Amerigo e l’antico mestiere del rigattiere

di Elio Ria

 

AMERIGO

C’era chi raccoglieva lu ferru vecchiu, chi la murga in cambio del sapone; c’erano gli artigiani di arti minori come l’ombrellaru, lu ramaru, lu conzalimbi, lu scarparu, lu farraru, lu seggiaru, lu trainieri e tanti altri che nelle strade strette e nelle corti del paese offrivano con la severità e l’autorità acquisita dall’esperienza piccoli ma utili servizi alla popolazione, quando ancora l’economia non era spregiudicata come lo è adesso, e la finanza non consentiva sprechi di denaro stante la penuria che rendeva prezioso quel poco che si aveva. Un’altra figura popolare era il banditore che informava i cittadini su avvenimenti straordinari, quali ad esempio la vista di un personaggio illustre, iniziative particolari prese dalle autorità cittadine, vendite di prodotti alimentari a prezzi scontati (grano, farina, legumi, ecc.).

C’era sempre a portata di mano lu conzarazze che con la stuppata sistemava le ossa rotte o contuse, senza radiografie e attese presso l’ospedale, che negli anni Sessanta tra l’altro era difficile da raggiungere, considerata la distanza che lo separava dal paese, nonché la scarsità dei mezzi di locomozione.

La comunità era solidale, si muoveva nelle piccole e grandi cose della vita in armonia, produceva e campava, non era vessata dalle tasse. Indubbiamente uno spaccato d’epoca di memoria e non di storia, atteso che il passato e il presente intrattengono dei rapporti essenziali nei due sensi, senza mai sommarsi, mantenendo ognuno per proprio conto l’autonomia d’esistere. Il presente preme sulla memoria che è pura facoltà di conservare il passato, mentre la reminiscenza è la commemorazione sintetica della memoria che non necessita di sacralità.

In questo contesto e partendo dai ricordi che si sono citati, c’è un mestiere che ancora non conosce il declino, il rigattiere, colui che compra e vende roba usata. Nulla di particolare, ma che necessita di intuito e di pazienza per la raccolta degli oggetti. Quest’ultimi non sempre trovano un’adeguata sistemazione sugli scaffali della bottega, spesso vengono posti alla rinfusa con il loro carico di memoria, in attesa che qualcuno li riconsideri e sia preso dal desiderio di possederli. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza: tutti gli oggetti sono considerati alla stessa stregua. Un’arte antica tant’è che nel 1291 fu costituita la corporazione dell’Arte dei Rigattieri e quella dei Linaioli. Va precisato che con il termine rigattiere s’intendeva allora il rivenditore di abiti usati, un’attività praticata soprattutto tra le fasce meno abbienti della popolazione, per la buona qualità e il costo modesto dei capi.

Amerigo Falco svolge la sua attività di rigattiere a Tuglie, in via Trieste. Nella sua bottega però non entra molta gente, è chiusa e apre soltanto all’occorrenza quando c’è da soddisfare una richiesta particolare di un cliente: un vestito per carnevale, un macinino, fumetti, macchine da scrivere, quaderni per la calligrafia, sapone e saponette, coloranti per indumenti, bambole, enciclopedie, lampade, cartoline d’epoca, pupi di terracotta, cimeli. Ma una volta dentro si respira il tempo, quello andato che lascia tracce soltanto con le cose, recuperabile con un flasbach di istantaneità.

BOTTEGA AMERIGO

Falco è un settantenne vigoroso, di carattere sbrigativo, con occhi mobili e vivaci, faccia grinzosa, con la barba a tratti tinta di grigio e quella sua gamba “allungabile” in cerca di un appoggio di distensione, frutto di una caduta maldestra in gioventù. In principio esercitava il mestiere di sarto, ma ben presto s’accorse che non faceva per lui: gli aghi, il cotone e le stoffe non gli consentivano di spaziare nei luoghi della spensieratezza. Eclettico, simpatico e disponibile, si muove fra le anticaglie e le modernità con disinvoltura, non mancando mai di stupire con oggetti anche stravaganti.

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Sempre all’erta per approntare una bancarella dei suoi ‘preziosi’ nelle piazze principali dei paesi nelle occasioni di festa nelle quali si mescolano sapori e tradizioni. Nelle ore di libertà si concede al gioco delle carte, con la battuta sempre pronta e la sigaretta fra le dita ingiallite e callose.

Falco è il grossista delle ‘cose vecchie’: sono tanti i rigattieri della provincia che si approvvigionano da lui per le esposizioni nei mercatini.

È l’antologizzatore delle abitudini dell’uomo riducibili e in relazione con le cose che hanno segnato le piccole storie individuali, dalle quali si potrebbe trarre materiale grezzo per costruirci la domanda di ‘come eravamo’, senza retorica o false nostalgie, e la risposta ‘perché non lo siamo più’.

Insomma nel garbuglio delle seducenti sirene della modernità, si può dire, che il rigattiere è il depositario degli oggetti di cui l’uomo si è servito nel corso degli anni e che poi per varie ragioni se ne è disfatto.

Magari con le cose vecchie si può danzare sui ricordi, sui fantasmi del passato trasfigurati in una sorta di modulazione mnemonica del vissuto per una conciliazione con il passato, che solo nei momenti in cui fa comodo si rispolvera e si riutilizza, tralasciando altri dettagli sotto il velo della finzione. Reinventarsi nella memoria è un esercizio utile, in particolare in questo momento di grande confusione sociale, per dare luogo a un ventaglio largo di interpretazioni della memoria di parole e suoni, archivi orali, memorie di cose, oggetti museali.

C’è un mondo che sì è perduto nell’urgenza stessa di esso, e che va recuperato con il dovere di ridefinire e rivitalizzare la memoria collettiva, nonché tutelare, ordinare, classificare il passato che non merita l’oblio.

L’ansia di memoria si traduce nella nascita di musei, biblioteche, archivi per scongiurare appunto i vuoti di memoria. Invece il bisogno di memoria che si sottrae alla tremenda responsabilità della conservazione degli oggetti minimi, quasi insignificanti, privi di valore storico, si concretizza nel lavoro del rigattiere con il significato più intimo del rapporto tra l’uomo e l’oggetto.

Amerigo allora torna simpatico al tempo che delle sue cose spente ricrea nuove forme di utilizzo del ricordo. Un mestiere che resiste alle leggi violente del mercato, imponendosi all’attenzione del tempo che molto spesso scorre e non lascia traccia per una ‘questione di tempo’.

(Pubblicato in “Paese Nuovo”, 08/05/13, p.4)



Elio Ria. Poesia, ragazza mia

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Prosa e poesia si susseguono nelle pagine con immagini di paese, pretesti d’incontri letterari, meditazioni quotidiane. Un piccolo viaggio nel sapere della filosofia e nel mondo suggestivo della poesia. La preoccupazione del poeta non è di piacere al lettore e carpirne la sua attenzione o benevolenza, piuttosto vedere attratto il lettore dal linguaggio affascinante della poesia che non vuole essere soltanto verità o dimensione visuale inoppugnabile del poeta, ma una traduzione della realtà purificata dai suoi stessi preconcetti.
Poesia, ragazza mia è il tentativo di far “ragionare” il lettore sul significato della poesia con l’intento di presentargli il linguaggio poetico molto spesso bistrattato, relegato nella periferia della letteratura perché considerato noioso e distante da quello comune. Per un poeta oggi è difficile dare un suono particolare alla propria voce, deve magari esasperarla al massimo sino alla stonatura, ma quando il canto si rafforza non sfugge, penetra dentro e il concerto inizia.
Il libro arricchito da citazioni di poeti, filosofi e scrittori diventa nella lettura un compagno fra le righe della poesia e della prosa, dove il poeta pur raccontandosi ed evidenziando le sue paure, le sue felicità, le sue meraviglie, traccia un sentiero di radicale adesione alla vita, parlando del mestiere di uomo e di quello di poeta.
L’incontro poeta -lettore non è mistificato, piuttosto legato alle cose pratiche della vita, muovendo verso la concretezza e il passo leggero d’una ragazza, la poesia. La poesia identificata con una ragazza, che non è una fata o un fantasma, ma una persona autentica, gioiosa, una delle tante.

Salvatore Toma, il Poeta in paradiso

di Elio Ria

 

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Dire o scrivere qualcosa su Salvatore Toma (1951-1987) si corre il rischio di banalizzarlo, renderlo evanescente, soprattutto se si continua a batter chiodo sulla solita salentinità, imprigionandolo in confini troppo stretti dei suoi luoghi. Non è questa la mia posizione. Credo che ogni cosa che riguarda la letteratura e la poesia in particolar modo è da ritenersi parziale, e un ulteriore modo di considerare il pensiero e la poetica di Salvatore Toma può soltanto aggiungersi senza la pretesa di sconfessare quanto già è stato scritto.

Ritengo che Toma sia da considerare il poeta dell’indifferenza verso tutto ciò che gli stava attorno, con rabbia addolcita dalla sensibilità che possedeva. Non badava alla forma. Aveva paura semmai dell’indebolimento della sua voce: una preoccupazione che lo ha accompagnato sino alla fine.

Il suo testamento: «Quando sarò morto/che non vi venga in mente/di mettere manifesti:/morto serenamente/o dopo lunga sofferenza/o peggio ancora in grazia di dio./Io sono morto/per la vostra presenza ».

Quasi un dialogo e un monito con se stesso per ribadire la sua estraneità e fastidio per le cose spicciole anche spiacevoli, da accettare però con dignità senza lussi né ipocrisia. Non è, soltanto, il poeta del Salento. Né condivido quanto riportato su Wikipedia: […] ha fatto parte dei cosiddetti ”poeti maledetti salentini”. Perché queste convenzioni che rinchiudono il poeta dentro forme riconoscibili e misure predefinite? E non è forse il caso di provare una lettura “libera” della sua poesia per considerarlo poeta che si sentiva gettato in un mondo che gli era estraneo, di cui non conosceva le ragioni, i fini e i meccanismi?  Il suo vivere era fatto di giochi di fanciullo, innocente, non riusciva a dar pace al senso di nausea che lo coglieva impreparato quando non veniva capito dalla sua gente. Insofferente all’ipocrisia, incantato ogni qualvolta scriveva sull’albero di quercia del suo giardino, immaginando una seppur minima soluzione accettabile ai quesiti esistenziali, a spiegarsi le ragioni della sua diversità e le finalità del suo ultimo giorno di vita.

Di Toma è stato colto soltanto la stravaganza, l’anarchia, non l’ingenuità del vivere quotidiano sopraffatto da consuetudini infinite e ritmi asfissianti: All’improvviso/ecco che qualcosa non va più,/un meccanismo perfettissimo/funzionante a meraviglia/di colpo si inceppa,/i giorni diventano secoli/la mente non conosce più il tempo./ Qualcosa che non va più, indicibile, indefinibile, e l’idea di morte si fa chiara/ in questo vuoto,/ come l’idea di Dio/. Sublimazione della morte? No! Accettazione della morte come passaggio alla vita, giacché essa si muove senza malizia/perciò di innocenti/a volte si nutre/. È il cantore della Morte che rafforza l’idea della sua validità nella voce nascosta dei suoi testi impressi nel bianco delle pagine dove è raccolto il silenzio che seguiva la nascita delle parole. In quel bianco si può ascoltare il suono della scrittura; e per comprendere bene è necessario entrare in relazione, instaurando corrispondenze, scambi tra il primo linguaggio, quello della poesia, e il secondo quello del lettore-interprete. E quando l’interprete pretende d’internare il linguaggio della poesia entro codici precostituiti, o quando pretende di catalogare con mania poliziesca la vita del poeta, cancella e inficia il rapporto profondo col testo. Va messa al bando ogni forma di ambizione critica che pretenda di comprendere davvero fino in fondo il testo, si può forse dire che la critica è anzitutto un’esperienza del limite, nel senso che il testo che si legge non lo si conosce mai a sufficienza nel perpetuo divenire del senso. Quel limite d’interpretazione costituisce l’approssimazione critica del testo stesso che rappresenta il linguaggio dell’interprete-lettore. L’esperienza del lettore fa rivivere il testo, lo sposta dalla sua immobilità o sacralità in una continua e sempre diversa interpretazione. La critica letteraria più interessante, più viva, nel Novecento, è stata quella degli scrittori, e non dei critici. Ungaretti, Pasolini, Zanzotto, per dire solo alcuni, hanno dato interessanti interpretazioni dei classici, forse perché più liberi dei critici nel loro mestiere di letterati. La lettura ha l’intensità di un evento forte e così deve avvenire anche per l’interpretazione.

Toma è ancora da comprendere. Non si può definirlo “maledetto” né folle, né soltanto suicida, né “salentino”, liquidando con sterili etichette un travaglio poetico intenso, vissuto in un angolo del mondo, nella città che fu di Aldo Moro. È forse opportuno considerarlo come il poeta che ha dato l’idea di essere fuori da un prima, da una perfezione e armonia, in uno stato di caduta inteso come caduta del mondo stesso. L’incomparabile familiarità con la morte di questo poeta è incomprensibile, e ha ragione lui: A questo punto/cercate di non rompermi i coglioni/anche da morto. E ancora: Non state a riesumarmi dunque/con la forza delle vostre incertezze/o piuttosto a giustificarvi/ che chi si ammazza è un vigliacco:/a creare progettare ed approvare/la propria morte ci vuole coraggio!

Certamente Ci rivedremo/ci rivedremo senz’altro/ e ne riparleremo.

(Pubblicato il 02 febbraio 2013, in “Il Paese nuovo”, p. 7)

Il Salento delle liturgie

di Elio Ria

settimana santa

E se provassimo a liberarci di alcune usanze, credenze, simbologie, liturgie di cui siamo impastati, non sarebbe una buona cosa? Da fare subito, senza tentennamenti.

Il Salento è asservito da secoli alle misture magiche e religiose che si concretizzano nel rivendicarle come tradizione e nella spettacolarizzazione tramite processioni, balli, danze, canti e altro. Mere rappresentazioni folcloristiche che hanno perso ogni valore che un tempo invece possedevano. Basti pensare agli eventi religiosi che si susseguono con ossessione durante la settimana santa, dove non  prevale il significato religioso in sé ma lo spirito di celebrazione di un mistero che deve essenzialmente produrre esigenze individualistiche di liturgie fuori i canoni della ortodossia religiosa, con ripetizioni secolari di gare per l’aggiudicazione delle statue, scenografie mistiche, penitenzieri titolati, preti sbadati, congreghe in alta uniforme, bande musicali, fiori disseminati per le strade,  preghiere assenti, credenti con il pensiero altrove. Indubbiamente vi sono eccessi, credenze che inficiano il significato della morte di Cristo, lo riducono alla semplificazione banale di un rito stantio e compulsivo.

Sono queste tracce evidenti di ritualità che sopravvivono e si radicano nei luoghi e nelle menti. Certamente cultura popolare, collegata però alla magia e a pratiche più o meno occulte,  in contrasto con la religione cattolica. Una sorta di commistione che annulla le contraddizioni fra il paganesimo e il cristianesimo e crea un’altra religione parallela ad uso e consumo della superstizione che non è un fenomeno marginale, ma ben posizionato nelle formule e nella tradizione sapienziale. Come se si adorasse un dio segreto che oltre al dio ufficiale può aumentare le probabilità di soddisfo delle istanze degli uomini. Una riserva alla quale attingere sempre in caso di bisogno.

Una distillazione della liturgia sarebbe necessaria per riconquistarne il senso, abolendo le attività superflue e le contraddizioni di esuberanti cerimonie. La pompa magna di remote memorie non va bene e continuare a esercitarle sarebbe come perdere passi con la logica della modernità. Più fatti e meno scenografie e coreografie. Più senso del dovere e del rispetto. C’è il bisogno di nuove parole che non siano soltanto confortevoli, ma energia di sviluppo di futuro basato su questioni volte a migliorare la qualità di vita dell’uomo anche dal punto di vista spirituale.

Non limitiamoci a un fare che non coinvolge la coscienza ma l’istinto e il desiderio di esorcizzare il presente e il futuro con riti inefficaci e inadeguati ai tempi. Va bene esercitarli come memoria, ma non come antidoto per rafforzare credenze. Distillare il passato per ottenere un presente che possa transitare nel futuro con convinzione e serietà, questo bisogna fare, spezzando anche le catene dei pregiudizi della religione. Insomma libertà per un agire sereno con la dignità che è insita in ogni uomo che non si acquisisce come un diritto ma si genera come un dovere.

Prima vera emozione

Primavera

 di Elio Ria

Si raddrizza con forza il gambo del fiore vessato dall’Inverno. Il risveglio è nell’aria nuova. Il sole in gioventù muove da Oriente, giungerà temprato e ben fatto. Non deluderà i fichi d’india, né gli ulivi, né la terra. Darà ombre e calore, addomesticherà i venti, racconterà fiabe.

Si adagerà nelle ore del meriggio sulle acque del mare di Castro e di Gallipoli.

È dunque Primavera!

Vorrei indossare un vestito nuovo e andare per sole e per luna. Non posso. Non voglio. Non so cosa. In confusione di me e di tempo rinnovo la Primavera del mio pensiero.

 

 

DA: http://www.elioria.com/la-lente-di-elio/prima-vera-emozione/

Il mandorlo del poeta

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 di Elio Ria

 

I mandorli del Salento anticipano primavera. Gli alberi già in fiore stendono rami per viaggi d’ubbidienza alla terra rocciosa, ma delicata, della campagna. Quel sole forte di marzo ancora non c’è e le nubi grigie flettono i fiori, quasi a stordirli, rannicchiandoli in boccioli ancora teneri.

 

Il tempo si persuade che è giunta l’ora di cambiarsi d’abito. S’appresta a salutare il signore inverno. Rassegnato sa di dover andare, ma qualche capriccio ancora sente di doverlo alle genti.

 

Il vento ora si gonfia, ora si acquieta. Sibila e provoca.

 

Un uomo percorre il suo quotidiano cammino. Un bambino sorride e prova  a prender un aquilone sfuggito dalle mani, ma inciampa in una lacrima di delusione.

 

Fuori pioviggina: i passeri non sembrano farci caso e nei loro voli di geometrie mappano l’infinito.

 

Nei mille pensieri di primavera il poeta incontra il mondo di ieri e nel raggiro d’ispirazione seduce se stesso e quel mandorlo dorato, che gli appare come un impulso a disperdere canti gelidi per un adeguato corredo di speranza.

 

Libri/ Il passo della notte

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Per il ciclo “Poeti e prosatori salentini contemporanei”, mercoledi 9 gennaio 2013, presso l’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina, alle ore 18,  Paolo Vincenti presenterà Elio Ria con il suo libro“Il passo della notte”.

“Il passo della notte” è un libro di poesie. Dall’ispirazione della notte il poeta ha tratto dettagli e appigli di certezze per colmare le assenze dei giorni. Poesie che delineano la gioia e il dolore della vita. Sono parole tenere e forti, sussurri alla mutevole luna che non sempre si degna di ascoltare il poeta nelle notti afose colorate di tristezza e noiose. È la luna del Salento quella che il poeta osserva e infastidisce con i suoi interrogativi. È la luna dei ricordi di gioventù, ma anche la luna corrente di un tempo un po’ troppo frettoloso e discutibile. È la luna che soccorre quando si annuncia il collasso della speranza, ma anche la luna che racconta storie. È la luna che raccoglie e possiede il senno e l’anima degli uomini: <<Nulla mai nell’universo va perduto. Le cose perse in terra, dove vanno a finire? Sulla luna. Nelle sue bianche valli si ritrovano la fama che non resiste al tempo, le preghiere in malafede, le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo sprecato dai giocatori. Ed è là che, in ampolle sigillate, si conserva il senno di chi ha perduto il senno, in tutto o in parte>> (Italo Calvino).

Introduce la serata Gianluca Virgilio. Letture di Antonio D’Aprile.

C’è da onorare un Bambino…

<Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo> (Matteo, 28,20)

natale

di Elio Ria

 

Natale! Che bello! Il presepe. La famiglia. I Magi. I Pastori. L’uomo, adesso, è a disagio; escluso:  un anonimo osservatore di un evento; e intorno un mondo appeso tra il nulla e l’incertezza, con l’incombenza di un disegno divino che ogni anno si ripete in celebrazioni e ricordi.

Nessun elemento ostativo verso Colui che nasce in una mangiatoia che è luogo sacro nella commozione collettiva per l’affezione stupita di Maria, lo sguardo incredulo di Giuseppe, la speranza dei Magi, lo stupore dei pastori per il Bambino.

 

Questa famiglia è la più importante  della storia dei popoli. Ma la sovrabbondanza cieca induce nausea e il ritrovarsi di molti davanti alla meravigliosa nascita è un rituale passivo, frettoloso, come a voler significare l’abolizione di ogni idea di dipendenza con l’affermazione invece di un’autonomia assoluta e la negazione di legame. Un gesto consueto di riverenza, e poi basta. Un saluto come fra vecchi amici che non hanno molto da dirsi.

 

La povertà biblica è il distacco dal possesso ma è anche la condizione ideale dell’avvicinamento dello spirito a Dio che non si accontenta della solita liturgia d’incensi. Offrire se stessi a Dio senza condizioni e con il cuore in dono è il gesto sensato e giusto dell’uomo verso Gesù.

I Magi sono lontano, chissà dove; resistono nelle immagini sacre, nei testi biblici; e di quell’oro, incenso e mirra che con devozione donarono al Bambino oggi non v’è traccia. Le mani sono vuote della mirra dal buon profumo e dall’incenso.

C’è da onorare un Bambino con atti grandi e azioni semplici nell’esistenza di tutti i giorni anche quando non c’è grano ma gramigna, riso e dolore. Chiudere finalmente a chiave l’orizzonte dell’egoismo dove tutto deve essere immediato, evanescente ed ergersi dalla palude della banalità e della superficialità affinché le mani ritornino ad essere piene di doni graditi a Dio.

 

Libri/ La bottega del rigattiere

di Elio Ria

 la bottega del rigattiere

 

Nell’immaginazione dell’idea di un libro

Accade che una copertina di fuoco con impresso una bestia assomigliante a un grosso serpente con quattro zampe, in circolarità su stessa si morde la coda con occhio allucinato, desti non pochi interrogativi e meraviglie.

Cos’è questa storia di copertina? E il titolo “La bottega del rigattiere”? E poi un lupo (logo dell’editore), in posizione comoda per ululati di pubblicazione. C’è dunque da leggere qualcosa. Ma in attesa di avere il libro fra le mani, qualche azzardo di commento si può fare su questa immagine viva ed efficace che potrebbe anche evocare il fuoco, la magia. Che ci sia di mezzo il diavolo? associato al mestiere di rigattiere, maestro delle cose occulte? E quali saranno le cose di cui Paolo Vincenti, il rigattiere, ci delizierà? Ci parlerà forse dei tessuti di broccato d’oro, tappeti, tende, cuscini o coperte di seta, pellicce, abiti talari o tonache, cassoni decorati, coperte da cavallo, gualdrappe, oggetti antichi di culto, libri di filosofi, testi sacri antichi? Oppure ci racconterà storie di fuoco, roghi, streghe? O ancora storie del tempo andato, di un passato che ancora arde nel presente e non accenna a spegnersi? Forse ci racconterà storie minime di contadini, artigiani, gente comune nel presente di un tempo sempre in conclusione di affari e fortune.

Paolo Vincenti, diavolo di uno scrittore che scombina le idee ordinate del lettore per travolgerlo nelle righe dei suoi testi narrativi e ammaliarlo con le sue leggi della grammatica e dell’invenzione letteraria. Come un divino legislatore non si cura di parlare secondo verità, ma in grazia e in virtù della fantasia, pratica di cui è profondo conoscitore. Invero trae dalla quotidianità della vita appigli di regola per farne eccezioni, singolari, avventure letterarie in linea con il linguaggio che sboccia nelle arti della memoria per individuare le radici delle storie e delle cose nel senso di ineluttabilità dove tutto è univoco, immutabile, stabilito, nulla deve essere spiegato, tutto accade perché deve soltanto accadere.

Di certo l’immagine della bestia raffigurata sulla copertina non spaventa, sembra quasi che voglia giocare con la sua coda. C’è anche da evidenziare che la bestia o Satana in letteratura sono stati ampiamente evocati. Per citare alcuni esempi John Milton con il suo poema Il paradiso perduto, George Byron ebbe a cuore gli aspetti demoniaci della vita. Perfino Giacomo Leopardi fu un cantore di Satana nel Canto ad Arimane, Baudelaire con le Litanie di Satana.

Chissà quali sorprese ha la bottega del rigattiere, nel frattempo prima degli attacchi del demonio Vincenti, sarebbe opportuno mettersi in prima fila per la serata della prima.

Elio Ria e i Recuperi di assenze

Recuperi di assenze

di Elio Ria

lecce

I palazzi superbi in cieli di barocco. Le chiese di paradiso in preghiera. I vicoli stretti e inaccessibili allo sguardo riservano sorprese. Gli archi testimoni del passaggio frettoloso delle genti. I merletti di pietre decorano altari. Le botteghe in direzione del tempo. Le piazze solitarie e affascinanti. I santi in alto.

Qui, ora, intorno a me ci sei, e una stupenda serenità mi tiene.

Gli spiriti dell’antichità aleggiano su contrade e piazze. Non vi è giorno che non immagini di essere qui. Ho bisogno di canti e melodie per sopire la soave melanconia in subbuglio. La gente del luogo non mi conosce. Va bene così. L’essere forestiero mi dà libertà di movimento nell’incantevole eterna antichità. Non mi perdo e ritrovo le assenze di osservazione. Non so che cosa mi trattiene ancora per darmi buon tempo e buon luogo. Le forze dentro di me stringono patti con il luogo per imporre scritture di destino, nonostante la rassegnazione sia già soddisfazione di sogno. Al cuore ho chiesto di non agire e di lasciare il governo delle emozioni. Qui, in questo luogo che amo, e non dimentico, ed è sempre in me, la suggestione mi conferma tranquillità.

Dovrei possedere la genialità di un grande poeta per rappresentare ogni cosa che scalfisce l’anticamera della sensibilità e rendere omaggio alla città che commuove gli occhi, ma sono contento di non esserlo. Lecce è la strega che dà pienezza ai miei sguardi smarriti e impauriti.

Questa Terra adagiata fra due mari…

ph Roberto Filograna

di Elio Ria

La semplicità è bellezza. I miei occhi sono per questa Terra adagiata  fra due mari con il sole che resiste a se stesso per non ardersi.

Quando i miei passi staccano vita quotidiana per un percorso di meraviglia e nei sentieri di campagna s’inoltrano per convergere verso il mare ascolto la melodia della bellezza che sorprende.

Da quale luogo partire?

Quale direttrice tracciare per perdersi nelle meraviglie delle corti, dei palazzi assonnati e dimenticati, delle piazze di sbadigli,  dei giardini ornati di ciclamini, petunie e garofani; degli orti di basilico e rosmarino a profumare aria di luna?

E’ così incantevole la mia Terra  tanto da confondere l’immaginazione.

E a seguire fantasie di cieli merlati, io m’appresto a seguire il cammino di Astolfo sulla luna a ritrovare il senno per ricomprendere le ragioni di tanta bellezza che è dono degli dei per questa Terra  aspra ma dolce, forestiera non più, taciuta per molto tempo, congiunta dalla nascita alla sofferenza, umile negli intenti.

E degli eterni ulivi disseminati – fra pietre bianche striate di grigio –  dappertutto a significare eterna gratitudine agli orologi del tempo.

Il tempo del Sud è figlio di un dio  che del fluire del suo tempo ha rallentato vita al  giorno e alla notte, incuneandosi nelle pieghe del sole, come a torcersi su se stesso per concedere tempo all’eternità, giacché di questo hanno bisogno le genti del Sud: un tempo che non sia sempre tempo ma  ampio respiro, affinché ogni cosa possa sedimentare e lievitare nel tempo dei tempi.

Vanini e Carparelli, Santi subito!

di Elio Ria

 

 

Il dubbio è (quasi) amletico. Chi dei due è il vero Vanini? Mario Carparelli sembra essere in estasi. Vanini pensieroso con rughe vergate sulla fronte come solchi che mettono in dubbio l’autenticità del ritratto, infatti appare improbabile, data la sua giovane età, avere rughe così marcate. Due santini? Due imputati in attesa di giudizio? Entrambi salentini. Guardati però a vista dalla Santa Inquisizione. Pericolosi, irriguardosi e abituati come sono a scompigliare dogmi. Dannati, intelligenti, aristocratici con vizi e debolezze, ma tendono entrambi essenzialmente al bene dei più.

Dire che siano simili o far passare a tutti i costi l’idea che si assomiglino sarebbe un inganno, più giusto affermare che l’uno contiene l’altro nella perfezione, non somatica, ma del pensiero, del carattere e del modus vivendi. Orecchie e sopracciglia sono identiche, la fronte spaziosa di Vanini adornata da riccioli si contrappone a quella di Carparelli che è decisamente moderata e ben disegnata, il naso di Vanini è lungo e oltre la mediana del viso,  diciamolo pure è “bruttarello”. Mentre Carparelli fa un figurone con quegli occhi profondi e ammalianti che  prevalgono per bellezza e tenuta.

La foto non dà grazia a questo filosofo taurisanese, in essa è ritratto come  un cancelliere tedesco; un uomo che ha un sacco di pensieri per la testa; un mercante veneziano;  un ispettore di polizia austriaco; un precettore inglese.  Lui che era elegante nel pensiero e nella forma concettuale per decapitare credi e false interpretazioni teologiche, brillante, risoluto e coraggioso, non può essere ricordato con una foto che certamente non è la sua.

Sia fatta quindi giustizia. Sia data a Vanini l’immagine che gli spetta di diritto. Stia  pure accanto a Carparelli per l’iniziazione di un nuovo culto, ma venga ristabilita la verità sui tratti somatici di Giulio Cesare Vanini.

Ti scrivo per raccontarti del mio paese che mi è stato concesso di amare

di Elio Ria

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Se il mio male fosse medicabile nessuno lo medicherebbe. Nelle mille notti di voli e di acrobazie gli angeli sospetti danzano la follia. Questo giorno pallido, indignato, inopportuno, ripetuto, sconquassato, non richiesto, è terribilmente in tensione con le ore degli artigiani del cielo che in affanno arredano salotti di nubi. Le pagine consumate del libro delle magie deflagrano riti e consulenze, formule alchemiche indesiderate. Un labile sorriso di un passante si perde sugli alberi del frutteto del giardino del signore del paese. Pendono i rami di frutti carnosi e succulenti in attese di raccolta. Ahi, quanti passano dal mio sguardo senza lasciare traccia come i fiori maledetti che non germogliano frutti. È un’estate splendida che non fa per me. Questo giorno che non mi lascia e mi sorprende con i dettagli di un giardino colorato di muretti e alberi e fiori e colori mi commuove.

Il profumo che dal giardino si propaga per la corte appisolata conclude il fumo della pipa di un vecchietto seduto sull’uscio di casa a respirare aria di donne in passeggio sotto il sole nudo di agosto.

La ferrovia taglia in due il paese e il rumore dell’antica littorina fascista solleva il cuore dal silenzio di un meriggio stantio. Non c’è molto da fare. C’è tanto da osservare o da sfidare.

I vecchi seduti sulla panchina di ferro smaltiscono noia con i discorsi sfavillanti del pettegolezzo paesano che dà soddisfazione e piacere all’immaginazione, né a nulla serve il saluto del prete a distrarre le loro narrazioni. È tutto un andare lento verso il passato di un paese che converge inopinatamente al centro del cerchio temporale delle usanze in prossimità del presente. Lentamente per gustare parvenze di modernità incastonate nelle ore delle tradizioni di un tempo.

E io a guardare gente, chiese, case, corti e vie per sopraffare la lentezza della vita, che manifestamente non ne vuole sapere di modernità.

C’è qualcuno che come ombra s’aggira furtivo per non scoprirsi: un uomo di età incerta, magro e purgato. È talmente malandato che la febbre non lo cerca né osa presentarsi nelle sue vene. I suoi occhi appaiono come caverne buie e misteriose. Le mani rozze e contorte. Raccoglie i mozziconi di sigarette sparsi per le strade, poi a tastarli con il pollice e l’indice e infine riutilizzati per un’ultima boccata di fumo grigio.

Scorre così questa giornata – che ormai volge verso l’ora sesta del pomeriggio – nelle storie minime di gente che nessuno vorrebbe conoscere o pensare di raccontare. Eppure c’è un mondo nel mondo, occultato dagli occhi avidi e superbi delle persone, transitato nel confine dell’indicibile o meglio della linea di vergogna dell’emarginazione, periferia di consumo e di parcheggio della vita.

Il sagrestano della chiesa principale e importante del paese chiama a raccolta le donne e gli uomini del paese per la celebrazione della Messa. Il rito va onorato ogni giorno e il dolore senza una liturgia non può esistere per dare l’illusione di una cura. E nel passo spedito e certo delle vedove intravedo il trascorrere di un tempo sempre uguale e mai diverso, che non sa concedersi né distrazione né trasgressione, incapace di rinnovamento.

È il tempo del sud che nell’estremo tentativo di apparire sempre fecondo e laborioso rilascia immagini piacevoli di gente diversa in luoghi multiformi di spettacolarità di colori, di inappetenza modernista ma con la voglia di sbalordire gli orologi dei campanili delle chiese silenziose dei santi protettori di incondizionato amore per il dio che ha voluto una terra così ricca di eccellenze.

È tardi! Invero è sempre la stessa ora da quando ho smesso di leggere il libro di Goethe. Ho ricevuto però diletto dal mio peregrinare visivo per un paese che ancora ha tanto da inventare. Ormai l’afa è alla gola e un buon bicchiere d’acqua ci vuole per ristorarmi. C’è ancora da vedere per conoscere, un po’ difficile da capire, tentare di spiegare la terra del sud.

Il mio malessere è in ritirata, adesso. Non può accedere oltre, e c’è un indizio dell’ora decima che preannuncia divertimento di lune succose.

Ho voluto scriverti per raccontarti di me, ma poi ho preferito inviarti piccoli frammenti di vita di un paese che mi sta a cuore, non per sbalordirti ma per significarti il benessere interiore che mi prende nel riordinare e ripensare i fatti giornalieri contaminati dalle astrazioni di esistenze.

http://www.elioria.com/storie/ti-scrivo-per-raccontarti-del-mio-paese-che-mi-e-stata-concesso-di-amare/

Quando s’incontrano foto e poesia. Ivan Lazzari ed Elio Ria

ph Ivan Lazzari

Allora si ricongiunge quello che noi continuamente / separiamo, per il semplice fatto di esserci […]

(Rainer Maria Rilke, Quarta elegia)

 

di Elio Ria

 

Campagna sottratta, per un attimo, al sogno  della natura. A ridosso del mattino, quando ogni cosa è sistemata e non si trova lì per caso, il poeta osserva lo straordinario incanto del cielo che si abbassa alla terra per renderle onore.

Nel segmento del tempo i colori esplodono meraviglia. L’accumulo di bellezze con l’aggiunta di immagine ad immagine, oggetto ad oggetto, è poesia.

Ogni cosa è al suo posto, ancora. Gli alberi d’ulivo –  attori del luogo – non ingigantiscono sguardi, plaudono echi e richiami di Sud.  Il cielo è incanto. Il muro bianco posto all’orizzonte delimita l’infinito, sicché immaginarlo non vi è obbligo di fantasia. È una storia di immagini e di colori voluta dagli angeli per avventura di occhi e di cuori.

Mi fingo poeta per godere dell’immagine che fu sottratta, per un attimo, dal libro di Dio.

Gallipoli nel suo torpore autunnale è deliziosa

di Elio Ria

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Gallipoli oggi pomeriggio è davvero tranquilla: un’atmosfera surreale si spande dappertutto, anche negli angoli più remoti dei vicoli quasi ciechi della città antica. Interminabili silenzi sommessi di mare e di piazze snodano immagini di gente. Il duomo nelle sue altezze dalle linee sterili, e offuscate dalle ombre delle corti appare come il luogo della vera dimora di Dio. E seppure l’antichità del borgo è frastagliata e imbottita di negozi e pizzerie e ristoranti, vedo nei dettagli di antichità dei palazzi l’indicibile bellezza del tempo che sa resistere a se stesso.

Gallipoli oggi mi è di sollievo. Respiro aria nuova e i mie passi per le vie dimenticano pigrizia e angoscia. Non so se per le contrade aleggiano spiriti, ma la fantasia coinvolge finanche il cielo, che improvvisamente muove nubi con vento garbato  verso l’antologia delle parole sacre per raccontare il travaglio della terra.

È un gustare vivace di ogni intorno e diligentemente ogni cosa contemplo. La città non vive l’assillo di agosto e il frastuono delle voci forestiere è lontano. C’è l’alchimia della quiete che nella luce che s’appresta al tramonto in estensioni di ombre acrobatiche concede letizia al pescatore nell’ora di riposo.

Nessun precetto impone il volo iperbolico di un gabbiano: le sue acrobazie disegnano infiniti finiti sul cielo a ridosso del porto e del castello, certamente vorrebbe segnalare qualcosa, stupido io ad avere guardato altrove.

Ho la sensazione di vivere alla giornata senza nessun fardello addosso; libero come il passero diffidente e furbo della città che non si lascia ingannare, che sa dove andare a beccare e non si lascia prendere, e poi spicca il volo appagato del suo vivere gioioso e facilitato dalla spensieratezza della città.

Senza avere aggiunto nulla di mio al paesaggio che mi è stato donato agli occhi, ho immobilizzato le immagini della città per avvalermi in seguito della facoltà del ricordo di un pomeriggio che nel garbo di un luogo ha disposto emozioni soddisfacenti e piacevoli.

Squaiatu te cervellu

di Elio Ria

 

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Biagino ha bottega in via Marconi a Tuglie, nei pressi della Barbieria di Tommaso Ingrosso. Succede che al buongiorno del maestro Tommaso egli risponde come d’abitudine con una parolaccia. Le parole allora non si contano e la commedia ha inizio.

È un animale selvatico, non potrà mai essere addomesticato, ogni tanto concede una smorfia di sorriso che nell’istante stesso in cui lo pronuncia esplode sarcasmo e bestemmie.

Tomamso Ingrosso lo apostrofa con “squaiatu te cervello” che a volere dare una traduzione letterale sarebbe come dire matto, senza cervello. Un epitaffio perfetto, qualora decidesse di andarsene per sempre, per onorare la sua grande figura.

Nel suo camminare a testa bassa sussurra oppure urla imprecazioni contro un passante oppure inveisce contro Moris Panareo o Antonio Cannone.

Amico dei potenti della politica, è intoccabile, può qualsiasi cosa, nulla gli è negato. Compare di presidenti e onorevoli, mastica e digerisce prelibatezze della terra del Salento, con il suo vino e il suo olio fa affari d’oro.

Squaiatu te cervello, non teme nessuno, è spregiudicato e insolente.

Biagino è così! Non frequenta salotti, ma è un bergolo. Nel pettegolezzo è accorto e non sciocco.

Che gran bella cosa il dialetto che con il favore della lingua esplica e delinea virtù e difetti degli uomini. Tommaso detto Sipana è un cultore del dialetto e definizioni ne ha per tutti. Egli è la memoria storica dei fatti e fatterelli di un paese che nei paradossi e negli scherzi ironizza su cose e fatti e ne amplifica la notorietà e il divertimento.

Netta, Telina trenta capelli (perché trenta non si sa), Rocco Cristo, Ntunucciu, alcuni dei più famosi, rivivono grazie ai suoi racconti piccanti e folcloristici. Storie minime ma ugualmente belle e divertenti.

Ed è bello questo “squaiatu te cervellu” che nella sonorità delle parole individua il folle e non vi è la necessità di aggiunte e specificazioni.

E questa pagina sia un omaggio non allo “squaiatu te cervellu” ma alla tradizione popolare che attraverso l’oralità tramanda e non fa cadere nell’oblio i fatti di una quotidianità semplice di una comunità.

Salento: un altro luogo dell’altrove?

di Elio Ria

Vittorio Bodini inventò il Sud, i salentini inventino se stessi, traggano dalle loro multiformi tradizioni il filo conduttore delle specificità culturali e sociali, convergano su idee e progetti scevri da orpelli di propaganda, guardino al sodo e soprattutto s’impegnino a salvaguardare il territorio dalle pale eoliche, dalle ciminiere, dai depuratori che non depurano, dalle costruzioni abusive sulle coste, recuperino i monumenti  e i luoghi della storia. Puliscano le campagne e le spiagge insozzate dai rifiuti, tolgano il cemento e lascino respirare la terra, lascino in pace gli ulivi secolari nelle campagne.

Non basta lo slogan: il sole, lu ientu e lu mare per affermare qualcosa d’importante del Salento.  Sì, vero, il sole c’è, il vento c’è, il mare c’è e poi?… Non si può continuare a ripetere sempre le stesse cose.  Le case di calce sopravvivono all’incuria del tempo, le piazze dormono e negli angoli si stipano le immondizie, lo Ionio e l’Adriatico sono in apnea, le strade come stoffe lacerate sono impercorribili e insidiose.

Il paesaggio del Salento suscita emozioni,  ai salentini il compito di reinterpretarle e trasmetterle agli altri con obiettività, senza eccessi. In superficie il patrimonio artistico è costituito di inestimabili tesori artistici; in profondità vi sono grotte scolpite dallo scalpello della pioggia e dallo scorrimento di ruscelli, nonché dalle onde del mare. Le leggende narrano di luoghi incantevoli abitati da streghe e diavoli. La Zinzulusa è la più famosa, il cunicolo dei diavoli a Porto Badisco  si rivelò essere invece un luogo di sepoltura, Grotta Romanelli (presso Castro Marina) destinata alla vita quotidiana e al culto, Grotta dei Cervi (Porto Badisco) è un libro dell’antichità con simboli, figure e immagini sulle pareti levigate e sulle volte, ma forse anche un “santuario” sotto le cui volte gli stregoni scolpivano le loro visioni e riti propiziatori. Il Salento è meraviglia sia in superficie sia in profondità. Gli

Lecce, vico del Pittaccio

Lecce, vico del Pittaccio

(Lecce, vico del Pittaccio – ph Giovanna Falco)

di Elio Ria

Un vico nascosto fra le pieghe dei palazzi di Lecce abbellito di fiori che da un balconcino tendono a coprire le macchie di usura delle pietre. Un frammento di bellezza floreale che dà vivacità e movimento all’immobilismo dell’isolato. Verde, viola, rosso accanto al solitario lampione. Una finestra chiusa che nasconde vita domestica. La pareti tinte di grigio dallo scorrere della pioggia che su di esse si aggrappa per non precipitare e lasciare un segno. Pittaccio, vico del Pittaccio, il nome a rendere signorilità ed eleganza ad un vico oscuro e dimenticato. Uno scorcio della città che nella solitudine della pietra prova ad incantare il visitatore con un ricamo di fiori.

Tuglie. La puteca te li Papaionaca

di Elio Ria

 

Un giorno passare per via Veneto e accorgersi d’improvviso di un’insegna che sa di altri tempi: La puteca te li Papaionaca…

Una trovata pubblicitaria eccellente. Un ritorno al passato che fa piacere rivivere seppure nelle righe di un messaggio che prepotente rimanda nel tempo, quando leputeche di generi alimentari  in  un paese rappresentavano l’unico mezzo di approvvigionamento. La pasta, la conserva, la ricotta forte, il caffè si vendevano al minuto, non confezionati in pacchetti o simili ma sfusi.  Altri tempi. Tempi non buoni, fatti di povertà e sacrifici. Lu putacaru sovente concedeva ai clienti gli alimenti con la libretta, dove si annotavano  gli importi giornalieri della spesa: un rapporto fiduciario che si instaurava sull’onorabilità del cliente, il quale avrebbe poi provveduto a pagare appena le risorse finanziarie glielo avrebbero consentito. Un sistema che attualmente si può paragonare con le varianti moderne del compra oggi, paga fra un anno.

Gli anni Cinquanta faticosamente tendevano al progresso, le popolazioni del Sud  dovevano adattarsi alla lentezza di un divenire migliore che altrove incominciava a fare capolino. Non c’era superbia. C’era solidarietà, un alto senso di mutuo soccorso accomunava le persone. Il paese era una grande famiglia che accettava con rassegnazione le disgrazie, ma nel contempo era capace di tirare fuori il meglio di sé  per costruire futuro. Se non ci fosse stata la benevolenza, a quei tempi, dei putecari a dare da mangiare ai paesani,  la vita sarebbe stata un inferno.

E l’insegna de  La puteca te li Papaionaca, oggi nel terzo millennio, ha il sapore di un monito, di una reprimenda, di un segnale per le genti che vedono sopraggiungere una nuova povertà, diversa del passato, ma che fa sentire il

Rosa, oltre il fiore c’era una donna

Albert Ritzberger

di Elio Ria

Ora che non c’è più è come se il paese fosse stato privato di qualcosa. Un paese del sud, come tanti, con tanta gente di fatica, con i colori del sole e il grigio perla della luna.

Rosa era una donna del sud, tutti in paese la conoscevano.

Aveva i capelli neri ondulati, abbandonati alla bizzarria del vento. Il rossetto sulle labbra carnose ne risaltava l’indole trasgressiva. Amava passeggiare con il ventaglio nero con sottili righe di color rosso. I suoi abiti rigorosamente neri con il profilo di merletto, come a significare l’eleganza di altri tempi. I suoi occhi erano accesi di simpatia e fermezza.

La sua bellezza di gioventù consumata troppo in fretta per miseria viveva nel suo cuore e amava parlarne con discrezione come solitamente sapevano fare le nobildonne.

Il paese non badava alle sue stravaganze, ai suoi giochi di parole, alle continue burla e risate: preferiva tenerla a debita distanza, non godeva della stima degli altri, di coloro che in fondo erano sì brave persone ma non potevano accettare il suo modo di essere donna diversa.

Il suo viso beffardo congelava le maldicenze e all’occasione sapeva imporre la

Nardò (Lecce) e la rivolta dei raccoglitori di pomodori

da: http://www.eat-ing.net/

di Elio Ria

Ivan Sagnet è un giovane camerunense di ventisette anni, studente al Politecnico di Torino.

Nel luglio del 2011 si reca nel Salento per raccogliere pomodori. Ha bisogno di soldi per proseguire gli studi. Approda quindi su consiglio di un amico a Nardò (Lecce), presso una masseria del luogo. Da subito s’accorge delle disumane condizioni in cui è costretto a lavorare sotto il sole cocente e senza nessun conforto. Il video, pubblicato su internet ( http://www.youtube.com/watch?v=jQxMuFE1hTI)   esplica con dovizia di particolari  il maltrattamento e le angherie subite dai lavoratori. La denuncia è avvenuta durante la prima puntata del nuovo programma condotto da Fabio Fazio e Roberto Saviano su La7, Quello che (non) ho, il 14 maggio 2012.

Una storia nella storia di “Animal Farm”.  Molti sono gli aspetti che concorrono a delineare che gli animali della fattoria padronale di George Orwell, oggi sono gli uomini di colore, maltrattati e soggiogati.

Il sogno di libertà e di giustizia è stato infranto da alcuni, soprannominati  caporali.

Una storia squallida che non fa bene ascoltare, che induce a fare qualcosa  da subito senza alcun ripensamento.

Ivan Sagnet ha conosciuto un Salento, una porzione di un luogo che lo ha sconvolto.

La violenza è un fatto storico su cui ragionare e  rappresenta il sintomo più vistoso e allarmante di carenze istituzionali ma anche di una coscienza civile che non può prescindere dal rispetto degli altri. Quanto è accaduto al giovane Sagnet è mortificante. Il Salento merita ben altri palcoscenici, certamente non

Ulivi prigionieri fra le pietre grigie del tempo

di Elio Ria
Inglobati, racchiusi come prigionieri fra le pietre grigie del tempo.
Ma resistono.
Essi sanno cosa fare per continuare ad essere ulivi.
L’uomo accordi loro il diritto alla vita, non spezzi le radici secolari per futili motivi; sia rispettoso di questo albero muto e sapiente, generoso e tollerante. La terra lo vuole, lo desidera ardentemente affinché si perpetui nei secoli la tradizione di una forza benevola della natura che sa dare e mai togliere.

Signurìa

dialetto

di Elio Ria

 

Quanto è bello ascoltarla: melodica, rispettosa. Non mi capitava di sentirla da tanto tempo. L’altro ieri un giovane del mio paese si è rivolto a me con garbo proferendo la frase: scusi Signurìa, mi può dire…

Mi ha fatto piacere, molto. Nei paesi del Salento nei tempi andati la frase denotava rispetto ed educazione e veniva rivolta in particolar modo alle persone anziane e di un certo rango.  Oggi nel dialetto vive la forma brutta e disarmonica del scusa tie… Il pronome personale “tu” assume una tonalità di sconcertante rozzezza lessicale, mentre Signurìa è tutt’altra musica. Signurìa, come a dire Signoria, quindi rispetto e approccio reverenziale.

Non ho saputo trattenere la meraviglia e ho ringraziato il giovane per avermi fatto ricordare questa espressione poetica dialettale che da bambino ero chiamato anch’io ad utilizzare.

Ho pensato al dialetto e ad alcuni suoi lemmi che rincuorano e rallegrano. Tutta un’altra cosa:  ravviva il linguaggio, rende tutto più simpatico e gioioso.

La poesia non può non interessarsi della lingua dialettale che in alcuni casi riesce a esprimere meglio di altre lingue le cose dell’uomo e della vita. La parola allora sopravvive e si forgia nella consuetudine, facendo rinascere l’origine di un tempo che tenderebbe altrimenti a perire. Essa pur venendo da lontano avvicina l’uomo allo stato nascente della parola, cioè salvaguarda e al contempo rafforza la tradizione della lingua con il modo d’essere dell’uomo con la sua stessa opera per approdare all’ascolto. Una parola è per tutti: nessuno può vantarne il diritto di proprietà. Alcuni termini dialettali e modi di dire  da superficie lampeggiante connotano specificità di lingua che accomuna e non divide, crea una espressione codificata e legittimata dell’agire di una comunità, fissando anche regole di educazione e di comportamento. Questo è appunto il caso del Signuria come di altre  parole ancora in uso. Il parlare cordiale assume una simmetria di relazione con l’altro, favorendo il dialogo e l’incontro, dispone all’ascolto nelle moltitudini e tragiche solitudini odierne. Il dialetto è la bandiera di un popolo: non sarà mai utilizzato per redigere documenti ufficiali, ma conserverà, fintantoché ci sarà la volontà di servirsene,  il colore e i costumi della comunità che rappresenta.

Quella parola  pronunciata dal giovane ha meglio di qualunque altra evidenziato la bellezza del dialetto che caparbiamente ancora oggi sa resistere alla tentazione di neologismi e anglicismi ricorrenti nel parlato.

Signurìa, termine che espone educazione, gentilezza d’animo, e sarebbe magia di poesia se un po’ tutti ci ritrovassimo nel suo significato letterale, che è responsabilità di conservazione della tradizione, nonché accostamento alla giusta misura del dire.

La barbieria di Tommaso Ingrosso

di Elio Ria

Antica barbieria

Il luogo è semplice come d’altronde dovrebbe essere una barbieria di paese, dove si tramanda una cultura del servizio. Tommaso Ingrosso, meglio identificabile come Tommasu Sipana, svolge a Tuglie l’antica arte del barbiere, secondo i canoni antichi del mestiere.

Lui sa fare il barbiere, fedele alla cultura della rasatura classica con il rasoio a mano libera. Il suo rasoio scivola sulla pelle senza arrecare screpolature o piccoli tagli, lasciando la pelle in salute. Conosce il volto di ognuno dei suoi clienti e sa come trattarlo. Preciso come un chirurgo centra il bersaglio con maestria.

È bravo davvero, ma è anche come si è soliti dire nu grande fiju te puttana. Cordiale e pungente, pettegolo con discrezione, maestro dell’equivoco. Ed è così che nelle ore di attesa, gli astanti assistono ben volentieri alle piccole commedie che modulano e rispecchiano la vita dei paesani, che non si sottraggono allo sfottò, anzi lo alimentano e lo condiscono con dovizia di particolari inventati o verosimili. Ed è allegria che si manifesta e si conclude – qualche volta – con il risentimento e il rancore del povero malcapitato di turno, abbondantemente canzonato. Ma poi tutto si aggiusta e riprende l’atmosfera dolce e serena di un luogo esclusivo per uomini che si concedono il piccolo lusso della barba e del taglio dei capelli.

Moris Panareo è il suo aiutante: sornione e ironico, non concede nulla di sé. Ha appreso bene il mestiere e ne è fiero. Punzecchia e brucia con disinvoltura le sue vittime fra un taglio di capelli e una barba.

Questo luogo è la pagina scritta delle tradizioni di un paese che sopravvive alle regole del modernismo e ne accentua la specificità di un vivere contraddistinto di ritorni al passato e di coinvolgimenti nell’attualità dei fatti. Vi è la difficoltà di raccontare la storia della bottega, quasi impossibile tracciarne una linea di narrazione completa per le tante vicissitudini di cui è stata ed è protagonista, ma la descrizione seppure sommaria di alcuni clienti è doverosa.

Antonio Levantaci detto cannone è felice, sempre. Non conosce la grammatica, parla un dialetto claudicante e sofferente, ride come un fanciullo, beve il caffè, fuma, legge il giornale ma non comprende le notizie. Il mondo lo guarda diversamente da come lo guardano gli altri e non gliene importa nulla di esso. È esperto in numerologia, nel senso che vorrebbe trarre dai numeri fortuna e ricchezza per godersi meglio la vita con un sorriso ancora più largo ed elastico di quanto lo sia ora.

Biagino il vinaio, scombina e sconquassa l’atmosfera della bottega con il suo linguaggio rude e blasfemo. Quatto, quatto irrompe nei momenti di tensione verbale dei clienti e lancia strali ai presenti o al povero politico nazionale o locale. Tutti lo vogliono, tutti lo desiderano, tutti lo cercano. E lui come un serpente morde e fugge. Poi compare quando lo ritiene necessario per aggiungere un dettaglio dispettoso e irriverente verso qualcosa o qualcuno. E infine la risata sarcastica e soddisfacente che nell’evolversi della mimica facciale diviene essa stessa espressione di teatralità e compiacimento del suo essere scortese e impietoso. È da consideralo, se si può dire, come Pasquino, pur non avendo nulla in comune, in riferimento al linguaggio elegante e forbito, con il personaggio storico della Roma papalina, per le sue geniali satire contro il potere. Biagino è un Pasquino contadino che con le sue pasquinate piccanti ed effervescenti sollazza e diverte ancora di più quando discute con Ucciu Ria. È difficile contenerli entrambi. La conversazione diventa commedia; narrazione estemporanea dei fatti di un paese che nella comicità rivela le abitudini buone e cattive di una comunità. E poi ce ne sono altri che contribuiscono alla tradizione paesana di giocare e scherzare su persone e fatti: Antonio Giorgino, sagrestano e sommo priore; Nziatinu, la vittima preferita del maestro; Antonio Scarpa, sottile come una lama di coltello; Angelo te Matinu che a Tuglie ha imparato le regole del gioco a carte; Mauro Marzano, invadente, spocchioso ma simpaticissimo; Angelu te la protezione civile sempre distratto e alle prese con la riscossione degli arretrati.

Nel tentativo di narrare vita spicciola si rischia di tralasciare qualcosa d’importante. Vorrà, quindi, scusarmi il lettore per eventuali omissioni, errori o irriverenze. Ciò che conta è avere tracciato uno spaccato di vita spicciola che nel luogo della barbieria diventa storia che accomuna persone e amici.

Elio Ria, i pensieri di un poeta

Intervista a cura di Maria Ausilio Gulino, pubblicata su www.lepagine.net

 

Gemäldegalerie Alte Meister (Dresda) – Domenico Fetti (1588-1623), Archimede (1620)

Quali sono i tormenti interiori di un poeta? Ormai nell’immaginario collettivo, quando pensiamo agli scrittori dei versi, pensiamo sempre a quelli del passato. Eppure qualcuno è presente anche adesso, magari ci parla, e potrebbe anche essere un nostro amico. Però non lo riconosciamo. Perché talvolta ci sembra uno diverso da noi. Lontano dai nostri modi di vivere e di pensare. Noi abbiamo incontrato Elio Ria, che di poesia vive, che in qualche modo, tra le pagine, si confessa, mostrando ogni suo timore e ogni sua voglia di vivere. E poiché non è così comune svelarsi senza maschera, siamo certi che i suoi lettori gliene saranno grati.

Come gestisce il suo lavoro di redazione?
Prima di scrivere un testo raccolgo le idee, sviluppo mentalmente l’ordine delle cose che intendo presentare al lettore, guardo i miei appunti, seleziono, tralascio, includo e poi inizio a mettere nero su bianco. Sì, mi documento con dovizia e attenzione per non tralasciare nulla di importante. Poi lascio sedimentare per un po’. Infine rileggo. Aggiusto. E quando sono convinto della qualità del testo lo pubblico.

Un poeta dai versi così sensibili come conduce la sua quotidianità?
La quotidianità concede sempre straordinarietà e meraviglie. Ho le mie abitudini: lavoro, studio, caffè, sigarette, le chiacchiere con gli amici, leggere il giornale e i libri, scrivere. Leggo moltissimo: le poesie dei grandi poeti antichi

Se potessi lo abbraccerei tutto…

di Elio Ria

Io se potessi lo abbraccerei tutto, gli salterei addosso e nella sua chioma di rami verdi mi abbandonerei.

Così forte e grande e coraggioso.

 Taluni incoscienti e malfattori lo hanno decapitato, ma resiste e vigila la terra che lo ha partorito.

Io, noi siamo con te, caro amico ulivo:

al vento affidiamo l’affetto e al sole chiediamo di confortarti.

 

 

Sul nostro modo di vivere la piazza

Nde cchiamu alla chiazza

Tuglie

 

di Elio Ria

 

Nde cchiamu alla chiazza (ci troviamo in piazza): a significare qualcosa d’importante.

Questa frase apparteneva al nostro modo di vivere la piazza. Sono ormai trascorsi tanti anni e la piazza, oggi,  non è più quella di una volta.

Allora  su di essa gravitavano le amicizie, le burla, gli scherzi e la voglia di fare. Sì, voglia incessante di fare, di essere protagonisti nella vita sociale e anche politica del nostro paese, pur fra mille contraddizioni, ostacoli e pregiudizi.

Si discuteva pacatamente e animatamente dappertutto, condensando nei ragionamenti anche parolacce e scherni. Il bar Provenzano era il cuore pulsante della Tuglie perbene (?), come un grande circolo cittadino all’aperto, un palco speciale per oratori, politici che disquisivano sui fatti locali e nazionali, con accenni folcloristici che, in qualche caso, si concludevano con una scazzottata. Ma poi tutto ritornava come prima.

I ricordi sono tanti; ovviamente annotati negli anfratti della mia memoria  e soggetti quindi all’evanescenza di qualche   particolare. Ma non per questo mi voglio sottrarre all’idea di riordinare mnemonicamente qualche episodio inerente la piazza, soltanto per il piacere di ricordare qualcosa di minore che non appartiene alla grandezza della storia ma pur sempre interessante in riferimento alle attività sociali, politiche, di svago e culturale che hanno interessato o reso protagonista  la comunità del nostro paese.

Una domenica mattina uscendo di casa per andare in piazza, rimasi sconcertato nel vedere appesa ad un albero in prossimità dell’abitazione di Mario Giuranno, in via Milano,  una bandiera rossa fatta a brandelli. Avevo 13 anni nell’anno

Il geco

di Elio Ria

geco

Eccolo. Puntuale. Passo lento e meditato su rughe di muri a grattarsi il ventre con le zanzare intorno. Si lascia osservare. Non sfugge. Si confonde con il bianco della luce. Chissà cosa penserà. Poi un leggero avanzare e una sosta su una piega più consistente. Immobile. Sonnambulo? Riparte! Avrà fiutato qualcosa? Prediligo la nudità di questo silenzio che si è fatto attivo. Questo luogo, dimora dei miei affanni, incanta. Non so cosa gli passa per la testa al geco. Siamo diversi. Lui educato e modesto, mai un atteggiamento di posa. Io in misteri di poesia, anche nelle ore febbrili.

Geco, quale verità adombri?

Immerso nei pensieri della filosofia ravvedo una speranza di salvezza, ma non comprendo la magnificenza della ragione.

Tornerai a trovarmi, lo so.

La serenità delle linee dell’orizzonte tacitano normali tristezze che negli istanti superflui di tempo concepiscono opere di volontà.

Geco, qualche altra volta saziami della tua presenza affinché possa concludere questa mia opera di poesia.

 

http://www.elioria.com/la-lente-di-elio/il-geco/

Divi oltre ogni pudore

di Elio Ria

spettacolo

Ormai si eccede in tutto: nell’informazione, con le parole, le interviste, reportage. Tutto deve essere amplificato per fare rumore e scandalo. I giornali in alcuni giorni sono illeggibili, infastidiscono il lettore, propinano notizie non per informare – come è giusto fare – , no… solo per innalzare o abbassare l’indice di gradimento di personaggi dello sport e della televisione.

Una commedia dentro la commedia: tutti attori di un palcoscenico costruito sulla vanità. Il buon senso, l’educazione, il garbo e il rispetto lasciano il passo alla volgarità e alla violenza.

Le redazioni giornalistiche godono nel dare risalto alle malefatte del personaggio di turno che si è distinto per una “bravata” o qualcosa di più grave, svilendo e annullando la funzione informativa del giornale. Si avverte in molti casi l’emulazione del peggio in costante ascesa nella scala dei valori. Ancora, vi è l’accanimento verso taluni personaggi e notizie, tralasciando le cose “buone”: non fanno notizia. E allora non c’è da stupirsi se la maglia buttata a terra da Balotelli in occasione della partita Inter – Barcellona (20 aprile 2010), diventa un romanzo a puntate da seguire con morbosa attenzione. L’irascibilità del ragazzo, la sua arroganza appassiona il mondo sportivo. Il suo urlare “sono il numero uno” dovrebbe indurre  alla riflessione, ponendo fine all’esagerata sindrome del divismo. Sì, divismo, considerato che oggi per diventare divo ed entrare nel mondo mediatico per essere osannato  ci vuole poco: urlare, tenere comportamenti demenziali e gesti fuori dall’ordinario e oplà: ecco un nuovo astro da far apparire all’isola dei famosi, grande fratello, porta a porta, amici, talk show.

Il palcoscenico, quello vero, è vuoto. Attende protagonisti seri e qualificati, possibilmente.

Tuglie, i luoghi

di Elio Ria

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Luoghi cari, vissuti, ricordati…

La stazione,  luogo di partenze e arrivi, con il sole a stendersi sui binari e fra le case cubiche bianche. Locomotive lente, littorine verdi per un rumore di modernità.

La biblioteca, minuta, silenziosa.

Furneddhu, il passato che resiste alla stravaganza e imperiosità del presente.

Palazzo Venturi, memoria della nobiltà.

La Chiesa matrice: c’è sempre una chiesa che identifica un paese.

Alberi di Pino, l’iimobilità del ricordo di una collina.

Piazza Garibaldi, centralità di un’appartenenza.

Montegrappa, la collina verde e rocciosa dove i massi e i pini concludono sogni.

Tuglie, un paese, un luogo umile, senza superbia,  espressione di un sud sincero e amaro e dolce.

La storia di Aurora

di Elio Ria

Aurora

Soffoco!

Quest’aria d’acciaio, intrisa di umidità mi uccide.

Sulle pagine di un libro perdo la ragione, e le parole irridono la nevrosi di questo mio andare per lettura nei giorni di domenica.

La messa del parroco non mi distrae e alle omelie stantie e ammuffite preferisco il silenzio stupefacente di un albero di pino, malandato e artitrico che alla finestra del mio studio s’appresta per rimediare confidenza.

Comprendo che vorrebbe rivelarsi e narrarmi di sé, della sua vita immobile. È  tanto che vive in paese e ha imparato a sopportare il rumore maldestro e l’indifferenza degli uomini. Non ha la chioma superba di una volta, ora è scheletrico, non sorride e del lungo vivere è stanco e vorrebbe congedarsi.

Gli confermo simpatia, ammirazione e riconoscenza per l’ombra che mi ha dato e che continua a darmi. Ogni mattina durante il rito del caffè e della sigaretta non ha mai fatto caso all’inquietudine dei miei giorni sospesi a mezz’aria. Ha sopportato l’insolenza del sole e mai ho udito il suo pianto sommesso. Lasciami ancora ombra forte e rassicurante.  Concedimi immaginazioni di parole affinché del mio vivere possa lasciare traccia nei campi incolti  delle pagine di un diario. Non morire, resisti. Dimmi cosa posso fare per te. Non lasciare che i tuoi aghi inizino il viaggio sui treni dell’abbandono. Fa’ che i passeri costruiscano ancora i loro nidi su i tuoi rami. Dammi bellezza di natura e io continuerò a respirare vita e non ti curare della gazza ingorda che spavalda osa far casa da te.

Parlami, albero. Recuperiamo il tempo sperperato nei giorni di giovinezza. Non lasciare che la luna preferisca un’altra chioma alla tua per poggiare le sue luci di tenerezza durante le notti di marzo a rassicurare passerotti. Sopporta lo strisciare della serpe per grattarsi di sole sul tuo corpo di gigante. Albero, non iniziare il movimento lento e piacevole dell’andare per morte.

La tua mania giovanile  di vivere in paese ha destato in te il fuoco del rimorso, hai fatto quello che hai potuto per dare splendore di albero e molti hanno taciuto la propria meraviglia per te, per l’albero grande, forte e bello che eri.

Mi dolgo e della tua sofferenza mi approprio non per confortarti ma per eterna riconoscenza. Sei saggio e sai che sfuggire non puoi al tuo decadimento. Ogni giorno avverto il tuo mesto inchinarti verso la terra che ti diede vita e che ora chiede morte.

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Albero, tu che conosci il momento propizio per lasciare cadere i tuoi aghi, raccontami della giovane Aurora che all’ombra dei tuoi rami conobbe anticipazione della fine di giovinezza. Ne ho sentito parlare qualcosa da bambino.

–           Aurora era una giovane bellissima, alta, magra con i capelli splendenti. Non ho mai dimenticato i suoi occhi di azzurro che nel lasciare lacrime mattutine durante le preghiere per sconfiggere il male di respiro, diventavano gravi e melanconici. Ed io forte, il migliore fra tutti gli altri alberi mi adoperavo a stipare aria pura per lei. A nulla valsero le cure dei medici venuti da Bari. Il padre di lei  costruì questa villa, nei pressi della collina a Tuglie, nell’estremo tentativo di consentirle di respirare aria buona per i suoi polmoni.

–            E dimmi, albero, com’era la giovane Aurora? –

–          Era dolce come la luna da spalmare di notte sulle nuvole di aprile. Bella come la Primavera che al mattino s’adorna di fiori. –

–             Il destino era contro di lei. –

–          Sì, il giorno stava per congedarsi e le ombre della notte si stabilirono nella pineta per smorzare i nostri respiri. Tutto doveva compiersi. L’ora del distacco sopraggiungeva e  Aurora, sul letto con le lenzuola di lino,  cadde come foglia,  sfuggita all’attenzione di un dio. –

–            Albero, tu piangesti? –

–       Piangemmo tutti, tanto da spogliare le nostre chiome. Invitammo gli usignoli a cantare una nenia d’amore per lei, la nostra dolce Aurora. –

–            Poi cosa successe? –

–          La villa fu abbandonata. Il padre non volle più rimettere piedi. Lasciò ogni cosa al suo posto. –

–            Che triste storia mi hai raccontato. –

–          Mio caro amico, io non conosco altre storie, soltanto questa, che è la più bella fra tutte, perché Aurora è nel giardino dei fiori e degli alberi della luna e attende il mio arrivo. Ecco perché io non ho paura di morire, anzi chiedo che la mia morte subisca un’accelerazione per godere dell’innocenza della natura quanto prima. –

–            Albero, ma non pensi a me? –

–            Ti penso e continuerò a pensarti. Ti chiedo soltanto un favore! –

–            Sì, dimmi quale. –

–          Ti prego di non ricordare nulla di quanto abbiamo parlato. –

–           Perché? –

–          Non ricordare, fa’ che la storia di Aurora nasca al mattino e muoia al tramonto come la ninfea che lei volle nella sua villa. –

–             Ma perché vuoi questo? –

–            Non sono io a volerlo, ma lei. –

–            Ti prego, aiutami a capire! –

–            Perché questa storia appartiene a noi. Non vogliamo che la gente se ne appropri e come spesso succede aggiunga dell’altro. Vogliamo che rimanga così com’è, semplice, ma bella nella sua tragicità. –

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Questa terra del Sud che hai amato e fatto tua, ti ricorderà e continuerà a sperare che ci siano sempre alberi come te, che nei giorni di fuoco siano sempre buoni per dare refrigerio al respiro affannoso dell’uomo del Sud che fatica ancora a rendere magia alle notti e ai giorni del sole. E semmai un giorno un poeta dovesse accorgersi di te canterà l’incerto profilo del paesaggio che rendesti romantico senza mai interrompere giorni felici. Di Aurora e la sua triste storia non proferirà parole mai con nessuno, ma lascerà intendere con gli artifizi della poesia la storia, non svelerà nessun dettaglio e canterà dai muri altissimi del cielo la bontà degli alberi di pino.

E io, caro albero, non dimenticherò le tue parole che hanno impressionato il mio cuore a tal punto che ora vorrei porre fino all’amarezza delle ore che accompagnano il dubbio e dell’opprimente melanconia che mi circondano. Dovrò attendere altri alberi. Dovrò fare a meno del tuo respiro, dei tuoi silenzi di resina, della tua dolce compagnia che ha saputo raccontarmi la storia di una giovane che negli alberi ha cercato la vita e li ha amati sino alla fine. Ora sei vecchio, malandato, gli uccelli ti scansano, calvo, bruciato dal sole, eppure non dai segno di viltà, sei fiero, il sole ti ha forgiato acciaio. Ecco vorrei essere come te. Io che ho sempre paura, e la notte non dormo, e mi spaventa il buio, e tu mi dai coraggio.

Chiunque da questa storia vorrà trarne bellezza interiore legga queste pagine con pazienza e bontà, e non si ponga la domanda se la storia qui narrata allude a qualcosa di realmente accaduto in un piccolo paese del Sud. E voglia perdonare l’autore per eventuali omissioni e inesattezze.

Anteprima di un cielo in evoluzione

 

di Elio Ria
santa-caterina

 

Quanto mi piace osservare i cieli di Santa Caterina che discendono dall’alto della torre e accarezzano il mare; solleticano le onde affinché facciano baccano; distolgono sguardi; placano subbugli.

Di questa mia terra io sono innamorato e dei suoi silenzi di paglia annoto poesia.

 

La colonia estiva

villa tabor

di Elio Ria

Un venerdì del mese di luglio dell’anno 2011, durante la lettura della  Repubblica, il titolo “Colonie: sport, musica e niente cellulare, bimbi in vacanza come una volta attira la mia attenzione.

Va letto! Mi piace quel “come una volta”, a significare l’importanza delle cose di una volta.

Rovisto nella memoria e quanto sono riuscito a raccogliere ve ne parlo adesso, con la convinzione che se non vi annoierò, vi  avrò almeno resi partecipi di qualcosa che fa piacere ricordare. Nulla di speciale, soltanto semplici cose… di una volta.

I giorni della colonia, quei giorni ormai lontani erano belli. Negli anni Settanta, con un corredo fatto di piccole ed essenziali cose mi allontanavo dai miei genitori per trascorrere a Villa Tabor, località Cenate di Nardò,  un mese  di vacanza con altri ragazzi.

All’inizio tutti eravamo tristi e impacciati, ma con il passare delle ore ritrovavamo il sorriso e quel luogo sconosciuto si apriva lentamente per offrirci il meritato divertimento estivo. C’erano le regole da rispettare: l’alzabandiera mattutina, il canto, la preghiera, il silenzio, la messa.

La villa era gradevole, immersa nel verde con alberi di pino dritti e dalla chioma fluente; un viale conduceva alla chiesa e tutt’intorno uno spiazzo immenso delimitato da un muretto che non infastidiva ma proteggeva la  nostra permanenza. Si respirava serenità simile all’aria fresca e dolce di un mattino di primavera. Quando il sole alto s’apprestava a discendere sugli alberi, dileguandosi lentamente, con discrezione, e nel cielo apparivano i colori del tramonto, sedevo sul muretto a immaginare  respiri di luna.

Alle undici di mattina andavamo a Santa Caterina, scortati dalle signorine che in certe situazioni facevano fatica a contenere la nostra esuberanza.

Non eravamo abituati all’abbondanza delle cose; la fanciullezza era scandita da tante rinunce e quando riuscivamo ad avere qualcosa –  che comunque ci

Il rosa di San Mauro

di Elio Ria

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La chiesa di San Mauro, austera, solitaria e guardinga. Un monoblocco di cristiane speranze, scarno, allocato sulla “rupe dritta”, fra sassi secolari e sterpi spinosi. Il Sud ha tanto da raccontare di chiese e di santi. Sciocchi noi a non sapere ascoltare. Stupidi a non apprezzare la bontà di una chiesa così singolare e umile. L’attrazione del mare è più forte e la chiesa vive il tempo dell’eternità, sconquassato nei mesi estivi dai rumori della discoteca sita a valle, sulla strada  Sannicola-Lido Conchiglie.

Questa chiesa che per secoli ha vissuto nell’anonimato di un luogo, fra tante difficoltà, ha saputo resistere all’incuria degli uomini. Oggi però è alla ribalta della cronaca per un atto vandalico perpetrato da ignoti disonesti.

Quando ho letto sul sito Spigolature salentine la notizia che il tetto della chiesa era stato imbrattato da vernice rosa, istintivamente ho sorriso. Ciò non sia inteso però come atto d’irriverenza. Ho invero ritenuto il gesto inusuale e inaspettato e sotto certi aspetti simpatico, perché colorare di rosa il tetto di una chiesa è in sé un fatto originale. Ovviamente  questa mia riflessione è da condurre alle concezioni e forme proprie  della mia poetica e non vuole in nessun modo giustificare l’atto. Quanto è stato fatto alla piccola chiesa è deplorevole e inqualificabile. Forse l’autore del gesto voleva lasciare una traccia di sé, un segno che potesse soddisfare la sua voglia di testimoniare qualcosa, come a volere dire “io ci sono”, “sto qui”.  Forse ha voluto emulare qualcuno che solo pochi giorni fa si è distinto a Roma per un altro gesto simile. È necessario capire e intervenire per aggiustare meccanismi perversi di rappresentazioni di follie individuali e collettive.

Ora la chiesa di San Mauro è in sofferenza, e solo Dio nella sua infinita bontà può perdonare l’uomo che ha sfigurato il monumento e il paesaggio rupestre. Gli uomini facciano il proprio dovere, attivandosi immediatamente per riportare le cose come erano prima, affinché la chiesa possa continuare a perpetuare il sentimento religioso di quei monaci basiliani che intesero tanti secoli fa erigere con la pietra dura e forte della terra del sud.

Fra un sole d’estate e un’ombra di settembre

di Elio Ria

lunacalante

Non sopporto le ombre fragili del salice piangente che seppure delicate e innocue appaiono superbe per ingannare il sole di settembre in crogiuoli cromatici di arcobaleni e m’annoio di illusioni di autunno che sempre tra l’estate se ne sta e morire mi fa l’attesa di un guizzo d’inverno.

Ora me ne starò buono a comporre l’epilogo del sole che nell’ assopirsi consente alla notte di governare i destini e assoggettare a sé lune disperate.

Scirocco con le labbra di miele ad est del mare dello Ionio accudisci onde ribelli e nelle ore del desio accomodi lune infeconde. In disubbidienza alle stelle ti inventi notti dal passo lento per ritardare avvenire di giorno.

Rivelerò i miei versi nell’ora dell’addio alla musa che sopportò e tacque e immaginò per me giardini di serenità strappati ai demoni dell’inquietudine che mal sopportarono l’idea di un altro demone a dominare su di loro e nelle ore del pianto comprenderanno d’essere stati stolti.

 

da www.elioria.com

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