Alla mensa degli angeli: Storie di Ceramiche, Botteghe e vasai a Nardò tra i secoli ‘500 e ‘800, di Riccardo Viganò, Edizioni Esperidi
Prefazione.
Da quando l’umanista oritano Quinto Mario Corrado, nella sua opera letteraria intitolata De copia latini sermonis, pubblicata postuma, a Venezia nel 1582, con fierezza campanilistica, dedicava alla Città di Nardò e alle ceramiche qui prodotte, il suo famoso elogio[1], molta acqua è passata sotto i ponti e da allora nulla rimane a Nardò della sua tradizione di produzione ceramica pregiata come la Maiolica, nei secoli addirittura vantata, come anche nella popolazione che abita questo magnifico centro. Neanche il ricordo, niente, neanche una targa su un muro, in quella che una volta veniva chiamata la strada dei “Piattari”. D’altronde ora viene chiamata, come almeno da centosessantadue anni, via Pellettieri.
Nulla si è salvato. Le fornaci, le botteghe, le attrezzature; niente, a malapena gli stabili, ora riconvertiti da botteghe di “lavorar codime di creta”, in B.&.b, osterie, per altro ottime, libreria ed un cinema abbandonato e cadente. Solo una ricerca d’archivio ha fatto si che gli interpreti principali di questa storia escano dall’ombra come fantasmi di quei ceramisti e produttori di ceramiche che, attraverso i secoli, contribuirono a rendere quasi mitizzati gli oggetti da loro prodotti nella città di Nardò. Ombre di un non lontano passato, indispettiti dall’essere stati dimenticati in così breve tempo o, forse, solo desiderosi di essere scovati, ricordati, che tanto hanno fatto, nel loro piccolo, per non essere dimenticati.
L’importanza di questo centro produttivo, in confronto ad altri centri con tradizione e produzioni di livello popolare e a basso costo, è ancora una volta dimostrata da documenti di archivio che evidenziano l’alta qualità dagli oggetti della maiolica in stile “Compendiario” usciti da questi atelier. Difatti, alla fine del XVI secolo, alti prelati, e non solo, spendevano considerevoli somme (dire considerevoli è dire poco) per la realizzazione di “credenze personali” con la loro araldica personale non badando al prezzo. Uno di questi committenti spese ben cento ducati per essi e, se si pensa che una bottega ne valeva quaranta, questa spesa al giorno d’oggi si potrebbe paragonare all’acquisto di una macchina sportiva di lusso. Tali personaggi dimostrano la loro predilezione per questo centro produttivo che per altri centri più affermati della stessa regione, come Laterza.
Tale era l’importanza di queste produzioni, in quel periodo in terra d’Otranto che il nome di “Faenza-e” (maiolica) veniva eguagliato alla città di Nardò. I redattori dei documenti conservati negli archivi, dovendo specificare la diversa provenienza di alcuni manufatti, per indicare quelli prodotti agli atelier neretini usano semplicemente il termine “faenza” come se si desse per scontato che esso fosse sinonimo di un prodotto “made in Nardò”.
Comunque non si può, nel ricostruire la storia di un importante centro produttivo di ceramica di pregio in terra d’Otranto come Nardò, escludere dalla narrazione l’importanza del trasferimento di maestranze qualificate, avvenute in un arco temporale che copre i secoli XV e XVIII. Queste figure sicuramente si attestarono in questo centro, il quale doveva avere da tempo una lunga tradizione nelle produzioni ceramiche. Già nel 1995 l’Archeologo Giovanni Mastronuzzi ipotizzava l’esistenza di un atelier neretino attivo agli inizi del III secolo a.C. Inizialmente queste maestranze estranee al tessuto sociale neretino, si insediarono in questo centro, quasi sicuramente al seguito dei primi Acquaviva, feudatari di Nardò. Con il trascorrere del tempo si fusero con la popolazione locale diventandone un tassello importante, non solo economicamente ma anche socialmente. E quando esse abbandonarono la loro arte, per estinzione della famiglie o perché diventate classi agiate, la fama di questo centro che lentamente si stava estinguendo attirò come uno splendido Faro altre famiglie da altri centri con eguale tradizione. Riattizzandone con le loro fornaci alimentate da legna e nocciolo di olivo, fuoco e fama. Purtroppo saranno queste fiamme ad alimentare gli ultimi bagliori di gloria di queste produzioni, sicuramente sconfitte da quella che fu chiamata Prima Rivoluzione Industriale; l’impiego di una tecnologia avanzata, difatti, sancì, per alcune produzioni di un certo pregio, l’abbandono del tornio per l’adozione dello stampo e ciò permise la produzione in serie, il nuovo prodotto non fu più esclusivamente rivolto a una classe benestante ma divenne accessibile anche ad una fascia di mercato media. Il calo della qualità e il progressivo dislocamento dei centri fornitori di questa materia al di là della regione segnarono la decadenza della ceramica prodotta a Nardò e non solo. I famosi descrittori salentini dell’Ottocento, con l’intento di descrivere le realtà territoriali in modo “esplorativo”, a proposito di Nardò non esitarono difatti a scrivere che ”appena v’è qualche figulo che modella sul tornio delle stoviglie grossolane che ricava con l’argilla” ovvero ne testimoniarono palesemente la decadenza di un’arte antica che tanto lustro aveva dato al Salento.
[1] Proxima faventini hodie Neriti fiunt, quae urbs est antiqua salentinorum. Hic non dure haut parum Latinae putem, quibi faventinus aut neretinis, aut vasis coenatum esse dicat . Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, 1581.