Quando le pecore tarantine avevano il cappotto di pelle …

di Armando Polito

Specialmente nelle grandi città non è raro incontrare signore eleganti che tengono al guinzaglio un cane, spesso di piccola taglia, che indossa un cappottino probabilmente costato più di quello della loro padrona. Da sfegatato amico degli animali quale pur sono grido allo scandalo (e qui mi aspetto l’intervento, sempre gradito, di Angelo Micello …1).

A differenza dell’uomo che nei millenni ha perso, quasi sicuramente per un uso non sempre giustificato di vestiti via via sempre più sofisticati (dalla rozza pelle-trofeo con cui il troglodita esibiva la sua abilità nella caccia fino agli avveniristici tessuti sintetici di oggi), la “pelliccia” con cui madre natura l’aveva creato, gli altri animali hanno conservato per lungo tempo pressoché immutate le loro capacità di difesa nei confronti del clima. Poi, in nome del profitto e non certamente del benessere animale, si passò, per fare solo due esempi, alle stalle a temperatura condizionata e con musica in sottofondo e al cappottino del periodo iniziale ; e qui il profitto assume connotati più subdoli perché coinvolge un modo di sentire ormai radicato nell’uomo, per cui il mio cagnolino non può circolare con un capo meno elegante e costoso di quello degli altri così come io non posso farlo se non ho in tasca almeno due telefonini di ultima generazione, naturalmente da esibire ad ogni passo …

Per contrasto, non posso fare a meno di rivolgere il mio rispettoso (una volta tanto non c’è sarcasmo …) pensiero al povero pensionato che mai rinuncerebbe a comprare all’amico cane, gatto o altro animale che sia, almeno a Natale, una scatoletta da gatto, cane, o altro animale vip (tipo quelli che si vedono in tv), saltando uno o più di un pasto … Ma, in fondo, a pensarci bene, ha pure ragione la signora elegante (moglie al 101% di un evasore fiscale o di un ladro, preferibilmente di stato …): se, mossa da un sentimento di fraterna partecipazione alla impossibilità da parte della gente comune (un tempo si diceva onesta) di rinnovare il guardaroba del proprio amico, decidesse, in un salutare momento di labilità mentale (così, almeno definirebbe la situazione il suo psicologo … da sogno),  di far circolare la creatura come mamma l’ha fatta, la poveretta, col sistema immunitario ridotto ai minimi termini, creperebbe subito di raffreddore, pardon, cimurro.

Insomma, una congerie di motivi, in cui è difficile, se non impossibile, distinguere l’economico dal sentimentale, hanno inquinato, credo irreversibilmente, il rapporto tra noi umani e quello tra noi e le cosiddette bestie. Prima che Angelo mi preceda, così come ha fatto con i campioni di Olimpia e con i gladiatori dicendo che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, lo faccio io, integrando, fra l’altro, quanto da lui stesso detto a proposito degli schiavi.

Nel mondo greco e romano la condizione servile era pari a quella delle bestie e qualsiasi umiliazione e violenza era, da un punto di vista giuridico, assolutamente legittima e corretta. La cultura, però, allora, aveva un grande valore ed era in grado di operare il miracolo di trasformare lo schiavo-bestia in liberto-amico del padrone o liberto-istitutore dei suoi figli.  Di solito ciò avveniva con gli schiavi greci, mentre gli altri erano condannati al loro destino di sofferenze e stenti. Non so, perciò, quanto fosse convinto Seneca (I secolo d. C.) nel tuonare contro eccessi che al suo (?) tempo sembravano normali e non vorrei che il suo invito a trattare lo schiavo clementer, comiter quoque2(con clemenza, anche con confidenza ) fosse solo un tributo teorico alla filosofia stoica (per la quale il diritto naturale costituiva la legge fondamentale) e, quindi una pura esercitazione da intellettuale; non sapremo mai, purtroppo, come egli trattava i suoi schiavi e, quindi, se predicava bene ma razzolava male.

Comunque, siccome dalle sue parole traspare la tendenza al calcolo e alla convenienza piuttosto che la tensione verso un’umanità totalmente disinteressata3 (cosa, questa, non da umani …), non è fuori luogo pensare che  probabilmente ai suoi tempi ci si era allontanati poco dalle posizioni di Catone il censore (II secolo a. C.) per il quale lo schiavo per il padre di famiglia era quello che per l’imprenditore agricolo di oggi può essere un trattore, per il presidente di una squadra di calcio il giocatore di fama avviato al tramonto: (il padre di famiglia) venda l’olio se il prezzo è buono, il frumento che è  in eccesso, i buoi vecchi, le greggi e le pecore poco produttive, la lana, le pelli, il carro vecchio, i ferri vecchi, il servo vecchio, il servo che si ammala spesso e qualsiasi altra cosa sia di più4.

Insomma, sosteneva Catone, tutto ciò che è improduttivo va venduto, anche se si tratta di un essere vivente, bestia o uomo che sia. A distanza di circa tre secoli il greco Plutarco metterà in bocca a Catone parole da lui mai dette, scrivendo:  … (Catone) dice di non aver mai comprato nessun servo per più di millecinquecento dracme, non avendo bisogno di (servi) effeminati o formosi ma di lavoratori e uomini robusti, come stallieri e bovari e riteneva che era necessario che fossero venduti questi diventati vecchi e non nutrire gente inutilizzabile5.

La parte che ho sottolineato è pericolosissima perché, pur essendo per motivi stilistici e grammaticali, da intendersi come strettamente connessa concettualmente con la vendita di cui si parla immediatamente prima, ha propiziato l’interpretazione, assolutamente arbitraria per i motivi che ho appena detto, secondo la quale Catone consiglierebbe di lasciar morire di fame lo schiavo improduttivo qualora non si fosse riusciti a sbarazzarsi di lui vendendolo.

Dopo essere passati dal cagnolino col cappotto agli schiavi, a constatare, ancora una volta da parte mia amaramente ma senza rassegnazione, l’importanza determinante di quello che oggi si chiama mercato (in cui il riconoscimento del talento raramente è legato al concetto della sua utilità sociale, è  questo il punto …)  i tempi sono più che maturi per volgere la nostra attenzione alle pecore del titolo.

Varrone (I secolo a. C.) ci ha lasciato questa testimonianza:  Allo stesso modo per lo più si deve fare con le pecore col cappotto di pelle, che per la bontà della lana, come sono le tarantine e le attiche, sono ricoperte di pelli perché la lana non si sporchi o quanto meno possa essere ben tinta o lavata o preparata6.

Ho tradotto pecore col cappotto di pelle l’originale oves pellitae per evitare una sgradevole ripetizione, dal momento che pellitae alla lettera significa coperte di pelle. La conferma dell’adozione di questa precauzione nel Tarantino ce la dà il contemporaneo (di Varrone) Orazio: Onde, se le Parche ingiuste me lo [di trascorrere la vecchiaia a Tivoli] impediscono, cercherò di raggiungere  il dolce corso del Galeso dalle pecore col cappotto di pelle e i campi su cui regnò lo spartano Falanto.7

Il Galeso in un’immagine tratta da http://www.famedisud.it/i-luoghi-del-mito-il-tarantino-galeso-il-fiume-che-fece-sognare-i-poeti-oggi-in-abbandono/

Il Galeso nel dettaglio tratto da una mappa (https://archive.org/stream/theatrumorbister00orte#page/n165/mode/2up) di Pirro Ligorio del 1570

Molto probabilmente questa precauzione tarantina8 è d’importazione greca e nulla vieta di pensare che essa sia stata introdotta dai coloni spartani e che nel mondo greco le pecore col cappotto di pelle non fossero solo quelle attiche, sulle quali, oltre la testimonianza di Varrone, abbiamo anche quella di Diogene Laerzio (III secolo d. C.): (Diogene, non lui, ma il filosofo cinico del IV secolo a. C.) avendo visto  che a Megara le pecore erano protette da pelli mentre i figli dei Megaresi erano nudi, disse: “È più vantaggioso essere il montone piuttosto che il figlio di un megarese9.

Una battuta che, forse, il filosofo si sarebbe potuto risparmiare se solo avesse pensato che, nel caso in cui le pecore non fossero state incappottate, il figlio del megarese forse non sarebbe andato in giro nudo ma quasi certamente sarebbe morto di fame …

Che abissale, tragica  differenza, comunque, rispetto ad oggi in cui per il tarantino, scomparse le pecore (anche quelle senza cappotto …)  e stravolto il Galeso,  da troppo tempo vale (e, quel che è peggio, è ancora in atto) il ricatto o la borsa o la vita! oppure, se preferite, o la fame o il cancro!

Se qualche poeta ha l’intenzione di celebrare la bellezza rimasta ancora incontaminata di qualche luogo del Salento, si sbrighi perché, se per lo sfacelo del Galeso (uno dei tanti …) son dovuti passare millenni dal canto di Orazio, oggi egli rischia di vedere cancellata la bellezza residua prima ancora di cominciare il suo.

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1 Vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/16/clamoroso-scandalo-di-ferragosto-nel-calcio-italiano-fermi-tutti/

2 Ad Lucilium epistulae morales, XLVII, 13: Vive cum servo clementer, comiter quoque, et in sermonem illum admitte et in consilium et in convictum (Vivi con il servo con clemenza, anche con confidenza e consentigli di partecipare alla conversazione, alla decisione, alla mensa).

3 Op. cit., XLVII, 4: Sic fit, ut isti de domino loquantur, quibus coram domino loqui non licet. At illi, quibus non tantum coram dominis, sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum inminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant (Così succede che parlino del padrone quelli ai quali non è concesso di parlare in sua presenza. Ma coloro ai quali era concesso di parlare non solo in presenza dei padroni ma anche con loro, la cui bocca non era cucita, erano pronti a dare la vita per il padrone, a far caderevsulla loro testa il pericolo imminente; parlavano nei banchetti ma tacevano nelle torture).

4 De agricultura, 2: Vendat oleum, si pretium habeat; vinum, frumentum quod supersit, vendat; boves vetulos, armenta delicula, oves deliculas, lanam, pelles, plostrum vetus, ferramenta vetera, servum senem, servum morbosum, et si quid aliut supersit, vendat.

5 Vita di Catone, IV, 4:   φησι …  οὐδένα δὲ πώποτε πρίασθαι δοῦλον ὑπὲρ τὰς χιλίας δραχμὰς καὶ πεντακοσίας, ὡς ἂν οὐ τρυφερῶν οὐδ᾽ ὡραίων, ἀλλ᾽ ἐργατικῶν καὶ στερεῶν, οἷον ἱπποκόμων καὶ βοηλατῶν, δεόμενος καὶ τούτους δὲ πρεσβυτέρους γενομένους ᾤετο δεῖν ἀποδίδοσθαι καὶ μὴ βόσκειν ἀχρήστους.

6 De re rustica, II, 2, 18: Pleraque similiter faciendum in ovis pellitis, quae propter lanae bonitatem, ut sunt Tarentinae et Atticae, pellibus integuntur, ne lana inquinetur, quo minus vel infici recte possit, vel lavari ac parari.

7 Odi, II, 6, 9-12: Unde si Parcae prohibent iniquae/dulce pellitis ovibus Galesi/flumen et regnata petam Laconi/rura Phalanto.

8 Pare, però, che tale pratica, continuata poi fino a tempi più vicini a noi,  in Italia non fosse limitata al Tarantino, stando a quanto ci ha tramandato  Columella )(I secolo d. C.), che usa una terminologia diversa (tectum pecus/tectae oves=gregge protetto/pecore protette), De re rustica, VII, 2: … pratis planisque novalibus tectum pecus commodissime pascitur … M. Columella patruus meus, acris vir ingenii atque illustris agrticola, quosdam mercatus in agros trastulit et mansuefactos tectis ovibus admisit. Eae primum hirtos, sed paterni coloris, agnos ediderunt, qui deinde ipsi Tarentinis ovibus impositi, tenuioris velleris arietes progeneraverunt. Ex his rursus quicquid conceptum est maternam mollitiem, paternum et avitum retulit colorem ( … nei prati e nelle pianure lasciate a maggese molto agevolmente pasce il gregge protetto … Marco Columella, mio zio, uomo di ingegno acuto e illustre agricoltore,  dopo averne   [di arieti selvatici importati dall’Africa] comprato alcuni, li portò in campagna e divenuti mansueti li accoppiò alle pecore protette. Queste la prima volta partorirono agnelli dalla  lana ruvida, che, accoppiati poi  con pecore tarantine, generarono montoni di vello più morbido. In seguito tutti gli esemplari da questi concepiti presentarono la morbidezza materna e il colore paterno e degli avi).

Molto probabilmente le oves pellitae sono quelle stesse per le quali Columella più avanti (XI, 2) raccomanda: Oves Tarentinae radice lanaria lavari debent, ut tonsurae praeparentur (Le pecore tarantine debbono essere lavate con la radice lanaria per essere preparate alla tosatura).

E il contemporaneo Plinio, Naturalis historia, VIII, 72: Ovium summa genera duo, tectum et colonicum: illud mollius, hoc in pascuo delicatius, quippe quum tectum rubis vescatur (Le principali specie di pecore sono due, la protetta e la colonica; la prima è più morbida, la seconda più delicata nel pascere poiché la protetta si nutre di rovi).

Il lettore curioso certamente si sarà chiesto quale pianta sia la radice lanaria nominata da Plinio. Per ora sappia che tanto la voce latina che la greca sono tradotte nei vocabolari con saponaria. Per motivi che qui sarebbe troppo lungo riportare e che, se qualche lettore manifesterà interesse all’argomento potrebbero costituire l’argomento di un prossimo post, credo che tale identificazione sia stata, quanto meno, frettolosa.

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