Natale ai tempi della crisi

rivelazioni_natale03

“Se qualcuno ruba un fiore per te, sotto sotto c’è crisi”

Toromeccanica

 

di Paolo Vincenti

Come ogni anno, arriva Natale, dopo che la spoliazione fiscale di acconti e saldi ha ridotto sul lastrico gli italiani e che la legge di stabilità ha spento anche quel barlume di speranza che pochi incorreggibili ottimisti conservavano. L’augurio che sovente si fa è che il Natale possa durare tutto l’anno. Beh, di questi tempi, oserei dire che non sia una prospettiva auspicabile. Anzi, c’è da augurarsi che il periodo natalizio passi al più presto senza troppo ferire, almeno dal punto di vista economico. Perché fra allestimenti natalizi, regali e regalini da dispensare a destra e a manca, spese per pranzi e cene dei giorni festivi, andrebbe in fumo ben più della tredicesima che gli italiani hanno già consumato prima di ricevere. Ad esser cattivi, si potrebbe dire, come lo Scrooge, di Dickens: “Buon Natale! In giro ad augurare Buon Natale! Che cos’è il Natale per te se non il momento per pagare i conti senza avere i soldi, il momento in cui ti trovi più vecchio di un anno e non più ricco di un’ora? Un momento per fare il bilancio e vedere che ogni voce, nel giro completo di dodici mesi, è in passivo? Se potessi fare di testa mia, ogni idiota che va in giro con Buon Natale in bocca dovrebbe esser bollito insieme al suo pudding e sepolto con un paletto di agrifoglio che gli trafigga il cuore. Proprio così!”.Ma chi è buono, come il Tenerone del Drive In, come fa a rinunciare a quelle consuetudini, a quei simboli, che da sempre fanno parte del Natale, la festa più magica dell’anno? Oggi esistono i presepi preconfezionati o elettronici che non richiedono alcuno sforzo di fantasia e di realizzazione. Si tirano fuori dal cellophane nel quale erano stati impacchettati e si sistemano ai piedi dell’albero di Natale o, a mo’ di soprammobile, su qualsiasi componente d’arredo della casa. Tutt’altra cosa, il presepe tradizionale, realizzato dalle amorevoli mani di papà e mamma, magari con l’aiuto dei figli, ed esposto in una posizione centrale della casa. Vuoi mettere la soddisfazione (non frustrata, come quella di Eduardo in “Natale in casa Cupiello”) ed anche la componente aggiunta di poesia e romanticismo, di fronte ad una scala che non tiene, al laghetto di carta stagnola un poco raggrinzita, alla fontana da cui, mentre dovrebbe farlo, l’acqua non zampilla, proprio quando si vorrebbe esporre, fieri, a parenti e amici, i frutti del proprio lavoro? Quand’ero ragazzo, il presepe si sistemava nell’angolo più in vista della casa e sembrava un patchwork , perché i pupazzi erano quasi tutti di colore e grandezza diversi , in quanto riciclati o frutto di regali negli anni da parte di nonni e parenti, e quando proprio veniva a mancare un pezzo importante, come un re magio, o una pecorella o la fontana dell’acqua, allora si andava a comprali dal maestro puparo (almeno uno per paese ve ne era, mentre oggi questo mestiere sopravvive solo a Lecce). Così anche per l’albero di Natale, che non aveva niente a che fare con quelli sintetici e stilizzati che compaiono oggi nelle nostre case, ma era sempre un albero naturale, agghindato con grossi e lunghi nastri e grandi palle, tutte rigorosamente disassortite perché ereditate dagli anni precedenti; e quanto più passavano gli anni e le decorazioni si usuravano, più queste apparivano meravigliosamente fuori dal tempo e da ogni moda. Io li contemplavo con gli occhietti luccicanti come il cielo di carta stellata, mentre con tutta la famiglia eravamo seduti intorno al tavolo a mangiare. Ma oggi che c’è crisi, non ci si può permettere l’essenziale, figurarsi il superfluo. Dunque, a quanto pare, bisogna ritornare proprio a quei tempi del passato in cui si viveva più semplicemente, prima del grande boom pacchiano e omologante che ha ingrassato la società fino agli anni Duemila, affogandola in una melassa di cibo spazzatura e trigliceridi, ricchi premi e colesterolo, centri benessere e finanziamenti a pioggia. Bisogna rivalutare le vecchie ricette povere, quei dolci della tradizione che si possono realizzare in casa con poca spesa e molto resa. E per fare di necessità virtù, un ottimo rimedio sono le pittule (e a chi non le sa fare, mal gliene incolga). Te la Maculata, la prima pittulata: già dall’8 dicembre si può iniziare a preparare queste gustose sfizierie. Vero che oggi le pittule (orrendamente italianizzate in pettole) si trovano in tutti i periodi dell’anno perché per i turisti fanno tanto “love Salento”, quindi hanno un po’ perso il valore tradizionale natalizio, ma pazienza. Le pittule possono essere semplici o ripiene di cavolfiore lesso, di cime di rape lesse oppure , con pomodorini, cipolla olive nere e peperoncino, oppure ancora, e sono quelle che io preferisco, dolci, zuccherate e ripiene di mela. Non possono mancare i caranciuli,dei bastoncini grossi quanto un dito, tagliati a tocchetti, avviluppati di miele e cosparsi con cannella e confettini ( questi, fino ad ora, a luglio ce li hanno risparmiati). I caranciuli, anche detti purciddhuzzi, perché hanno la forma del muso di un porcellino, fritti in olio bollente e decorati con confettini, sono una ricetta di derivazione persiana, portata dagli Arabi in Spagna e poi dagli Spagnoli in Puglia. Dunque, meno Pandori (troppo costosi) e più carteddhate (così economiche)!. Straordinariamente buone sono pure le pucce e i taraddhi che hanno il doppio vantaggio di potersi fare in casa e di unire intorno alla loro preparazione, la suocera con la nuora, la sorella maggiore con la sorella minore, magari il marito con la moglie, la nonna con la commare o la vicina di casa, ecc. E per brindare? Lo spumante costa troppo (non parliamo dello shampagne), e allora più rosoliu per tutti! Se ne è perduta la memoria, ma il rosoliu era un liquore zuccheroso fatto in casa, che suggellava l’abbondantissimo cenone della vigilia. E per quanto riguarda il cenone? Federconsumatori fino a qualche anno fa snocciolava delle cifre folli, quelle di media che spendono gli italiani per la cena della vigilia. Ma oggi c’è crisi e bisogna economizzare (i taccagni sorridono compiaciuti, come Bruno Vespa davanti al plastico di Cogne). Meno apparenza e più sostanza. Per mascherare le ristrettezze economiche si potrebbe essere oltranzisti e darsi arie da intellettuali snob e per niente esterofili (ma in epoca di globalizzazione appare anacronistico e soprattutto la vedo difficilissima farla passare ai figli). Si potrebbe cioè, in un rigurgito nazionalista e farisaico, richiamarsi all’ortodossia, al rispetto delle tradizioni autoctone, mettersi a inveire contro le mode importate come l’albero di Natale, affermando che in casa propria un simbolo dello spreco, dell’opulenza e della colonizzazione culturale americana non lo si vuole. Il rischio che si corre è che i famigliari possano chiedere un t.s.o. urgente e i vicini denunciarvi con furore maccartista come spia sovietica. Ci si potrebbe spingere ancora più in là: per eludere l’attesa notturna di Babbo Natale e la conseguente distribuzione di doni, elucubrare che il simpatico e rubicondo vecchietto dalla barba bianca altri non è che il Santa Claus statunitense inventato ed inviato dalle multinazionali americane in the world per incentivare i consumi e che quindi noi non siamo mica dei sudditi inermi e proni ad avallare un sistema perverso, in una resa totale ai padroni del vapore. E se poi la moglie o i figli chiedono di andare a fare una visita ai mercatini di Natale, a scoraggiare eventuali velleità consumistiche, si potrebbe rispondere che sì, va bene la passeggiata in giro per le bancarelle, ma tenendo conto che i mercatini sono una tradizione nordica (tedesca e austriaca ), solo importata qui da noi. Che c’azzecca il vin brulè con la nostra terra salentina negramara? Meglio un buon bicchiere di malvasia. E i wurstel ? Meglio un panino con i pezzetti di cavallo. E ancora, in tema di utile dulci, ci si potrebbe professare ferventi sostenitori della tradizione e al tempo stesso secondare folklore e superstizione, mangiando le castagne, che si dice favoriscano la nascita della prole e la fecondità della terra, chiamandole magari marron glaces per nobilitarle quel minimo, oppure, in mancanza del panettone, i chicchi di uva passa che richiamano l’immagine delle monete e che quindi porteranno ricchezza, come le lenticchie che si mangiano l’ultimo dell’anno. Ai tempi della crisi bisogna industriarsi e lavorare di fantasia. E se proprio le finanze sono disastrate, leva Ferrero, Pernigotti e Nestlè e metti il pesce di pasta di mandorla fatto da mammà . Fingi di snobbare il Grand Marnier a vantaggio del liquore al cioccolato dell’anziana zia Uccia. Potresti ostentare che alla Vecchia Romagna preferisci di gran lunga il limoncello o il finocchietto realizzati dalla commare Assunta. Disdegnare lo spritz, perché trendy e senz’anima, e decantare, con impeto reazionario, l’anisetta fatta in casa. Coraggio allora, e Buon Natale!

 

in “S/pagine”,  18 dicembre  2014

 

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2 Commenti a Natale ai tempi della crisi

  1. L’articolo non è triste anzi per la Viglia di Natale lo trovo appropriato, ti sei superato non conoscendo la tua età mi hai sorpreso no so da dove hai tirato fuori le migliori ricette delle nostre nonne che ci deliziavano durante le feste. Li vagnuni te lu
    ventittreesimu seculu la ne sapire ste cose.
    Buone feste
    Ersilio Teifreto

    • Grazie. Paolo Vincenti, 11 giugno 1971. Non voglio con questo perdere il tuo apprezzamento ma ti diro che le ricette si trovano su centinaia di libri salentini scritti sull’argomento.

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