Il Risorgimento italiano. La sottomissione e l’umiliazione dei meridionali

Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma
Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma

 

di Rino Duma*

Il plebiscito-farsa

Dopo l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli, l’annessione del Meridione al Regno di Sardegna fu legittimata istituendo un plebiscito-farsa per ottenere dagli stati europei il loro beneplacito, ammantando ogni cosa con una veste di legalità. Il 21 ottobre 1860,il popolo duo-siciliano fu chiamato ad esprimere il proprio parere sull’annessione al Regno di Sardegna. Come era nelle previsioni, gli elettori si dichiararono favorevoli a larghissima maggioranza, legalizzando in tal modo il passaggio della sovranità dai Borbone ai Savoia.Ad onor del vero, al plebiscito partecipò solo il 19% della popolazione attiva, rappresentato esclusivamente dalle classi sociali agiate, soprattutto borghesi, buona parte delle quali era di stampo liberale. Nonostante ciò gli elettori furono costretti ad esprimere il voto palesemente, deponendo la scheda in una delle due urne, contrassegnate dal “sì” e dal “no”. Solo poche migliaia di persone, fedeli alla loro terra e al sovrano deposto, ebbero il coraggio di dissentire, ma furono irrise, minacciate e, in alcuni casi, picchiate e uccise.C’èda aggiungere che furono in molti, garibaldini compresi, a votare più volte, specialmente nelle grandi città. La stragrande maggioranza della popolazione, però, quella che aveva un reddito molto basso, quella abituata a curvare la schiena per dodici ore al giornonei campi, nelle industrie, nei cantieri, nei porti,quella popolazione, cheaveva a cuore re Francesco, venneinopinatamente esclusa dal voto.

Il plebiscito, insomma, fu un volgare e meschino imbroglio, degno solo della peggiore “mafia”, quella dei “colletti bianchi”, della quale i piemontesidell’epoca furono i precursori, lasciando un solco ben profondo dentro cui i futuri governi si mossero non sempre nell’interesse del popolo e delle parti sociali più bisognevoli.

Con l’unificazione dell’Italia, i governanti di Torino pianificarono scientificamente il declassamento della società civile del Sud.

 

La destabilizzazione di uno stato-moderno

Impossessatisi proditoriamentedel potere, i piemontesi cambiarono di colpo i connotati all’ordinamento giuridico, fiscale, economico, istituzionale, sociale e, soprattutto, di vita del Meridione. Furono immediatamente rimossi i magistrati di ogni livellogiudiziario, tranne quelli di comprovata fede piemontese, i questori, gli intendenti e i sovraintendenti, i prefetti, i comandanti di importanti presidi militari, i direttori dei maggiori uffici statali. I principali personaggi della vita pubblica d’un tempo furono sostituiti da funzionari piemontesi o lombardi. I sindaci furono catechizzati ad adoperarsi pro bono pacis e a sedare in ogni modo e con ogni mezzo le varie contestazioni locali, pena l’esclusione da eventuali sussidi nazionali.

Il sistema fiscale borbonico esonerava dal pagamento dell’imposta sul reddito le classi sociali meno abbienti, mentre prevedeva per quelle più agiate il pagamento di un unico tributo per singolofuoco(nucleo familiare). Tale sistema fu sostituito da un focaticoche colpiva tutte fasce reddituali, anche quelle più basse, che erano tassate in base al numero dei componenti di ognifuoco e in proporzione al reddito prodotto.

Furono istituite le famose ed inique tasse sul macinato e sul sale, che non tutti i cittadini riuscivano a sopportare. Furono creati ex novo balzelli, gabelle, dazi e piccole imposte che tartassavano in continuazionela vita quotidianaad ogni livello.

L’aspetto, però, che, più d’ogni altro, determinò una protesta di grande e grave portata fu l’istituzione della leva militare obbligatoria di cinque anni. Vale la pena ricordare che con i Borbone il servizio militare non era obbligatorio, bensì volontario. Questa inaspettata imposizione comportò un improvviso calo della manodopera nelle campagne, nelle officine e nelle industrie, che, per buona parte, furono costrette a ridimensionare sensibilmente la produzione. Ciò determinò, nel giro di poco tempo, un calo consistente della florida economia agraria ed industriale del Mezzogiorno.

Pian piano andò aumentando tra i giovani la contestazione ed ilrifiuto di prestare l’iniquo servizio di leva. Molti di loro subirono gravi processi penali e l’incarcerazione nelle fredde prigioni di Fenestrelle, nell’alto Piemonte, nelle quali, in precedenza,erano finiti i soldati borbonici che si erano rifiutati di passare nei ranghi dell’esercito italiano. L’unica possibilità per i renitenti era rappresentata dalla latitanza nei boschi, dove in tanti impugnarono lo schioppo e diventarono “briganti”,non per derubare ma per difendere la loro terra dallo straniero, come più tardi fecero i “partigiani” contro i tedeschi a tutela del suolo patrio.

 

Il fenomeno del brigantaggio

Già mezz’anno dopo l’Unità d’Italia, in diverse zone del Meridione, iniziarono a costituirsi bande armate di giovani renitenti, contadini e manovali senza lavoro con l’unico intento di riportare sul trono re Francesco di Borbone. Le prime schermaglie videro quasi sempre prevalere le bande brigantesche, che attaccavano drappelli di carabinieri in perlustrazione,tendendo loro degli agguati, per poi ritirarsi repentinamente nei boschi. I militari italiani subirono pesanti perdite, tanto che il governo centrale fu costretto ad adottare nuove strategie, rafforzando i servizi di pattugliamento e richiamando nel Meridione un esercito di centomila soldati. Fu inoltre approvato in Parlamento il disegno di legge del deputato abruzzese, Giuseppe Pica, che prevedeva condanne capitali nei confronti dei renitenti alla leva, di coloro che fornivano armi, viveri ed ogni sorta di aiuto ai briganti. La lotta si inasprì a tal punto da culminare con la distruzione di interi paesi, dei quali ricordiamo Casalduni e Pontelandolfo. L’ordine impartito dal famigerato gen. Enrico Cialdini ai suoi soldati fu quello di “non lasciare pietra su pietra”. Furono compiuti atti di estrema e inaudita violenza: i maschi fucilati, i bambini e i vecchi sgozzati, alcune donne, quelle belle tanto per intenderci, violentate a più riprese e, a spregio, infilzate con la baionetta nella vagina. Si vantò dell’impresa il crudele generale, esaltando le gesta dei suoi soldati e definendo i meridionali con una frase che rappresenta il razzismo più becero ed umiliante che nessuna pacificazione futura potrà mai cancellare.

Questa è Affrica(sic), altro che Italia!… I beduini, a riscontro con questi cafoni, sono latte e miele!”.

 

L’aggressione al sistema monetario

Abbiamo avuto modo di ricordare in altre sedi che la grande ricchezza monetaria borbonica, secondo quanto dimostrato in Parlamento dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Francesco Saverio Nitti, ammontava a 443,2 milioni di lire-oro (si badi che ogni lire-oro pesava ben 4,5 grammi di oro e che oggi il suo valore equivarrebbe a non meno di 170 €). Se si prova a moltiplicare i milioni di lire-oro per il valore dellasingola lira si ottiene il considerevole importo di oltre 75 miliardi di euro. Chi scrive è dell’avviso, però, che non si trattava di lire-oro, ma di ducati d’oro, ognuno dei quali pesava 19,109 grammi e valeva intorno a 700 euro. Se ora proviamo a rimoltiplicare per questo nuovo valore, ci troviamo di fronte all’iperbolico importo di oltre 300 miliardi di euro! Comunque sia il fiume di denaro servì a coprire una minima porzione dell’enorme debito pubblico piemontese. La rimanenteparte, che ammontava a ben 120 milioni di lire-oro, fu equamente distribuita a tutti i cittadini del neo stato unitario.

Nel Meridione d’Italia, al posto del ducato, fu introdotta la lira-oro, che rimase in circolazione solo per pochi anni; in seguito fu sostituita da quella cartacea, che subì ripetutamente una continua svalutazione.

 

L’aggressione al sistema economico

Anche il sistemaeconomico subì un violento attacco. Agli inizi del 1863, l’immenso stabilimento metallurgico di Pietrarsa fu concesso in affitto, per 30 anni, alla modica somma di 45.000 lire, all’imprenditore Iacopo Bozza, vendutosi anima e corpo al nuovo governo.Per incrementare i profitti, il nuovo padrone ridusse drasticamente i posti di lavoro e la paga oraria, mentre aumentò le ore lavorative giornaliere per ogni operaio. Tali iniqui provvedimenti determinarono, come logica conseguenza,l’indizione di scioperi, da cui sfociarono gravi disordini repressi nel sangue. Il 6 agosto 1863 una carica di bersaglieri provocòla morte di 7 operai e il ferimento di 20.In seguito l’industria si riprese, ma mantenne dimensioni ed ambiti alquanto modesti.

Anche i grandi stabilimenti siderurgici di Mongiana in Calabria conobbero la stessa sorte. L’acciaio calabrese era il migliore in Europa, tanto da far invidia agli stessi inglesi, che se ne approvvigionavano in continuazione. Subito dopo l’Unità d’Italia, il governo italiano preferì ridimensionare gli efficienti stabilimenti della “Ruhr calabrese”, per favorire lo sviluppo di altre industrie del settore sorte nel nord. Gli stabilimenti calabresi, insieme alle vicineminiere di limonite (minerale di ferro), furono svenduti all’imprenditore calabrese Achille Fazzari, che tentò in ogni modo di riattivarli, impegnando tutte le sue risorse finanziarie ed assumendo ben duemila operai. Dopo alcuni anni di sacrifici e in mancanza di aiuti governativi, fu costretto a ridimensionare di molto l’attività, sino a chiuderla definitivamente.

Un consistente ridimensionamento subirono i cantieri navali di Castellammare di Stabia, le grandi cartiere campane, il setificio di San Leucio e i numerosi opifici dell’indotto. Lo stesso porto di Napoli, un tempo affollato di bastimenti e piroscafi commerciali, in entrata e in uscita, conobbe una crisi lenta ed inesorabile.

Furono in tante le maestranze, insieme ai moderni macchinari, ad essere trasferiti nelle industrie del nord. Furono in tante le opere d’arte trafugate dai palazzi reali e nobiliari per arredare quelli del nord e, perfino, i loro musei.

Tra i tanti provvedimenti scellerati adottati dal nuovo governo sono da ricordare l’incentivazione riservata ad aziende settentrionali ad investire nelle industrie e nel commercio del Sud, la privatizzazione del settore industriale pubblico, l’eliminazione dei dazi borbonici sull’importazione, che comportò il crollo del commercio internazionale ed interno. Scelte inopportune che determinarono il drastico ridimensionamento della produzione, la chiusura di diverse fabbriche e il conseguente licenziamento di migliaia di lavoratori.

In pochi anni, insomma, la grande economia del Sud fu costretta ad inginocchiarsi e a conoscere l’onta dell’umiliazione e della povertà.

Allo smisurato e incolmabile danno, seguì un’atroce e meschina beffa. Uno strisciante ed ignobile terrorismo psicologico s’insinuò nella coscienza della gente del Sud, che arrivò perfino a gratificare i loro stessi persecutori, considerandoli ed acclamandoli alla stregua di salvatori e benefattori. Attraverso la sistematica falsificazione della verità storica fu esaltato il mito risorgimentale. I giornali, le riviste, i romanzi, le commedie, i racconti, le canzoni, le opere letterarie e musicali, e, soprattutto, i libri di storia rappresentarono gli strumenti che fecero, apparire “vero” il “falso” storico. E ci riuscirono.

 

L’emigrazione

Dal 1863 in poi iniziarono i “viaggi della speranza”. Molti meridionali, per far fronte alla povertà e ai seri problemi ad essa collegati, decisero di abbandonare il loro paese e partire “per terre assaje luntane”, nella speranza di trovare un lavoro e una vita più dignitosa. Con un carico di poche valigie, interi nuclei familiari s’imbarcarono su bastimenti, vecchi e fatiscenti, verso “la Mèrica”, tutti ammassati in coperta, alla stregua di animali, per giorni, per mesi, privi di un ben che minimo supporto igienico, con due pasti quotidiani poco energetici, con una latrina comune situata in una zona non molto riservata del ponte, con un paio di infermieri che facevano da medici, con gli occhi protesi sempre all’orizzonte alla ricerca spasmodica della terraferma, che forse li avrebbe riportate a nuova vita.

Alcuni piroscafi affondarono a seguito di violente tempeste, ad altri non fu concesso di attraccare in porto perché a bordo vi era un’epidemia di colera o di tifo, altri ebbero la fortuna di approdare e di scaricare il prezioso “oro umano”, comprato a basso prezzo da mercanti senza cuore. Furono in molte le famiglie a patire le stesse sofferenze italiche. La gente si arrabattava alla meglio, viveva in squallide stamberghe prive delle essenziali condizioni di vita, mangiava cibo di scarsa qualità e si copriva con luridi stracci. Solo in pochi ebbero la fortuna di affermarsi e di costruirsi una vita adeguata alle loro aspettative.

In cinquant’anni di emigrazione, ben 10 milioni di italiani abbandonarono la loro patria. Di questi, la maggior parte erano meridionali, veneti e friulani, una modesta parte di altre regioni, anche del Piemonte. Solo nel 1915 la partenza verso le Americhe s’arrestò come d’incanto. I giovani, però, partirono ugualmente verso un destino ancora più crudele del migrante, partirono per la “Grande Guerra” per essere utilizzati come “munizioni” da mitraglia e palle da cannone contro gli Austriaci, a difesa di interessi e privilegi dei “Savoia”, che portarono,in settant’anni di regno, miseria e lutti alla maggior parte degli italiani. Poi, terminata la guerra, l’emigrazione riprese intensa sino alla fine degli anni ’60… e furono in tutto 14 milioni di disperati, sparsi in tutto il mondo.

Conclusione

Gentili lettori, la storia che vi ho raccontato non è affatto una storia inventata, né tantomeno una storia di parte, bensì una storia realmente accaduta e che mai alcun libro di scuola ha inteso ricordare e tramandare alle giovani e fuorviate generazioni di oggi.

Ora che avete letto i miei brevi scritti, vi invito a soffermarvi per qualche minuto, a meditare e a trarre le dovute riflessioni. Fatelo senza dare ascolto all’ingannevole richiamo che viene dalla vostra diversa appartenenza territoriale, politica, religiosa, sociale. Se lo ritenete opportuno, andate a consultare un buon libro di storia, oppure fate delle ricerche approfondite su Wikipedia. Vi accorgerete che le mie affermazioni non sono dettate da ragioni faziose, ma sono sacrosante e rispondono al vero. Perciò, continuate a meditare e, se potete, calatevi per qualche attimo nei panni di quella poveragente del Meridione che all’improvviso si trovò a subire l’occupazione straniera e a vivere un dramma epocale.

Fatelo – vi prego – anche se vi costerà molta fatica e susciterà in alcuni di voi rammarico, rincrescimento e rabbia. Solo in questo modo potrete capire quanto ebbero a soffrire le genti del sud e quanto ancora si facciano sentire, a distanza di 150 anni di Unità,alcunediscriminazioni sociali tra le varie genti italiche. Dispiace dirlo, ma oggi siamo molto distanti dal considerarci “Fratelli d’Italia”. Ciò nonostante “W l’Italia!”.

*Pubblicato su  “Il filo di Aracne”

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11 Commenti a Il Risorgimento italiano. La sottomissione e l’umiliazione dei meridionali

  1. Ho sempre ammirato la Fondazione Terra d’Otranto e il suo principale ideatore ma, francamente, la pubblicazione di quest’articolo mi lascia abbastanza basito. Sono sincero, l’articolo mi sembra alquanto tendenzioso, sulla scia di un giornalismo impacchettato e ‘pseudoneoborbonico’ alla Pino Aprile (che dal suo Terroni e altri testi simili credo l’autore abbia tratto le maggiori notizie). I fatti della storia non vanno visti solo uno accanto all’altro (vedendo solo ciò che si vuole vedere) come un puzzle che ognuno può costruirsi a suo piacimento. Per di più utilizzando quasi esclusivamente un’ottica (del tutto particolare) del 2016, cioè a posteriori di un secolo e mezzo sui fatti risorgimentali. Sarebbe il caso, invece, per uno studio serio, di vagliare tutte le strade a disposizione e, magari, possibilmente, calarsi nel contesto risorgimentale vero, con fonti di ogni tipo che stanno a testimoniare che le cose sono state un po’ più complesse. Le tesi trite e ritrite di un Sud solo e unicamente martoriato, sottomesso e umiliato non ci fanno onore. Il mito dei Borboni come grandi padri e protettori della gente meridionale fa anche un po’ sorridere. Basterebbe leggere un qualunque studio serio ed equilibrato (sul tipo di quelli pubblicati ad esempio da uno storico di levatura come Giuseppe Galasso) per rendersi conto di quanto sia complessa la vicenda, così che essa non può ridursi alle tesi di un Pino Aprile qualunque, il quale essendo in prima istanza un giornalista, non mi sembra esattamente un ‘fulmine di guerra’ nell’utilizzo di un metodo storico serio e meditato. Mia personalissima opinione, naturalmente. Siccome però ho molta simpatia per la Fondazione e tutta la sua produzione culturale, tenevo a dire che sono rimasto un po’ dispiaciuto per quest’articolo che mi sembra un po’ arbitrario. Infine resto convinto che la principale responsabilità dei mali del sud sia da attribuire (con buona pace dei neoborbonici) agli stessi “uomini del sud”.

    • Giovanni apprezzo molto la tua sincerità e ringrazio per la stima. L’articolo proposto è ultimo di una serie pubblicate sulla rivista “Il filo di Aracne”, che ci ha gentilmente messo a disposzione i suoi scritti per rieditarli sul sito. Rieditarli non presuppone la condivisione dei contenuti, che restano sempre degli Autori. Fare propria ogni asserzione per ogni post pubblicato è ben lontano dalle nostre intenzioni. Chi ne risponde è sempre lo scrittore, con il quale ci si può confrontare nello spazio dei commenti, accessibile a tutti..

    • Pochi giorni fa sul sito è stato pubblicato un articolo, questa volta a caratttere artistico, che ha sollevato non poche divergenze tra diversi amici. Da qui a pensare che la fondazione possa fare sue tutte le ipotesi ce ne vuole, e non è in grado di affronatre i tanti aspetti che ogni post offre, Sono dell’idea che appunti come il tuo, che comunque apprezzo molto, anche per la stima che riservo nei tuoi confronti, tornano utili al lettore e diventano essi stessi motivo di riflessione e di sprone ad accertare e verificare, oltre che integrare, quanto offerto

    • Fondazione Terra d’Otranto no no ma certo, per carità, proprio perché vi rispetto molto e so che siete gente seria, mi sono permesso di fare un commento. Sulle pagine neoborboniche vere (ce ne sono di deliranti, al pari di quelle del Veneto padano etc. etc.) nemmeno spreco fiato. Naturalmente il commento non voleva essere un attacco a voi della redazione. In effetti la Fondazione non può essere equiparata ad un quotidiano (o a una rivista scientifica) che invece ha il sacrosanto dovere (pur nel rispetto della libertà di pensiero e di opinione di ognuno) di vagliare la veridicità di tutti gli scritti di chi pubblica. Di questo me ne rendo conto. Nello scritto pubblicato restano comunque numerose inesattezze che non sono simpatiche né corrette da propinare a chi magari non è strettamente un addetto ai lavori e, per mancanza di strumenti critici, potrebbe facilmente prendere per oro colato ciò che è scritto. Non mi sembra vada nel verso di una critica storica sufficientemente accorta la maniera con cui si parla del plebiscito, del sistema monetario, la maniera con cui si affronta un tema molto complicato come il brigantaggio, o il ‘caso’ Fenestrelle. Uno storico molto serio come Alessandro Barbero, ad esempio, ha peraltro dimostrato, con fonti storiche attendibili, che Fenestrelle non fu ciò che comunemente i neoborbonici ancora amano credere sia stato. Molto ‘giornalistico’ e fine a se stesso, infine, parlare di una “Ruhr calabrese”, che in questi termini, a quanto mi risulta, non è mai esistita. In questa maniera si deviano non di poco i contenuti a danno di quei lettori, che per vari ragioni, si ritrovano a credere come storicamente corrette le cose che si pubblicano.

    • Non diciamo cavolate, il sud è sempre stato piu povero non c’èrano ne strade ne ponti le case erano di paglia.Chi si sposava, la prima sera doveva far dormire la futura sposa dal conte del castello più vicino . LA legga un poco meglio la STORIA . L’ Italia è sempre stata dominata , francia spagna austriaci tramite i vari papi . CON ossequi ANTONIO FAVALE .

  2. Condivido il giudizio di Giovanni Lacorte sui contenuti dell’articolo. Purtroppo, a mio modo di vedere, ci troviamo di fronte ad una tendenza divulgativa (di storico ha poco o niente) che ha in Pino Aprile l’esponente per eccellenza e che vuole descrivere il Regno delle Due Sicilie come uno stato ricco, pronto ad un imponente sviluppo industriale, militarmente potente, ecc. ecc. Niente di più fuorviante, anche se non bisogna dimenticare quali siano stati, in effetti, i numerosissimi errori dei Savoia e della classe dirigente piemontese e poi Italiana. Per comprendere questi errori, tuttavia, Pino Aprile e seguaci è quanto di più inutile: sono indispensabili analisi critiche, come quella di Galasso appunto, di Villari, di Mack Smith,… e di tanta letteratura anche di carattere non storico (De Roberto, Verga….).
    Apprezzo tuttavia il fatto che la Fondazione, come sempre, dia voce a tutte le posizioni possibili, anche quelle non propriamente scientifiche. Tutte le opinioni sono importanti e averne alcune non scientifiche e confutabili, rende più efficace la loro critica e, di conseguenza, finisce per indebolirle…sempre che si abbia la pazienza di studiare senza farsi trascinare dalle facili lodi di (fantomatici) bei tempi oramai passati.

  3. Strano che io abbia da sempre avuto la stessa visione di Fondazione Terre d’Otranto, forse perchè ho letto molto e ho scoperto le falsità dei libri di storia, perchè la storia non la scrivono solo i vincitori ma pure i truffatori. Condivido quanto hai scritto, e anch’io a volte tento di divulgarlo, e non sono del sud, ma sono super partes. Grazie per l’articolo.

  4. Proviamo a seguire l’articolista nei suoi calcoli. Nelle casse vi erano 443,2 milioni di “lire-oro”, ciascuna delle quali del peso di 19,109 grammi, Una semplice moltiplicazione consentirà di scoprire la quantità d’oro posseduta secondo questo “storico” dal Regno delle Due Sicilie e di confrontarla poi con le riserve auree degli stati che ci sono noti. Non eseguo io l’operazione per lasciare ai lettori il piacere della incredibile scoperta.

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