totalmente alla pittura dipingendo alcune tele in cui rievocava episodi delle campagne garibaldine cui aveva partecipato. Garibaldini prigionieri, O Roma o morte, e Piccoli Garibaldini, sono le più celebri. Quest’ultima, con i piccoli che festeggiano i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, fu sicuramente ispirata dai tanti auto da fè di stemmi ed effigi sabaude infranti nelle piazze dai partigiani borbonici, dei toselli con i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II arsi in pubblico. Se da un lato queste scene patriottiche gli procurarono fama, dall’altro, dati i loro contenuti rivoluzionari, accentuarono il suo isolamento in una Napoli ancora sostanzialmente borbonica per cui in questi primi anni unitari egli patì l’indigenza. Ma l’Amministrazione Provinciale di Lecce corse in aiuto del figlio, sensibilizzata (a insaputa di Toma) da un manipolo di artisti napoletani – Palizzi, Morelli, Catalano ed altri – (cfr. V. ZACCHINO, Gioacchino Toma tra rinnovamento stilistico e difficoltà economiche (1865-1867) in “Il Corriere Nuovo di Galatina. Benché queste sue “bambocciate” erano un poco incerte, trasmettevano il patriottismo e le speranze di un popolo lungamente represso.

Fedele Albanese (1845-1882),è l’altro verace garibaldino galatinese, impulsivo ma di mente sveglia (il termine “garibaldino” nelle famiglie tradizionali allineate con i Borbone era sinonimo di rivoluzionario, testa calda e avventata). Già ai primi del settembre 1860, quattordicenne, con altri studenti, alla testa di un grande stendardo confezionato in casa sua, era salito su una tribuna improvvisata e aveva tentato di tenere un comizio che però era stato sciolto dalla polizia. Più fortunato di lui il cappuccino Giacomo Calignano il quale il giorno dopo, “cinto di sciabola e di sciarpa tricolore, si pose alla testa della cittadinanza , la condusse al Largo dei Cappuccini e la arringò con un sermone patriottico con scandalo dei suoi superiori. Nel 1866 il nostro interruppe gli studi per indossare la camicia rossa ed arruolarsi, appena ventenne, tra i cacciatori delle Alpi impegnati nella spedizione tirolese. Presa poi la laurea in giurisprudenza con lode, il nostro era tornato a indossare la camicia rossa nello sfortunato scontro di Mentana del 1867,insieme a diversi commilitoni leccesi (Panessa, Leone, Morone, Grande, Patera) agli ordini di Giovanni Nicotera. Presa la laurea nel 1868, Albanese si ritroverà ancora una volta il 20 settembre 1870 alla breccia di Porta Pia che varcherà tra i primi, da giornalista. Fu valoroso e onesto collaboratore di numerosi giornali , tra Napoli e Roma; ultimo di essi l’amatissimo “Monitore”, ma quando questo giornale cessò le pubblicazioni,per causa di forza maggiore, il garibaldino Albanese non riuscì a sopravvivergli e si uccise nel marzo 1882. Qualche mese prima della morte del suo eroe Garibaldi.

E’ giusto che oggi, alle soglie del 150° anniversario della pur discutibile Unità, l’Italia ,il Salento, e Galatina ritrovino lo spirito unitario che ebbero il duce di Caprera e i “garibaldini” di Galatina, Albanese e Toma, con tutti i salentini audaci che furono al suo seguito. Perché, siamo certi, passato il rigurgito retorico del 150°, sulla memoria di quegli eroi e di quegli eventi, inesorabile ripiomberà l’oblio e ritornerà “a strisciar la lumaccia”.

 

N. B. Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui Direzione si ringrazia per aver autorizzato la pubblicazione su questo sito

 

Galatina. I racconti della Vadea: palla de pezza, tuddhi e catasca!

 

da repubblica.it
da repubblica.it

di Pippi Onesimo

Vico San Biagio, che promana da Via Biscia e ad essa si aggrappa disperatamente per non ruzzolare rovinosamente giù verso la Staffa de cavallu (piazzetta Cavoti), si trova esattamente nel cuore del centro antico, a monte di piazza Vecchia, che sonnecchia da secoli in precario equilibrio lungo la ripida discesa di via Vignola.

La chiesa delle Anime, saldamente ancorata a valle sulla sua strategica pianta ottagonale, dal basso osserva la più antica piazza di Galatina con trepida apprensione e la sorregge con generosa solidarietà cristiana, da quando si è resa conto che la Casa paterna dei Vignola, pur confinante e precariamente ancorata a Vico Vecchio, non riesce più a tenerla su per i vistosi acciacchi della sua vecchiaia.

A chi osserva vico San Biagio dall’alto, la stradina sembra stretta, buia, triste, angosciante e nervosamente tortuosa, come se piangesse languidamente ripiegata su sé stessa.

Dopo un breve tratto pianeggiante, in precipitosa successione, scivola frettolosamente giù in una silenziosa, irrazionale confusione come un rivolo, che trascina, spingendoli a valle, i suoi fitti misteri e le sue ombre così cupe e dense, che tenacemente riescono a sconfiggere anche la luce del giorno.

In questo suo scorrere vi è tutta la voglia di liberarsi dalle sue ansie, e gridare prepotentemente il bisogno di sorridere e di rivedere il sole.E a valle del pendio si affanna a prendere, finalmente, una boccata d’aria vicino all’ antica arcata, da pochi mesi riaperta, e che solo ora riesce a riaffacciarsi sulla Staffa, dopo la rozza, degradante e offensiva decisione del Palazzo di tenerla murata per molti decenni.

Poi alla fine, con impazienza frenetica, abbraccia voluttuosamente, in un mistico e avvolgente amplesso, lo slargo (abbrutito dalla ingombrante, perenne presenza delle auto in sosta ) di via Lillo, che si modella, per una strana e misteriosa bizzarria architettonica, fra Palazzo Galluccio, la fontanina pubblica, l’imboccatura di vico Freddo e la strozzatura della Staffa).

Intanto, proprio sull’ansa di via Biscia, na decina de vagnuni (alcuni ragazzini) scalzi e accaldati rincorrevano, a frotte ondeggianti in un turbinio confuso e imprevedibile, una rudimentale palla di pezza.

Era stata costruita artigianalmente dal ragazzino più grande e più esperto, nel cortile di casa, arrotolando in un calzino di lana o in una calza di nylon brandelli di stoffe dismesse, poi rinforzata e appesantita cu lle curisce (strisce) di una camera d’aria, recuperata dalla ruota di una vecchia bicicletta in disuso.

Altri, cinque o sei, quasi appartati, fermi più in fondo verso vico San Biagio, attenti e riservati giocavano a tirassegnu cu lli nuci, disinteressandosi di tutto il frastuono che li circondava.

E’ un gioco antichissimo, che risale nella notte dei tempi.

Consiste nel tentare di colpire a turno, da una distanza convenuta, cu lla paddhra (una noce più grossa, scelta fra le più dure e robuste, possibilmente con un guscio a tthre cantuni) una serie di noci, che costituivano lu piattu (la posta), fornite, una ciascuno, da ogni giocatore partecipante e tenute allineate e dritte con sabbia o terra umida disposta su una riga, tracciata sulle chianche. Le noci colpite, e che rimanevano riverse per terra lontane dalla riga, costituivano la vincita.

A volte, se non di frequente, qualche giocatore sfortunato, comunque scorretto, o qualche spettatore invidioso, escluso dal gioco perché non aveva noci da mettere in palio, organizzava la catasca (dal greco katàschesis: il prendere con forza, l’afferrare qualcosa).

Gridando all’improvviso, come uno spiritato, “catasca“, arraffava da terra, con una velocità supersonica, quante più noci possibile e si dileguava in un baleno, correndo a piedi nudi per le vie del borgo, inseguito, spesso senza successo, dai compagni di gioco, inviperiti per l’affronto, per lo scorno, ma soprattutto per il furto. E al danno spesso si aggiungeva la beffa.

Infatti era facile, per chi era nato in quel rione, ricamato da una fitta rete di piazzette, corti, vicoli, viuzze e cortili, attraversare piazzetta Arcudi, dirigersi verso vico del Verme e svicolare da corte Ferrando per uscire a rretu llu spitale vecchiu (alle spalle del giardino del vecchio Ospedale) e poi perdersi fra vico Vecchio o vico Lucerna.

Magari a volte, in segno di sfida e con notevole faccia tosta, risaliva da via Vignola, o dalla via de lu Cazzasajette per vico San Biagio e tornava sul luogo del delitto per godersi impunemente, di nascosto, lo spettacolo di chi era rimasto sconsolato e seduto, a mani vuote, su llu pazzulu de na porta. Ma se veniva afferrato e riconosciuto, ia spicciatu de mmètere e de pisare (non aveva più scampo, perché non gli lasciavano addosso nemmeno i vestiti!)

Anche se nessuno poi, in fondo in fondo, si arrabbiava più di tanto, perché tutti sapevano che il rischio della catasca faceva parte del gioco e che tutti, a rotazione, potevano farla, o subirla.

Intanto due ragazzine, poco più che bambine, silenziose e composte con le loro treccine nervose, asimmetriche, rigide e sporgenti sulle orecchie, come imbalsamate, perché tenute su da un fiocchetto di stoffa colorata, erano sedute, una di fronte all’altra in una zona d’ombra, sul pazzulu di un anfratto di via Biscia, posto accanto al limbatale (soglia) della porta di casa. Giocavano serie e appartate a tuddhri ( sassolini arrotondati e ben levigati di pietra viva).

Era un gioco semplice, allora praticato da tutti i ragazzini perché non costava un centesimo, divertiva e rasserenava lo spirito e soprattutto portava a socializzare; era un gioco antichissimo che veniva da molto lontano (forse risale ai tempi dei Messapi) e si perdeva nella memoria della tradizione popolare.

Adesso è sconosciuto, come tanti altri.

Mazza e mazzarieddhru, la campana, ficura o scrittura, la schiattalora, le stacce, cavaddhru barone, a scundarieddhri, ai quatthru cantuni, alla rota, lu curuddhru, alla linea allu risciu, a spacca chianche ecc.erano alcune semplici testimonianze, veraci ed autentiche, della nostra cultura e della nostra tradizione.

Erano briciole della nostra storia, piccoli scampi del nostro vivere quotidiano, ora irrimediabilmente perduti. Peccato!

Il gioco de li tuddhri si svolgeva con cinque sassolini, scodellati per terra.

Un giocatore, estratto a sorte, afferrava, pizzicando col pollice e il medio della mano destra, un sassolino alla volta e lo lanciava in aria all’altezza del viso, cercando poi di recuperarlo, durante la ricaduta e prima che toccasse terra, nell’incavo che si formava sul dorso della stessa mano, raccogliendo a sé, e tirandoli in su, l’indice, l’anulare e il mignolo.

Le regole del gioco, che proclamavano il vincitore, erano varie e complesse e presentavano delle varianti a secondo dei tempi e dei luoghi in cui si svolgeva.

Non mancava, certo, la fantasia ai bambini!

Passatempi ingenui, semplici e solari che rappresentavano per i ragazzini d’allora, quelli venuti fuori dalla fame, dalla disperazione e dallo scempio morale e psicologico di una guerra vissuta direttamente sulla propria pelle, l’unico diversivo, l’unico divertimento, il loro solo vizio.

Questi rappresentavano per loro la cosiddetta droga povera, quella gratis che si comprava allegramente e liberamente sui marciapiedi, agli angoli delle strade, nei cortili di casa, fra le aiuole dei giardini pubblici, fra i viottoli di campagna e nella fantasia sconfinata, fatta solo di immaginazione, di candide finzioni e di sogni che rimanevano sempre tali, perché non svanivano mai.

La droga ricca invece, quella vera, (c’era anche allora) scorreva solo (fortunatamente per li vagnuni, che non corsero mai il rischio di essere infettati dalla cancrena letale del consumatore di droga a fini di spaccio) nei salotti bene, nelle tasche de li Signurini o nelle borsette delle pulzelle di alto lignaggio e serviva per scacciare la loro noia, ma non la loro insipienza. Poveretti!

Non era facile per loro passare le tante, inutili e vuote giornate, fatte di nulla, di vuoto assoluto, di ozio perenne nei loro ricchi palazzi desolatamente vuoti, ma riempiti di un assordante silenzio, bui e freddi, specialmente d’ inverno, nonostante i camini accuratamente accesi dalla servitù accorta e servizievole.

Il freddo, come la loro aridità, derivava sopratutto dalla mancanza del calore dei sentimenti, dalla incapacità di voler bene, di rispettare gli altri, i diversi, e riconoscere loro la inalienabile dignità di esseri umani.

I giorni, poi, che passavano d’estate nelle immense tenute di campagna erano sempre esageratamente riempiti solo di fatui sbadigli e di insulsi, stupidi capricci.

La loro, era solo una felicità artificiale, dorata ma finta.

Al di fuori da quei palazzi, o lontano da quelle assolate e lussureggianti ville, la vita era più ricca (di sentimenti), più viva, più felice, più vera, più solidale perché, pur se povera, era fatta di momenti autenticamente spontanei e più semplici.

Bastava affacciarsi sull’ansa di via Biscia per capire, gustandola, tutta la differenza !

Vi era un ingenuo, gioioso vociare divertito e scanzonato, fatto di schiamazzi vigorosi che rimbombavano di cantone in cantone. O un groviglio avvolgente di gambe annerite e sbucciate sugli spigoli arrotondati de li scansacarri (paracarri).

O un turbine di inevitabili spintoni che si potevano ricevere sull’onda frenetica e imprevedibile di una palla goffa e irriverente, che ti schizzava accanto.

Qui la vita batteva i suoi ritmi, mentre i giochi scandivano i tempi e le cadenze della felicità.

Questa allegra e scanzonata confusione convinse facilmente la comitiva de lu Cheròndula di scegliere, a ragion veduta, la soluzione della chiesa della Purità.

Oltretutto, così aveva deciso lu Piethruzzu! E dovevano necessariamente assecondarlo, perché, da attore navigato, era molto intransigente.

Pretendeva e otteneva, senza discutere, silenzio, calma, quiete piatta per raggiungere il giusto raccoglimento, scenograficamente adatto, per i suoi contatti… spirituali.

Per tutta questa messinscena qualcuno sosteneva (e forse non a torto) che lu Piethruzzu fosse tutt’altro che della buccata, ma un sornione, inossidabile, bonario… fiju de… bbona mamma.

 

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Gli Spinola a Galatina

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di Giancarlo Vallone

È indubbiamente paradossale, e per più ragioni, che la stagione feudale degli Spinola a Galatina abbia lasciato così scarne tracce di sé; eppure le possibilità di conoscenza erano e restano molte: un dominio di lungo periodo, dal 1616 al 1801, e per un’epoca, poi, nella quale la documentazione non difetta; una famiglia magnatizia sull’intero scacchiere dei possedimenti spagnoli d’ Europa, e ‘Grande di Spagna’, indubbiamente assai ricca ed influente, anche se, per quanto ho potuto apprendere, i loro archivi e le loro ricche collezioni, anche di quadri (inclusi i loro ritratti) sono oggi dispersi. Quel che sappiamo noi, comunque, è quasi nulla e legato a pochi altri scritti, come un mio lavoro dell’antico 1984 che, in qualche modo cercano di sanare i silenzi presenti nelle pagine settecentesche del nostro Baldassar Papadia, che pure si proponeva di narrare le ‘memorie storiche’ di Galatina.

Il testo del Papadia, per altro, è animato da quell’irsuto spirito antifeudale così diffuso nella erudizione locale e nella storiografia municipale del Mezzogiorno d’antico regime ed ha modo di diffondersi largamente in questi sentimenti anzitutto contro i Castriota Scanderbeg, che dalla fine del Quattrocento fino a buona parte del Cinquecento erano stati duchi del paese. Quel che Papadia poteva pensare degli Spinola era stato certamente detto a sufficienza parlando dei Castriota; e proprio alla fine dell’opera il giurista galatinese afferma che non è suo “istituto di parlar di cause nelle presenti memorie”; in altri termini il silenzio sulla famiglia genovese è motivato dal complicatissimo e secolare contenzioso che opponeva l’amministrazione cittadina (universitas) ai suoi feudatari; in un punto, poi, Papadia ricorda anche un’allegazione sulla ‘mastrodattia’ (il diritto di eleggere in genere un concittadino come mastro d’atti, o redattore in scritto degli atti, nel tribunale baronale) che certo apparteneva a quel contenzioso. In altri termini la storia delle cause e del contenzioso, non sarebbe per Papadia, una parte della storia ‘vera’ del paese; ma la sua distinzione è capziosa, e certo nasce dalla esigenza di non schierarsi apertamente contro il fronte ducale, che indubbiamente contava degli ‘zelanti’ fautori in Galatina stessa.

Però il buon Papadia mente, perché sa bene che la storia delle liti è la linfa dello spirito civico, e della sua stessa sopravvivenza, e dunque della sua storia, e poi egli, senza dirlo, usa queste liti, e il loro contenuto ‘storico’ (lo possiamo finalmente riscontrare da una serie di allegazioni settecentesche fino ad ora sconosciute) proprio come materiali informativi ed eruditi già per l’età dei Castriota, e grazie ai quali egli ad esempio descrive, da un anziano testimone di veduta che era intervenuto in un processo del primo Seicento (richiamato poi in un’allegazione successiva), proprio il duca Ferrante, negli umori e nell’aspetto, perché “teneva in Castello una fossa, ove faceva ponere i carcerati, e… era homo alto come un gigante”, che sono, quasi alla lettera, le parole vergate poi dallo storico galatinese. Tuttavia anche il Papadia omette un particolare di fondamentale importanza che noi invece apprendiamo ora, e che consente di valutare in tutta la sua complessità la stagione galatinese degli Spinola, e la posizione, di fronte ad essi, dell’amministrazione universale.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Alla estinzione del dominio dei Sanseverino, successori dei Castriota, il distretto feudale galatinese è acquistato, nel 1608, da un personaggio che ha lasciato in Galatina, e nella memoria locale, pochissime tracce: Antonio Carafa, marchese di Corato; ma l’acquisto del Carafa, a caro prezzo, include un potere giurisdizionale illimitato, “la giurisdizione civile criminale e mista in prima seconda e terza istanza”. Insomma ogni contenzioso civile o penale, esaurisce il suo corso, ch’è previsto, su base del diritto romano, nei tre gradi di giurisdizione, nella mano feudale, anche se poi, per prassi, era possibile addirittura una prosecuzione della causa nelle corti regie con ulteriore esborso di denari per i malcapitati o avventurosi litiganti. Non sono pochissime, ma neanche molte le città ed i distretti feudali sottoposti ad un simile gravame ed all’urto d’un simile potere, che, a ben riflettere, rende costosissimo ogni processo, ed estremamente pericoloso, ed impari poi, un eventuale conflitto con il feudatario, che lo può far definire per ben tre gradi dalle sue magistrature.

Il Carafa ha Galatina solo per cinque anni, ma ben presto, dopo alcuni passaggi di mano, il distretto feudale, con inclusa una simile forza giurisdizionale, nel 1616 giunge in appunto in potere degli Spinola genovesi. In un contesto come quello dell’età vicereale del Mezzogiorno, in cui la sovrapposizione di un potere feudale ad una universitas, e cioè, alla fine, il conflitto tra poteri, è una realtà istituzionale, e con una disparità di forze in campo, nel caso specifico, così evidente, non sorprende che l’iniziativa del contenzioso, ch’è comunque un tratto comunissimo per quasi ogni distretto feudale, fosse appunto degli Spinola. Sorprende, caso mai, la capacità di resistenza dell’amministrazione universale. Alcune cose, di questa forza cittadina, le sapevamo. Sapevamo ad esempio che l’universitas di Galatina, pur subordinata ad un feudatario, giunge a divenire, o ad affermare di essere, a sua volta ‘baronissa’, almeno fin dal 1577, dei proventi delle cause discusse nella corte baronale, con la serie di complicazioni ch’è facile immaginare, e, paradossalmente, consumando abusi feudali a danno del proprio feudatario, anche se questo titolo feudale non compare più (ma resta il potere a titolo di semplice privilegio) nella documentazione della fine del Settecento, travolto, probabilmente da un profilo perdente nel contenzioso con gli Spinola.

Sapevamo anche di un altro titolo baronale di Galatina, che infatti, nel Settecento ha in feudo lo ius scannagii, e che già indica la grande fioritura dell’arte dei pellettieri. Quel che ignoravamo, invece, e che il Papadia si guarda bene dal rivelarci, è, ad esempio, che gli avvocati degli Spinola verso il 1768, giunsero a provare che proprio il prezioso privilegio della mastrodattia, che si voleva concesso da Ferrante d’Aragona nel 1469, era un falso, anche se poi sembra che il duca Spinola perdesse comunque la causa.

Se il Papadia non fa alcun cenno alla questione di questo falso, è perché, per lui, gelosissimo custode dello spirito municipale, la verità del giudicato favorevole, che assai probabilmente avrà assorbito l’eccezione di falso, è più importante della verità storica, dato che a quel falso possiamo forse credere.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Ora questa lotta incessante e dura, che a ben vedere crea spazi di libertà e di modesto benessere e che porterà Galatina, nell’ultimo decennio del Settecento, all’ambitissimo titolo di città, a simbolo di un effettivo e costante progresso e di una certa articolazione sociale; ebbene questa lotta deve il suo tratto moderatamente vincente anzitutto ad una fortunata circostanza di fatto: l’assenza quasi continua dei duchi Spinola da Galatina. E non si tratta della solita assenza del barone meridionale, che va a Napoli per lunghi periodi e poi rientra nel feudo; si tratta di un’assenza dalla stessa Italia meridionale, legata alla ricchezza ed alla alta posizione di questo ramo della famiglia genovese. E gli Spinola, naturalmente lo sanno. Nel 1736 il loro avvocato, senza mezzi termini, dirà: “non si arrosiscono le parti (galatine) di parlare di osservanza, possesso, e prescrizione contro di un barone forestiere il quale è stato sempre assente dal Regno, e la sua residenza l’ha fatta sempre in Genova, sua Padria, o in Milano, e gli Agenti pro tempore sono stati l’istessi suoi vassalli di San Pietro (in Galatina) come furono per molto tempo gli Andreani, quali poteano a lor modo pregiudicare al Barone, e far beneficio all’Università?…“.

In realtà le cose stavano in modo un poco diverso; se è vero che i duchi Spinola quasi mai si sono affacciati nel loro feudo dell’estrema Puglia, è però anche vero che non di rado sono stati loro ‘governatori’ o ‘agenti ‘ in Galatina membri cadetti della famiglia, che in qualche modo hanno esercitato poteri e controlli nell’interesse del ramo feudale. Tuttavia è indubitabile il ruolo fiduciario che gli Andriani (e in qualche caso anche i Gorgoni) hanno avuto e il loro rapporto intenso con gli Spinola, protratto per generazioni, e del tutto in sintonia con la loro scalata sociale che dal mestiere di giurista, secondo un iter consueto nel periodo d’antico regime, ha portato anche loro alla proprietà feudale, conservata poi, fino all’abolizione della feudalità, della vicina Santa Barbara. Tutto questo serve a spiegare, come si diceva, appunto quel progresso costante della città, anche durante secoli, come il Seicento, che erano stati di generale involuzione e povertà. Anche per questo non c’è da meravigliarsi nel constatare che le ‘parti galatine’ non arrossirono affatto; il contenzioso è stato sempre ininterrotto, e termina, in definitiva, con la fine della feudalità, cioè in altre parole quando cessa la ragione istituzionale del contendere.

 

 NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

La cicoria di Galatina

Cicoria di Galatina (Chicorium Intybus, Cv. Catalogna) : il “subbra taula” del Salento leccese

di Antonio Bruno

La “Memmi te Galatina”. Così mia nonna era conosciuta a San Cesario di Lecce perchè il suo papà Giovanbattista Gabellone, mio bisnonno, faceva il fruttivendolo e mio padre mi raccontava che spesso lo aiutava ad innaffiare gli alberi e le verdure “allu sciardinu” che gestiva in fondo a Via Umberto I, più nota agli indigeni come “la spallata”. Il mio bisnonno tra le altre piante aveva portato con se dalla natia Galatina la cicoria che avrebbe venduto come “subbra taula”.
Tu che sei del Salento leccese con ogni probabilità sai benissimo che cosa sia il “subbra taula”; traduzione: SULLA TAVOLA. Ma se sei un Salentino leccese troppo giovane, oppure se non sei di queste parti, cosa sia “lu subbra taula” non lo sai: ed ecco che io ti svelerò l’arcano!
In inverno quando non c’era la globalizzazione che ti fa arrivare la frutta da ogni parte del mondo e quando ancora non c’erano le serre che in un ambiente artificiale ricreano le condzioni climatiche dell’estate la frutta del Salento leccese era lu “subbra taula” ovvero il dopo pasto che poteva essere una serie di finocchi, oppure una serie di sedani ma anche una bella CICORIA MAMMALURA ovvero la cicoria di Galatina (catalana).
Ma la bellezza te lu subbra taula (traduzione: del sopra la tavola) è che deve

Salento a tavola. La patata novella Sieglinde di Galatina

di Massimo Vaglio

La patata (Solanum tuberosum), benché introdotta in Europa dall’America nel XVI secolo, sarà per circa due secoli coltivata come curiosità botanica e a scopi medicinali, rigorosamente per uso esterno, come lenitivo per piaghe e scottature. Solo le carestie del Settecento, e la promozione effettuata dai governi dell’epoca, rimossero i gravi pregiudizi che la attorniavano, e questo strano tartufo bianco, come spesso veniva indicata, cominciò ad essere accolto nei campi e sulle mense. Sulla scorta delle rape venivano lessate e condite con olio, aceto e sale, oppure con olio, aglio, pepe, e prezzemolo.

Nel Salento, grande impulso alla sua coltivazione, ed al suo uso, venne dato dall’oritano Vincenzo Corrado, che nel suo famoso libro di cucina, Il Cuoco Galante, include un Trattato sulle patate o pomi di terra, ove egli consiglia l’uso della fecola di patate per confezionare il pane, mescolandola al 50% con la farina di grano; e ne rivela oltre cinquanta modi diversi d’impiego gastronomico.

La patata novella Sieglinde di Galatina, è una pregiata varietà orticola di patata. Presenta tuberi di forma ovale allungata, del peso medio di 80-100 grammi, buccia di colore giallo intenso, brillante e pasta gialla. Nel Salento, e in particolare nella parte Sud Occidentale dello stesso caratterizzata dalla presenza della cosiddetta sinopia, ovvero, della terra rossa, ha trovato un ambiente particolarmente congeniale e sviluppa ineguagliabili caratteristiche

Storia del pasticciotto salentino

di Sonia Venuti

Il pasticciotto, dolce tipico galatinese,  è nato per caso nel 1740 nell’antica e rinomata pasticceria Andrea Ascalone ubicata ancora oggi, come allora, nella storica sede dell’odierna Via Vittorio Emanuele II, cuore del centro storico  e fulcro intorno al quale ruotava molto del dinamismo e della vita cittadina.

La fragranza del suo profumo accompagna  la storia di Galatina attraverso i secoli da ben nove generazioni, approdando ai giorni nostri senza aver perso nulla, negli anni, del suo antico sapore.

Nato col nome di bocconotto, piccolo boccone di pasta frolla farcito di crema pasticcera, insieme ad un altro dolce tipico Galatinese dita d’apostolo”, nome trasformato in seguito in “africano”, il pasticciotto è divenuto il dolce galatinese per antonomasia che andrebbe gustato, per esaltarne il sapore, con una tazza di cioccolata calda o granita al caffè.

In uso da sempre per i galatinesi quale  dolce tipico della domenica e delle festività in genere, è consigliato ai turisti  come tappa obbligata di degustazione nella visita alla città.

L’antica pasticceria Ascalone, un tempo anche rinomata gelateria e servizio ricevimenti, ha legato il suo nome nel corso dei secoli a tutte le famiglie della nobiltà prima, e della nuova borghesia poi, con la sua presenza costante nei giorni  importanti quali feste di fidanzamento,  matrimoni battesimi e quant’altro,  attraverso la produzione di piatti tipici, dolci e gelati, quest’ultimi conservati in appositi contenitori con una miscela di  ghiaccio e sale, per mantenere la giusta temperatura.

Requisita dagli Americani, subito dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, la pasticceria Ascalone produceva  i sui rinomati prodotti  esclusivamente per gli aeroporti di Galatina e Brindisi, ove erano di stanza molti soldati delle truppe

21 ottobre 1860: Galatina vota per il sì

 

di Tommaso Manzillo

Mentre l’Italia intera si appresta a tagliare il traguardo del 150.mo dall’Unità (17 marzo 2011), la data del 21 ottobre 1860 è, per Galatina, storica, in quanto qui, come in altre città, si tenne il referendum per decidere l’annessione al Piemonte, riconoscendo Vittorio Emanuele II come Primo Re d’Italia. Nonostante le polemiche sorte verso un’unificazione poco desiderata dalle masse popolari, in cui a beneficiarne è stato soprattutto lo Stato sabaudo, occorre ricordare questa data, quanto meno perché oramai fa parte della storia locale o microstoria, come si voglia chiamare.

Su quello che successe dopo questa data, è in atto un processo di ricostruzione storica che abbraccia anche il fenomeno del “brigantaggio”, ma il tutto è racchiuso in quell’espressione che prese piede sul finire dell’Ottocento e che è la questione meridionale.

Fu con l’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli e la conseguente fuga del re Francesco II, che si arrivò al 21 ottobre 1860, grazie anche all’intervento del decurione Nicola Bardoscia per costringere il sindaco, Antonio Dolce, ad indire il referendum per l’annessione al Regno sabaudo. L’amministrazione galatinese aveva faticosamente soffocato le manifestazioni d’entusiasmo dovute alla notizia dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, mentre le forze liberali, rappresentate dallo stesso Bardoscia, da Innocenzo Calofilippi e da Nicola Vallone, non riuscivano a vincere la morsa reazionaria del patriziato filo-borbonico, radunato attorno ai Padri Scolopi, molto influenti e seguaci del vecchio governo. Per sconfiggere l’inerzia e l’indifferenza dei galatinesi, determinante rimane l’intervento del medico Nicola Vallone, per richiamare gli elettori alle urne, mentre bivaccavano in piazza San Pietro.

Le elezioni si svolsero presso il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani, situato alla Torre dell’Orologio, fatta costruire all’indomani della proclamazione del

Una veduta di Galatina in una placchetta d’argento di Matthias Melin

di Marcello Gaballo

L’amico Giovanni Boraccesi, tra i maggiori esperti di argenti del Meridione, non inusuale nelle scoperte d’archivio, ancora una volta sorprende per una interessante notizia pubblicata in un saggio apparso su “Archivio Storico Pugliese”, a. LXII, 2009: L’entrata di Gianbattista Spinola a Galatina in una placchetta d’argento di Matthias Melin.

Si è agli inizi del Seicento e il duca Giambattista Spinola, della nobile stirpe genovese, e la consorte Maria Spinola, entrano trionfalmente nel proprio possedimento di San Pietro in Galatina, in cui avrebbero dominato dal 1616 al 3 dicembre 1625, quando muore il predetto duca.

Signori anche di Soleto, Noha, Borgagne e Pasulo, Pisanello, Padulano e San Salvatore, l’aristocratica coppia dovette risiedere per un certo periodo, dal momento che almeno uno dei loro figli, Giovan Pietro, risulta esservi stato battezzato il 5 luglio 1616.

Il corposo articolo, corredato da utile e completa bibliografia, descrive una placchetta istoriata di altissima qualità (la cui foto Franco Boggero invia a Boraccesi, come si legge nella nota 1), che assieme ad altre quattro, ora conservate al Rijksmuseum di Amsterdam, impreziosivano uno smembrato cofanetto delle dimensioni press’a poco di cm 65 x 25 x 40, appartenuto alla predetta nobile famiglia genovese.

Giovan Filippo Spinola commissionò il lavoro all’argentiere fiammingo Matthias Melin (Anversa 1589-1653), a quel tempo attivo nel capoluogo ligure, che la realizzò nel 1636, in occasione delle sue nozze con Veronica Spinola, futura principessa di Molfetta.

Le scene ritratte sui lati della preziosa cassetta –come annota con estremo dettaglio l’Autore- “esaltano pubblicamente alcune imprese memorabili della potente famiglia genovese, a quel tempo sotto la tutela della Spagna: l’Assedio di Gulik, la Consegna delle chiavidi Breda ad Ambrogio Spinola, il Matrimonio di Giovan Filippo Spinola e Veronica Spinola, l’Ambrogio Spinola durante l’assedio di Casale, La presa di possesso del feudo di Borgo San Pietro in Galatina”.

Matthias Melin, La presa di possesso del feudo di Borgo San Pietro in Galatina, 1636. Amsterdam, Rijksmuseum

La scena presenta sulla destra la carrozza a padiglione, con i duchi, che si dirige verso San Pietro in Galatina. “Un popolo di soldati a piedi, a servizio del duca, si assiepa lungo la strada e intorno alla carrozza; tra questi, alcuni, come si può desumere dal loro abbigliamento, sono soldati romani, come quello in primo piano, che ha infilato nel braccio sinistro lo scudo ovale decorato nel mezzo dallo stemma degli Spinola. Sul fondo del corteo, in prossimità della massiccia cinta bastionata come pure nel margine destro, sono presenti altri uomini armati, dei Turchi, riconoscibilissimi soprattutto per il loro turbante: minuziosa è la raffigurazione dell’ufficiale a destra, colto nell’atto di ringuainare la spada… A sovrastare la scena –continua Boraccesi- appena descritta, la seguente iscrizione a lettere cubitali: OPPIDUM SANCTI PETRI INGRESSURUS DUX / IO(ANNES) BAT(IS)TA SU(M)MO CUM CIVIUM APPLAUSU / ET IUBILATIONE EXCIPITUR.

Dal punto di vista iconografico, però, quello che della placchetta interessa maggiormente è la probabile raffigurazione della città di Galatina: un tratto della cinta muraria – con merli, torricelle e un imponente torrione circolare – che racchiude l’antico borgo, ove pure riusciamo a distinguere il profilo della supposta chiesa di San Pietro che nel 1633, dunque poco prima della realizzazione della lastra in esame, si decise di riedificare a spese dell’Università e che in parte fu terminata nel 1640”.

Ancora, scrive lo stesso: “L’ipotesi che questo documento figurativo sia effettivamente la veduta di Galatina è avvalorata dal confronto con quella nota riprodotta su una tela seicentesca (post 1657-ante 1675) conservata nel palazzo vescovile di Otranto, ma direi soprattutto con l’incisione tratta dalle Memorie (1792) di Baldassar Papadia…”.

Per dovere di informazione occorre precisare che la placchetta è stata anche ripresa sulla copertina del volume di Giovanni Vincenti Galatina tra storia dell’arte e storia delle cose, pubblicato dall’editore Mario Congedo, sempre nel 2009,  ed inserito al n. 178 della collana “Biblioteca di Cultura Pugliese”.
 

Itinerari d’arte nel Salento: la Basilica di S. Caterina di Alessandria a Galatina

di Rocco Boccadamo

Ogni tanto, la domenica mattina, vado ad ascoltar la Messa in una chiesa francescana che, a mio avviso, merita a buon titolo di essere definita senza uguali in Puglia: quella, dedicata a S. Caterina di Alessandria, che si erge, con composta maestosità e in una veste di singolare bellezza, nel centro storico di Galatina.

A proposito di tale monumento, devo sottolineare una cosa: sebbene mi sia capitato di accedervi e di ammirarlo oramai diverse volte, in ogni singola occasione avviene come se vivessi l’afflato emotivo del magico godimento che avvertii al primo contatto, tanto è il senso di gioia e di estasi che mi pervade nel soffermarmi al cospetto delle meraviglie artistiche, soprattutto affreschi, che vi si trovano racchiuse.
L’opera fu fatta realizzare, alla fine del quattordicesimo secolo, dalla famiglia Orsini del Balzo: di qui la denominazione, anche, di Basilica Orsiniana. Con essa, si intendeva perseguire una finalità molto significativa e di grande spessore, cioè dare un forte segnale per l’insediamento, nell’ area salentina, del rito cattolico romano, posto che, fino a quei tempi, nella zona era invece dominante il rito bizantino.
Sicché, i nobili committenti del cantiere, evidentemente in sintonia con i vertici della Chiesa di Roma, vi profusero mezzi ingenti: così si spiega la inconsueta grandezza del luogo di culto che, sin dall’inaugurazione, nell’anno 1391, venne affidato ai frati francescani (a ragione, è quindi dato di affermare che S. Caterina in Galatina ha costituito un rilevante avamposto della grande messe di cristianità – a partire dai suoi primi albori – che trasse ispirazione dal Poverello di Assisi) .
Brevi note sul perché della specifica dedicazione della basilica: S. Caterina, vergine di Alessandria, visse nel 10° secolo e, per non aver inteso abiurare la fede cristiana, fu torturata e decapitata. Ben presto, il culto verso la sua figura si diffuse anche in aree lontane, fra cui diversi paesi europei; fu proclamata patrona dell’Università di Parigi e protettrice degli studenti e delle ragazze da marito. Anche Raimondello Orsini del Balzo e la sua illustre consorte Maria d’Enghien si sentirono presi da profonda devozione verso la giovane vergine egiziana e, malgrado i disagi della lunga trasferta, si determinarono a compiere un pellegrinaggio all’omonimo monastero, eretto sul Monte Sinai, dove riposano le spoglie della santa.

La chiesa si presenta con una sobria, ed insieme elegante, facciata, tipica del tardo romanico pugliese; l’interno consta di cinque navate, di cui quella centrale davvero magnifica, con pareti e volte rivestite di affreschi risalenti alla prima metà del ‘400, di ispirazione giottesca (taluni sembrano quasi identici a quelli esistenti nella famosa Cappella degli Scrovegni di Padova) e opera di artisti provenienti, forse, dalle Marche e dall’Emilia e, in parte, sicuramente della Scuola, appunto, di Giotto. Complessivamente, si susseguono ben 150 scene, raffiguranti episodi della Genesi e dell’Apocalisse, del martirio di S. Caterina e di S. Agata (a Galatina sono custodite preziose reliquie di entrambe).
La basilica comprende anche un presbiterio, nonché una cappella ottagonale aggiuntasi in epoca successiva alla originaria costruzione dell’edificio; annessi, trovansi infine il «tesoro» con reliquari d’argento, un mosaico mobile ed una Madonna bizantina in legno e, sul lato sinistro, il chiostro, anch’esso arricchito da affreschi.

eccidio di S. Caterina (ph M. Gaballo)

 

Dunque, un’opera d’arte così bella ed interessante, eppure non adeguatamente nota. Ancora più paradossale è la circostanza che i visitatori della basilica sono rappresentati prevalentemente da genti che arrivano da lontano, specie dall’estero, mentre scarseggiano le correnti di interesse, malgrado la vicinanza e anzi la contiguità, da parte della popolazione pugliese e in particolare del Salento: molte persone non ne conoscono neppure l’esistenza.

Secondo me, ciò è da ascriversi anche al fatto che la città di Galatina, che pur si colloca fra i più importanti centri della provincia di Lecce, trovasi situata in una posizione leggermente defilata rispetto ai classici e modaioli circuiti turistici e delle vacanze e, di conseguenza, i visitatori che vi si portano appositamente finiscono col risultare di numero limitato. Si pensi che Galatina sembra essere più ricordata per la tradizione delle «tarantolate» e della Cappella di S. Paolo, santo che, secondo la credenza popolare, guarisce dal morso del ragno, oppure per la sua base aerea o per la cementeria.
Qualunque motivazione o giustificazione si voglia o si possa addurre, rimane comunque una grossa lacuna, cui bisognerebbe, in un modo o nell’altro, porre rimedio ancorché gradualmente.

Tanto per cominciare, si faccia ricorso al veicolo del “passaparola” fra amici, parenti e conoscenti, svolgendo una spontanea opera di sollecitazione e di sprone per la visita a questo insigne monumento. In pari tempo, un importante lavoro al medesimo fine dovrebbe essere svolto costantemente da parte delle istituzioni civili, militari e anche religiose: fra esse, la Scuola in primo luogo, in quanto non va dimenticato che la visita a S. Caterina di Alessandria in Galatina costituisce, in fondo, un vero e proprio percorso educativo.

Lo spirito unitario a Galatina tra il 1799 e il 1848

   
 

di Tommaso Manzillo

Gioacchino Toma, Piccoli patrioti (1862)

 

Il 17 marzo di quest’anno ricorre il 150mo dalla nascita del Regno d’Italia, proclamato dal re Vittorio Emanuele II di Savoia, grazie all’intesa opera diplomatica svolta da Camillo Benso conte di Cavour e alla impresa dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Mentre fervono i preparativi in tutta Italia per l’importante traguardo raggiunto (tra l’altro il 17 marzo 2011 sarà festa nazionale, onorata con il riposo dal lavoro e dalla scuola), anche Galatina ha ricordato l’evento nella serata del 4 dicembre 2010, presso la sala Fede e Cultura “Mons. Gaetano Pollio”), con la presentazione e distribuzione gratuita del libro di Tommaso Manzillo e Donato Lattarulo, “Il protagonismo di Galatina dal Risorgimento alla Costituente”, con prefazione del prof. Giancarlo Vallone, presente alla serata, insieme al sindaco, dott. Giancarlo Coluccia, al senatore Giorgio De Giuseppe, all’onorevole Ugo Lisi e alle altre personalità istituzionali locali, tutti coinvolti in un appassionante dibattito, moderato dal dott. Rossano Marra, ricordato da quel pugno duro battuto sul tavolo dallo stesso senatore De Giuseppe, segno evidente della carica ideale del suo pensiero.

Il processo di unificazione italiana ebbe un forte impulso con la nascita della Repubblica Partenopea del 1799 (22 gennaio – 13 giugno), figlia, a sua volta, della grandi rivoluzioni europee, prima fra tutte quella francese con la diffusione degli ideali della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità e la decapitazione della sorella della regina di Napoli Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, ossia Maria Antonietta. Di questa prima esperienza rivoluzionaria e libertaria, che fu rappresentata dalla Repubblica Partenopea, il nostro Gioacchino Toma ci ha lasciato due stupende raffigurazioni di Luisa Sanfelice, figlia di un generale borbonico di origine spagnolo, decapitata nel settembre del 1800 per aver smascherato la congiura dei Baccher, dopo aver diverse volte rimandato la sua esecuzione perché ella riteneva di essere incinta.

Per questo il nostro Toma la raffigura nella sua cella intenta a preparare il corredino per un bimbo che non nascerà mai. Una di queste tele trovasi presso il museo Capodimonte a Napoli, mentre la seconda presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma. Come alcuni studiosi hanno sottolineato, la grandezza del Toma si esprime proprio attraverso la sua straordinaria capacità di ridurre all’essenziale un episodio ricco di profondi sentimenti e di tragiche situazioni.

Gioacchino Toma è ancora ricordato a Napoli come il “Grande Toma”, come ho piacevolmente notato la scorsa estate, e fu coinvolto anch’egli nelle lotte rivoluzionarie del 1860, quando si aggregò alla Legione del Matese con il grado di sottotenente, partecipando all’assalto di Benevento “che prendemmo piegando poi su Padula”. Da questa esperienza trasse l’ispirazione per alcuni dipinti patriottici quali O Roma o morte del 1863.

Gli effetti della Rivoluzione napoletana si ebbero anche a Galatina quando il sindaco, Donato Vernaleone, fece issare nel febbraio del 1799 l’albero della Libertà in piazza San Pietro, segno dei tempi che stavano mutando. Difatti, l’arrivo dei napoleonidi e la legge di eversione

Riemerge un Sant’Onofrio tra gli affreschi medievali della Cattedrale di Nardò

 

Un Sant’Onofrio tra le iconae depictae della Cattedrale di Nardò.

Il santo eremita egiziano riemerge nel corso degli ultimi restauri

di Marcello Gaballo

Non si può che plaudire la determinazione e la costanza con le quali don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò, ha dato impulso – da oltre un anno a questa parte – ai lavori di restauro degli affreschi dell’Ecclesia Mater neritina. I recenti interventi, effettuati dai restauratori Januaria Guarini e Gaetano Martignano, hanno restituito al loro antico splendore gli affreschi raffiguranti il san Bernardino da Siena[1] su uno dei pilastri della navata sinistra, il Cristo alla Colonna sul lato destro del presbiterio, e il meraviglioso trittico con san Nicola, la Vergine col Bambino e la Maddalena, conservato nella navata sinistra, in corrispondenza della base del campanile.

Attualmente il paziente lavoro di recupero sta interessando alcune porzioni di affresco collocate sulla parete meridionale della Cattedrale, in direzione della piazza principale della città. Uno di questi affreschi (l’ultimo in ordine di restauro) occupa lo spazio della parete destra compreso tra la cappella di San Michele Arcangelo e la porta laterale.

Posto sull’originario muro perimetrale, il dipinto ha suscitato particolare interesse per il soggetto rappresentato, finora inedito, reso tuttavia quasi illeggibile sia per le cadute di colore, sia per uno strato d’intonaco con tracce di affreschi che lo ricopre nella zona intermedia. In aggiunta a questo, l’affresco reca danni evidenti anche a causa delle manomissioni subìte dal tempio nel corso dei secoli, soprattutto durante l’episcopato di mons. Fabio Fornari (1583-1596); periodo al quale risale la demolizione di numerosi altari – alcuni dei quali collocati in ogni angolo e a ridosso dei pilastri – e con essi la distruzione delle iconae depictae che li ornavano, poi riemerse in buona parte a fine Ottocento, durante i lavori di restauro finalizzati a rimuovere le strutture settecentesche realizzate da Ferdinando Sanfelice.

L’affresco in oggetto ritrae un santo olosomo, in piedi con le mani giunte, inserito in una cornice lineare ocra su una campitura blu. Il soggetto – raffigurato nudo, con il capo circondato da un nimbo giallo – esibisce una folta barba e una lunga e fluente capigliatura. Meglio leggibili gli arti inferiori, ugualmente privi di indumenti e caratterizzati dalla presenza di tre steli di un elemento vegetale (forse una palma) che, dai piedi, si innalzano fino alle cosce del santo, culminando in tre ampie foglie.

Ai lati della figura si intravedono alcuni caratteri di una duplice iscrizione disposta in senso verticale, all’altezza del volto: a destra si legge “[…] F […] YS”;  a sinistra la sola lettera “S”.

Il riquadro con l’effigie del santo era originariamente accostato ad una seconda riquadratura (all’interno della quale sopravvivono pochi brani), come si evince da una porzione di cornice ornata da girali vegetali, che sovrasta entrambi i riquadri.

La perizia degli operatori ha restituito un’interessante iconografia che si presta a diversi spunti di riflessione sui quali è utile soffermarsi. La nudità del soggetto farebbe pensare ad un santo anacoreta, vissuto nel deserto sull’esempio di san Giovanni Battista e del profeta Elia, i cui attributi iconografici, assenti nell’affresco neritino, autorizzano ad escluderli da un’ipotesi interpretativa.

Le poche lettere sopravvissute e soprattutto l’irsutismo della figura[2] permettono di identificarvi sant’Onofrio, un eremita vissuto nel V secolo che, per oltre settant’anni, si ritirò in solitudine nel deserto, nutrendosi di erbe e riposando nelle grotte presenti attorno al suo eremo di Calidiomea, il luogo dei palmizi. La leggenda narra che, quando i suoi abiti diventarono lisi al punto da ridursi a pochi brandelli, il Signore fece crescere su tutto il corpo del santo un abbondante pelo, per proteggerlo dalla rigidità del clima, mentre un angelo, ogni giorno, si recava da lui per portargli del pane come unico alimento.

Le vicende del santo anacoreta furono narrate da Pafnuzio, un monaco vissuto nel V secolo in Egitto, che lo incontrò più volte e ne scrisse nella Vita greca, asserendo che l’eremita morì l’11 giugno (anche se il santo è celebrato il 12 giugno nei sinassari bizantini)[3].

Alla luce di questi pochi elementi, l’iscrizione potrebbe dunque essere completata e letta come “[ONO]F[R]YS”; più ardua, invece, l’interpretazione dell’apparentemente singola lettera “S”, che potrebbe essere la lettera finale di Onofrius o di Sanctus.

Riuscire a decifrare il significato di questi caratteri è, dunque, di estrema importanza ai fini dell’esatta datazione dell’affresco che, in ogni caso, merita uno studio approfondito da parte degli specialisti di arte medievale e bizantina, sia per la comparazione di questo con i restanti affreschi, sia per una migliore definizione dell’intero ciclo pittorico.

L’identificazione del santo egiziano rimanda ad un inusuale culto neritino nel Medioevo, del quale non si conosce nulla, sebbene l’eremita fosse ben noto nel Salento, considerata l’esistenza di numerose altre sue rappresentazioni in questa terra, tra le quali si citano quelle di Santa Maria di Cerrate a Squinzano (in cui era dipinto su uno degli archivolti nella chiesa), dell’abbazia di San Mauro sul litorale ionico (dove l’anacoreta è affrescato sull’intradosso di uno degli archi), nella basilica di Castro[4]. Più celebre il bel sant’Onofrio dipinto nella chiesa galatinese di Santa Caterina, dov’è raffigurato con i canonici attributi iconografici che lo caratterizzeranno nel corso dei secoli[5].

s. onofrio

Alla luce di questo importante rinvenimento e dei numerosi affreschi tuttora conservati nel massimo edificio religioso neritino, ci si augura che la sensibilità del sacerdote – evidentemente supportata da generosi offerenti – possa proseguire nella meritoria opera di recupero di queste importanti testimonianze pittoriche, anche in vista dell’eccezionale evento che ricorrerà il prossimo 2013, quando la Diocesi di Nardò celebrerà il secentenario dell’istituzione della cattedra episcopale (11 gennaio 1413) ad opera di papa Giovanni XXIII (il pontefice scismatico Baldassarre Cossa), il quale nominò primo vescovo l’abate Giovanni de Epifanis.

 


[1] Sul san Bernardino da Siena si veda la relativa scheda di restauro pubblicata su “Il delfino e la mezzaluna”, a. I, n. 1 (luglio 2012), pp. 146-148. Cfr. inoltre R. Poso, La cultura del restauro pittorico in Puglia nella seconda metà del XIX secolo, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del Convengo Internazionale di Studi (Napoli, 14-16 novembre 1999), a cura di M.I. Catalano e G. Prisco, volume speciale 2003 del “Bollettino d’Arte”, pp. 273-286.

[2] Con tale aspetto “santu ‘Nufriu u pilusu” è raffigurato nella Cappella Palatina di Palermo, dov’è annoverato tra i comprotettori della città ed oggetto di un culto molto intenso. Come riferisce il Pitrè, il santo era anticamente invocato da parte delle fanciulle in cerca di marito, diversamente da quelle salentine che, invece, rivolgevano le loro preci a san Nicola di Myra.

[3] Su sant’Onofrio cfr. A. Borrelli, in http://www.santiebeati.it/dettaglio/56850; M.C. Celletti, Sant’Onofrio, in Bibliotheca Sanctorum, Roma 1967, IX, coll. 1187-1099.

[4] Mi comunica a tal proposito l’amico Emanuele Ciullo: “il S. Onofrio della basilica bizantina di Castro è stato rinvenuto nel corso dei recenti restauri cui è andata soggetta la basilica, che è la chiesa cattedrale di Castro, è una figura stante ubicata nel sottarco dell’arcone centrale della navata destra (l’unica porzione in elevato dell’edificio) al centro di altre due figure per complessivi sei santi (tre da un lato e tre dall’altro, il disegno è perfettamente “>speculare) divisi da una fascia a fregio vegetale al centro dell’arco. La figura naturalmente è completamente nuda e ha il nome iscritto affianco. Datazione incerta (X-XI?)”.

Ringrazio per la segnalazione l’altro amico Angelo Micello.

[5] Qui il santo, barbuto e con fluente capigliatura che ricopre buona parte del corpo, si appoggia con la mano sinistra su un bastone che termina in una croce a “T” (Tau) nella parte superiore; con la mano destra stringe un singolare rosario, i cui grani (circa 35), di colore marrone, sembrerebbero ghiande. Ai piedi del santo una corona rammenta agli astanti la rinuncia di Onofrio alla sua probabile stirpe regale e, comunque, alla gloria terrena, in favore di quella celeste attraverso l’eremitaggio.

La Madonna del Latte

di Massimo Negro

Cari amici, prendendo spunto da alcune fotografie della basilica di S. Caterina in Galatina pubblicate recentemente su Facebook dall’amico Cesare, sono andato a riprendere un paio di foto scattate nei mesi scorsi.

Una di queste è stata scattata appunto all’interno della Basilica, la prima foto, l’altra, la seconda, all’interno della chiesa della Madonna del Carmine. Entrambe a Galatina.
Il soggetto è sicuramente interessante e forse anche singolare: la Madonna che, come una qualsiasi madre, allatta il proprio figlio. E questo figlio, Gesù, nella tenerezza dei suoi primi mesi, come un qualsiasi neonato si nutre al seno della madre.

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Ho volutamente lasciato le parole “madre” e “figlio” in minuscolo per trasmettere la normalità del gesto, la rappresentazione della quotidianità tipica nell’agire di una qualsiasi madre, che con il seno scoperto allatta il proprio figlio. Ed è proprio questo che mi ha colpito.
Non c’è niente d’insolito nel veder rappresentata la Madonna con Gesù in braccio, ma solitamente sono ritratti in trono nella loro maestosità, con atteggiamento benedicente. In queste foto sono rappresentati una madre e un figlio.
L’immagine della Madonna con Bambino iniziò a diffondersi dal 431, dopo il concilio di Efeso, che ribadì la figura di Maria Madre di Dio, oltre che di Gesù.

Si trovano molte varianti stilistiche e iconografiche del tema della Madonna che allatta, ripreso nelle miniature, pitture e sculture di epoche e Paesi diversi. Il soggetto è tra i più antichi motivi dell’iconografia religiosa, presente anche nelle catacombe romane, forse con richiami a divinità egizie.

Fu popolare nella scuola pittorica toscana e nel Nord Europa a partire dal Trecento e venne proseguita durante tutto il Rinascimento.

Ma alla Madonna del Latte sono associate antiche tradizioni, credenze e devozioni. La più diffusa è quella che vuole che le donne si rivolgano alla Madre di Gesù affinché interceda per farle coronare il sogno più grande: avere un bambino. Anche nel Salento.
A Salice Salentino, la Cappella “Madonna del Latte” (la Cona) è una piccola chiesetta rurale costruita nel XVI secolo sulla Strada Provinciale Salice-Avetrana, a circa tre chilometri dal centro abitato.

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Luogo di culto e di devozione, nei momenti di perdurante siccità i Salicesi da secoli si recano in processione penitenziaria al piccolo santuario per implorare l’intercessione della “Madonna del Latte” per far cadere la pioggia sui campi.
Ad essa si rivolgono tuttora le puerpere per ottenere abbondante latte per nutrire i propri figli. E sempre alla “Madonna del Latte” si rivolgono recandosi spesso al piccolo Santuario, per un momento di preghiera e meditazione, moltissimi giovani del paese. Viene festeggiata il 3 luglio.
Come ben sapete non sono un esperto di arte per cui ricerche sul tema le lascio a chi di competenza, ma sarebbe interessante se si riuscisse a risalire ai motivi, alle tradizioni popolari che possono aver visto anche a Galatina un culto o comunque una qualche forma di devozione verso questa raffigurazione della Madonna.

Una piccola, ma grande chiesa: l’Addolorata di Galatina

l’altare dopo il restauro

di Tommaso Manzillo

Un vero e proprio splendore. La chiesa dell’Addolorata di Galatina (1710) riconquista la sua antica bellezza e straordinarietà stupendo il visitatore al suo ingresso nella casa di Dio. L’intervento conservativo dell’altare maggiore (1716) e il restauro delle sei tele ovali raffiguranti la Via Matris, voluti grazie alla tenacia dell’amministrazione del Pio Sodalizio, guidata da Biagio Buccella, fanno della piccola, ma grande chiesa dell’Addolorata, come amava chiamarla mons. Antonio Antonaci, Rettore per oltre quarant’anni, un vero e proprio gioiello dell’arte barocca, incastonato nel cuore del centro storico, meta obbligata dei pellegrini durante la loro visita alla città, ma anche dei fedeli

Galatina. Gli affreschi del chiostro di S. Caterina d’Alessandria

di Marcello Gaballo

Domenica Specchia
Basilica di S. Caterina d’Alessandria-Galatina. Gli affreschi del chiostro
Galatina (Lecce), Editrice Salentina, 2007

 

128 pagine, album a colori con numerose illustrazioni e foto del chiostro e della basilica, tra le quali si segnalano particolarmente quelle riportate alle pp. 28-29-30-31

Presentazione del sindaco di Galatina Sandra Antonica, introduzione di Zeffirino Rizzelli. Fotografie di Oreste Ferriero, progetto grafico di Rossella Vilei.

 

Una monografia dedicata al chiostro quadrangolare della celebre pontificia basilica minore di S. Caterina d’Alessandria in Galatina, voluta dai del Balzo Orsini e custodita dai francescani osservanti fino al 1494. Come noto, da tale anno la reggenza del complesso cateriniano passò, per volere del re Alfonso II d’Aragona, ai monaci olivetani di Pienza e quindi riaffidata agli stessi minori nel 1507.

Furono questi ultimi, oramai aderenti alla Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia, a commissionare all’attivissimo confratello Giuseppe da Gravina gli affreschi che tuttora decorano le pareti del quadriportico, e di recente restaurati. Egli li ultimò nel 1696, ventisei anni dopo quelli realizzati nel chiostro francescano di Nardò. Nel frattempo aveva lavorato nella città natale, dove, nel 1678, nella chiesa di S. Sebastiano, realizzò una tela e ne affrescò il chiostro. Nel 1685 aveva lavorato invece a Lecce, nel chiostro del convento di S. Maria al Tempio, poi a Francavilla Fontana, dove dipinse la tela di S. Giovanni da Capestrano per la chiesa di S. Maria della Croce.

Come per tutti gli altri interventi pugliesi il soggetto è prevalentemente francescano e l’impostazione si ripete, occupando le lunette poste al di sotto delle volte che formano il quadriportico, estendendosi sotto l’imposta delle voltine di copertura e sull’intera parete.

L’Autrice analizza attentamente i cicli, offrendo una esauriente schedatura dei singoli riquadri con le relative iscrizioni, corredata da una storia del soggetto raffigurato e dall’analisi scenico-pittorica. Inusuale ed utile l’esame degli stemmi nobiliari effigiati, che ricordano i generosi benefattori, come era accaduto anche per il ciclo di Nardò, dove invece non compaiono le raffigurazioni delle Virtù.

Saverio Lillo e i dipinti di San Paolo “te le tarante” di Galatina

di Stefano Tanisi

Uno l’ho visto io camminare col capo in giù sul soffitto, altri bevevano a un pozzo di scorpioni e di serpi, non senza gridi, nel viola acido e sporco d’una cappella, mentre fuori era il chiaro giorno steso coi piedi avanti come il Cristo del Mantegna. V.  Bodini

 

Già dalle prime luci dell’alba del 29 giugno, giorno in cui ricorre la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, per le vie e nella piazza grande del centro storico di Galatina, si avvertiva nell’aria, fino a qualche anno addietro, quell’agitazione che prendeva tutti: era l’arrivo dei tarantati da tutto il Salento per recarsi alla piccola cappella di S. Paolo “te le tarante”, chiesa

Note sulla chiesa e sul tesoro di S. Caterina d’Alessandria in Galatina

di Domenica Specchia

Galatina custodisce uno degli edifici storico – monumentali più importanti di Puglia: la Pontificia Basilica Minore di S. Caterina d’Alessandria.

La storia di questa chiesa è legata alla famiglia dei del Balzo Orsini e, precisamente, ad Ugo del Balzo d’Orange che, arrivato nel Salento, al seguito del re Carlo I d’Angiò, per i servigi resi alla corona angioina, ricevette da questi, in dono, la contea di Soleto con l’annesso casalis Sancti Petri in Galatina. Alla sua morte tale contea, con il feudo galatinese, fu ereditata dal figlio Raimondo del Balzo che si prodigò di cingere delle prime mura (1350 ca) il territorio galatinese. Nel 1375, alla morte di Raimondo, la contea di Soleto ed il casalis Sancti Petri in Galatina, furono ereditati per volontà testamentaria, dal nipote Raimondello, si presume secondogenito della sorella, moglie di Nicolò Orsini, conte di Nola. Ma, questi non rispettando le ultime disposizioni del de cuis assegnò l’amministrazione del territorio al primogenito Roberto. Raimondello, non condividendo la decisione paterna, decise di allontanarsi dalla sua terra per andare in Oriente a combattere in difesa del Santo Sepolcro. Durante il periodo di permanenza nella Terra Santa, tra l’altro, Raimondello visitò il monastero del monte Sinai che custodiva il corpo di S. Caterina d’Alessandria.

A tal proposito la leggenda narra che Raimondello, prima di tornare nella sua terra, rimase per tre giorni e per tre notti – in veste di penitente – dinanzi al corpo della Santa e, poi, l’ultimo giorno, prima di ripartire, le strappò con i denti il dito con l’anello – simbolo dello sposalizio di S.Caterina con Gesù Cristo – lo nascose sull’orecchio, tra i capelli, e lo portò con sé, facendolo, in seguito, custodire in prezioso reliquiario d’argento. Tornato nel Salento  ed in possesso delle proprie terre, Raimondello, ormai conte di Soleto e signore di Galatina, decise di costruire in terra galatinese questa chiesa, con l’annesso convento.

I lavori iniziati tra il 1383 ed il 1385 furono ultimati nel 1391, periodo durante il quale, peraltro, Raimondello convolando a nozze, nel 1385, con Maria d’Enghien, divenne anche conte di Lecce.

Ben poco sappiamo dell’originario impianto della struttura religiosa; infatti, l’iscrizione greca sull’architrave del portale minore destro e la presenza dell’abside semicircolare nella navatella destra hanno suscitato non poche perplessità in alcuni studiosi che hanno ipotizzato, più che la costruzione ab imis ed ex novo del tempio, la riorganizzazione di uno spazio preesistente condizionante l’asimmetria della pianta e l’icnografia dei due ambulacri.

Non confutando alcuna tesi ma, mutuando  le opinioni espresse da non pochi studiosi riteniamo che, fin dalla prima redazione, l’edificio doveva avere una pianta a sistema centrale (croce greca) che, nel tempo, fu trasformata in sistema longitudinale (croce latina commissa) . In seguito, l’ampliamento della struttura sacra fu caratterizzato dalle tre navate e dai due ambulacri e, in epoca rinascimentale, dalla costruzione del coro ottagonale, poiché Giovanni Antonio, figlio di Raimondello e Maria d’Enghien,

la navata maggiore di S. Cataerina in Galatina, disegno colorato di Cavoti

 

Questo tempio, in stile romanico – gotico, è uno degli edifici che esprime la versatilità con cui l’arte è riuscita a conciliare esperienze artistiche diverse. Il carattere composito dell’architettura in cui si associano, con felice ibridismo, motivi orientali ed occidentali, si sintetizza sulle pagine murarie esterne ed interne, sui nodi strutturali, sulle pareti che, come schermi, rendono immagini coinvolgenti il fruitore nella dimensione spazio – temporale della visione storico – biblico – teologica rappresentata. Per la religiosità dell’impianto, movente principale del ritmo delle membrature architettoniche, dei significativi complementi plastico – figurativi e della palpitante decorazione interna, la sacra costruzione è una forma di verità che arricchisce lo spirito della collettività galatinese identificantesi in essa.

Il conte Raimondello non si contentò di costruire la chiesa dedicandola alla Vergine sinaitica perché “all’incontro vi erano non pochi altri latini, che la greca lingua ignoravano” ma, la dotò, si presume, anche di parte dell’odierno arredo sacro e di reliquie di martiri e santi.  Dei sacri resti che Raimondello portò dall’Oriente parlano ripetutamente i documenti e la letteratura locale ma, è indiscutibile, che le testimonianze soccorrono relativamente in tal senso mentre, gli scritti degli studiosi risultano più incentrati sulla descrizione delle vicende storiche, politiche, sociali ed estetiche della basilica cateriniana che sulla valenza storico – religiosa ed artistica del suo tesoro.

Da quanto è dato intendere la testimonianza più completa rimane la  Nota delle Reliquie che, nel 1536, p. Pasquale da Presicce compilò; inventario che, dopo il 1597, fu ricopiato ed aggiornato dai Padri Riformati. La testimonianza di p. Pasquale da Presicce è fondamentale per comprendere che il tesoro della chiesa di S. Caterina era cospicuo; oggi, invece, è il ricordo del tesoro, più che il tesoro stesso, a sopravvivere. Infatti, perdite, ruberie, trafugamenti, manomissioni sembrano aver ridotto il tesoro basilicale ad un numero esiguo di manufatti. Il Superiore parroco p. Berardo Antico, dell’Ordine dei Frati Minori Francescani, compilò, nel 1982, l’inventario del tesoro cateriniano, descrivendo la consistenza anche relativamente ai sacri resti dei quali, a tutt’oggi, ventidue presentano il sigillo in ceralacca e sono corredati da lettera di autentica degli Arcivescovi di Otranto, Mons. Carmelo Patanè e Mons. Cornelio Sebastiano Cuccarollo, attestanti il tipo di reliquia e il materiale della teca che li custodisce; mentre, gli altri sono conservati in semplici teche, in due reliquiari d’argento ed in una croce reliquiario.

Nonostante la frammentarietà delle notizie e l’obiettiva difficoltà di cogliere un continum tra memorie passate ed annotazioni recenti, si vuole ribadire che, tutti i fatti occorsi nel Casalis sancti Petri in Galatina, tra Medioevo e Rinascimento, risalgono all’iniziativa della famiglia dei del Balzo Orsini, il cui programma foriero di interessi ed emulato dai successori, si completò anche con la donazione di argenti preziosi, di tavole finemente mosaicate e dipinte, di opere pregevoli[1].

Numerose reliquie, alcune icone e diversi oggetti d’arte, custoditi ancora oggi nel museo della basilica cateriniana costituiscono sicuramente “il nucleo, forse più antico” del tesoro della chiesa galatinese.

Prima di Raimondello del Balzo Orsini, non si hanno notizie del tesoro cateriniano; presumibilmente, quindi, chi provvide a dotare la chiesa di manufatti con i quali si magnificava il culto eucaristico rispecchiando lo sfarzo della corte regnante, fu l’Orsini, uomo di grande valore e mecenate di singolare intuito. Ai suoi talenti giovarono i legami con i papi Urbano VI Prignano e Bonifacio IX Tomacelli; con i re Luigi I e Luigi II d’Angiò e Ladislao di Durazzo, con il despota di Morea e con l’imperatore Paleologo. Da questi ultimi, Raimondello ricevette in dono numerose reliquie che si preoccupò di custodire  in preziosi reliquiari per donarli, come donò, al votivo monumento da lui edificato.

tesoro della chiesa di S. Caterina in Galatina (ph O. Ferriero)

 

La relatio tra donazione delle  reliquie e committenza dei reliquiari induce ad ulteriori precisazioni: diversi reliquiari furono portati direttamente dall’Oriente, poichè l’asporto di reliquie dai Luoghi Santi, complete di custodie, fu carattere distintivo del Medioevo. Si annoverano tra queste ultime la Croce reliquiario, non tanto per la valenza artistica, quanto per quella religiosa e sociale perché, come riportato dal compilatore della Nota delle Reliquie essa era “piena di reliquie di tutti i luoghi di Gerusalemme” ed il Cofanetto, che custodiva, in origine, diversi sacri resti di martiri e santi, simile per sagoma a quello, in avorio e bronzo, del tesoro della cattedrale di Troia ed a quello della chiesa conventuale di S. Maria di Zara, in Dalmazia.

E’ da aggiungere che risulta estremamente difficile, se non impossibile, per mancanza di documentazione storica probante, individuare, in maniera semiologica, tutte le peculiarità del tesoro cateriniano; tuttavia, connotazioni specifiche presenti su alcuni manufatti inducono ad ipotizzare che i magistri operarono in stretto rapporto con i committenti anche perché l’attività orafa della cerchia del principe, in genere, è da inquadrarsi nel vasto repertorio della committenza cortese.

Il tesoro, un tempo custodito nella lipsanoteca della basilica, allogata in sagrestia, dal 22 dicembre 2003,  è stato esposto nell’ex – refettorio del convento trecentesco, l’unico ambiente preservato dalla distruzione dai frati Riformati (1597) quando, nel 1657, questi decisero di abbattere la deteriorata casa religiosa propter sui vetustatem, proximamque ruinam minantem, per costruire una dimora più grande.

In questa grande aula rettangolare, caratterizzata dall’affresco dell’Ultima Cena, dipinto sulla porta d’ingresso al salone e da quello delle Nozze di Cana che lo fronteggia, dalla volta decorata con motivi geometrici, in nero su bianco, e dal fregio pittorico con motivi antropomorfi, zoomorfi e fitomorfi, sono stati esposti i numerosi manufatti, in appositi contenitori.

Realizzati in materiali preziosi oro, argento, argento dorato, pietre preziose, oppure semplicemente ricavati da materiali poveri come il legno, questi prodotti sapientemente sbalzati, cesellati, incisi, rappresentano la fede di coloro che, operando in tal senso, contribuirono alla formazione delle coscienze religiose.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°3.

[13] Nel tesoro di S. Caterina in Galatina si annoverano i seguenti reliquiari: del dito di S. Caterina, della mammella di S. Agata, del braccio di S. Petronilla, della costola di S. Biagio, delle dita di San Giovanni Crisostomo, del dito di San Pantaleone, della pelle di San Bartolomeo, di un osso di San Bonaventura, di un osso di San Cristoforo, del dente di Sant’Apollonia, dei denti di San Donato e S. Lucia e dei resti di San Lorenzo, S. Stefano, San Lino, S. Onorato, S. Cecilia, S. Onorato, di S. Anfrea e  di un frammento della colonna della flagellazione di Gesù Cristo, di una spina della corona di Gesù Cristo e di altri martiri. Inoltre sono custoditi: il micromosaico del Cristo Pantocratore, il rilievo della Vergine col Bambino, l’icona della Vergine Gljkophilousa, il calice e la pace donati anche da Raimondello e l’ostensorio del XV secolo donato da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, la croce reliquiario ed il cofanetto. Per una descrizione dei reliquiari e delle opere si veda: D. Specchia, Il tesoro. Problematiche storiche religiose artistiche, Galatina 2001.

Galatina e i suoi fanciulli di un tempo

di Rino Duma

Spesso m’accade, soprattutto durante le lunghe notti insonni, di riandare con la mente ai tempi della mia fanciullezza, quando la vita m’appariva come un meraviglioso sogno avviluppato in strani ed arcani misteri.

Il mio è un ritorno piacevole e, al tempo stesso, nostalgico; mi sforzo di ricordare immagini, volti, circostanze e, nel mentre, mi volto e mi rivolto tra le lenzuola. Mi assale una smania indescrivibile ed ho voglia di fugare dai pensieri i numerosi affanni quotidiani, i tormenti e i pesi notevoli di questa parte della vita.

Sono, perciò, portato a scavare nel mio lontano passato, a rovistare freneticamente, a mettere a soqquadro la memoria, sperando di tirar fuori episodi particolari della mia dolce infanzia, mai rievocati.

L’infanzia, già!… Era l’età piu bella, un’eta che sembrava non dovesse finire mai. Erano i tempi delle gioie piene e dei lunghi sorrisi… dei sorrisi che via via si smorzavano sul viso al comparire delle prime amare certezze della vita; erano i tempi delle tante paure, delle lacrime facili, dei numerosi ma necessari rimproveri, sia paterni che scolastici, fatti di dure parole ma anche di schiaffoni e di colpi di riga.

Erano i tempi dei giochi semplici e spensierati, ma soprattutto di studio, di tanto studio che si protraeva sino a tarda sera sotto la luce di una lampada da venticinque watt.

Lo studio di allora era martellante, insopportabile e, almeno per noi, inspiegabile ed inutile.

Per le vacanze di Natale, i professori, sempre severi ed inflessibili, ci assegnavano una caterva di compiti: dovevamo trangugiare pagine e pagine di storia e geografia, imparare a memoria una cinquantina di versi dell’Iliade o dell’Odissea oppure un’interminabile poesia, tradurre alcune versioni di francese e di latino, queste ultime da riportare sull’odiato “analizzatore”, risolvere diversi problemi di geometria ed esercizi di aritmetica, fare il riassunto scritto di alcuni brani antologici, eseguire quattro- cinque lavori di disegno ornato e/o geometrico e, come se non bastasse, svolgere almeno tre temi d’italiano su argomenti diversi.

Che bei Natali!

Darei, comunque, un anno del mio futuro, che di certo sarà ricco di pesi e di inquietudini, pur di ritornare indietro e ritrovare, almeno per un giorno o soltanto per poche ore, i miei genitori, gli odiati ed amati professori, i compagni d’allora, i trastulli, i progetti di fanciullo, le mie prime emozioni d’amore, quello strano e inconfondibile sapore che la vita d’allora mi offriva a piene mani.

Poi ripenso a quei tanti “ragazzi di strada” – buona gente, intendiamoci, o meglio “bravi monelli” – che pativano le pene dell’inferno.

Erano ricoperti piu che altro da stracci, indossati negli anni precedenti da una carovana di fratelli maggiori ed altri piu piccoli attendevano il loro turno. Erano perennemente affamati e denutriti, con le gambe sbucciate ai ginocchi e segnate dai rigori invernali, con i capelli sporchi e pieni di pidocchi, con il muco che pendeva dal naso, con le cispe arroccate alle estremità degli occhi.

Le scarpe, poi, risuolate piu volte con cartone pressato o con copertoni di bicicletta, erano tenute ben salde dalle famose “tacce”, che limitavano al massimo il logorio delle suole.

Il maglioncino unto, bisunto, smagliato e consumato all’altezza dei gomiti, i pantaloncini corti, rattoppati in piu parti con stoffa di diverso colore e disegno, mantenuti da un’unica bretellina, davano l’idea di trovarsi di fronte a veri e propri scugnizzi napoletani.

Con gli occhi vispi, scaltri come furetti e con l’intuito sempre pronto, non perdevano mai l’occasione di accaparrarsi in ogni modo, lecito o illecito, i mezzi di sostentamento necessari a migliorare, seppure di poco, la loro miserevole esistenza.

Somigliavano ai “Piccoli Apostoli” di don Zeno Saltini a Nomadelfia.

Quante volte ho svuotato nelle loro insaziabili mani le mie tasche ricolme di fichi secchi!

Quante volte mi sono privato della merendina, pur di veder brillare un timido raggio di gioia sul loro viso!

Tutti insieme si giocava, si correva, ci si picchiava, per poi riconquistare, tempo qualche giorno, le antiche amicizie e la vita di sempre.

I gruppi erano saldamente uniti da un fermo vincolo di solidarietà e da un eccezionale spirito di aggregazione, che difficilmente si riscontrano nei ragazzi di oggi, nonostante abbiano dalla loro parte innumerevoli vantaggi.

Non c’erano ostacoli che potessero intaccare o dividere i gruppi di fanciulli dei vari rioni, tra i quali era sempre vivo uno spirito campanilistico da… guerra mondiale.

Nell’interno di ogni gruppo vigeva una ferrea legge di gerarchie. Il capo, riconosciuto tale a seguito di aspre contese e dure lotte, era “circondato e servito” come un vero monarca da alcuni amici fidati, ai quali erano aggregati altri elementi di minore spicco, sino a comprendere i ragazzi poco abili al gioco, di scarsa iniziativa e poco coraggiosi.

Per essere riconosciuto capo si dovevano superare diverse prove di forza e di coraggio. Ricordo di essermi arrampicato sul cipresso più alto del cimitero (vi assicuro che si tratta d’impresa ardua) e, peggio ancora, di aver attraversato con Tommaso, un altro compagno di ventura, gli interminabili sessanta metri dello stretto cunicolo della fognatura di Piazzale Stazione.

Oggi, guardando quella stretta imboccatura, mi viene da rabbrividire.

La vita associativa era per lo più svolta in strada, che per noi fungeva da palestra, da grande madre, lontano dai pericoli rappresentati dalle autovetture, dalla droga e dall’aids.

Il primo pomeriggio, subito dopo pranzo, era vissuto intensamente e trascorreva in fretta, senza che ce ne accorgessimo.

Poi, nel bel mezzo della spensieratezza, si udiva una voce acuta e stentorea, un perentorio richiamo: erano i nostri genitori che ci ricordavano di riprendere la dura e ossessionante fatica quotidiana, qual era lo studio.

Ed allora nel nostro cuore scendeva un velo d’amarezza e di sconforto; ma intanto ci si dava appuntamento a sera, compiti permettendo.

Il gioco maggiormente preferito era il calcio (calcio alla carlona, tanto per intenderci). Infatti, tutti i giocatori rincorrevano la palla di gomma (quando si era fortunati ad averne una) o la palla di pezza o di carta pressata: tutti attaccanti e tutti difensori dietro a quella magica sfera.

Il “terreno di gioco” (si fa per dire) era generalmente il Piazzale “Stanzione” (lo chiamavamo cosi), quando si era fortunati a trovarlo libero, oppure ci si spostava ai “Banchini” (attuale Largo San Biagio) o anche dietro alla “Vecchia distilleria” o, quand’altro non ci fosse, su un campetto di fortuna ricavato tra alcuni binari morti della Ferrovia Sud-Est.

Durante il torneo annuale di calcio si giocava in trasferta sui campetti dei vari rioni, i piu importanti dei quali erano la “Stanzione”, la “Porta Luce”, la “Porta Nova”, la “Chiesa Madre”, “Santa Caterina”, “Santu Sebastianu” e “l’Anime”.

Il calcio non era tutto; infatti, c’impegnavamo in tanti altri giochi, per alcuni dei quali era richiesta molta concentrazione ed una bravura innata. Su tutti, ricordo il gioco “Uno monta la luna”, che raramente si portava a termine, poiche vi era sempre qualcuno dei partecipanti che, per imperizia o per carenza atletica, non riusciva a superare le quindici dure prove di abilita. Non meno impegnativi erano i giochi de “Li tuddhri” e de “Mazza e mazzarieddhru”.

Il primo consisteva nel superare, utilizzando cinque piccole pietre ben modellate, alcune difficili prove manuali; il secondo, invece, assomigliava al baseball americano. Dal campo base un giocatore, servendosi di una “mazza”, lanciava quanto più lontano possibile “lu mazzarieddhru” (un pezzetto di legno lungo 10-12 cm, ricavato da un manico di scopa appuntito alle estremità). Vinceva chi totalizzava un certo numero di “balle” (una balla corrispondeva, non certamente ad una frottola, bensi alla misura corrispondente alla lunghezza di cento “mazze”).

Eravamo anche molto industriosi nel realizzare magnifici aquiloni, sfruttando la carta dura dei sacchetti di cemento, oppure nel costruire pattini di legno, fionde di ulivo, perfetti archi per frecce, ricavati dai ramoscelli di eucalipto o di felce, ma anche strani ed efficienti apparecchi, che rappresentavano un lontano prototipo del telefono. Per questi ultimi, bastava avere due barattolini di rame (ad es. di crema da scarpe), uno spago lungo una trentina di metri e un po’ d’ingegno. Grazie ad un chiodo, si praticava un foro centrale nei due coperchi, i quali, in seguito, erano collegati a distanza dallo spago ben teso. Era sufficiente parlare, anche a bassa voce, perche la “telefonata” si trasmettesse da un capo all’altro. Erano i cellulari di quei tempi… ma a tariffa zero.

La domenica pomeriggio, poi, dopo aver assistito in Piazza Fortunato Cesari alla partita di calcio della Pro Italia Galatina, si andava al cinema per godersi il film. I più gettonati erano quelli a sfondo storico, western, di guerra e, un po’ meno, quelli comici. Ricordo che per acquistare i biglietti d’ingresso del film “Ulisse” (interpretato dal famoso attore Kirk Douglas), dovetti sudare le proverbiali “sette camicie”, tanta e tale era la ressa all’ingresso del cinema.

Dopo oltre un’ora di spintoni e pedate, riuscii finalmente ad “approdare” al botteghino. Per la cronaca, vidi il film per ben tre volte.

I cinematografi di Galatina che andavano per la maggiore erano il Cinema Teatro Tartaro ed il Cavallino Bianco; meno frequentati erano la Sala Lillo,la Sala parrocchiale Santa Caterina e l’Arena Italia.

Da grandicelli, verso i 13-14 anni, fummo attratti da un movimento giovanile che a quei tempi impazzava in tutt’Italia: ”I Boys Scout”. Lo scoutismo rappresentò per noi un’ottima occasione per affinare l’incerto carattere ed educarci alla vita di gruppo.

Fu per noi una sana regola di vita (ancor oggi si fa sentire) che ci induceva a coltivare le più importanti qualità dell’individuo, come il compiere il proprio dovere, l’essere leali e coraggiosi, l’amare il prossimo, il sacrificarsi per l’intento comune, il disprezzare la vita comoda, il coltivare la purezza del pensiero, delle parole e delle azioni, l’avere rispetto di tutti gli uomini, senza distinzione di classe, di razza e di religione.

Ora, ritornando mestamente ai nostri duri e difficili giorni, mi sembra come se quelle virtù siano state bandite dal mondo attuale, sempre più rivolto verso ben altre finalità e dimentico ormai di quei semplici, sani e virtuosi valori d’un tempo, di quando cioè tutto appariva un meraviglioso e ineguagliabile sogno.

Ma questa di oggi, purtroppo, è tutta un’altra storia… è una storia brutta e inquietante, dalla quale l’uomo difficilmente saprà tirarsi fuori.

Pubblicato su “il filo di Aracne” n. 3 anno 2008.

La chiesa dei Battenti in Galatina

di Domenica Specchia  – foto di Oronzo Ferriero

Un recente restauro ha interessato la chiesetta dedicata alla Vergine della Misericordia di Galatina – comunemente nota come chiesa dei Battenti – poiché il tempo, gli agenti atmosferici e l’incuria dell’uomo l’avevano destinata, ingiustamente, all’oblio. Ubicata nella circoscrizione territoriale della Parrocchia di S. Caterina d’Alessandria dell’Archidiocesi di Otranto, tale struttura religiosa che, nei secoli, ha subito ampliamenti e rimaneggiamenti, fu sede del Pio Sodalizio dei Battenti come attestato nelle Visite Pastorali.

Tuttavia, risalire alla data precisa che vide operante questa confraternita sul feudo del casale di S. Pietro in Galatina risulta impervio poiché i primi documenti disponibili di questa “scuola” risalgono al Cinquecento e, peraltro, non consentono di definire l’anno della sua nascita. Di contro, possono essere di ausilio gli affreschi della monumentale chiesa di S. Caterina d’Alessandria.

Leggendo questo compendio da biblia pauperum si è catturati dalle diverse figure le quali, come acquisito da autorevoli studiosi, possono rappresentare, nello scenario, i possibili committenti dei cicli pittorici e gli autorevoli personaggi della vita sociale e religiosa galatinese del Quattrocento. Tra questi si osservano anche i seguaci dei Flagellanti, cioè coloro che tormentavano il proprio corpo, a sangue, con i battenti e che furono in loco i rappresentanti della relativa Confraternita.

Considerando ancora che gli affreschi della chiesa dedicata alla santa sinaitica furono eseguiti, come asserito dalla studiosa Matteucci, tra il 1419 ed il 1435, si presume che già a tale data la confraternita dei Battenti svolgesse, a livello locale, la sua missione, attestata poi dal 1567, nella chiesa dedicata alla Vergine della Misericordia.

Le due epigrafi:

Ianua constructa est christicolorum suffragiis prioratum gerente Francisco Imbino et Michino Papadia Pompeio Stasi oeconomi coeteris 9 Piis confratribus e Frater qui adiuvatur a fratre quasi civitas et uidicia quasi vectes confraternitatum 1579, incise sull’architrave dell’unico portale di accesso alla chiesa – acquisite ormai alla memoria storica della città – rivelano che questo tempietto della SS. Trinità o della Misericordia fu la sede del pio sodalizio laicale dei Battenti che, con le altre confraternite del tempo – Annunziata e S. Giovanni – arruolò la popolazione del Casale di S. Pietro in Galatina in spiritualibus.

Entrambe le epigrafi però tacciono il nome dell’artefice di questa piccola costruzione occupante il lato sinistro della viuzza Marcantonio Zimara che sbocca sull’attuale piazzetta Carlo Galluccio alla quale, la modesta struttura ecclesiale offre la glabra pagina muraria della fiancata destra, frammentata, nella monotona vista dell’intonaco, dall’unica sobria monofora.

L’asimmetrica architettura rimane caratterizzata, sul lato nord, da alcuni ambienti, a pian terreno, adibiti a sagrestia, voltati nella copertura, semplici e severi nell’essenzialità delle forme celate dallo stretto vicoletto, dove restano rinserrati ed occultati alla vista del comune passante. La facciata monofastigiata, prospiciente la strada, offre al visitatore, nella condizionata veduta laterale, membrature architettoniche sapientemente lavorate nella fulva e lionata pietra leccese. Sulla piatta e limpida cortina muraria risaltano le semplici e squadrate finestre gemelle dell’ordine superiore e le centinate nicchie di quello inferiore simmetriche, peraltro, nell’armoniosa epidermide compatta, rispetto al portale della chiesa sul cui asse, l’architrave della finestra centrale ostenta l’iscrizione: «Lodato sempre sia il nome di Gesu’ (sic) e di Maria (1601)» (?).

La concisa essenzialità ornamentale definisce lo pseudo protiro, qualificandolo, nei delfini – simbolo  di Terra d’Otranto – scolpiti sugli alti plinti. Su questi,  le due pseudocolonne corinzie si ergono con il fusto decorato, in basso, con motivi floreali al di là dei quali le scanalature confluiscono nelle foglie di acanto dei capitelli ornati da mascheroni antropomorfi, costituenti la base di dadi di tipologia brunelleschiana. Al centro dell’alta trabeazione, tra foglie intrecciate, Giona profeta, simbolo della morte e resurrezione di Cristo, domina lo spazio scultoreo che rimane chiuso, da una centina – ponderatamente ornata da teste di cherubini – entro la quale la figura centrale della Vergine della Misericordia accoglie benevolmente, nel suo manto aperto, dai lembi ricurvi  sostenuti da due putti, i confratelli sodali inginocchiati dinanzi a Lei.

Risalire al nome dell’artefice di questa apollinea pannellatura plastica è difficile; tuttavia, in difetto di documentazione probante e, confortati nell’analisi comparativa  dalla presenza di altra analoghe ornamentazioni come quelle del Duomo in Minervino (1573), del portale di S. Giovanni Elemosiniere a Morciano, di S. Domenico di Nardò, del chiostro del convento dei domenicani a Muro Leccese (1583), del portale di S. Chiara a Copertino (1585),  della Immacolata in Nardò (1580 o 1590), dell’Incoronata in Nardò (1599), del campanile di Copertino (1588-1603), della chiesa della Rosa in Nardò, della parrocchiale di Leverano (1603), di S. Angelo in Tricase, di S. Caterina Novella (oggi S. Biagio) in Galatina, possiamo avanzare l’ipotesi  di vedere riflesso, in questo artifizio plastico, la maniera neretina di Giovan Maria Tarantino, operoso tra il 1576 ed il 1624.

Galatina, chiesa dei Battenti, particolare (ph O. Ferriero)

Nella lunga elencazione delle opere da lui realizzate, probabilmente, può annoverarsi anche la facciata della chiesa galatinese che, a nostro avviso, potrebbe essere stata realizzata dopo la chiesa di S. Giovanni Elemosiniere a Morciano e prima delle chiese dell’Immacolata e di S. Domenico a Nardò.

La trentennale attività svolta dal Tarantino nel basso Salento per la committenza religiosa, pubblica e privata è fondamentale al fine di comprendere il suo modus operandi che, peraltro, risulterebbe vicino a quello dell’architetto leccese Gabriele Riccardi.

Il ritmo plastico-geometrico delle strutture progettate da questi protagonisti dell’arte salentina  locale costituisce il comune denominatore riscontrabile nelle absidi di alcuni edifici religiosi e rimane un gioco architettonico di superfici curve e rette qualificante le diverse soluzioni progettuali riscontrate in non poche chiese a firma dell’uno o dell’altro architetto in discorso.

La fierezza del prospetto prosegue, senza scarti, all’interno dove, la grande aula, consta di due spazi: uno, riservato ai fedeli e l’altro, destinato al clero. Una ringhiera in ghisa segna il limite tra le due zone, sottolineate, peraltro, dai differenti livelli del piano pavimentale. Lo spazio, dove i fedeli si raccolgono in preghiera, rimane caratterizzato, sulla parete sinistra, dall’ambone, in asse con una delle due finestre che illuminano il vano trapezoidale trasformato poi in rettangolare, per la costruzione della cantoria, in corrispondenza della controffacciata dove, peraltro, rimane allogato l’organo. Le nude pareti segnate, nella parte alta, a circa 240 cm dal pavimento, da una cornice di stucco, che corre  lungo tutto il perimetro della chiesa fino al presbiterio, risultano impreziosite da tele incorniciate entro modanature dalle sinuose forme protobarocche. La zona absidale, semi esagonale, rimaneggiata nel XVII secolo – come documentano le Sante Visite – rimane definita da un grandioso arco a tutto sesto decorato con motivi floreali, con angeli dorati, razionalmente disposti e qualificata dall’epigrafe: Pura pudica pia miseris miserere Maria.

Galatina, particolare della chiesa dei Battenti (ph O. Ferriero)

Anche in questa chiesa galatinese è evidente la lezione riccardesca che il Tarantino probabilmente ricevette dall’anziano architetto leccese durante la messa in opera del Duomo di Minervino, nel 1573. D’altronde, il repertorio dell’architetto neretino fu il risultato di una ricerca continua nell’humus della ricca e peculiare tradizione artistica salentina. Al centro della zona absidale, al di sopra dell’altare maggiore, un tempietto, in stile classico, destinato a contenere la statua lignea della Vergine in preghiera, rimane definito da più piani aggettanti e da due colonnine corinzie in asse con le quali, al secondo piano, due lesene lignee dorate, dello stesso ordine e con motivi floreali, inquadrano una tela, in asse con la sottostante statua della Vergine della Misericordia.

Altri due altari, antistanti la zona presbiteriale, completano questo piccolo spazio religioso: a sinistra, quello della SS. Trinità con la relativa tela, d’impostazione masaccesca, presenta in basso, ad ulteriore conferma del significato iconologico che nell’insieme comunica, un triangolo equilatero alludente a Dio, Uno e Trino, ed alla perfezione assoluta.

Questo altare, donato dai Confratres D. aem ae Miser. Un iubileum 1633, officiato dagli affiliati all’omonimo pio sodalizio laicale, fu restaurato sotto il priorato di Didaco Tanza. A destra la tela, che correda la mensa dedicata al SS. Crocifisso, rappresenta Maria e S. Giovanni, in piedi; ai  lati della croce, in basso, i simboli della passione di Gesù; in alto, angeli che completano la struttura compositiva dell’opera le cui linee – forza, verticali, accompagnano l’occhio del fruitore verso l’alto, inducendolo ad estraniarsi momentaneamente dalla realtà ed a proiettarsi lentamente in una dimensione soprannaturale. In questo sacro vano le quattro grandi tele della Natività, Adorazione dei Magi, Purificazione di Maria con la presentazione di Gesù al tempio, Disputa tra i dottori e quelle relative alla vita mariana Presentazione di Maria, Lo sposalizio della Vergine, Presentazione di Gesù, Assunzione in cielo, Annunciazione, Immacolata, che arricchiscono le pareti laterali, invitano il fedele al raccoglimento e alla preghiera.

La trascendenza dalla realtà si concretizza quando l’occhio del fruitore si ferma a contemplare il dipinto del contro soffitto che, in un grande ovale, presenta La Vergine in gloria e Santi, virtuosismo pittorico del famoso decoratore latianese, Agesilao Flora (1863-1952) realizzato nel 1897. Nello spazio aperto del cielo le numerose figure di serafini si muovono intorno alla Vergine seduta su un ammasso di nuvole mentre un angelo incensa il singolare evento. L’ardito scorcio prospettico della balaustra a giorno, dove Santi inneggiano lodi alla Vergine, contribuisce al prolungamento dello spazio fisico. Le architetture ed i corpi si rarefanno progressivamente assumendo via via una consistenza materica non dissimile da quella delle nuvole. La luce assoluta e radiante determina un effetto suggestivo che sollecita l’ammirazione del fedele  verso la volontà divina che compie il miracolo.

Nella trepida attesa della riapertura ufficiale alla collettività forsan et haec meminisse juvabit poiché la chiesa dei Battenti rimane, per la città di Galatina, una delle opere più interessanti tra quelle protobarocche presenti sul territorio salentino fondamentale per ricostruire la trama della sua storia nella quale i cittadini, a tutt’oggi, si riconoscono e si identificano.

 

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5.

Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (II parte)

Cimitero di Nardò, progetto del nuovo cimitero

Le cappelle gentilizie costruite tra fine ‘800 e primi ‘900

 

di Gabriella Buffo

Il cimitero, ideato e costruito come un’ideale città dei morti, cinto dalle nuove mura, si isolava così dalla realtà circostante, anche se dal punto di vista morfologico richiamava paradossalmente l’immagine stessa della città dei vivi con i viali, le piazzette, i palazzi isolati e i blocchi condominiali a cui si aggiungono anche tutte quelle norme, regolamenti e prescrizioni che regolano ogni sistema sociale. E, come avviene nel tessuto urbano, anche qui si presenta la zonizzazione per classi sociali: gli spazi riservati agli infettivi – relegati nella parte più retrostante del camposanto – , ai non cattolici, ai non battezzati, al campo della pietà o cimitero dei poveri, in cui la nuda croce rileva appena il nome, alle cappelle di confraternite, infine gli spazi più rilevanti alle edicole gentilizie.

Cimitero di Nardò – cappella Rizzo particolare della clessidra con le ali spiegate

Infatti, sul finire del XIX secolo e nei primi anni del XX secolo, alla crescita della città borghese corrisponde il proliferare di un’architettura funeraria che, seppure in miniatura, ripropone in scala ridotta le medesime soluzioni formali impiegate nelle architetture urbane.

Le famiglie benestanti, l’intera borghesia, ormai consolidatasi nel potere politico ed economico, vogliono esprimere, anche attraverso la costruzione funeraria, il segno del proprio passaggio su questa terra e, dopo aver fatto costruire il proprio palazzo in città e la villa in campagna e al mare per la villeggiatura, commissionano agli stessi ingegneri la loro edicola funeraria con quello stesso gusto eclettico tanto allora di moda.

Le famiglie, ma anche le congreghe, si affrettano a presentare all’amministrazione comunale le loro richieste di acquisto di suolo (in concessione perpetua) per l’edificazione delle tombe private.

Cimitero di Nardò, progetto cappella gentilizia

Nelle richieste, secondo il Regolamento, devono essere specificati i materiali scelti e allegati i grafici dei progetti (alcuni sono firmati da noti progettisti quali Quintino Tarantino, Gregorio Nardò, Luigi Tarantino, Giuseppe Sambati, Benito Leante).

Cimitero di Nardò, progetto della cappella Tarantino

Come avviene per l’architettura civile e religiosa ottocentesca così anche per quella funeraria la ricerca stilistica utilizza l’antichità per trarre motivi e forme architettoniche semantiche e comunicative, tutti gli stili architettonici costituiscono modelli di riferimento da utilizzare in base alle differenti esigenze di rappresentatività. Ogni civiltà conosciuta, ogni forma di conoscenza, acquisita attraverso gli scavi archeologici e la letteratura dei viaggi, fornisce,quindi, tutti quegli elementi stilistici che, in un certo senso, soppiantano i simboli delle catacombe cristiane, le quali avrebbero dovuto, invece, essere il referente più vicino alla cultura religiosa italiana oltre ad essere quello più raccomandato dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma l’Ottocento, sappiamo, è stato il secolo di affrancamento dal “dominio religioso”, di istanze politiche di laicizzazione e modernizzazione dello stato, secolo anticlericale per eccellenza, più vicino alle correnti di pensiero europee.

Cimitero di Nardò, progetto del tumulo Zuccaro Tommaso

Lungo tutto il perimetro del vecchio cimitero, una accanto all’altra le cappelle delle famiglie più in vista della città neretina ripropongono un vero revival di stili: dal gotico al rinascimento al barocco a forme dell’architettura classica o a quella di civiltà egiziane e mesopotamiche.

Cimitero di Nardò, progetto della cappella per la congrega dell’Immacolata

Alcune sono posizionate come fondali prospettici, quale punto estremo della crux viarum. Infatti, entrando dall’ingresso del vecchio cimitero al termine del viale a sinistra svetta la cappella in stile neogotico, costruita dall’ing. Antonio Tafuri nel 1902. Sopraelevata su un basamento scalinato e fastosamente decorata con archi ogivali e rosoni, è il sepolcro della famiglia Tafuri, baroni di Persano e Melignano, la cui arme è effigiata al di sopra della porta di ingresso. A pianta quadrata si struttura su ordini e termina con un grappolo di pinnacoli. Il secondo piano è alleggerito da ampie bifore con vetrate colorate.

Cimitero di Nardò – sepolcro Tafuri in stile neogotico

Neogotica è anche la cappella del barone Francesco Personè, il cui prospetto, tripartito da pilastri poligonali, è ritmato da ogive traforate e lateralmente da fiaccole rovesciate con ali.

Cimitero di Nardò – cappella Personè -Bianchi

Un tempio greco-romano, con un pronao sorretto da colonne corinzie e sovrastato da timpano, si trova realizzato nella cappella Gioffreda.

Cimitero di Nardò, cappella Gioffreda

Neorinascimentale è invece la cappella del Capitolo della Cattedrale di Nardò.

Cimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale in stile neorinascimentale

Quasi assente, poiché poco apprezzato dalla storiografia di quegli anni, lo stile Barocco, rinvenibile soltanto in una cappella con il frontone curvilineo e il portale con un arco a doppia voluta in chiave.

Altre tombe si ergono assumendo l’aspetto di piccoli mausolei, come la cappella Conte-Filograna,la cui costruzione fu autorizzata dalla Commissione edilizia del Comune di Nardò nel 1929. Altre non sono altro che palazzi in miniatura, come la cappella Bove, in cui la scala, a doppie rampe contrapposte, con balaustra a pilastrini, conduce al piano sopraelevato.

Cimitero di Nardò, cappella Conte-Filograna
Cimitero di Nardò – cappella Bove

A volte si presentano edicole con compresenza di più stili, veri e propri pastiches architettonici eclettici e retorici, in cui la significazione ridondante di indici escatologici si dibatte tra sacro e profano; ne è un esempio la tomba della famiglia Dell’Abate-De Pandi-Zuccaro- Giulio, dove elementi prettamente neogotici – apertura ogivale con arco trilobato – si uniscono ad elementi neoegizi, quali le colonne angolari fasciate a metà circa della loro altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro.

Cimitero di Nardò – cappella Giulio-Zuccaro – particolare colonna angolare fasciata a metà altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro

Lo stile egizio, molto in voga sul finire del XIX, è limitato solo ad alcuni elementi architettonici, probabilmente perché non incontra il gusto della committenza neretina, a differenza degli altri cimiteri del Salento (per esempio a Galatina, dove neoegizia è la cappella delle famiglie Galluccio, Venturi, Candido, Greco, Romano) e di Lecce (tombe di M. Piccinni, Stampacchia, Fumarola), in cui “figure quali la piramide, l’obelisco, la mastaba, che hanno conservato nel tempo i propri caratteri originari senza grossi cambiamenti, assumono il valore di elementi astratti, posti al di sopra della storia: simboli eterni dalle forme semplici e solenni”[22]. Sono i resoconti delle spedizioni e i rilievi eseguiti in Egitto da viaggiatori inglesi settecenteschicome Norden, Pocock o Dalton, quindi divulgati attraverso specifiche pubblicazioni in tutta Europa, che contribuiscono alla diffusione di elementi decorativi e architettonici “all’egiziana”[23].

Cimitero di Galatina, cappella Venturi – 1916 – in stile neoegizio

 

Negli anni del XX secolo, accanto agli ornati e logori stilemi dettati dall’Eclettismo, viene a convivere il linguaggio del Modernismo, un nuovo stile che sintetizza l’essenzialità della forma architettonica attraverso volumi puri, carichi di potere evocativo già nella forma geometrica. Qui le suggestioni della pietas cristiana sono enfatizzate dalla morbidezza delle linee decorative del liberty floreale, a cui si aggiunge la forza evocativa della scultura.

La cappella dei baroni Personè, a pianta quadrata, si presenta come un blocco geometrico puro delicatamente decorato, altamente simbolico, con i quattro angoli della terra e le quattro direzioni cardinali, che rimandano sia alla condizione terrena dell’uomo sia alla eternità. Un nastro, intagliato con serti di foglie e fiori, avvolge l’edifico modellandolo e la stessa funzione svolge la finestra laterale in cui un cordone orizzontale definisce l’immagine di un sole che sta per tramontare.

Fiori e foglie, legati dal lenisco, decorano l’ingresso della cappella simboleggiando la vittoria sulle tenebre e sul peccato.

Come nelle loro dimore civili, anche sul prospetto delle cappelle delle famiglie Personè, Baroni di Ogliastro, Carpignano Salentino, Castro e Pallio [24], si osserva un tentativo di ribadire lo status sociale imprimendo nella pietra lo stemma nobiliare “spaccato di azzurro e di verde e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di Mercurio con il motto et pace et bello”.[25]

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia, particolare con l’uroboro

La simbologia

Nel cimitero di Nardò, come in tutti gli altri del Salento, non è il prezioso marmo la materia prima decorativa delle tombe ma la pietra leccese che diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte, tanto eloquentemente rappresentata dallo scheletro con la falce. È un simbolo, questo, creato dall’uomo, che andrebbe indagato perché lo si colga in tutto il suo significato. La falce è il simbolo della morte che recide la vita, come si recide l’erba o il grano. Essa è il simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini. Se la falce in sé richiama l’idea della falciatura del grano, la morte con la falce rimanda a una suggestione di raccolto, di traguardo di un ciclo naturale che inizia con la semina, continua con la fioritura, poi con la maturazione del frutto destinato ad essere raccolto per finire con la morte del grano ormai secco dal quale si estrae la spiga.

Cimitero di Nardò – cappella della congrega di San GiuseppeCimitero di Nardò – cappella Caputo particolare

Altri elementi caratteristici delle edicole funerarie in oggetto sono poi le tibie incrociate, la clessidra, simbolo del lento scorrere del tempo infinito, le ali aperte a simboleggiare la capacità di sollevarsi dal peso della vita, le fiaccole che indicano la redenzione e la speranza nel buio della morte (sei fiaccole ornano il fastigio della cappella della congregazione dell’Immacolata), le ghirlande di fiori e foglie quali segno incorruttibili di fede e di giustizia, i tralci di vite e l’uva simboli eucaristici che indicano il sacrificio e la redenzione.

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia con portale neosettecentesco con arco a doppia voluta in chiaveCimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale – particolare con attributi sacerdotali inseriti nel fregioCimitero di Nardò – cappella Tarantino, particolare degli acroteri

E ancora gli insetti quali l’ape, simbolo dell’anima, segno di sopravvivenza dopo la morte – nella cappella del barone Personè tre api sono intagliate sulla cornice che separa la parte superiore da quella inferiore del prospetto architettonico ;gli animali delle tenebre come il gufo e la civetta con la loro capacità di vedere nel buio e ancora l’uroboro, il serpente che si morde la coda, metafora espressiva della riproduzione ciclica, simbolo ambivalente che collega la vita alla morte, il pesce il cui termine greco Ichthys è l’acrostico di Iesous Cristos Theou Hyios Soter cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare dell’ape

 

Tra le più scenografiche è la cappella della famiglia Tommaso Zuccaro. Il progetto, firmato dal noto ing. Quintino Tarantino, si avvale di un ricco repertorio simbolico.

Il colore è bandito, resta solo il colore neutro della pietra. Un timido accenno di colore possiamo intravedere nella facciata della cappella Borgia, su cui sono dipinte fasce orizzontali bianche e grige.

Cimitero di Nardeò – cappella Tarantino

 

Il motivo delle fasce bicrome viene mutuato dall’architettura civile, per esempio villa Lezzi a S. Maria al Bagno di Nardò, dove però i colori usati sono quelli caldi del rosso e del giallo ocra più  appropriati ad abitazione di villeggiatura.

Certamente nella realizzazione di queste cappelle gentilizie gli architetti, gli ingegneri e le maestranze del tempo si avvalsero dei vari repertori a stampa che subito dopo l’Unità d’Italia iniziarono a circolare su tutto il territorio nazionale. In special modo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, fiorì una serie di scritti e raccolte iconografiche sull’architettura cimiteriale.

L’Arte Funeraria Italiana, raccolta di tavole fotografiche, pubblicata a Milano, rappresentò per i professionisti del tempo il manuale del pratico operare dal quale attingere nuove soluzioni formali e stilistiche. Preziosa guida nell’ambito della progettazione fu anche il Manuale dell’Architetto, in cui l’autore Daniele Donghi aveva dedicato una consistente sezione all’architettura cimiteriale corredata di fotografie e planimetrie dei maggiori cimiteri italiani e stranieri. È anche pregevole l’opera di G.B. Savio Lapidi e monumentini funerari. Progetti con piante e particolari n.40 tavole, edita a Torino da l’Artista moderno.[26]

Cimitero di Galatina, cappella Greco in stile neoegizio

 

In definitiva il cimitero di una città rappresenta la summa degli stili e degli stilemi che si sono stratificati nell’architettura del centro abitato, ed è perciò che non si può fare a meno, al fine di un’analisi esaustiva del tessuto culturale di un territorio, di tenere nella massima considerazione anche queste propaggini, questi luoghi della contiguità fra fisica e metafisica, e dunque ontologicamente affatto lontani dai non-luoghi augeiani [27], i quali son di solito poco reputati dalle trattazioni storico artistiche. Scrive Anna Belardinelli:  “Mai ho visitato un paese  senza cercare di aggiungere al suo mosaico una tessera particolare: quella del luogo riservato ai morti. Spesso questo si è rivelato il tassello risolutivo per ricomporre in un disegno comprensibile tutto ciò che avevo visto fino ad allora. Sempre trovavo l’incastro giusto con tasselli che sembravano appartenere a scene di tutt’altro genere: del tempo operoso, delle relazioni sociali, dei bisogni elementari, dei desideri, in definitiva della vita. Sempre ho riportato dalla visita a questi luoghi speciali e appartati una ricca messe di informazioni e, nello stesso tempo, un’emozione forte, la sola mistura che può produrre conoscenza, entrarti dentro e modificarti”[28].

Cimitero di Nardò – cappella Caputo – particolare dei capitelli

 

È anche molto interessante la prospettiva di sfruttamento economico di queste ulteriori sorprendenti risorse culturali. Nella città di Milano è statisticamente acclarato che, dopo il Duomo, il Cimitero Monumentale (costruito su progetto presentato nel 1860 dall’architetto Carlo Maciachini)  rappresenta la seconda meta frequentata dai turisti stranieri, con “oltre 10 mila visitatori nel periodo marzo 2003 / giugno 2004”[29] .

I cimiteri salentini, opportunamente restaurati, possono, dunque, a buon diritto essere inseriti nel più ampio circuito degli itinerari culturali che, com’è noto, attirano nel nostro lembo di terra migliaia di turisti affascinati dalle straordinarie ricchezze storico artistiche che questa terra conserva.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.

Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (I parte)

La città dei morti tra storia e memoria del passato.

Un esempio salentino: il cimitero di Nardò.

di Gabriella Buffo

“E’ da un pezzo che la Filosofia ha intimato il bando alle sepolture, e ai cimiteri non solo fuori delle chiese, ma anco fuori delle città, e lungi dall’abitato per la semplice ragione, che i morti non debbono ammorbare i vivi. Se le nostre Chiese sono pavimentate di cadaveri, qual maraviglia il trovarci spesso desolati da tante malattie pestilenziali”[1].

Così scriveva Francesco Milizia, teorico e critico di Oria, nel suo trattato Principi di Architettura Civile (1781), rilevando il grosso problema igienico sanitario legato alla consuetudine di tenere esposti i morti per lungo tempo nelle chiese e seppellirli poi sotto i loro pavimenti o nei cortili degli ospedali e delle confraternite.

Se il diritto funerario romano aveva respinto, per secoli, con la decima legge delle XII Tavole [2] (homine mortum in urbe ne pepelito neve urito) le sepolture fuori dalle mura delle città, per preservare la sanctitas delle abitazioni è “con il Cristianesimo che avviene il passaggio dalla negazione alla familiarità della morte che porterà in epoca medioevale all’inurbamento dei luoghi di sepoltura”[3].

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare fiaccole con ali e globo terrestre

Nei primi secoli dopo Cristo, infatti, si afferma la pratica delle sepolture ad sanctos o martyribus sociatus, affinché fosse più facile il cammino del defunto verso la resurrezione: in Christianis mors non est mors, sed dormitio et somnus appellatur, così afferma S.Girolamo nella XXIX epistola, secondo il quale la morte non può più far paura perché è vista come sonno eterno.

Le chiese accoglievano le sepolture dei nobili in ambienti ipogei posti in prossimità o davanti alle cappelle laterali di patronato di una certa famiglia; il clero, invece, aveva sepoltura in un unico ambiente sotterraneo, posto in prossimità del presbiterio e dell’altare maggiore; i popolani erano ammucchiati uno sopra l’altro senza cassa, avvolti solamente in un sudario, all’interno della navata centrale lungo due o più corridoi sotterranei ovvero in fosse molto larghe.

“Il posto più ricercato, e quindi più costoso, che si pagava generalmente tramite lasciti testamentari per le preghiere, era il coro ovvero vicino al punto in cui si celebra la messa e dove sono conservate le reliquie del santo. La scelta del posto di sepoltura da parte dei testatori restava subordinata comunque all’approvazione del clero. Ed era quasi sempre una questione di denaro”[4].

Nelle chiese conventuali  trovavano sepoltura i frati ivi dimoranti e, in linea di massima, eventuali benefattori mentre, nelle chiese confraternali, erano ubicate le sepolture per i confratelli della congrega di pertinenza. In ogni paese, per sovvenire alle esequie dei poveri, c’era quasi sempre una confraternita della Buona Morte (spesso delle Anime Purganti) che provvedeva ai funerali e a fornire una cassa da usarsi solo per il trasporto (una sola cassa per tutti i beneficiati).

Il processo di separazione tra cimiteri e città inizia ad avviarsi già nel 1765 con un decreto promulgato dalle autorità civili parigine e, immediatamente dopo il 1787, con una disposizione austriaca nel Lombardo Veneto.

I Francesi, durante l’occupazione napoleonica (1809-1814), con la loro visione illuministica, che aspirava a rimodellare le città secondo criteri di ordine, bellezza e igiene, misero al bando la pratica medievale della sepoltura ad sanctos o apud ecclesiam.

L’Editto Napoleonico di Saint Cloud del 12 giugno 1804, nell’occuparsi di molti aspetti di convivenza, entrò nel merito delle sepolture imponendo l’obbligo di seppellire i morti in appositi spazi recintati, fuori dall’abitato, allestiti per cura delle amministrazioni pubbliche, (art. 75, 76 e 77) e introducendo un controllo sulle iscrizioni funerarie, che dovevano essere consone allo spirito della rivoluzione francese e, pertanto, non contenere iscrizioni nobiliari. Le sepolture dovevano essere anonime e la collocazione della lapide era relegata ai margini dei cimiteri. La legge venne estesa all’Italia Meridionale con decreto del 5 settembre 1806.

Questa legge, senz’altro valida secondo il più freddo razionalismo, incontrò forti resistenze, perché lesiva di pratiche religiose profondamente sentite ma che impediva anche – come scriveva Ugo Foscolo nel carme dei Sepolcri (composto nel 1806) – quella “corrispondenza d’amorosi sensi” togliendo all’uomo l’illusione che egli potesse sopravvivere almeno nel ricordo dei suoi cari.

“Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando nel suo povero tetto educò un lauro  con lungo amore, e t’appendea corone”; così polemizza il Foscolo a proposito della disumana normativa sulle iscrizioni funebri che non permise al poeta Parini di essere sepolto con una lapide che ne tramandasse almeno il nome.

Cimitero di Nardò, cappella della confraternita delle anime purganti. Sopra la porta il Chrismon costantiniano formato dalle iniziali greche di Cristo

 

Lo stesso disagio culturale è, nel contempo, accusato da una intera generazione poetica europea a partire dall’anglosassone Thomas Gray con l’opera Elegy written in a country churchyard, a Edward Young nei Night Thoughts alle Meditations among the tombs di James Hervey per passare poi agli intellettuali francesi come Jacques Delille.

Sino al 1814 nei cimiteri è prescritta la costruzione di monumenti sepolcrali; successivamente a questa data nuovi emendamenti regoleranno il rilascio delle autorizzazioni per le sepolture private .

Durante il periodo della restaurazione borbonica nel Regno delle Due Sicilie determinante fu l’emanazione della legge nr. 653 dell’11 marzo 1817, che stabiliva la costruzione in ogni Comune di un camposanto fuori dell’abitato “in modo da servire ad un tempo a garantire la salute pubblica, ad ispirare il religioso rispetto dovuto alle spoglie umane, ed a conservare le memorie onorifiche degli uomini illustri”. La legge dava, inoltre, facoltà ai Decurionati di individuare i fondi di proprietà pubblica o privata idonei a tale destinazione procedendo là dove necessario all’esproprio.

Alla legge seguì il Regolamento di attuazione del 21 marzo 1817 che all’art. 2 prescriveva: “la figura dei campisanti sarà un quadrato, o un parallelogramma, avrà una sola porta d’ingresso, chiusa da un forte rastello di ferro, o di legno, e che la posizione sia scelta in un sito a circa un quarto di miglio lontano dall’abitato, nella direzione dei venti settentrionali in modo da evitare gli effetti sgradevoli dei miasmi”[5].

Purtroppo le disposizioni di legge tardarono ad essere applicate. Forti opposizione sia da parte del clero, timoroso di una diminuzione delle “pie elargizioni dei suffraganti”, sia dei ceti popolari, restii ad abbandonare la prassi della tumulazione apud ecclesiam, faticavano a far nascere i cimiteri extraurbani avallando la comune pratica di tumulare all’interno delle chiese con grave detrimento della salute pubblica anche considerando le ricorrenti epidemie di colera, si pensi alla terribile epidemia di colera asiatico del 1836, che flagellò il Regno. A ciò si aggiungeva  una quale inerzia amministrativa e la penuria di fondi per la costruzione dei camposanti.

Cimitero di Nardò, cappella della congrega di S.Giuseppe

Il cimitero in Terra d’Otranto: il caso di Nardò

Il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840 fu reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840. Con la nota del 25.1.1840 sullo “stato progressivo de’ lavori de’ Campisanti” l’Intendente Marchese Della Cerda comunicava  ai Sindaci la “definitiva chiusura delle tombe nelle chiese dell’abitato” e “sollecitava ancora l’edificazione delle città dei morti” [6].

“Il Comune di Lecce non si fa cogliere impreparato e si attiva giungendo a un risultato concreto con la predisposizione di una serie di documenti fondamentali: il primo e più importante di questi è datato 19 febbraio 1840 e contiene la relazione descrittiva del Progetto de’ lavori che occorrono per la costruzione del Cimitero nel locale di S. Nicola in Lecce con allegato lo Stato Stimativo firmato dal suo estensore nonché progettista delle opere, l’ing. Benedetto Torsello[7]. Il cimitero fu aperto ufficialmente il 1° gennaio 1845  ma il popolo leccese, ancora non convinto della necessità ed utilità di questo impianto extraurbano, nel 1848 manifestò aspramente il proprio dissenso con l’abbattimento delle porte e dei muri del Cimitero e con la dispersione delle croci”[8].

Cimitero di Galatina, cappella Galluccio in stile neoegizio

 

Nel territorio salentino il Comune di Galatina nel marzo del 1886 aveva ultimato i lavori per la realizzazione del cimitero ma, già nel 1894, approvava il progetto di ampliamento, presentato dall’ing. Giuseppe Greco, per la costruzione di nuove cappelle gentilizie nell’area prospiciente l’ingresso[9].

Analoga era la situazione a Gallipoli, dove l’ing. Luigi Pinto aveva già redatto nel 1868 un progetto di ampliamento del preesistente camposanto.

“Non manca di Cimitero il Comune di Nardò che si trova provveduto sin dal 1840 ed è posto in apposita località fuori l’abitato, i cadaveri vi si seppelliscono per inumazione ed anche tumulazione essendo permessa la costruzione di tombe particolari. Manca solo il Regolamento […] e quindi vengono adottati gli antichi del 1817” così scriveva il sottoprefetto di Gallipoli il 16 ottobre 1870 alla Prefettura di Lecce[10], alla quale spettava l’obbligo di vigilare sulla salute pubblica[11].

Al 1847 risale, comunque, un tentativo di spostarlo in altra area della città: una relazione, datata 17 gennaio, presenta all’amministrazione comunale il progetto di un nuovo campo santo “da costruirsi ad uno dei lati del Monastero dei P.P. Cappuccini, distante dalla città un terzo di miglio mentre l’attuale Campo Santo è d’un quarto ed alla medesima direzione di Nord Ovest. [   ] Inoltre li P.P. Cappuccini abbraccerebbero quest’occasione per loro peculiare interesse, cederebbero, forse, gratis, parte del di loro giardino pel Campo Santo”[12].

Ma la scelta del luogo è subito contestata dai neretini, come si legge in una missiva, datata 21 dicembre 1847, di un cittadino portavoce, il quale scrive all’Intendente della Provincia di Terra d’Otranto che “l’unica delizia che offre questa Nardò, si è incontrastabilmente il passeggio sulla via che mena al Convento dei PP. Cappuccini, ed al Capoluogo del Distretto, ove la popolazione si accalca, specialmente nei mesi estivi. Ora cercasi avvelenare questo pubblico ed innocente sollazzo ed collocare colà il Campo Santo e rendere così mesto e luttuoso quel luogo che oggi è ridente ed ameno. Né il pubblico diletto è il solo che debbasi tener presente”.[13]

L’antico impianto architettonico del cimitero neretino era tipologicamente definito da uno spazio geometrico regolare in cui due viali perpendicololari dividevano l’aia cimiteriale in quattro parti .

Planimetria del vecchio cimitero di Nardò

Il muro del recinto interno del camposanto, come disponeva l’art.10 dello stesso Regolamento, fu diviso in sezioni per essere acquistato, “ad un prezzo da determinarsi a favore del Comune, dalle famiglie le quali colà avrebbero potuto erigere monumentini, lapidi con bassorilievi ed epigrafi, cippi commemorativi al fine di conservare le memorie onorifiche dei loro trapassati”[14].

Inizialmente il cimitero era limitato da un “puro e semplice muro di cinta di determinata altezza con apposito ingresso su di un pubblico cammino, con dentro un infelice locale coperto con volta semicilindrica a cui dato il nome di Cappella. Tutto ciò praticato mancava non solo di quella decenza dovuta ad uno stabilimento di simil fatta, ma ancora di un locale per la custodia , e di altro pel provvisorio deposito dei cadaveri fino all’ora della inumazione”, così si legge in una relazione dell’arch. Gregorio Nardò.[15].

Incaricato “d’invigilare alla esecuzione delle regole prescritte sul modo della inumazione”[16] era il custode, di certo già in servizio nell’anno 1842, in quanto in una missiva, datata 8 maggio dello stesso anno, il sindaco di Nardò Gian Vincenzo Dell’Abate chiedeva all’intendente di Terra d’Otranto l’autorizzazione ad anticipare di giorni 15 la somma di denaro dalla Cassa Comunale, quale paga per il custode sig. Giuseppe Gioffreda, il quale si trovava in difficoltà economiche[17].

Pianta del vecchio cimitero di Nardò

Alla costruzione del cimitero seguì presto il progetto, datato 10 aprile 1844 e firmato dall’ing. Benedetto Torsello, dei lavori che occorrevano “per la costruzione della nuova strada che dall’abitato di Nardò mena al Campo Santo, uscendo dalla nuova porta sul filo detto Boccaporto”[18].

Cimitero di Nardò. Prospetto dell’antico cimitero

Il 2 maggio 1844 l’Intendente approvò l’esecuzione dei lavori per la realizzazione della strada per la spesa preventiva di 260 ducati cioè ducati 70 di lavori a farsi e ducati 182 di compenso ai proprietari e di ducati 8 per competenze dovute allo stesso ingegnere.

Nella relazione di verifica, datata 8 aprile 1848, l’ing. delle Acque e Strade Vincenzo Fergola accertò che “l’inumazione nel Pio Stabilimento fu incominciata in febbraio 1840 e che fin ad allora vi erano n. 2834 cadaveri e che vi rimaneva ancora un’aia capace a potervi continuare l’inumazione fino a tutto luglio prossimo”[19].

Progetto del nuovo cimitero di Nardò

 

Ma già in una relazione dell’Ufficiale Sanitario Comunale del 13 marzo 1911 si evidenziava che il cimitero era insufficiente ai bisogni del paese e che necessitava di un ampliamento e anche di un nuovo fabbricato con l’alloggio del custode, la cisterna e i locali richiesti dai Regolamenti, nonché di una nuova cappella per le funzioni religiose. La nuova cappella “in cui i fedeli nel giorno della commemorazione dei morti potranno recitare gli uffizi di pietà”, fu costruita al centro del muro opposto all’ingresso “di croce greca come quella che occupando lieve spazio meglio di qualunque altra figura […] nell’esterno saravvi un prospetto di stile greco”[20].

Il 9 gennaio 1915 l’ing. Gaetano Bernardini di Monteroni presentò il progetto di ampliamento del vecchio cimitero “che così ampliato e fornito di tali opere verrebbe a sostituire in parte l’antico, il quale resterebbe destinato in gran parte a tombe gentilizie ed in parte ad inumazione ordinaria”[21].

La zona di ampliamento fu individuata a lato dell’antico muro di cinta a ovest, interessando i fondi del cav. Giovanni Colosso e Benedetto Trotta. Essa confinava a nord con la via nuova detta Carignano, a est con l’antico cimitero, a sud con la proprietà Colosso e a ovest con la via vecchia vicinale Scapiciara. L’intera zona espropriata copriva una superficie totale di metri quadri 11537,98.

Il progetto di Bernardini, già approvato dalle Autorità Superiori il 6 luglio 1915, fu successivamente modificato dall’Ing. Luigi Tarantino.

Il 4 giugno 1916 fu contratto un mutuo di £. 30.000 con la cassa dei Depositi e Prestiti di Roma per l’esecuzione di nuovi lavori nel Cimitero.

Il Comune di Nardò, con delibera del 23 febbraio 1923, affidava i lavori di costruzione delle fondazioni dei muri di cinta del cimitero alla cooperativa dei muratori fascisti, il cui presidente era Vaglio Ermenegildo, anche al fine di contrastare la disoccupazione, che in quel periodo affliggeva gli operai del posto.

 (continua)


[1] F. MILIZIA, Principj di architettura civile, Milano 1847, 289-290.

[2] Le leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges) è un corpo di leggi compilato nel 451-450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico. Rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano, se si considerano le più antiche mores e lex regia. Sotto l’aspetto della storia del diritto romano, le Tavole costituiscono l’unica redazione scritta di leggi dell’età repubblicana.

[3] L. BERTOLACCINI, Diritto d’asilo e sepolture nelle città medievali, in “I servizi funerari”, n. 4 , Rimini, ottobre-dicembre 2000.

[4] Ibidem

[5] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III,  428-429.

[6] A.S.L, Intendenza di Terra d’Otranto, affari generali, busta 35 fascicolo 718.

[7] G. CATALDO, Il ‘Campo Santo’ di Lecce, ……, pag. 153.

[8] V. MATRANGOLA, Il giardino degli addii, Lecce 2005.

[9] Delibera del Consiglio comunale del 5.12.1893. A.S.L., Prefettura, serie II versamento III busta 24 fasc.307. Sul Cimitero di Galatina cfr. Percorso extraurbano alla riscoperta dei più bei monumenti funebri in “Galatina da scoprire… con la guida degli alunni del Liceo Scientifico Statale “A. Vallone” di Galatina,” Galatina 2004, pp. 11-25.

[10] A.S.L., Prefettura, II serie I versamento fascicolo 44 – 45 busta 37.

[11] La prima legge sanitaria del Regno d’Italia è contenuta nel Regolamento per l’esecuzione della Legge sulla sanità pubblica presentato dal Governo Lanza e approvato con Regio Decreto n. 2322 dell’8 giugno 1865, il quale fissava le responsabilità dei Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci in merito ai problemi riguardanti la sanità pubblica .

[12] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[13] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[14] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III, pp. 428-429.

[15] Archivio Storico Comune di Nardò (ASCN), Progetto per la nuova Cappella ed Ingresso al Camposanto di Nardò.

[16] Art. 11 della Legge 11/03/1817, in P. Petitti, Repertorio…., op. cit, p. 430.

[17] A.S.L., Prefettura II serie I versamento fascicolo 44 busta 35.

[18] A.S.C.N.

[19] A.S.L., Prefettura II serie I versamento busta 37.

[20] A.S.C.N., Progetto per la nuova Cappella ed ingresso al Camposanto di Nardò.

[21] A.S.C.N.

[22] A. MANTOVANO, Il Cimitero Monumentale di Lecce, in V. Cazzato – S. Politano, Architettura e Città a Lecce. Edilizia privata e nuovi borghi fra Otto e Novecento, Galatina 1997, 32.

[23] L. BERTOLACCINI, Sepolture individuali e tombe di famiglia. Immagini e simboli della morte, in “I servizi funerari”, n.1, Rimini, gennaio-marzo 2001

[24] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò 1996.

[25] Ibidem

[26] O. GHIRINGHELLI, I repertori a stampa fra Ottocento e Novecento, in L’architettura della memoria in Italia,  253.

[27] M. AUGE’, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità,  Milano, 2005.

[28] A. BELARDINELLI, Lo specchio non effimero, in L’architettura del cimitero tra memoria e invenzione, Perugia 2005, 75.

[29] COMUNE di MILANO, Monumentale Museo a cielo aperto – le migliori 100 foto del concorso, Milano 2004.

Cronache galatinesi fra gli anni ’20 e ‘40 del secolo scorso

uno dei palazzi del centro storico di Galatina

di Sonia Venuti

”Duce, Duce, lu pane ci lu ‘nduce”

Galatina, è noto, racchiuse in sé un movimento abbastanza largo di opposizione al regime, comprendente tutte le categorie sociali e varie ispirazioni politiche.

Tale opposizione aveva sfumature, valenze e incidenze diverse: si andava dalla non omologazione di alcune famiglie cattoliche, al disimpegno dei socialisti ( Avv. Gaetano Cesari), alla ostilità dei comunisti rappresentata da una nutrita schiera di artigiani (barbieri, meccanici, muratori, falegnami), capeggiati da Carlo Mauro.

L’adesione al fascismo, a Galatina come in gran parte d’Italia, fu propria della piccola borghesia, del sottoproletariato e delle classi ricche. La maggior parte della gente accettava con passività il Regime, senza partecipazione ma anche senza ostilità “Duce, Duce lu pane ci lu ‘nduce/ lu  ‘nduce lu furnaru, menzu duce e menzu ‘maru”

Galatina da “Valloniana” a fascista

La Galatina ufficiale, quella delle istituzioni comunali e del notabilato, divenne fascista solo dopo la presa del potere da parte di Mussolini. La famiglia Vallone, che sin dall’Unità d’Italia aveva governato la città, aveva espresso in diverse legislature il proprio deputato nella persona del repubblicano ing. Antonio Vallone. Sindaco della città era il fratello , il medico Vito.

I Vallone, come si è detto, rimasero estranei al fascismo, tanto che Vito Vallone aderì solo a cose fatte (1923) ed il popolo istintivamente distingueva tra la minoranza estremista degli squadristi e “i fascisti di don  Vito”, moderati per natura.

Il 7 febbraio 1925 muore l’on. Antonio Vallone e la partecipazione al lutto è corale.

Il Partito Fascista dice che “onorare il Cittadino benemerito è sacro dovere di tutti” e invita i propri iscritti a partecipare ai funerali che si svolgono il giorno 8.

 

balcone di uno dei palazzi più belli del centro storico di Galatina

“Ti mandu lu Caddara”

Gli anni ’30 furono terribili anche per i Galatinesi,  la miseria dilagava e la disoccupazione era alle stelle; con salari di fame le tabacchine prendevano la tubercolosi nelle fabbriche di tabacco.

Per cucinare la povera gente, non potendo comprare la legna, usava le “ramaje” risulta della monda delle olive.

Non era spettacolo raro vedere in giro braccianti di poco più di cinquant’anni letteralmente piegati in due a causa del duro lavoro, e non era raro neanche vederli la domenica sotto i grandi portoni padronali in attesa di ricevere l’elemosina.

I senza tetto  venivano ospitati in un grande locale in via Tanza, chiamato “cambarone” (camerone), dove le famiglie si divedevano gli spazi con lenzuola appese ai fili di ferro.

Il  giovedì giorno di mercato in piazza S. Pietro, venivano effettuate delle vendite all’incanto di beni pignorati a poveracci insolventi dall’Ufficiale Giudiziario d’allora soprannominato “caddara”; da qui il detto “ti mandu lu caddara” cioè “ti faccio pignorare la casa”. Qualche sollievo alla miseria dilagante lo diedero i lavori per la fognatura e per la costruzione dell’Edificio Scolastico di Piazza Cesari: per poter lavorare il Sabato (il “sabato fascista” era dedicato alle esercitazioni premilitari e alle “adunate”) bisognava ottenere il permesso scritto dal Segretario Politico.

La vita culturale

La vita culturale era molto stentata e le pubblicazioni erano scarsissime. L’unica rivendita di giornali era presso la cartoleria Mengoli, in Via Vittorio Emanuele II, vicino all’antica e rinomata pasticceria Ascalone.

Circolava uno strillone di nome “lenardu”, che per strillare “La Tribuna” gridava “Latri….buna”; circolava anche un banditore  chiamato “Giuju” (Giulio) che faceva precedere le comunicazioni ufficiali ai cittadini dal suono di una campana. Altre figure caratteristiche erano”lu Chiccu”, venditore ambulante di gelati (Gelati alla Maiella, quattru sordi la pagnottella) e due bravi pupari (“Pici Nera” e  “Naticeddrhu”) che allietavano i bambini con spettacoli di marionette.

Il Razzismo e demografia

Nel 1939 il Comune di Galatina si adegua alle leggi razziali e nel regolamento organico degli impiegati e salariati comunali stabilisce che gli stessi debbano essere cittadini italiani “di razza ariana”, avere buona condotta morale e politica ed essere iscritti al Partiti Nazionale Fascista. Per attuare la politica demografica del Regime si insediala Commissione Comunaleper  l’assegnazione dei premi di natalità.

Radio Londra

Anche a Galatina nel ’39 si svolsero manifestazioni per chiedere l’entrata in guerra, che videro però la partecipazione del solo mondo studentesco, dagli alunni delle elementari agli universitari.

Gli slogan erano i soliti.:gli “Eia, Eia, alalà” si sprecavano. Si cantava “ e se la Francia ci fa la spia/Nizza, Savoia e Tunisia”; ma dopo l’ubriacatura iniziale, l’atmosfera cupa della guerra spinse gl’italiani a “controllare” l’andamento delle vicende belliche attraverso l’ascolto di emittenti radiofoniche straniere quali Radio Londra e Radio Mosca. Dell’EIAR non si fidava nessuno.

Erano seguiti i commenti del Col. Stevens e di Mario Correnti (Palmiro Togliatti), e i locali pubblici erano tappezzati con cartelli con su scritto: “Vincere”, “taci il nemico ti ascolta”, e l’oscuramento era rigoroso.

L’ascolto delle radio straniere, non avveniva solo nelle poche case fornite di tali apparecchi, ma anche in sedi pubbliche, e molti degli ascoltatori erano iscritti al fascio.

Una casa in cui l’ascolto era metodico e continuo era quella di Carlo Mauro, in piazzetta S.Lorenzo, 8. L’ubicazione non era delle più felici perché era circondata dalla Casa del Fascio, sempre piantonata, e dall’abitazione del Maresciallo dei Carabinieri.

La sera, confusi tra i clienti dello studio legale, convenivano nel salotto della casa dove era installata una Radio Marelli, persone della più varia estrazione sociale: meccanici come Gino Luceri, barbieri come Pippi Marra, falegnami come Gaetano Cudazzo, avvocati come Gaetano Cesari, medici come Pietro Miorano, giovani magistrati come Giacinto Epifani. Naturalmente non tutti in una volta e con una certa discontinuità per non dare nell’occhio.

Duelli aerei su Galatina

Quando la guerra cominciò a farsi sentire, ci furono mitragliamenti e bombardamenti al vicino campo d’aviazione.

Per le segnalazioni delle incursioni aeree, il Comune istituì il servizio di allarme e cessato pericolo affidato ai sagrestani, e Anglani Paolo, è incaricato come motociclista per il segnale di allarme a mezzo di sirena a mano.

La grazia della Madonna delle Grazie.

Il 25 Luglio 1943 la radio annuncia la caduta del regime fascista, e l’8 Settembre fu proclamato l’armistizio (giorno della Madonna delle Grazie e l’evento fu considerato dal popolo una grazia).

I Tedeschi abbandonarono l’aeroporto, e grazie all’intercessione di una figura prestigiosa quale quella di Carlo Mauro, si evitò il peggio dei tumulti in città, così come invece avvenne nella maggior parte delle città pugliesi.

Si cominciarono a vedere in giro le prime truppe alleate: indiani, neri,inglesi, americani. La miseria dilagava e il contrabbando e la prostituzione proliferavano.

Si rivedeva il pane bianco, si scoprivano le chewin  gum e le caramelle col buco e ci si prostituiva per una stecca di sigarette

I Galatinesi si vestivano con i tessuti dei paracadute, il Commissario Prefettizio, Luigi Vallone cercava di coordinare gli aiuti e la distribuzione di viveri, mentre il comune di Galatina doveva ricorrere a prestiti presso la locale Banca Fratelli Vallone per pagare gli stipendi ai propri dipendenti.

Rinasce la Democrazia

A fatica iniziano a ricostituirsi le leghe dei lavoratori , e i vecchi partiti rinascono. Il I° Luglio 1945 si insediala Giunta Comualesu designazione del locale Comitato di Liberazione Nazionale.

La vita sociale dei contadini si svolgeva in piazza e nelle rinomate cantine de “lu Muscia” “l’Ossu” “lu Rasceddhra” tutte nel centro storico.

Vi era  una frequentata casa di tolleranza “la Rosetta”, ed il ceto medio si ritrovava nei Bar Cafaro  e Gran Caffè.

Il ceto medio-alto conveniva nei vari Circoli “Savoia” “Cittadino” o dei “Signori”.

Escono le prime pubblicità dell’”Idrolitina” dell”Amarena Fabbri” e del “Rabarbaro Zucca” mentre sugli schermi del cine-teatro Tartaro compaiono i primi film americani con attori protagonisti come Glenn Miller, George Murphy, Mirna Loy. Le attrici italiane più conosciute sono AlidaValli e Clara Calamai.

Le prime elezioni amministrative

Alle prime amministrative del dopoguerra, a Galatina entrano in competizione tre liste:

A destra,“Lu Tarloci”  (l’Orologio) capeggiata da Luigi Vallone ,la Democrazia Cristiana col debutto in politica di Beniamino De Maria con lo Scudo Crociato e le sinistre unite con la lista del “Sole”.

La vittoria dell’Orologio è schiacciante, perché raccoglie i consensi del vecchio notabilato prefascista, mentrela D.C. Raccogliei suoi voti nella classe impiegatizia e nel ceto medio.

L a sinistra, nonostante avesse come capo lista l’avv. Gaetano C esari, non riesce a mandare neanche un rappresentante.

La campagna elettorale si svolge in perfetto stile prefascista: comizi, volantini e manifesti polemici. Particolarmente accesa fu la contrapposizione tra valloniani e democristiani: ai primi si rinfacciava la posizione sociale “fatto v’avete Dio d’oro e d’argento”; per i secondi gli epiteti più gentili erano “collitorti”, “baciapile” e “democristiani”. Famoso rimase un volantino dal titolo “Viva viva lu Tarloci” che iniziava così “ viva viva lu Tarloci/ pè lle terre e pè  lli mari,/ Se squajara Soli eCroci/ se scacara l’avversari”.

Il 7 Aprile 1946 si riunisce il primo Consiglio Comunale e viene eletto Sindaco Luigi Vallone con 25 voti.

Galatina. Il sistema scolastico nell’Unità d’Italia

Gioacchino Toma, Piccoli Patrioti (1862)

di Tommaso Manzillo

Nella ricorrenza per il 150.mo dalla proclamazione del Regno d’Italia (che storicamente è l’espressione più corretta, dato che l’Unità si completerà con l’annessione dei territori di Trentino, Alto Adige, Trieste ed Istria e poi Fiume), merita una breve trattazione la nascita e lo sviluppo del sistema scolastico a Galatina durante il periodo risorgimentale e post-unitario.

Da quanto sappiamo, prima dell’Unità l’istruzione era affidata storicamente, oltre alle parrocchie, agli enti ecclesiastici del tempo, come per esempio le Orsoline, la Compagnia di Gesù, i Barnabiti.

Fu Orazio Congedo senior, morto nel 1804, che nel 1801 istituì a Galatina due scuole, con una munifica donazione dal suo patrimonio personale: una di primella e primaseconda, l’altra di seconda e umanità (Congedo P., Gli Scolopi e Galatina, 2003, pag. 33). Con il regio assenso del 1804, la prima prese il nome di scuola del leggere e dello scrivere, mentre la seconda fu indicata come scuola dell’umanità.

Per la vita del sistema scolastico a Galatina fu determinante un ordine religioso già operante nel Salento (Campi Salentina, Brindisi, Manduria, Francavilla), ossia gli Scolopi, fondato da San Giuseppe Calasanzio, che istituì le Scuole Pie nel 1597, ottenendo successivamente il riconoscimento dei pontefici Clemente VIII e Paolo V. Agli inizi del XVIII secolo a Galatina si tentò di far arrivare gli Scolopi, tramite il Capitolo della Collegiata, ma non si approdò a nulla, perché non si trovarono quelle disponibilità finanziarie ad integrazione del lascito di mons. Adarzo de Santander (1673).

Un altro tentativo in favore delle scuole pubbliche a Galatina, fu rappresentato dal testamento del canonico della Collegiata, Ottavio Scalfo, morto nel 1759, lasciando i suoi beni per l’istituzione delle Scuole Pie. Dopo un lungo processo civile durato diversi anni, a causa dell’impugnazione del testamento Scalfo da parte degli eredi del fratello Giovanni, ossia i Galluccio, la R. Camera di S. Chiara di Napoli decise, nel 1776, che il lascito di Giovanni Scalfo non andasse ai Carmelitani bensì ai Galluccio, eredi legittimi, mentre con quello del canonico Ottavio fu istituito

Galatina. Tre secoli di devozione alla Vergine Addolorata

 

ph Massimo Negro

di Tommaso Manzillo

I lavori di restauro dell’altare maggiore (1716) della chiesa dell’Addolorata di Galatina, iniziati lo scorso 10 gennaio ed eseguiti dalla ditta DEA XXI soc. coop. a r. l. di Lecce, assumono, quest’anno, un significato importante nella storia dell’Arciconfraternita “Beata Vergine Maria Dei Sette Dolori”, ivi presente, ricorrendo il terzo centenario dalla sua fondazione.

Dopo un terzo del lavoro di pulitura, si può già ammirare stupendamente quell’intreccio di oro e argento che lo arricchiscono, abbracciando tutte le statue in pietra dei santi protettori della confraternita e, in particolare, la nicchia dove è custodita la statua in legno policromo dell’Addolorata, conferendo all’insieme una maggiore luminosità. Per chi assiste assiduamente alle funzioni religiose, quell’altare offre a noi, e al visitatore di passaggio presso la chiesa, sempre nuove sorprese, come molte volte mons. Aldo Santoro ha sottolineato alla fine delle celebrazioni eucaristiche.

Oltre all’altare, stanno tornando all’antico splendore le tele della Via Matris, situate nelle apposite teche ovali della navata centrale. Oramai sono quattro quelle già restaurate, mentre altre due sono state consegnate per poterle, fra qualche mese, contemplare nel loro insieme.

Nel libro di Antonaci, La chiesa dell’Addolorata di Galatina (1967), è riportato che la confraternita “ha avuto origine dalla Congregazione ch’era situata nel Convento dei PP. Domenicani (chiesa del collegio, ndr) di questa Città sotto il titolo di S. Caterina di Siena e coll’abolimento dell’istessa colla occasione del nuovo fabrico della Chiesa di detti PP. accaduto verso la decadenza del secolo passato (XVII sec., ndr), i Fratelli di d° Oratorio di Siena, pensarono pietosamente dividersino perché molti, e stabilire due Oratori, o sia Congregazioni […] uno sotto il titolo della Vergine Addolorata, e l’altro sotto il titolo delle Anime del Purgatorio”.

Quindi, sul finire del XVII secolo, i confratelli usavano riunirsi in quei locali dove successivamente (1710) sorse la chiesa dell’Addolorata, mentre solo nel 1711 fu aggregata all’Ordine dei Servi di Maria, con bolla datata da Parma

Galatina. I lavori di restauro della chiesa dell’Addolorata

di Massimo Negro

 

Se la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria è uno scrigno d’arte e la cappella di San Paolo il fulcro delle tradizioni e delle credenze sul tarantismo, la chiesa dell’Addolorata rappresenta il luogo più significativo di Galatina, dove arte e sentimento religioso popolare si fondono in un connubio tutt’ora vivo e di particolare interesse.

La chiesa dell’Addolorata è il luogo da cui la sera del Venerdì Santo la statua della Madonna Addolorata, accompagnata dall’Arciconfraternita, percorre il breve tragitto verso la chiesa Madre per prendere tra le braccia suo Figlio morto.
Dalla chiesa dell’Addolorata si dispiega la suggestiva processione della mattina del Sabato Santo, che percorre le strade del paese alle prime luci dell’alba in un silenzio intriso di profonda devozione. E qui vi fa ritorno al suo termine.
Andando più indietro nel tempo, ma non troppo,  sempre durante la Settimana Santa al suo ingresso veniva posta la statua di “Patipaticchia”. Una statua in cartapesta che personificava uno degli aguzzini del Cristo, il suo flagellatore, e che veniva percossa dai fedeli all’ingresso in Chiesa.

La sua costruzione risale al 1710 per opera di alcuni volenterosi cittadini galatinesi i quali si riunirono in confraternita, la Confraternita dei Sette Dolori, dopo la fine di un’antica congrega che portava il nome di S. Caterina da Siena.

La costituzione del sodalizio religioso avvenne il 10 agosto del 1711 con Bolla del Generale dell’Ordine dei Servi di Maria. Il luogo riportato nella Bolla è Parma, città dove aveva sede l’Ordine. Ma si dovette attendere il 1776 affinché Ferdinando IV concedesse il suo regio assenso con decreto.

All’interno spicca il maestoso altare che si erge sin quasi a toccare il cielo appeso e che riempie immediatamente la vista di chi entra nell’edificio. Come una gemma incastonata in un prezioso, al centro dell’altare è posta la bellissima statua della Madonna Addolorata in legno policromo della metà del ‘700, circondata da statue di santi e da visi di angeli dalle espressioni varie, di gioia o di dolore. A destra le statue di San Filippo Beninzi, Sant’Antonio, San Pietro e Santa Caterina da Siena. A sinistra Santa Giuliana, San Pasquale, San Paolo e Santa Chiara.

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Verso la fine del ‘700 vennero realizzate le sei tele delle Via Matris che, tre per lato, impreziosiscono la navata.  

A partire dal 2009 la Confraternita, pur con molti sacrifici e grazie anche al contributo e alle donazioni dei fedeli, sta provvedendo al loro restauro. Le prime due tele, quelle più prossime all’altare sono state restaurate e riposizionate all’interno: l’incontro con Gesù nel viaggio al Calvario e il ritrovamento di Gesù tra i dottori del Tempio. Per altre due l’intervento è in corso.

Da alcuni mesi la Chiesa, pur continuando ad essere aperta al pubblico, è oggetto di interventi di restauro che stanno interessando principalmente il suo altare. Alcuni saggi effettuati nei mesi precedenti l’avvio dei lavori  avevano lasciato intravedere alcune “piacevoli sorprese”. Ora gli interventi stanno progressivamente  portando alla luce l’antica ed originaria colorazione delle figure dei santi e delle decorazioni, che la “maledizione della calce”, che colpì nell’800 le nostre chiese come rimedio e prevenzione dalle epidemie, aveva pesantemente nascosto.

Ma la fortuna ha voluto che, quasi in modo casuale, venisse alla luce anche l’antica decorazione pittorica della parete dove è posto l’antico organo a canne della Chiesa. Si stava effettuando un saggio per verificare il colore originario dato alla parete quando, ad un tratto, un pezzo di intonaco si è staccato e sono venuti alla luce ghirigori e motivi floreali.
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Anche sulla  parete su cui è addossato l’altare è stato possibile rinvenire l’originaria decorazione, con dei motivi romboidali che richiamano il disegno del cielo appeso.

Qualche settimana fa, un venerdì pomeriggio mentre ero in auto, in autostrada di ritorno da Forlì, ricevo una telefonata da Donato Buccella. “Massimo, se hai un po’ di tempo a disposizione, domani passa in chiesa che ci sono delle sorprese”.1

Conosco Donato. Se mi aveva telefonato i motivi per andare a trovarlo dovevano essere più che validi.

Portandomi dietro la macchina fotografica, accompagnato da Donato sono salito con cautela sull’impalcatura, con lui a farmi da guida, raccontandomi lo stato dei lavori e quanto via via stava venendo alla luce.
I colori di Sant’Antonio, il rosso delle vesti di San Paolo, le guance rosate degli angeli e lo scuro delle loro pupille, le decorazione in foglia d’argento e dorate. Antichi ex voto di chi aveva contribuito alla realizzazione dell’altare.
Su in cima sino a trovarmi dinanzi al busto dell’Eterno Padre. Una grande emozione!3

Gli interventi sono stati effettuati in modo tale da rendere comparabile lo stato in cui attualmente si trovano le decorazione e le statue dei santi rispetto alla loro originaria colorazione, per capire come procedere con il placet della Sovrintendenza.

La chiesa dell’Addolorata è un cantiere. Un cantiere aperto verso la riscoperta della storia e delle tradizioni di Galatina. La valorizzazione del suo patrimonio è un’occasione importante per la comunità galatinese, un’occasione da non lasciarci sfuggire.

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La chiesa di San Biagio a Galatina

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di Massimo Negro

La storia della chiesa di San Biagio ha avuto sin dall’inizio della sua costruzione, nel 1507, una serie di difficoltà crescenti e, in particolare, a partire dall’800, una storia di privazioni e di spoliazioni.

La chiesa di San Biagio attraversa la storia come testimone e purtroppo vittima delle tensioni interne alla Chiesa e soprattutto vittima dello scontro tra il potere degli Imperi, degli Stati e la Chiesa Cattolica.

L’attuale chiesa e i locali attigui sono quello che resta di un complesso maestoso e imponente costruito dai padri Olivetani e conosciuto come S. Caterina Novella (detta Piccola).

Una storia complessa e antica che inizia con la “concordia” siglata il 1 giugno di quel 1507 tra gli Olivetani e i Francescani, grazie alla quale questi ultimi avevano potuto far ritorno presso la basilica di S. Caterina, nella quale si erano insediati dal 1494 gli Olivetano per benevolenza di Alfonso II.

La fabbrica della chiesa e del suo convento fu particolarmente complessa e soprattutto costosa. Durò circa centotrenta anni, sulla base di un progetto che vide impiegati Marcello da Lecce e un galatinese, Pietro Antonio Pugliese. Di quest’ultimo resta la sua “impronta” sul maestoso arco nei pressi dell’altare all’interno dell’edificio.

Anni durante i quali non mancarono anche controversi interne al clero, tanto che dovette intervenire anche il pontefice di allora, Urbano VIII, nel 1634, per chiedere che venisse appianata una controversia tra il chierico De Mico e l’abate Ilario per soldi prestati per il completamento della chiesa e non ancora restituiti.

La vita della chiesa subì una forte battuta d’arresto a partire dal 1805. A causa della riforma napoleonica, che modificò completamente l’ordinamento delle proprietà ecclesiastiche, il monastero e la chiesa furono completamente abbandonati. Invano le autorità ecclesiastiche chiesero di poter rientrare nel suo possesso. Nel 1808 l’arcivescovo Morelli chiedeva al Re di Napoli Gioacchino Murat che gli venisse concesso di poter abitare nel convento. In una successiva comunicazione, in cui si denunciava lo stato di degrado della struttura, si chiedeva di poter rientrare in possesso del frutteto (di cui rimane qualche albero alle spalle del convento) per poter così ricavare le somme necessarie alla sua manutenzione. Ma non si ebbe nessuna risposta. Dagli atti notarili si sa che la proprietà venne acquistata dalla famiglia Mezio da Galatina tra il 1819 e il 1821.

Dobbiamo giungere nel 1891, quando la chiesa venne ribattezzata dal popolo chiesa di San Biagio grazie alla fondazione della omonima confraternita sorta nello stesso anno e che vide una grande partecipazione di popolo, tanto che poteva contare in quell’anno ben 300 fratelli.

Del convento rimane ben poco. Da un disegno del Pietro Cavoti, ritrovato casualmente in una ex tenuta Galluccio Mezio in località Tabelle e ora in possesso della parrocchia conservato nei suoi archivi, si può vedere come il convento di sviluppasse su due piani e un’arcata congiungeva questo complesso con la chiesa. Il prospetto, inoltre, era adornato da uno splendido e imponente porticato.

Da una perizia fatta nel 1838, quando ormai il complesso era in stato di completo abbandono, risultavano ben 40 stanze tra il primo e secondo piano e altre 13 stanze diroccate, oltre a un capannone assegnato alla mensa vescovile di Gallipoli. Oggi del secondo piano non rimane traccia e lo stesso si può dire dell’antico porticato.

Delle colonne del porticato si racconta che furono dapprima portate sul finire dell’800 nel vecchio cimitero di via Guidano e poi utilizzate per la costruzione del Monumento dell’Impero che era situato in Piazza Alighieri sino alla sua distruzione avvenuta dopo la caduta del fascismo. E con il monumento andarono distrutte anche le antiche colonne.

La chiesa, fatta eccezione per l’attiguo ex convento, è giunta a noi nella sua struttura sostanzialmente integra ma, in quei primi tristi anni dell’800 venne completamente spogliata di ogni arredo e subì gravi danni. L’edificio era diventato così frequentemente teatro di furti che nacque addirittura un aneddoto conosciuto come “calo? cala”.
Infatti si racconta di un tipo che transitando di sera nei pressi della chiesa, sentì una voce proveniente dall’alto che diceva “calo?”. Il tipo non sapendo e soprattutto non vedendo bene a causa della poca luce chi fosse e cosa intendesse, in imbarazzo si sentì di rispondere “cala”. Si ritrovò così ai piedi un sacco pieno di preziosi arredi sacri e ducati. Capendo che trattavasi del frutto di un furto in corso, mise prontamente il sacco sull’asino con cui stava trasportando del pellame e se andò via di corsa lasciando i ladri a bocca asciutta.

San Biagio 1

Verso la fine dell’800 la chiesa fu utilizzata come fabbrica di alcool e la navata destra era utilizzata come deposito per la legna necessaria per far ardere i fuochi.
Durante la Grande Guerra venne più volte requisita per essere utilizzata come deposito e questo accadde nuovamente nel 1919 e nel 1920 per depositarvi, su ordine dell’Amministrazione Cittadina del tempo, benzina e petrolio.
L’area inoltre divenne una discarica di materiale edile e oggi la differenza tra il piano attuale della strada e gli antichi basamenti del sagrato è di sette gradini.

L’interno consta di una maestosa e ampia navata centrale. Le due navate laterali già nel ‘500 furono isolate con una tamponatura muraria. La navata destra in cui oggi sono esposte le statue in cartapesta fu venduta alla parrocchia nel 1972 dalla famiglia Bardoscia. Nel 1976 la famiglia Mezio vendette alla chiesa il residuo convento con il giardino interno e la navata sinistra.
Dopo tante traversie, e tocca giungere ai giorni nostri, finalmente la chiesa rientrò in possesso delle sue antiche proprietà o, per meglio dire, di quello che ne rimaneva.
Il primo intervento di restauro si è avuto nel 1976-77 per mettere in salvo la volta centrale che era pericolante e, successivamente nel 1990, si intervenne sul campanile.

San Biagio 3

Oggi la chiesa, pur nella semplicità dei suoi arredi, trasmette un senso di maestosità e di pienezza. La navata centrale è ricca di decorazioni in pietra così belle, ben proporzionate ed armoniche, tali da apparire come una sorta di ricco ricamo. Ogni volta che il mio sguardo si posa sulla volta mi vengono in mente quei ricami delle antiche doti a cui le nostre nonne erano così brave e ai quali dedicavano anni e anni della loro vita pur di lasciare un loro ricordo ai nipoti. Donne dalla vita difficile, che la mattina aiutavano i mariti in campagna e la sera si mettevano a lavorare ai ferri con tanto amore. La chiesa di San Biagio è la dote che è giunta a noi, dopo secoli di traversie, grazie alla fortuna, al buon cuore e alla ferrea volontà dei tanti che nel tempo e soprattutto recentemente si sono impegnati affinché diventasse un degno lascito per le comunità future.

http://massimonegro.splinder.com/post/23564149/i-ricami-di-san-biagio-a-galatina

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fonte: “Chiesa di San Biagio” – Don Salvatore Bello – Edizione Il Campanile

La chiesa dell’Addolorata di Galatina nei suoi trecento anni

di Tommaso Manzillo

Il patrimonio artistico, storico e culturale di Galatina, nel corso dei secoli, si è arricchito di numerosi edifici sacri, molti dei quali dedicati alla Beata Vergine nelle Sue varie denominazioni, a testimonianza della grande devozione del popolo galatinese verso la Madre del Cristo, corredentrice alla salvezza del genere umano. In questo contributo si vuole ricordare il terzo centenario dalla costruzione della chiesa dell’Addolorata, situata lungo il lato nord delle antiche mura, nel cuore pulsante della città, su quella strada prima denominata, appunto, dell’Addolorata o dei Dolori, ma che oggi porta il nome dell’illustre filosofo pedagogista galatinese Pietro Siciliani. La devozione verso l’Addolorata, che si discosta da tutti gli eccessi di teatralità tipici di alcune manifestazioni della Passione del Cristo presenti nel Sud d’Italia, è penetrata sempre più nell’animo e nella pietà del popolo, che numeroso vi accorre e partecipa, con profondo raccoglimento, al Solenne Settenario in onore alla Beata Vergine Dei Sette Dolori (tradizionalmente il venerdì antecedente la domenica delle Palme o della Passione), divenendo, la chiesa, il centro vitale per tutta la Settimana santa e, in particolare, nel triduo pasquale.

Diciamo subito che mentre la chiesa è dedicata alla Vergine Addolorata, l’Arciconfraternita ivi presente è denominata “Beata Vergine Maria dei Sette Dolori”, perché appartenente, fin dalle origini, all’Ordine dei Servi di Maria, e di questo abbiamo traccia sull’altare maggiore, dove sono raffigurati alcuni dei fondatori e seguaci dell’Ordine stesso. Della storia dell’Arciconfraternita si avrà modo di parlare, ricorrendo il prossimo anno il terzo centenario dalla sua costituzione (agosto 1711), anche se la sua storia si intreccia con quella della chiesa. È con lo scioglimento della

Galatina. Breve nota irriverente e fantasiosa su San Paolo e le tarantate

di Massimo Negro

Ho dei buoni motivi per ritenere che San Paolo in fin dei conti non abbia mai avuto vita facile a Galatina. Anzi forse avrebbe fatto anche a meno di essere presente in quella città.

Non che a Roma le cose fossero state tutte rose e fiori. Lasciamo perdere il martirio che nella vita di un Santo, specialmente nei primi anni del cristianesimo, era una scelta quasi obbligata. A preoccuparlo erano stati soprattutto i rapporti iniziali con il Santo pescatore.

Paolo pur con qualche difficoltà aveva alla fine accettato questa coabitazione come santo patrono della città eterna. Avrebbe preferito, in virtù della sua cittadinanza romana, che si dicesse “Santi Paolo e Pietro”, ma alla fine se l’era fatta passare.
Così come, pur se con qualche borbottio, aveva accettato che la sua Basilica venisse posta fuori le mura anziché in centro.
Più di qualche borbottio, riferiscono santi a lui vicini,  c’era stato quando il vescovo di Roma (per intenderci il Papa) aveva scelto come sede San Giovanni, ma qualcuno gli aveva fatto prontamente notare che trattavasi pur sempre del cugino del Maestro e del discepolo “che Egli amava”.
Dopo i primi momenti e le difficoltà iniziali, si può dire che a Roma era riuscito a trovare un suo spazio, una sua dimensione. Sempre pronto a sfoderare la spada, ma il suo carattere si era con il tempo ammorbidito.

Ma questo non accadeva quando pensava a Galatina. Lasciamo stare il fatto che il ritrovarsi anche nel Salento in compagnia di Pietro non l’avesse entusiasmato, e forse lo stesso Pietro, che per primo ci aveva messo piede, non era contentissimo. Ma dopo tanti anni di coabitazione romana alla fine i due conoscevano pregi e difetti l’uno dell’altro e sapevano come “prendersi” e come all’occasione evitarsi.
Chi non riusciva assolutamente a sopportare erano due donne. Due comuni mortali ma che non c’era verso di scalzare nel cuore della gente. Francesca e Polisena Farina.

Eppure, ripeteva ai suoi amici, lui poteva vantare miracoli provati e documentati, anzi nello specifico, un miracolo era stato anche riportato negli “ Atti degli Apostoli”. Lui a Malta era riuscito, pur se morso da una vipera, a non riportare alcuna conseguenza e, da allora, era invocato dalle genti di tutto il mondo a protezione dai morsi degli insetti e delle serpi. In tutto il mondo tranne a Galatina.
A Galatina accorrevano persone da ogni dove, morse da tarantole, scorpioni o serpi, non per chiedere a Lui la guarigione, bensì per rivolgersi a quelle due sorelle che, con pratiche ancestrali e arti magiche, tra sputi e rituali vari, riuscivano a far espellere il veleno dal corpo del malcapitato o malcapitata.
Alla fine dovette aspettare che morisse anche l’ultima delle due sorelle, senza che lasciassero discendenza femminile.

Ma proprio quando stava per gioire,  sia beninteso , non della loro morte ma per il semplice fatto che l’ordine naturale e sovrannaturale delle cose pareva essersi ristabilito, qualcuno gli aveva fatto notare qualcosa che, se possibile, l’aveva incupito ancora più di prima.
L’ultima delle due sorelle prima di passare a miglior vita si era preso il fastidio di sputare la propria saliva guaritrice nell’antico pozzo. Per cui accadeva che la gente tarantata, che ora accorreva in massa a chiedere la protezione a Santu Paulu miu de le tarante, dopo aver ballato, essersi contorti per terra o arrampicati sull’altare, alla fine del rito di espiazione si avvicinava al pozzo e beveva proprio quell’acqua benedetta dalla saliva della guaritrice.
Si mosse tutta la chiesa compatta ma non ottenne nulla. La gente continuava a bere l’acqua di quel pozzo.
Una vita da separati in casa. Lui da una parte, il ricordo delle due sorelle dall’altro.

Il quadro che un pittore parente delle due sorelle dipinse e che pose all’interno della cappella sembra quasi rappresentare questa situazione. Si nota un San Paolo in posa altera e maestosa e ai suoi piedi un poveretto malaticcio sorretto dalle due sorelle che cercano di far bere a questi l’acqua del pozzo. Se notate, San Paolo non degna di uno sguardo i tre, quasi a dire “ti sei rivolto a loro? ora sono fatti tuoi”. E delle due sorelle, una non lo degna di uno sguardo porgendo l’acqua del pozzo al malato, mentre l’altra sembra dire, guardando San Paolo, “che vogliamo fare?”.
Quando sul letto di morte, qualcuno chiese al pittore il perché di quella rappresentazione, questi, proprio mentre stava per esalare l’ultimo respiro, disse “non si sopportavano … non si sopportavano”.
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Le due sorelle Farina, Francesca e Polisena, sono le due sorelle descritte dall’Arcudi nel finire del ‘600 come le due guaritrici che alleviavano le sofferenze dei malati e in particolare dai morsi degli insetti. Il pittore Francesco Lillo che dipinse il quadro nel 1795 dovrebbe essere un discendente del marito di Francesca, Donato Lillo.
Le storie sul tarantismo si perdono nell’antichità dei tempi. Tra l’altro abbiamo letto in una delle mie precedenti note, come nel brindisino si ricorresse all’intercessione di San Francesco per guarire dai morsi della tarantola.
La chiesetta di San Paolo, i cui lavori iniziarono nel 1791, fu completata nel 1795. Molto dopo la morte delle due sorelle. Da quanto riferiscono studi condotti nel Salento, prima del ‘700 il culto di San Paolo era molto limitato e ristretto a poche chiese.
E’ probabile che, proprio in virtù del miracolo dal morso della serpe a Malta raccontato negli Atti degli Apostoli, la Chiesa abbia deciso di intervenire con tutto il suo peso non solo religioso ma anche culturale, ponendo San Paolo come santo protettore di questi malati, cercando di far scomparire o limitare, ma inutilmente, tutti gli aspetti non canonici legati ai riti di guarigione.
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La chiesetta dopo circa un anno di restauro, iniziati grazie all’Amministrazione Provinciale allora retta dal sen. Pellegrino e dall’Amministrazione Comunale allora retta dalla dott.ssa Antonica, è stata riaperta al pubblico nei giorni scorsi in occasione delle festività dei Santi Pietro e Paolo (o Paolo e Pietro!).
Non era mai stata sconsacrata per cui la riapertura è stata accompagnata dalla celebrazione di una messa all’interno della chiesetta.
I lavori di restauro hanno interessato, in particolare, il rifacimento del vespaio per cercare di arginare l’umidità di risalita e la posa della nuova pavimentazione. Riguardo l’altare, anch’esso attaccato dall’umidità, gli interventi son stati limitati a rafforzarne la struttura e a interventi di pulitura per eliminare dove possibile la calce che ricopriva i colori originali dell’altare. Non è stato effettuato un vero e proprio restauro dell’altare anche a causa della particolare friabilità della pietra usata nella sua costruzione.
La tela del pittore Saverio Lillo (1795) era stata già restaurato circa due anni fa; per l’occasione è stata posizionata nella sua collocazione originaria, cioè sull’altare, dopo esser stata per lungo tempo esposta all’interno del Museo cittadino.
La chiesetta restaurata merita una visita e vi consiglio di visitare anche il vicino Museo sul Tarantismo sito in Corso Porta Luce.

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Guerra tra Bernabò Sanseverino e Raimondello Orsini del Balzo

BERNABO’ SANSEVERINO, DA CAPITANO DI GUERRA A SIGNORE DI NARDO’ (1384-1400)

IV ed ultima parte

di Roberto Filograna

 

Guerra tra Bernabò Sanseverino e Raimondello Orsini del Balzo

 Nel mentre Bernabò Sanseverino governava Nardò, re Ladislao, per portare dalla sua parte il conte di Lecce Raimondello Orsini del Balzo, prima gli promise (1398) e poi, una volta venuto meno Ottone di Brunswick, gli concesse, l’8 maggio 1399, il principato di Taranto con alcune importanti città pugliesi tra cui Nardò. Tutto ciò  pose a Bernabò Sanseverino il problema di dover certamente fronteggiare l’aspirazione dell’Orsini di recuperare il feudo di Nardò al suo dominio ivi compreso un suo prevedibile ricorso alle armi, per realizzare tale progetto.

Per tale motivo, Bernabò Sanseverino, da abile stratega e da ottimo capitano di guerra, anticipando le mosse dell’Orsini, prima che avesse il tempo di organizzare le proprie milizie, iniziò manovre militari contro di lui e il 28 agosto del 1399 …gens armigera Domini Bernabonis de S. Severino caepit guerram movere in comitissu et terris Principis. Colto di sorpresa e messo in difficoltà, Raimondello Orsini del Balzo, chiese l’aiuto del marchese di Crotone che venit …in ausilio Principis cum equitibus 500, contra Dominum Bernabonum in terra Hydrunti. Seguì, in settimana Sanctae Catharinae (e cioè, nell’ultima settimana di novembre) …magnum proelium inter eos.

La  battaglia non risolse le sorti della guerra tra Bernabò Sanseverino e Raimondello Orsini del Balzo, anzi, le belligeranze continuarono e si protrassero nell’anno successivo, sino allo scontro campale che si registrò in Sancto Petro ad Galatinum dove fuit factum inter eos magnum proelium

Tarantolismo, il più noto esorcismo salentino

di Raimondo Rodia

ll tarantismo (o tarantolismo) è una sorta di esorcismo popolare che, sin dal lontano dal medioevo, spinge uomini e donne, che si ritengono morsi dalla tarantola ( grosso ragno ancora esistente nel territorio), a recarsi il 29 giugno in pellegrinaggio al pozzo presso la chiesetta di San Paolo a Galatina per essere liberati definitivamente dagli effetti del veleno che provoca nel malcapitato un languore mortale da cui si può essere liberati solo per mezzo della musica e dei colori.

Da qui l’uso di nastrini colorati (chiamati zagarelle) da legare al polso e di una musica ossessiva (la pìzzica) che induce ad una danza sfrenata intorno al pozzo la cui acqua è considerata simbolo di purificazione. La musica è suonata da un’orchestrina con chitarra battente, mandolino, violino e tamburello. Gli orchestrali ingaggiati dai familiari dell’invasato recano normalmente a casa del tarantolato, per suonare e fargli venir fuori il veleno del ragno con la danza. Verso la soluzione della crisi la musica che accompagna il tarantolato ha suoni ora cupi, ora struggenti, che culminano in un crescendo di straordinario effetto.

Le tarantolate un tempo, si recavano di buon`ora nella cappella di S. Paolo vestite di bianco e bevevano, almeno fino a quando il pozzo non è stato chiuso per ragioni igieniche sanitarie, l’acqua del pozzo dove c’erano anche dei serpenti.

Si lanciavano in una danza sfrenata al suono del tamburello fina a stramazzare al suolo vinte dalla fatica. La cura poteva durare anche diversi giorni. Il ricorso a S. Paolo è effetto della sovrapposizione del culto cristiano a quello molto più antico pagano dei serpenti.

Anche la tarantola rappresenta un animale totemico le cui origini si perdono nella notte dei tempi e sono anteriori al menadismo, al coribantismo ed alle feste dionisiache a cui il tarantismo rimanda per gli aspetti orgiastici. Il tarantismo è un fenomeno che emerge su tutti.

Nella storia della medicina popolare salentina, esiste una connessione tra tarantati e i santi Pietro e Paolo che ricorda le visite ai templi asclepei dell’antica Grecia: anche in quel caso i malati si recavano al tempio dei protettori per essere guariti.

L’analogia non è casuale: profonda deve essere stata l’influenza della medicina greca nel Salento. Sotto l’aspetto diagnostico è difficile definire il tarantismo come fenomeno, anzi si è riusciti a classificarlo. E’ forse una specie di isteria, oppure la sua origine è da ricercarsi non in lesioni organiche neurologiche, ma in elementi antichi che hanno logorato e distrutto una psiche già debole a causa di fattori storico-sociali.

Gli attacchi si manifestano in maniera molto simile all’isteria e, secondo la leggenda, sarebbero provocati dal morso della tarantola. Non si riesce a spiegare però la periodicità delle crisi che durano anche decine di anni.

Si può dire che il tarantìsmo è un male culturale. Una volta, infatti, le donne che subivano frustrazioni per eccesso di fatica, povertà o tabù sessuali, non potevano fare altro che rivolgersi a S. Paolo per liberarsi dal male.

San Paolo, in particolare, era considerato il Santo dei poveri e il protettore dagli animali striscianti (serpenti, scorpioni, ragni, e quindi anche la tarantola).

Similare nel Salento, la danza delle spade un antico duello rusticano, un tempo eseguito con coltelli che oggi viene riproposto. I duellanti, mimando i coltelli con l’indice della mano nella piazza di fronte al santuario di San Rocco a Torrepaduli di Ruffano, si mettono in cerchio formando le cosiddette ronde e si fanno accompagnare dal sottofondo incalzante della pizzica. Si suona e si balla dal tramonto del 15 agosto per tutta la notte fino all’alba del 16 giorno dedicato al santo.

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