Libri| “Su canzoni mai cantate – poesie scelte (1994-2017)” di Cosimo Russo

“Su canzoni mai cantate – poesie scelte (1994-2017)” di Cosimo Russo

 (Musicaos Editore, Poesia 37, 2022)

 

di Renato De Capua

 

“Le poesie più belle mai le ho scritte

le ho lasciate lievitare nello stupore dello sguardo

custodite nello scrigno del non detto

prigioniere della gabbia amorevole del cuore

orfane di confine e di parole

le ho nutrite di silenzi”

(Cosimo Russo)

 

Ogni terra, tra i copiosi frutti che ospita fra le sue zolle, ha i propri poeti. Sono essi ad alimentare, con le loro opere e i loro giorni, l’humus culturale e identitario su cui si fonda un tessuto sociale, nonché a rendere uno spazio vasto, una sconfinata distesa feconda di messi.

Per tale ragione è importante leggere la poesia e raccontare i poeti; per far sì che il loro canto sia ancora udibile e che le parole da loro profuse, siano un invito a proseguire nell’andare.

Cosimo Russo

 

Su canzoni mai cantate[1], è la nuova pubblicazione postuma di Cosimo Russo, poiché racchiude un gran numero di poesie scelte in un arco cronologico che parte dal 1994 e arriva al 2017 (anno della sua prematura scomparsa). Il dato temporale è importante in quanto racchiude in sé una parabola poetica già compiuta, troppo presto sottratta alla vita, ma nel contempo ben dialetticamente definita. Il poeta ne era ben consapevole e infatti, poco prima di andarsene, confidò al fratello che sentiva di aver detto tutto quello che poteva mediante il linguaggio poetico e che da un po’ di tempo non stava più componendo poesie.

Cosimo Russo nasce a Gagliano del Capo il 26 giugno 1972 da Luigina Paradiso, bibliotecaria del paese, fervida lettrice dall’animo sensibile e appassionato; e da Umberto Russo, un imprenditore e un grande amante del mare e dei suoi silenzi. Cosimo, chiamato “Mimmo” dai familiari e dagli amici più cari, ha un fratello, Antonio, che è per lui una parte imprescindibile di sé e quindi motivo di interlocuzione poetica, così come le figure genitoriali.

La frequenza della biblioteca è un punto chiave nella formazione di Russo, poiché è lì che inizia a manifestarsi una certa propensione per la letteratura. Dopo aver conseguito il diploma da ragioniere, nel 1995 ha ventitré anni e trascorre un significativo soggiorno in Argentina, che non manca di tradurre in parola mediante la poesia; al suo ritorno inizia a partecipare alla vita culturale della città e pubblica l’unica poesia edita in vita dal poeta Il mio paese (1997), che gli vale una menzione di merito nell’ambito del concorso di poesia Premio Presicce “Poesia-Giovani”. Nel 2001 si laurea in Economia e Commercio all’Università del Salento, poi inizia un nuovo ciclo di studi in Giurisprudenza, che era riuscito quasi a terminare. In questi anni è cruciale la lettura di Girolamo Comi e la frequenza delle sale del suo palazzo di Lucugnano, dove è custodita la biblioteca del poeta. Comi è per Russo un padre spirituale, a cui dimostra una certa adesione e devozione, come un navigante che cerca con gli occhi le luci del faro di destinazione.

Nel 2002 sposa Lucia Ciardo e ha la prima figlia Sofia Luigina Maria; nel 2006 nasce la più piccola Chiara Maria.

Il 19 febbraio 2017, a causa di un’embolia polmonare, si spegne presso l’ospedale di Tricase. Ma prima di trasalire all’altra sponda del cielo, Russo aveva avviato un’attenta revisione dei suoi testi e comunicato ai suoi familiari l’intenzione di voler realizzare una silloge poetica. Così dal 2017 la famiglia Russo-Paradiso porta avanti, divulga con abnegazione e sacrificio, l’eredità di Russo uomo e poeta, consegnandolo ai lettori e alla storia letteraria.

Le sue poesie sono divenute argomento di ricerca, studio e interesse da parte di studenti, docenti universitari, cultori di lettere e di appassionati lettori.

Per comprendere pienamente la poetica di Russo, si deve tener conto del dato biografico. Alcuni motivi cruciali legati alla sua esistenza, divengono presenza costante nei suoi versi e motivo di riflessione e interrogazione poetica: il territorio e gli enti che lo abitano, l’amore, la famiglia, la vita, la morte, lo scorrere del tempo.

Ma a questi se ne potrebbero accostare molti altri; il lettore potrà scegliere quale strada percorrere.

Certo è che ognuno di questi temi merita un singolare approfondimento, per poter far luce negli orizzonti poetici di una figura che ha ancora tanto da dire.

Tutte queste immagini, inizialmente personali, confluiscono in un’atemporalità che può essere collettivamente condivisa. Se il Salento in questo contesto, come ha osservato Massimo Bray in apertura del volume, può essere interpretato come “il primitivo e archetipico ordinamento del suo mondo”, è anche l’immagine del luogo natio, del simbolo, della nostalgia, dell’inatteso, del ritorno nel quale sempre sperare nella lontananza.

La formazione letteraria e umana di Russo è sconfinata e poliedrica. Molti sono gli autori che sono stati per l’autore oggetto di studio e probabilmente ispiratori della sua linea poetica. Tra questi nella sua biblioteca figurano Antonin Artaud, Georges Bataille, Charles Baudelaire,Walter Benjamin, Jorge Luis Borges, Celine Louis-Ferdinand, Rimbaud, Osip Mandel’Stam, Ludwig Wittgenstein e molti altri[2].

L’enumerazione di questi grandi nomi della letteratura e della filosofia, può fungere da indicazione per chi volesse leggere in queste liriche la formazione di un grande poeta contemporaneo, in cui si compendiano il sentire letterario e l’indagine filosofica.

La prima lirica che apre la silloge illustra un tipico paesaggio del Salento e ha la funzione di condurre il lettore “nell’aria aperta/ tra gli ulivi e le/vigne/ e i fichi color di miele/ qui rigoglioso nasce il mio/paese”. Il paesaggio è dominato dalle case di calce bianca, da alberi di limone carichi di frutti; da un mare pigro che contempla la notte prima dell’alba. Successivamente, in un altro componimento, da uno sguardo più ampio che guarda il paesaggio, il lettore viene condotto tra le mura più intime e appartate della casa del poeta; è un luogo che Russo sente come quello dell’appartenenza per eccellenza, dove il suo spirito è “chiuso come una perla in un’ostrica” e può contemplare il fluire delle stagioni, dei loro colori e del tempo. Il poeta si presenta come un navigante errante poiché, come insegna l’immagine di leopardiana memoria della siepe ne “L’infinito”, un luogo fisico può sempre essere travalicato dall’immaginazione, dalla capacità creativa dell’uomo. Così è la stessa casa a essere fonte di materna rassicurazione, è l’unica in cui l’io lirico può aggirarsi come un principe e che continuerebbe a riconoscere, anche se gli venissero sottratti l’udito e l’olfatto. La sua casa è in grado di alleviare le sue sofferenze e di riscaldare il suo cuore. Quante volte abbiamo pensato alla nostra casa, dovendone essere lontani?

Un altro motivo ricorrente in Russo è la condizione del poeta e l’importanza della poesia. In “Le ali spezzate”, al poeta vengono spezzate le ali, non può innalzarsi ed è costretto a giacere su uno scoglio. Invoca la morte quasi fosse un atto di liberazione, verso un altrove, nuovi cieli in cui poter emanare il suo canto.

In questo passaggio è chiaro il riferimento a Baudelaire e al suo Albatro de “I fiori del male”, l’uccello dalle grandi ali che appare goffo e impacciato, quando viene imprigionato per scherno dai marinai. Infatti Russo è stato un grande amante dei maudits francesi e del loro fonosimbolismo ha saputo trarre gli strumenti per fornire una chiave interpretativa inedita della realtà.

Il lavoro di un poeta, come è stato spesso evidenziato, avviene nel silenzio della notte, quando “intorno è spenta ogni altra face,/ e tutto l’altro tace”[3] per dirla ancora una volta con Leopardi. Russo adopera due immagini suggestive per mostrare il lavorio del poeta. Nella prima è colui che si ripara “in un/ campo di stelle,” tra una e l’altra,/ pigre prede e/ cacciatrici del /silenzio.”;  nella seconda è colui che in estate riflette, medita, vive la vita, sempre con poesie nella mente.

Alcuni credono che la poesia sia inattuale e inadeguata a spiegare il tempo in cui viviamo; quest’asserzione può essere sostenuta soltanto da argomentazioni labili, fallaci e soprattutto superficiali. Il poeta americano George Carlin scrisse[4] che il problema del nostro tempo risiede nell’avere autostrade sempre più grandi, ma orizzonti mentali sempre più ristretti. Russo dimostra a noi tutti che la poesia è anche esigenza di riflessione sull’attualità, esemplificazione del paradosso del nostro tempo “Abbiamo immense/miniere di oro/ e d’argento/ innumerevoli/battaglie da vincere, /oggi abbiamo vinto?”.

Il quesito finale risuona d’imponenza, la domanda è formulata con puntuale chiarezza e indirizza un’eventuale risposta ai numerosi margini di perfettibilità a cui l’uomo dovrebbe pensare e tendere.

Nella lirica Plenilunio, Russo evidenzia poi il sottile e silenzioso meccanismo attraverso cui il mondo cambia ogni giorno, in maniera manifesta o piuttosto implicita. Mentre l’uomo guarda un plenilunio “la terra/si faceva/ carezza di metamorfosi”, poiché come enuncia una legge della fisica

“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. E così come quest’essere “carezza di metamorfosi” è inscritto nel destino e nell’essenza costituente dell’uomo, un’altra componente fondamentale e antropologicamente constatata è la tendenza a scoprire il nuovo, l’innata  curiositas, quasi un’attrazione fatale, l’ammaliamento di un canto.

“Siamo figli di Ulisse,/ crediamo alle cose per quanto sono lontane;/ e più sono lontane e più le carichiamo/di noi stessi.”

In questi tre versi Russo riassume la vicenda esistenziale di Ulisse che, secondo la mitografia e la rappresentazione dantesca (e quindi anche secondo l’immaginario medievale), aveva osato attraversare le colonne d’Ercole, sfidare quel limite di demarcazione imposto dagli dei, peccando di hybris (tracotanza).

L’uomo di oggi, secondo il poeta, discende da Ulisse, poiché tende a voler raggiungere ciò che è lontano e ciò che appare propenso a farsi carico di significati ulteriori. Così alla fine del componimento, s’ipotizza che forse tutta la vita sia una pura approssimazione, dove alla fine la testa e la croce della moneta hanno lo stesso valore. E forse tutta quella sete di conoscenza potrebbe ridursi all’essenziale.

La poesia è quindi per Russo strumento di designazione della propria identità, è l’unità di misura del tempo che è concesso a una vita.

L’uomo appare spesso disorientato, come se fosse sull’orlo di un dirupo. È qui che la poesia salva, e rende eterno l’attimo.

Come sottolineato dalla curatrice Cudazzo, l’agire poetico di Russo “vive di antitesi e antinomie”, di nessi ossimorici come ad esempio tempo-eternità; finitudine–infinito; limite–desiderio di oltrepassarlo. E anche quando il poeta tocca punti di natura pessimistica, il tutto non si conclude nel nichilismo, come ci si potrebbe aspettare, ma ogni cosa tende all’amore. Che sia per le piccole cose, per la natura, la famiglia o una donna, è sicuramente l’atto di amare, l’azione, il senso e il sentimento dominante nella poetica di Russo. Così come l’uomo tende a voler raggiungere ciò che appare lontano, difficile o remoto, allo stesso modo dovrebbe tendere all’amore, quello vero, puro e scevro d’infingimenti. È questo l’invito e il messaggio di fondo dell’opera di Russo poeta.

Ritorno ancora sul libro. Il titolo “Su canzoni mai cantate” è stato scelto dalla famiglia dell’autore e dall’editore. Le fonti che gli hanno concesso di prendere corpo e forma sono state fogli di manoscritti autografi, conservati presso la casa dell’autore, alcuni testi comparsi nelle due raccolte poetiche già precedentemente pubblicate “Per poco tempo” e “Ancora una volta”, scrupolosamente revisionati. È stata quindi fatta un’accurata operazione filologica.

Il criterio d’ordinamento dei testi segue una scansione cronologica, scandita in alcuni casi dalle date, in altri dalle variazioni dello stile e dei temi, per la delineazione di un compiuto disegno di poetica.

 

“Su canzoni mai cantate

muore la mia lingua

in note perdute su verdi

alberi

si nasconde il mio segreto.

 

Su gabbiani del mediterraneo

si muove leggero l’alito

delle onde.

(I rosai si sono bevuti

i silenzi della notte).

 

Su distese lattiginose divampa un’ansia

mentale.

Come granuli di seta gialla

dorme nel petto del mondo.”

 

Eppure la lingua di Russo non è destinata alla morte, ma è anzi un inno alla vita che si rinnova e nella cui speranza ognuno di noi deve credere. È infatti poesia che abita i luoghi anche materialmente, perché alcune epigrafi sono state collocate, in comune accordo con la famiglia e gli enti del territorio, a Gagliano del Capo, a Santa Maria di Leuca e nella Marina di Novaglie.

E così un viaggiatore che si trovi presso il Lungomare Cristoforo Colombo di Leuca può leggere, sognare e incantarsi con Leuca all’Alba, con la quale concludo queste mie note, aventi lo scopo dell’invito alla lettura e all’approfondimento.

Leuca all’alba

Sbucano col sole

Leuca

E le sue onde

e l’immobile

Faro

Riposa come muto.

[1] C.Russo, Su canzoni mai cantate- poesie scelte (1994-2017), a cura di Annalucia Cudazzo con interventi di Massimo Bray e Michela Biasco, Neviano, Musicaos Editore, 2022.

[2] Per l’elenco degli autori facenti parte della biblioteca personale di Cosimo Russo, è stata di fondamentale importanza la testimonianza della madre, Luigina Paradiso, a cui va il mio ringraziamento.

[3] G. Leopardi, Il sabato del villaggio, da I Canti.

[4] G. Carlin, Pensieri dopo l´11 settembre.

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