L’olivo, l’oliva, l’olio e Plinio

di Armando Polito

Alcuni nostri comportamenti sono atavici e fra questi, purtroppo, rientrano pure quelli indotti dalla furbizia e dalla disonestà, che hanno come fine quello di accumulare facilmente profitto a danno di chi con il denaro ricavato in assoluta correttezza dall’impegno e dal sudore crede di potersi assicurare, magari privandosi di altro, il meglio in campo alimentare ma resta, fra l’altro, vittima di una truffa che può avere conseguenze gravissime sulla sua salute. Succede questo, come la cronaca quasi giornalmente testimonia, anche con il prodotto che, insieme con il vino, era l’emblema della nostra terra: l’olio. E mi riferisco alle sofisticazioni, non solo a quelle autentiche truffe legalizzate che una normativa comunitaria lassista e, diciamolo pure, invidiosa dei nostri prodotti tipici ha consentito da troppo tempo e,  sotto questo punto di vista, continua  a farlo, anche perché i nostri rappresentanti, anzi solo qualcuno di loro e pure sporadicamente, forse ispirato da ragioni elettorali e cavalcando il tema in quel momento messo artificiosamente in vista, si limita ad alzare la voce dimenticando il detto che recita cane che abbaia non morde …

Tra l’altro, poi, abbiamo la presunzione di considerarci superiori agli altri animali  e, se qualcuno sostiene che le bestie non possono sofisticare alcunché perché, essendo prive di ragione, utilizzano così com’è solo quello che trovano in natura, sostanze medicinali comprese, non ho difficoltà a ribattergli che allora sarebbe stato meglio per tutti, sottolineo per tutti (animali, piante e sassi compresi), che noi uomini fossimo rimasti nel cosiddetto stato ferino …

Basta con il pistolotto! Mi vien da dire che non basterebbe nemmeno la bomba atomica, se pistolotto fosse accrescitivo di pistòla e non di pìstola (che è per aferesi da epìstola). E, dopo questa precisazione, non rinnego il nostalgico rimpianto del nostro stato ferino, perché non credo, almeno questa volta, usando la ragione che in concreto è cultura, di aver fatto un danno a qualcuno che del pistolotto, etimologicamente parlando, aveva un’opinione sbagliata.

Sento l’olivo e il suo dono lamentarsi e dire: – Quando ci fai entrare in campo? -. Per farmi perdonare ho assicurato loro i servigi di quello che Nino Frassica definirebbe un bravo presentatore, anche se stagionato: Plinio (I secolo d. C.), che all’ulivo e all’olio dedicò nella sua opera ampio spazio. Mi sono riservato, ospitandolo nel mio studio televisivo, il diritto di interromperlo di tanto in tanto, ma lo farò in modo discreto, cioè nelle note, poi alla fine del primo brano per consentirgli di riprendere fiato e di soddisfare un’esigenza fisiologica (la prostata esisteva anche duemila anni fa …) e, infine, nella conclusione del post. Sono sicuro che con Plinio non farò la stessa figura di quel professore universitario che ha avuto, com’è noto,  la geniale idea di invitare Schettino a parlare della gestione del panico …

Tutto è pronto, Plinio è adeguatamente microfonato, anche il suo look è all’altezza (?) dei nostri tempi, ascoltiamolo!

Teofrasto1, uno dei più famosi autori greci, circa nell’anno 440 dalla fondazione di Roma negò che l’olivo potesse nascere a più di 40 miglia dal mare. Fenestella2 poi dice che mancava del tutto in Italia, Spagna e Africa al tempo del regno di Tarquinio Prisco, 173 anni dopo la fondazione di Roma l’olivo, che passò anche oltre le Alpi in Gallia e al centro della Spagna. Nell’anno 505 dopo la fondazione di Roma, sotto il consolato di Appio Claudio, nipote del Cieco e Lucio Giunio, una libbra d’olio si vendeva a dodici assi e poi nell’anno 680 Marco Seio figlio dell’edile curule Lucio ne diede al popolo romano per tutto l’anno dieci per un asse. Di questo si meraviglierà meno chi sappia che dopo 22 anni nel corso del quarto consolato di Pompeo Magno l’Italia inviò olio alle provincie. Anche Esiodo3, tra i primi a ritenere che si dovesse insegnare l’agricoltura, disse che colui che aveva piantato un olivo mai ne aveva raccolto il frutto: tanto lenta anche allora era la sua crescita. Ora invece li riproducono anche in vivaio e, dopo averli trapiantati, l’anno successivo vengono  raccolte le bacche. Fabiano4 dice che l’ulivo non può crescere nei luoghi molto freddi e molto caldi. Virgilio5 dice che ce ne sono di tre tipi, orchite6, radio7 e pausio8, e che non hanno bisogno di rastrelli, falci o di qualche cura. Senza dubbio in questo molta importanza hanno il terreno e il clima. Tuttavia anch’essi si potano al tempo in cui si potano pure le viti e gradiscono anche di essere diradati. La raccolta delle olive avviene dopo la vendemmia e l’arte di ricavare l’olio non è da meno rispetto a quella dell’estrazione del mosto. Dalla medesima oliva può essere estratto un succo differente. Il migliore fra tutti lo dà l’oliva acerba e che ancora non ha cominciato a maturare; il sapore è insuperabile. Anzi il primo strato che esce dal frantoio è il più apprezzato e poi quello che viene estratto sia che sia spremuto in ceste sia che, come poco fa si è inventato, dalla sansa chiusa in sottili dischi. Quanto più la bacca è matura tanto più l’olio è grasso e meno gradevole. Il miglior tempo poi per fare una raccolta soddisfacente per l’abbondanza e la bontà è quando le bacche cominciano ad annerire. I nostri le chiamano drupe9, i Greci dripetidi10. Del resto c’è molta differenza se la maturazione avviene nei frantoi o sui rami, se l’albero era irrigato o la bacca aveva soltanto il suo succo e non aveva bevuto nient’altro che la rugiada. Il passare del tempo nuoce all’olio, al contrario del vino e il massimo della sua età è un anno; provvida, se si vuol capire, è la natura poiché non è necessario per ubriacarsi bere vini novelli, anzi la piacevole alterazione del gusto per quelli lasciati ad invecchiare invita a conservarlo; la natura non volle concedere questo all’olio e con questa necessità lo rese comune anche per il popolo. Anche in questo bene l’Italia ha ottenuto il primato in tutto il mondo, soprattutto nel territorio di Venafro e in quella sua parte che produce l’olio liciniano, per cui anche l’oliva licinia11 ha grande fama. I profumi hanno conferito questo vanto per l’aroma che si adatta a loro, glielo ha dato anche il palato per il suo gusto alquanto delicato; per il resto nessun uccello gradisce le bacche della licinia. Dopo queste varietà la gara è alla pari tra la terra d’Istria e di Betica12. Per il resto vicina è la bontà dell’olio delle provincie, eccetto il suolo d’Africa che produce messi: qui la natura ha concesso tutto a Cerere, solo non rifiutò l’olio e il vino ma concesse abbastanza fama alle messi. Tutte le altre informazioni sono piene di errori, che dimostreremo non essere più frequenti in nessuna parte del vitto. L’oliva è formata da nocciolo, olio, polpa, morchia. Questa è una sua putredine amara; nasce dall’acqua e per questo nei tempi secchi è minima, abbondante in quelli piovosi. L’olio è il succo proprio dell’oliva e questo s’intende massimamente per quelle acerbe, come dicemmo per l’onfacio13. L’olio cresce dalla la nascita di Arturo14 fino al 16 settembre, poi crescono il nocciolo e la polpa. A questo punto se sopraggiungono anche piogge abbondanti l’olio diventa morchia. Il colore di questa costringe l’oliva ad annerire e perciò all’inizio dell’annerimento c’è pochissima morchia, prima di esso è assente. Ingannevole è l’errore di chi crede inizio della maturazione ciò che è inizio di un difetto, poi perché credono che l’olio cresca dalla polpa dell’oliva, tutto il succo diventando corpo e ingrandendosi il nocciolo. Dunque allora soprattutto si bagnano; quando questo succede per intervento dell’agricoltore o per le molte piogge, l’olio si consuma se non sopraggiunge il sereno che assottigli il corpo. Certamente, come dice Teofrasto, anche dell’olio è causa il calore, per cui nei frantoi e pure nei magazzini  c’è bisogno di molto fuoco. La terza colpa sta nel voler risparmiare a tutti i costi, poiché per evitare la spesa della raccolta si attende che le olive cadano da sole. Quelli che in questo seguono la via di mezzo le scuotono con pertiche con danno per gli alberi e per il raccolto dell’anno successivo. Perciò chi coltiva l’olivo ha una legge antichissima: “Non tagliare e non battere l’olivo”. Quelli che agiscono con cautela battono leggermente con una canna e non percuotono i rami con colpi frontali. Se non si fa così l’albero è costretto a dare il frutto ogni due anni a causa dei germogli spezzati e lo stesso succede se si aspetta che le olive cadano da sole perché rinsecchendo oltre il loro tempo sottraggono nutrimento a quelle che devono venire e ne occupano il posto.  Il fatto è che se non vengono raccolte prima del Favonio15 prendono nuova forza e cadono più difficilmente. Dunque si raccolgono per prime all’inizio dell’autunno per difetto di arte, non di natura, la pausia che ha molta polpa, poi l’orchite che ha l’olio, dopo la radia. Le costringe a cadere, infatti, la morchia che rapidissimamente le invade poiché sono tenerissime. La raccolta di quelle callose, resistenti all’umidità e per questo minute, viene rinviata anche a marzo ed esse sono la licinia, la cominia, la conzia, la sergia16, che i Sabini chiamano regia, le quali anneriscono non prima dello spirare del Favonio, cioè intorno all’8 febbraio. Si crede che maturino allora e poiché da esse si ricava buonissimo olio anche la ragione sembra adattarsi al difetto e dicono che l’asprezza è dovuta al freddo, come l’abbondanza alla maturazione, essendo quelle bontà non del tempo ma della varietà di quelle che tardamente marciscono in morchia. Simile è l’errore dopo averle raccolte di conservarle su tavolati e di non spremerle prima che trasudino, poiché ad ogni indugio l’olio diminuisce e la morchia aumenta. E così dicono comunemente che da ogni moggio17 non se ne ricava più di sei libbre18. Nessuno tien conto della misura della morchia, quanto se ne trova in maggior quantità nella medesima varietà col trascorrere dei giorni. Errore trionfante e comune è quello di credere che l’olio cresca per il gonfiarsi dell’oliva, quando quelle che sono chiamate regie, da altri maggiorine19, da altri ancora babbie20, peraltro grandissime e di poco succo, sono la prova che l’abbondanza dell’olio non è dovuta alla grandezza dell’oliva. Anche in Egitto le più carnose hanno poco olio, in Decapoli di Siria straordinariamente piccole, non più grandi di un cappero, sono tuttavia consigliate per la polpa. Per questo motivo quello d’oltremare sono preferite alle italiche che s’impongono per l’olio e nella stessa Italia su tutte le altre le picene21 e le sidicine22. Quelle in casa si conciano col sale e come le altre con la morchia e con il mosto cotto, nonché altre, le colimbadi23, nuotano  nel loro olio senza pregio ricercato. Le stesse si infrangono e si conciano col sapore di erbe verdi.  Le precoci, sebbene non mature, sono bagnate con acqua bollente ed è strano che le olive bevano il succo dolce e prendano il sapore altrui. Tra le olive ce ne sono pure di purpuree che come le uve passano al colore nero, e sono le pausie. Oltre alle varietà già nominate ci sono anche le superbe. Ve ne sono pure di dolcissime, seccate da se stesse senza concia e più dolci dell’uva passa, assai rare in Africa ed intorno ad Emerita di Lusitania. L’olio si libera col sale dal difetto della grassezza. Se si incide la corteccia dell’oliva essa prende il profumo ma, come per il vino, non fa sentire alcun gusto al palato né le differenze sono numerose e si distingue al massimo per tre qualità. L’odore è più spiccato nell’olio sottile e tuttavia  anche di breve durata in quello di ottimo. L’olio ha la proprietà di riscaldare il corpo, di difenderlo dal freddo e di raffreddare il bollore del capo. I Greci, padri di tutti i vizi, volsero il suo uso verso il piacere rendendolo abituale nelle palestre: è noto che i funzionari di tale incarico hanno venduto per ottanta sesterzi le raschiature dell’olio. La grandezza romana tributò grande onore all’olivo incoronando con esso le schiere dei cavalieri il 15 luglio e allo stesso modo quelli che avevano l’onore dell’ovazione nei trionfi minori. Anche ad Atene incoronano d’olivo i vincitori, la Grecia con l’olivo selvatico ad Olimpia. Ora dirò i principi di Catone24 sugli olivi. Egli prescrive che si piantino in un terreno  caldo e grasso il radio maggiore25, il salentino26, l’orchite, il pausio, il sergiano, il cominisso e l’albicere27 e con singolare accortezza aggiunge anche quale di essi dicono che sia ottimo per i luoghi vicini; dice che invece il licinio va piantato in terreno freddo e magro perché nel grasso e caldo  il suo olio assume difetti e l’albero stesso si consuma per eccesso di fertilità ed inoltre viene infestato dal muschio rosso. Pensa che gli oliveti debbano essere rivolti verso Favonio in luogo esposto al sole e non approva soluzione diversa. Dice che si conservano ottimamente le olive orchite e pausie o verdi in salamoia o rotte nel lentisco e che l’olio è tanto più buono quanto l’oliva è più acerba; che per il resto dev’essere raccolta da terra al più presto e se è sporca va lavata e bastano tre giorni ad asciugarla. Se fa freddo si devo romperla nel quarto giorno e cospargerla di sale. Dice che l’olio conservato diminuisce e diventa peggiore, come avviene nella morchia e nei frammenti – questi sono le polpe e poi le fecce -, motivo per il quale va travasato più volte al giorno, inoltre con un recipiente a forma di conchiglia e in caldaie di piombo; in quelle di rame si guasta. Dice che questo vien fatto nei frantoi caldi e chiusi e quanto meno è possibile in quelli ventilati; perciò ivi non è necessario che si tagli legna; a tal proposito adattissimo è il fuoco che nasce dalla combustione dei noccioli delle stesse olive28. Dice che dalle stesse caldaie l’olio va versato in vasi grandi affinché i frammenti e la morchia si separino; perciò i vasi vanno cambiati abbastanza frequentemente, i fiscoli lavati con la spugna perché l’olio sia al massimo grado puro e genuino. Fu poi inventato che le olive fossero lavate soprattutto con acqua calda e che sode si mettessero subito sotto il torchio – così, infatti, vien fuori la morchia- e che rotte di nuovo fossero pressate nei frantoi. Non consigliano che si premano più di cento moggi, questa quantità si chiama lavorato29. Quello che per primo viene spremuto dopo la molitura si chiama fiore. Di regola in una notte e in un giorno quattro uomini su una doppia piattaforma moliscono tre lavorati.30

A questo punto Plinio ci chiede una piccola pausa per recarsi in bagno (non starò esagerando con questa finzione?). Volentieri gliela concediamo nella speranza che il nostro bagno, ultramoderno,  sia all’altezza di quello antico e che la rubinetteria elettronica  e soprattutto lo scarico, pure lui digitale, montati di recente non facciano le bizze. È andato, tocca a me intrattenervi e spero che il bisogno di Plinio non sia a lungo termine, perché in tal caso mi sentirei peggio di quel lettore del telegiornale che attende invano che la regia mandi in onda un servizio. Lui almeno riesce a mantenere, se è veramente bravo, per una ventina di secondi uno sguardo sufficientemente intelligente e a dire tre o quattro parole sensate; io non saprei farlo nemmeno per tre secondi.

Così sento la mia voce articolare queste alate parole: “ Sarebbe scontato, banale e stupido sottolineare l’importanza dei dati scientifici che il nostro illustre ospite ci ha fornito. Che fosse uno scienziato serio lo sapevamo, e da tempo … Ci sorprende, invece, la sua abilità, diremmo giornalistica, nel proporci lo scoop del funzionario della palestra che vende un certo olio,  non posso dire se a buon prezzo, perché il nostro ospite non ci ha dato notizia della quantità; ma, anche immaginando che il prezzo si riferisca alla quantità accumulata in un solo anno, si tratta di una cifra considerevole. A questo punto la meraviglia diventa schifo non solo per questo atto compiuto da pubblici funzionari (nell’originale magistratus) ma anche perché non si sa se quest’olio asportato con lo strigile dal corpo degli atleti (dunque misto, bene che andasse, a sabbia e sudore) fosse destinato alla plebe che, magari, lo avrebbe usato nelle rare occasioni in cui poteva permettersi una frittura … D’altra parte l’è noto che hanno venduto (notum est … vendidisse) ha tutta l’aria di un riferimento ad uno scandalo imbarazzante, tanto che Plinio, lo ricorda frettolosamente ma, secondo me, incassa un autogol perché vede la pagliuzza nell’occhio altrui (dissolutezza nei Greci) e non vede la trave in casa propria (peculato, piuttosto idiota fra l’altro, dei funzionari delle palestre). Dalla regia mi avvertono che Plinio ha sentito tutto e manda a dire che ho ipotizzato un sacco di stupidaggini e che è già partita una denunzia per calunnia ai danni di pubblici funzionari e che pure il popolo romano si è costituito parte civile. Dal luogo dove si sta attardando ha fatto pervenire un foglietto su cui è scritto ciò che ora vi leggerò”.

Addirittura i ginnasti dei Greci trasformarono in guadagno anche la sporcizia dell’uomo, poiché quelle raschiature rilassano, riscaldano, sciolgono, appianano, fungendo il sudore e l’olio da medicina. Sono applicate sui genitali femminili infiammati e contratti; così agevolano anche il ciclo mestruale, mitigano le infiammazioni e i condilomi del sedere, allo stesso modo i dolori dei nervi, le lussazioni, i blocchi articolari. Per i medesimi inconvenienti sono più efficaci i raschiamenti fatti all’uscita dai bagni e per questo si mescolano con i medicamenti per le suppurazioni. Infatti quelle sostanze, che sono un miscuglio di cera, olio e fango, rilassano appunto le articolazioni, riscaldano, sciolgono più efficacemente ma per altro sono meno efficaci. Supera la credibilità una cura vergognosa in rapporto alla quale autori celeberrimi assicurano di singolare rimedio le sporcizie dell’apparato genitale maschile contro il morso degli scorpioni, ancora credono che nelle donne contro la sterilità viene introdotta nello stesso utero quella sporcizia emessa dall’intestino del neonato; la chiamano meconio. Anzi hanno raschiato anche le stesse pareti delle palestre e dicono che anche quelle schifezze hanno potere riscaldante, eliminano i gonfiori, sono spalmate sulle ferite di vecchi e fanciulli, sulle escoriazioni e sulle ustioni.31 

Ho appena finito di leggere, che già Plinio è pronto a concludere il suo intervento. Prima di sistemargli il microfono (è molto più alto di me, anche in senso fisico, e nel leggere il foglietto sono stato costretto a riposizionarlo) non resisto alla tentazione di fare qualche osservazione. Vorrei tanto chiedergli ragione dei passi oscuri o di dubbia interpretazione presenti nella sua opera ma mi guardo bene dal farlo perché potrebbe benissimo ribaltare l’accusa dicendo che tutto è dipeso dagli amanuensi che hanno letto fischi e trascritto fiaschi, come succede spesso oggi quando l’intervistatore fraintende e trascrive malamente le dichiarazioni dell’intervistato. Mi limito, perciò, a fargli notare che le mie precedenti supposizioni erano sì fasulle, e gli credo sulla fiducia, ma che sarebbe ora di finirla con questa forma di razzismo che vede nei Greci i depositari di ogni vizio e nei Romani di ogni virtù e che, in fin dei conti, l’ultima sua nota proveniente dal bagno ha solo incrementato il senso di schifo. Sul presunto razzismo non mi risponde, si limita solo a dire: – Hai visto mai il bagno di questo studio? -.

Capisco in un attimo che la sua impallinante domanda non è dovuta al mancato funzionamento (o, almeno, solamente a quello) dello scarico ipertecnologico (più che digitale virtuale …) ma piuttosto alle condizioni di tutto l’ambiente in cui l’addetto alle pulizie non mette piede da un mese a causa della notoria crisi; a questo punto non mi resta che aprirgli il microfono; fortuna che la sua pubblicità sul mio studio non è andata in onda…

Non esisteva in passato l’olio fasullo e credo che per questo Catone non ne abbia parlato. Ora ce ne sono di diversi tipi e in primo luogo parlerò di quelli che si ricavano dagli alberi e tra questi prima di ogni altro dall’olivastro. Questo è sottile e molto più amaro di quello dell’ulivo ed utile solo per medicamenti. Molto simile a questo è quello di camelea32, arbusto che prediligi i terreni rocciosi, non più alto di un palmo, con foglie e bacche simili a quelle dell’olivastro. Un altro si ricava dal cici33, albero diffuso in Egitto (c’è chi lo chiama crotone34, chi sibi35, chi sesamo selvatico) ed ivi, non da molto tempo anche in Spagna, rapidamente giunge all’altezza dell’olivo, con un fusto simile a quello della ferula, con le foglie simili a quelle della vite, il seme a quello delle uve più gracili e pallide. I nostri lo chiamano ricino dalla somiglianza del seme. Si cuoce in acqua e si raccoglie l’olio che viene a galla. Ma in Egitto, dove abbonda, viene spremuto senza fuoco e acqua, dopo essere stato cosparso di sale; non è adatto all’alimentazione ma è utile per le lucerne. Quello di mandorle, che alcuni chiamano neopo36, viene estratto dalle mandorle amare secche e pestate fino a diventare una poltiglia che viene cosparsa di acqua, alla quale si aggiungono di nuovo mandorle pestate. Si ricava anche dall’alloro misto ad olio di olive mature; alcuni lo estraggono solo dalle bacche, altri solo dalle foglie, altri dalle foglie e dalla buccia delle bacche ed aggiungono storace ed altri aromi. Particolarmente adatto a questo è l’alloro a foglie larghe, selvatico, dalle nere bacche. Simile è quello che si ricava dal mirto nero ed è migliore quello a larghe foglie. Si pestano le bacche cosparse di acqua calda, poi si cuociono. Altri cuociono le foglie più tenere in olio e le premono, altri le fanno prima maturare al sole e poi le gettano nell’olio. Lo stesso procedimento viene seguito con il mirto coltivato, ma è preferito quello selvatico dal seme più piccolo, che certi chiamano ossimirsine37, altri camemirsine38, altri acoro39 per la somiglianza; infatti è una pianta corta, cespugliosa. Si ricava olio anche dal cedro, dal cipresso, dalle noci e quest’ultimo lo chiamano cariino40, dalle mele, dal cedro e vien chiamato pisseleone41, anche dal chicco cnidio purgato del seme e pestato, allo stesso modo dal lentisco. Di quello ciprino e di quello estratto dalla ghianda egizia per ricavarne profumi si è detto. Si dice che gli Indiani lo ricavano dalle castagne, dal sesamo e dal riso, i popoli che si nutrono di pesce dai pesci. La carestia spinge talora a ricavarne per illuminazione dalle bacche di platano macerate in acqua e sale. Dall’enante42 si ricava l’olio detto enantino, adatto per preparare profumi. Per il gleucino43 si cuoce il mosto a fuoco lento, altri senza usare il fuoco mettono attorno le vinacce e le mescolano due volte al giorno e così il mosto si consuma nell’olio. Alcuni vi mescolano non solo la maggiorana ma anche aromi più ricercati, come succede anche nelle palestre, ma con profumi di scarsissima qualità. Si ricava dall’aspalato, dalla canna, dal balsamo, dall’iri, dal cardamomo, dal meliloto, dal nardo gallico, dalla panacea, dalla maggiorana, dall’elenio, dalla radice di cinnamomo spremendone il succo dopo averli macerati in olio. Così viene estratto pure il rodino dalle rose, il giunchino dal giunco, molto simile al rosaceo, allo stesso modo dal giusquiamo44 e dai lupini, dal narciso. Moltissimo poi se ne estrae in Egitto dal seme del ravanello o dall’erba gramigna e lo chiamano cortino45, allo stesso modo dal sesamo46 e dall’ortica e lo chiamano cnidio47. Si ricava anche altrove dal giglio macerato all’aria sotto il sole, la luna, la brina. Tra la Cappadocia e la Galazia48 estraggono dalle loro erbe un olio che chiamano selgitico49, molto utile ai nervi, come fanno in Italia gli abitanti di Gubbio. Si ricava dalla pece quello detto pissino50 quando viene cotto dopo aver disteso sopra il suo fumo delle lane che poi vengono strizzate. Viene particolarmente apprezzato quello estratto dalla lana calabrese poiché è molto grassa e resinosa. L’olio ha un colore giallo. Nasce spontaneamente nei luoghi marittimi della Siria quello che chiamano eleomele51; stilla grasso dagli alberi, più denso del miele, più sottile delle resina, di sapore dolce, utilizzato in medicina. Viene usato anche l’olio vecchio in alcuni tipi di malattia; si crede pure che sia utile a proteggere l’avorio dal tarlo e certamente la statua di Saturno a Roma all’interno è piena di olio. Catone lodò sopra ogni cosa la morchia. Dice che con essa vengono imbevuti i tini oleari e i barili perché non assorbano l’olio, che con la morchia vengono trattate le aie dove si battono le messi affinché non ci siano né formiche né fessure; che anzi siano trattati con la morchia pure l’intonaco malmesso delle pareti, gli intonaci e i pavimenti dei granai, gli armadi degli abiti contro le tarme e i danni di altri animali, i semi delle messi. Dice che con essa si debbono trattare le malattie dei quadrupedi e pure degli alberi, efficace anche contro le ulcere interne della bocca dell’uomo. Dice che con essa cotta si ungono pure le redini, tutti i cuoi, le calzature, gli oggetti di rame contro la ruggine e perché abbiano un aspetto più elegante, tutti gli oggetti di legno e i vasi di creta in cui si vogliano conservare i fichi secchi o le foglie o le bacche nei rami di mirto o altro dello stesso genere. Dice infine che la legna macerata nella morchia arde senza fare il fastidioso fumo. Varrone afferma che, se una capra leccando con la lingua ha toccato un olivo e ne ha mangiato nel suo primo germogliare, esso diventa sterile. E basti quanto fin qui detto dell’olivo e dell’olio.52

Ringraziamo il gentile ospite del competente intervento augurandoci (quando qualcuno auspica vuol dire che è proprio arrivato alla frutta dopo aver abbondantemente rotto le olive …) che possa da lassù intervenire per intercedere a favore del nostro olio e, vista la tragica situazione fitosanitaria, prima di tutto dei nostri stessi olivi, sempre che qualcuno non sfrutti l’ultimo passo per miscelare la grande partita di olio (minerale!) esausto, appena acquistata per quattro euro, con qualcuno degli oli fasulli di due millenni fa. Ho le prove che qualcuno ha già cominciato a farlo …

Qualcun altro, nel frattempo, ha deciso di sconfessare ogni riflessione sulla bontà dello stato ferino o felino che sia …

 * Basta che il mio padrone piazzi questa partita di olio per assicurarmi crocchette di qualità almeno per due mesi!

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1 IV-III secolo a. C.

2 I secolo a. C.- I secolo d. C.

3 VIII-VII secolo a. C.

4 I secolo a. C.-I secolo d. C.

5 I secolo a. C.

6 Dal greco ὄρχις (leggi orchis)=testicolo, orchidea (questo significato traslato è dovuto alla forma del labello). È intuitivo che il frutto doveva essere un’oliva di forma leggermente allungata; non a caso orchite si chiama l’infiammazione del testicolo e orchidea è voce del latino scientifico modellata sul greco ὀρχίδιον (leggi orchìdion)=orchidea, a sua volta derivato dal citato ὄρχις (per la forma di uno dei tre petali inferiori, detto labello, come mostra eloquentemente l’immagine che segue tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Orchidaceae#Fiore).

7 Credo che sia trascrizione del greco ῤάδιος (leggi radios)=facile, agevole; non a caso è annoverato tra gli ulivi che non richiedono molta cura.

8 Potrebbe essere forma aggettivale dal greco παύσις (leggi pàusis)=cessazione (probabile riferimento, sottintentendo dal lavoro, alle poche cure richieste al pari delle due varietà citate precedentemente.

9 Drupa è dal latino drupa(m), a sua volta dal greco δρύπεπα (leggi driùpepa), accusativo di δρύπεψ (leggi driùpeps)=oliva matura, a sua volta composto da δρῦς (leggi driùs)=quercia, leccio, olivo + πίπτω (leggi pipto)=cadere.

10 L’originale drypetidas (accusativo plurale) suppone un greco δρυπέτις/δρυπέτιδος (leggi driupètis/driupètidos) che, però non esiste; esiste, invece, l’aggettivo δρυπετής/δρυπετές (leggi driupetès/driupetès)=maturato sull’albero, ben maturo (con la stessa origine della voce precedente).

11 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/24/olive-celline-perche-questo-nome/

12 Andalusia.

13 Succo di uva o di oliva acerba. La voce è dal greco ὀμφάκιος (leggi omfàkios)=non formato, acerbo, da ὄμφαξ (leggi omfax)=uva acerba, probabilmente connesso con ὀμφαλός (leggi omfalòs)=ombelico.

14 Nella graduatoria delle stelle più luminose occupa il quarto posto.

15 Vento caldo di ponente corrispondente al greco Zefiro. La voce, cui corrisponde il nostro dialettale faùgnu, è da favere=far crescere, essere propizio.

16 Difficile individuare l’origine dei nomi. Per licinia vedi la nota 11. Per gli altri si può ipotizzare che derivino da onomastici: la gens Comìnia al pari della Sergia è ben attestata in letteratura e nelle epigrafi. Contia, invece potrebbe essere forma aggettivale da compta, participio passato femminile di còmere=porre insieme, ornare (il riferimento sarebbe al fatto che questo tipo di oliva si presterebbe molto bene alla conciatura).

17 Unità di misura di capacità (corrispondente a l. 8,75) e di superficie (corrispondente a circa 8400 m2).

18 Unità di misura di peso corrispondente a circa 327 gr.).

19 Così chiamate per la loro grandezza, com’è confermato da quel che segue.

20 Non ho nessuna ipotesi da avanzare sull’origine di questo nome nonostante si possa partire dall’idea di grandezza così efficacemente espressa da regie e maggiorine.

21 Emilia centrale.

22 I Sidicini erano una delle popolazioni italiche della Campania.

23 Dal greco κολυμβάς/κολυμβάδος (leggi coliumbàs/coliumbàdos)=da salamoia; la voce è da κολυμβάω (leggi coliumbào)=tuffarsi.

24 III-II secolo a. C.

25 Dev’essere una varietà più grande del semplice radio per il quale vedi la nota 7.

26 Purtroppo per noi gli autori latini su questa varietà non ci hanno lasciato alcun dettaglio significativo.

27 Giallo chiaro; alla lettera bianco come la cera.

28 Chi l’avrebbe immaginato che dopo duemila anni questo combustibile sarebbe tornato in voga come ottima alternativa al pellet? (http://www.prnewswire.co.uk/news-releases/noccioli-di-olive-come-sostituto-di-gasolio-gas-e-pellet-215953081.html).

29 La voce corrispondente dialettale usata dalle nostre parti è macininu.

30 Naturalis historia, XV, 1-7 Oleam Theophrastus e celeberrimis Graecorum auctoribus urbis Romae anno circiter CCCCXL negavit nisi intra [XXXX] passuum ab mari nasci, Fenestella vero omnino non fuisse in Italia Hispaniaque aut Africa Tarquinio Prisco regnante, ab annis populi romani CLXXIII, quae nunc pervenit trans Alpis quoque et in Gallias Hispaniasque medias. Urbis quidem anno DV Appio Claudio caeci nepote L. Iunio cos. olei librae duodenae denis assibus veniere, et mox anno DCLXXX M. Seius L. f. aedilis curulis olei denas libras singulis assibus praestitit populo Romano per totum annum. Minus ea miretur qui sciat post annos XXII Cn. Pompeio III cos. oleum provinciis Italiam misisse. Hesiodus quoque, in primis culturam agrorum docendam arbitratus vitam, negavit oleae satorem fructum ex ea percepisse quemquam: tam tarda tunc res erat. At nunc etiam in plantariis ferunt, translatarumque altero anno decerpuntur bacae. Fabianus negat provenire in frigidissimis oleam neque in calidissimis. Genera earum tria dixit Vergilius, orchites et radios et posias, nec desiderare rastros aut falces ullamve curam. Sine dubio et in iis solum maxime caelumque refert. Verum tamen et tondentur, cum et vites, atque etiam interradi gaudent. Consequens earum vindemia est arsque vel maior olei musta temperandi. Ex eadem quippe oliva differunt suci. Primum omnium cruda dat atque nondum inchoatae maturitatis; hoc sapore praestantissimum. Quin et ex eo prima unda preli lautissima ac deinde per deminutiones, sive in sportis prematur sive, ut nuper inventum est, exilibus regulis pede incluso. Quanto maturior baca, tanto pinguior sucus minusque gratus. Optima autem aetas ad decerpendum inter copiam bonitatemque incipiente baca nigrescere, cum vocant druppas, graeci vero drypetidas. Cetero distat tum, maturitas illa in torcularibus fiat an ramis, rigua fuerit arbor an suo tantum baca suco nihilque aliud quam rores caeli biberit. Vetustas oleo taedium adfert, non item ut vino, plurimumque aetatis annuo est, provida, si libeat intellegere, natura, quippe temulentiae nascentibus vinis uti necesse non est, quin immo invitat ad servandum blanda inveterati caries: oleo noluit parci fecitque ea necessitate promiscuum et vulgo. Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia e toto orbe, maxime agro Venafrano eiusque parte quae Licinianum fundit oleum, unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta hanc palmam dedere accommodato ipsis odore, dedit et palatum delicatiore sententia; de cetero bacas Liciniae nulla avis adpetit. Reliquum certamen inter Histriae terram et Baeticae par est. Cetero fere vicina bonitas provinciis excepto Africae frugifero solo: Cereri id totum natura concessit, oleum ac vinum non invidit tantum satisque gloriae in messibus fecit. Reliqua erroris plena, quem in nulla parte vitae numerosiorem esse docebimus. Oliva constat nucleo, oleo, carne, amurca. Sanies haec est eius amara; fit ex aquis, ideo siccitatibus minima, riguis copiosa. Suus quidem olivae sucus oleum est, idque praecipue ex inmaturis intellegitur, sicut in omphacio docuimus. Augetur oleum ab Arcturi exortu in a. d. XVI kal. oct., postea nuclei increscunt et caro. Tum si etiam copiosi imbres accessere, vitiatur oleum in amurcam. Huius color olivam cogit nigrescere, ideoque incipiente nigritia minimum amurcae, ante eam nihil est. Error hominum falsus existimantium maturitatis initium quod est vitii proximum, deinde quod oleum crescere olivae carne arbitrantur, cum sucus omnis in corpus abeat lignumque intus grandescat. Ergo tum maxime rigantur; quod ubi cura multisve imbribus accidit, oleum absumitur nisi consecuta serenitate quae corpus extenuet. Omnino enim, ut Theophrasto placet, et olei causa calor est, quare in torcularibus etiam ac cellis multo igni quaeritur. Tertia est culpa in parsimonia, quoniam propter inpendium decerpendi expectatur ut decidant olivae. Qui medium temperamentum in hoc servant, perticis decutiunt cum iniuria arborum sequentisque anni damno. Quippe olivantibus lex antiquissima fuit: “Oleam ne stringito neve verberato.” Qui cautissime agunt, harundine levi ictu nec adversos percutiunt ramos. Sic quoque alternare fructus cogitur decussis germinibus, nec minus si expectetur ut cadant; haerendo enim ultra suum tempus absumunt venientibus alimentum et detinent locum. Argumentum est quod nisi ante Favonium collectae novas vires resumunt et difficilius cadunt. Primae ergo ab autumno colliguntur vitio operae, non naturae, posia cui plurimum carnis, mox orchites cui olei, post radius. Has enim ocissime occupatas, quia sunt tenerrimae, amurca cogit decidere. Differuntur vero etiam in Martium mensem callosae, contra umorem pugnaces ob idque minimae, Licinia, Cominia, Contia, Sergia, quam Sabini regiam vocant, non ante Favonii adflatum nigrescentes, hoc est a. d. VI id. feb. Tunc arbitrantur eas maturescere, et quoniam probatissimum ex iis fiat oleum, accedere etiam ratio pravitati videtur feruntque frigore austeritatem fieri, sicut copiam maturitate, cum sit illa bonitas non temporis, sed generis tarde putrescentium in amurcam. Similis error collectam servandi in tabulatis nec prius quam sudet premendi, cum omni mora oleum decrescat, amurca augeatur. Itaque vulgo non amplius senas libras singulis modiis exprimi dicunt. Amurcae mensuram nemo agit, quanto ea copiosior reperiatur in eodem genere diebus adiectis. Omnino invictus error et publicus tumore olivae crescere oleum existimandi, cum praesertim nec magnitudine copiam olei constare indicio sint quae regiae vocantur, ab aliis maiorinae, ab aliis babbiae, grandissimae alioqui, minimo suco. Et in Aegypto carnosissimis olei exiguum, Decapoli vero Syriae perquam parvae, nec cappari maiores, carne tamen commendantur. Quam ob causam Italicis transmarinae praeferuntur in cibis, cum oleo vincantur, et in ipsa Italia ceteris Picenae et Sidicinae. Sale illae privatim condiuntur et ut reliquae amurca sapave, nec non aliquae oleo suo et sine arcessita commendatione purae innatant, colymbades. Franguntur eaedem herbarumque viridium sapore condiuntur. Fiunt et praecoques ferventi aqua perfusae quamlibeat inmaturae; mirumque dulcem sucum olivas bibere et alieno sapore infici. Purpureae sunt et in iis, ut uvis, in nigrum colorem transeuntibus posiis. Sunt et superbae praeter iam dicta genera. Sunt et praedulces, per se tantum siccatae uvisque passis dulciores, admodum rarae in Africa et circa Emeritam Lusitaniae. Oleum ipsum sale vindicatur a pinguitudinis vitio. Cortice oleae conciso odorem accipit medicationis; alias, ut vino, palati gratia nulla est nec tam numerosa differentia: tribus ut plurimum bonitatibus distat. Odor in tenui argutior, et is tamen etiam in optimo brevis. Oleo natura tepefacere corpus et contra algores munire, eidem fervores capitis refrigerare. Usum eius ad luxuriam vertere Graeci, vitiorum omnium genitores, in gymnasiis publicando: notum est magistratus honoris eius octogenis sestertiis strigmenta olei vendidisse. Oleae honorem Romana maiestas magnum perhibuit turmas equitum idibus iuliis ea coronando, item minoribus triumphis ovantes. Athenae quoque victores olea coronant, Graecia oleastro Olympiae. Nunc dicentur Catonis placita de olivis. In calido et pingui solo radium maiorem, Sallentinam, orchitem, posiam, sergianam, cominianam, albiceram seri iubet adicitque singulari prudentia: quam earum in iis locis optimam esse dicent, in frigido autem et macro liciniam. Pingui enim aut ferventi vitiari eius oleum arboremque ipsa fertilitate consumi, musco praeterea et rubore infestari. Spectare oliveta in Favonium loco exposito solibus censet, nec alio ullo modo laudat. Condi olivas optime orchites et posias, vel virides in muria vel fractas in lentisco. Oleum quam acerbissima oliva optimum fieri. Cetero quam primum e terra colligendam, si inquinata sit, lavandam; siccari triduo satis esse. Si gelent frigora, quarto die premendam; hanc et sale aspergi. Oleum in tabulato minui deteriusque fieri, item in amurca et fracibus – hae sunt carnes et inde faeces – ; quare saepius die capulandum, praeterea concha et in plumbeas cortinas; aere vitiari. Ferventibus omnia ea fieri clausisque torcularibus et quam minime ventilatis, ideo nec ligna ibi caedi oportere – qua de causa e nucleis ipsarum ignis aptissimus – ; ex cortinis in labra fundendum, ut fraces et amurca linquantur. Ob id crebrius vasa mutanda, fiscinas spongia tergendas, ut quam maxime pura sinceritas constet. Postea inventum ut lavarentur utique ferventi aqua, protinus prelo subicerentur solidae – ita enim amurca exprimitur – , mox trapetis fractae premerentur iterum. Premi plus quam centenos modios non probant: factus vocatur; quod vero post molam primum expressum est, flos. Factus tres gemino foro a quaternis hominibus nocte et die premi iustum est.

31 Naturalis historia, XXVIII, 13: Quin et sordes hominis in magnis fecere remediis quaestus gymnici graecorum, quippe ea strigmenta molliunt, calfaciunt, discutiunt, conplent, sudore et oleo medicinam facientibus. Volvis inflammatis contractisque admoventur; sic et menses cient, sedis inflammationes et condylomata leniunt, item nervorum dolores, luxata, articulorum nodos. Efficaciora ad eadem strigmenta a balneis, et ideo miscentur suppuratoriis medicamentis. Nam illa, quae sunt e ceromate permixta caeno, articulos tantum molliunt, calfaciunt, discutiunt efficacius, sed ad cetera minus valent. Excedit fidem inpudens cura, qua sordes virilitatis contra scorpionum ictus singularis remedii celeberrimi auctores clamant, rursus in feminis qua infantium alvo editas in utero ipso contra sterilitatem subdi censent; meconium vocant. Immo etiam ipsos gymnasiorum rasere parietes, et illae quoque sordes excalfactoriam vim habere dicuntur; panos discutiunt, ulceribus senum puerorumque et desquamatis ambustisve inlinuntur.

Casualmente mi sono imbattuto in rete (http://books.google.it/books?id=8KpIAwAAQBAJ&pg=PA66&lpg=PA66&dq=funzionari+palestre+olio+atleti&source=bl&ots=M0) in un’affermazione, peraltro posta su carta stampata, che è una delle tante dimostrazioni che prima di poter dire qualcosa che non rientra nella nostra competenza bisognerebbe, quanto meno, chiedere, naturalmente alle persone giuste. Se io sarei stato eventualmente tra quelle lo lascio giudicare a chi legge. In Luca Di Lorenzo, Kos, la guida turistica, un e-book (al posto riservato all’editore vi è l’indirizzo www. isolegreche.com) uscito il 9 aprile u. s., alle pp. 66-67 leggo: L’antico Gymnasium [di Kos], noto anche come Xisto, risale al III secolo a. C.; era la palestra dove si allenavano gli atleti. Il termine Xisto significa in greco antico raschiato, e si riferisce alla pratica degli atleti di raschiare via l’olio dopo aver terminato la loro attività sportiva.

In greco antico ci sono: ξυστός/ξυστή/ξυστόν (leggi xiustòs/xiustè/xiustòn), aggettivo col significato di raschiato, levigato, grattato e ξυστός/ξυστοῡ (leggi xiustòs/xiustù), sostantivo col significato di galleria coperta con fondo levigato, spazio con fondo battuto per esercizi atletici nella palestra. Sarebbe quanto meno strano che Xisto avesse assunto il nome da un participio passato riferito all’atleta (raschiato) e non alla caratteristica fondamentale di un suo componente (fondo battuto).

32 Dal greco χαμελαία (leggi chamelàia)=olivo nano, voce composta da χαμαί (leggi chamài)=per terra + ἐλαία (leggi elàia)=olivo.

33 Dal greco κίκι (leggi kiki)=ricino. La voce, comunque, è di origine egiziana, secondo quanto ci fa sapere Erodoto (V secolo a. C.), Storie, II, 94, 1): Ἀλείφατι δὲ χρέωνται Αἰγυπτίων οἱ περὶ τὰ ἕλεα οἰκέοντες ἀπὸ τῶν σιλλικυπρίων τοῦ καρποῦ, τὸ καλεῦσι μὲν Αἰγύπτιοι κίκι  (Quelli degli Egiziani che abitano presso le paludi si servono di un unguento che estraggono dal frutto dei sillicipri e gli Egiziani lo chiamano kiki). Molto probabilmente l’olivo era molto raro in Egitto tanto che Platone con la vendita di una partita di olio si sarebbe pagato le spese del viaggio in quella terra, stando alla notizia riportata da Plutarco (I-II secolo d. C.) Vite parallele, vita di Solone, II, 5: Καὶ Θαλῆν δέ φασιν ἐμπορίᾳ χρήσασθαι καὶ Ἱπποκράτη τὸν μαθηματικὸν καὶ Πλάτωνι τῆς ἀποδημίας ἐφόδιον ἐλαίου τινός ἐν Αἰγύπτῳ διάθεσιν γενέσθαι (Dicono che pure Talete e il matematico Ippocrate esercitarono il commercio e che per Platone la disponibilità alla vendita in Egitto di un ulivo selvatico fu il prezzo del viaggio). Sul viaggio di Platone in Egitto in generale vedi

34 In greco esiste κροτώνη (leggi crotone) col significato di escrescenza o malattia dell’olivo, a sua volta da κροτών (leggi crotòn)=zecca del cane, ricino. A questo punto l’immagine che segue del seme del ricino (tratta da http://img03.elicriso.it/it/piante_medicinali/ricino/1ricinus.jpg) è oltremodo eloquente.

 

35 Credo che sibi vada emendato in silli sulla scorta del sillicipro erodoteo (vedi nota 33). Infatti σιλλικύπριον (leggi sillikiùprion), di cui σιλλικυπρίων (leggi sillikiuprìon) è genitivo plurale, risulta chiaramente composto da un *σίλλι (leggi silli; l’asterisco indica che non è attestato) + κύπριον (leggi kiùprion)=di Cipro.

36 L’originale neopum quasi sicuramente è lezione corrotta, da emendare secondo me con  metòpium sulla scorta di μετώπιον (leggi metòpion), nome dato all’olio di mandorle da Dioscoride (De materia medica, I, 39); μετώπιον  è voce composta da μετά (leggi metà)=fra e ὤψ (leggi ops)=occhio e il riferimento è alla sua efficacia contro il dolore di testa.

37 Dal greco ὀξυμυρσίνη (leggi oxumiursine)=mirto spinoso, composto da ὀξύς (leggi oxiùs)=acuto e μυρσίνη (leggi miursìne)=mirto.

38 Dal greco χαμαιμυρσίνη (leggi chamaimiursìne)=mirto selvatico, composto da χαμαί (leggi chamài)=a terra e μυρσίνη (leggi miursìne)=mirto.

39 Dal greco ἄκορον (leggi àcoron). La voce potrebbe essere composta da α- (alfa intensivo, leggi a) e κόρη (leggi core)=pupilla, con riferimento alla sua supposta efficacia contro le malattie degli occhi.

40 Dal greco καρύινος (leggi cariùinos)=di noce, aggettivo da κάρυον (leggi càriuon)=noce.

41 Dal greco πισσέλαιον (leggi pissèlaion)=miscela di pece e olio, voce composta da πίσσα (leggi pissa)=pece e ἔλαιον (leggi èlaion)=olio.

42 Dal greco οἰνάνθη (leggi oinànthe)=infiorescenza della vite, voce composta da οἶνος (leggi òinos)=vino e ἄνθος (leggi anthos)=fiore.

43 Dal greco γλεύκινος (leggi gleùkinos)=preparato con vino nuovo, forma aggettivale da γλεῦκος (leggi glèucos)=vino nuovo, a sua volta da γλυκύς (leggi gliukiùs)=dolce.

44 Dal greco ὑασκύαμος (leggi iuaskiùamos), composto da ύς (leggi iùs)=porco e κύαμος (leggi kiùamos)=fava, con riferimento alla credenza che i porci potessero nutrirsene senza pericolo nonostante la sua velenosità.

45 Dal greco χόρτινος (leggi chòrtinos)=fatto di erbe, aggettivo da χόρτος (leggi chortos)=recinto per il pascolo, terreno da pascolo, erba. Sui rapporti tra questa voce greca, corte, coorte e il dialettale curti vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/02/da-li-curti-alla-monarchia-dallinno-di-mameli-a-roberto-benigni/.

46 L’originale sèsama è ablativo singolare e suppone un nominativo singolare femminile sèsama che è la trascrizione del greco σησάμη (leggi sesame); Columella, contemporaneo a Plinio,  ed altri usano  i neutri sèsamon o sèsamum sìsamum, tutti (il primo più fedelmente) dal greco σήσαμον (leggi sèsamon).

47 Da Cnido, città della Caria, con riferimento alla produzione o all’abbondanza in loco dell’essenza, o ad entrambe.

48 Regioni della Turchia centrale.

49 Probabilmente forma aggettivale da Σέλγη (leggi Selghe), città della Cilicia (Turchia sud orientale).

50 Dal greco πίσσινος (leggi pìssinos)=spalmato di pece, simile a pece; la voce è forma aggettivale da πίσσα (leggi pissa)=pece.

51 Dal greco ἐλαιόμελι (leggi elaiòmeli)=gomma dolce di ulivo; la voce è composta da ἔλαιον (leggi èlaion=ulivo) e μέλι (leggi meli)=miele, gomma dolce. Sulla sua possibile identificazione con la ragia salentina vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/.

52 Naturalis historia, XV, 8-9: Non erat tum ficticium oleum, ideoque arbitror de eo nihil a Catone dictum. Nunc eius genera plura, primumque persequemur ea quae ex arboribus fiunt, et inter illas ante omnes ex oleastro. Tenue id multoque amarius quam oleae et tantum ad medicamenta utile. Simillimum huic est ex chamelaea, frutice saxoso, non altiore palmo, foliis oleastri bacisque. Proximum fit e cici, arbore in aegypto copiosa (alii crotonem, alii sibi, alii sesamon silvestre eam appellant), ibique, non pridem et in Hispania, repente provenit altitudine oleae, caule ferulaceo, folio vitium, semine uvarum gracilium pallidarumque. Nostri eam ricinum vocant a similitudine seminis. Coquitur id in aqua, innatansque oleum tollitur. At in Aegypto, ubi abundat, sine igni et aqua sale adspersum exprimitur, cibis foedum, lucernis utile. Amygdalinum, quod aliqui neopum vocant, ex amaris nucibus arefactis et in offam contusis adspersam aqua iterumque tusis exprimitur. Fit et lauru admixto drupparum oleo, quidamque e bacis exprimunt tantum, alii foliis modo, aliqui folio et cortice bacarum, nec non styracem addunt aliosque odores; optima laurus ad id latifolia, silvestris, nigris bacis. Simile est et e myrto nigra, et haec latifolia melior. Tunduntur bacae adspersae calida aqua, mox decoquuntur. Alii foliorum mollissima decoquunt in oleo et exprimunt, alii deiecta ea in oleum prius sole maturant. Eadem ratio et in sativa myrto, sed praefertur silvestris minore semine, quam quidam oxymyrsinen, alii chamaemyrsinen vocant, aliqui acoron a similitudine; est enim brevis, fruticosa. Fit et e citro, cupresso, nucibus iuglandibus quod caryinum vocant, malis, cedro quod pisselaeon, e grano quoque cnidio purgato semine et tunso, item lentisco. Nam cyprinum et e glande aegyptia ut fieret odorum causa dictum est. Indi e castaneis ac sesima atque oryza facere dicuntur, ichthyophagi e piscibus. Inopia cogit aliquando luminum causa et e platani bacis fieri aqua et sale maceratis. Et oenanthinum fit; de ipsa oenanthe dictum est in unguentis. Gleucino mustum incoquitur vapore lento, ab aliis sine igni circumdatis vinaceis diebus XXI bis singulis permixtum, consumiturque mustum oleo. Aliqui non sampsuchum tantum admiscent, sed etiam pretiosiora odoramenta, ut in gymnasiis quoque conditur odoribus, sed vilissimis. Fit ex aspalatho, calamo, balsamo, iri, cardamomo, meliloto, nardo gallico, panace, sampsucho, helenio, cinnamomi radice, omnium sucis in oleo maceratis expressisque. Sic et rhodinum e rosis, iuncinum e iunco, quod et rosaceo simillimum, item hyoscyamo et lupinis, narcisso. Plurimum autem in Aegypto e raphani semine aut gramine herba quod chortinon vocant, item e sesama et urtica quod cnidinum appellant. E lilio et alibi fit sub diu sole, luna, pruina maceratum. Suis herbis componunt inter Cappadociam et Galatiam quod selgiticum vocant, nervis admodum utile, sicut in Italia Iguvini. E pice fit quod pissinum appellant, cum coquitur, velleribus supra halitum eius expansis atque ita expressis. Probatum maxime e bruttia; est enim pinguissima et resinosissima. Color oleo fulvus. Sponte nascitur in Syriae maritimis quod elaeomeli vocant; manat ex arboribus pingue, crassius melle, resina tenuius, sapore dulci, et hoc medicis. Veteri quoque oleo usus est ad quaedam genera morborum; existimaturque et ebori vindicando a carie utile esse: certe simulacrum Saturni Romae intus oleo repletum est. Super omnia vero celebravit amurcam laudibus Cato. Dolia olearia cadosque illa imbui, ne bibant oleum; amurca subigi areas terendis messibus, ut formicae rimaeque absint; quin et lutum parietum ac tectoria et pavimenta horreorum frumenti, vestiaria etiam contra teredines ac noxia animalium amurca aspergi, semina frugum perfundi. Morbis quadripedum, arborum quoque, illa medendum, efficaci ad ulcera interiora humani quoque oris. lora etiam et coria omnia et calceamina axesque decocta ungui atque aeramenta contra aeruginem colorisque gratia elegantioris et totam supellectilem ligneam ac vasa fictilia, in quis ficum aridam libeat adservare, aut si folia bacasque in virgis myrti aliudve quod genus simile. Postremo ligna macerata amurca nullo fumi taedio ardere. Oleam si lambendo capra lingua contigerit depaveritque primo germinatu, sterilescere auctor est M. Varro. Et hactenus de olea atque oleo.

  

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3 Commenti a L’olivo, l’oliva, l’olio e Plinio

  1. ll nome della gens corrisponde al nostro cognome; perciò, caro Sergio, non ti deve sfiorare il dubbio amletico se tra i tuoi lontanissimi antenati ci sia stato o no un coltivatore di olivi oppure un produttore e/o sofisticatore di olio. Io, piuttosto, mi preoccuperei di più per quel “Notario”, con tutto il rispetto possibile per la categoria, meno per le tariffe (e non mi riferisco solo a quelle attuali) …

    • Peccato che quel eventuale antenato da cui deriva il mio cognome che certamente praticava una attività molto redditizia, in qualsiasi epoca, non mi abbia lasciato lasciti sostanziosi…ma va bene così, quel che ho è di mio e mi sta bene….

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