L’anno salentino (annu) e alcuni suoi insospettabili figli

di Armando Polito

 

vitella o capra di un anno

annècchia (nel Brindisino a Carovigno), nnècchia (nel Leccese a Tricase e nel Tarantino a Palagiano e a Sava)

vitello di un anno

annìcchiu (nel Brindisino a Carovigno)

capra di un anno

nìcchia (nel Leccese a Vernole)

vitello o capretto di un anno

nnìcchiu (nel Tarantino ad Avetrana)

caprone

nìcchiu (nel Leccese ad Otranto); di origine onomatopeica, invece, nniccu (=porco, nel Brindisino a Brindisi e Francavilla Fontana), nniccu-nniccu, voce di richiamo per il porco (a Brindisi) e nìcchji-nicchji, voce di richiamo della capre1 in uso nel Brindisino a Mesagne.

 

Tutte le voci fin qui elencate derivano dall’aggettivo latino annìculus/annìcula/annìculum=di un anno, che continua come sostantivo2 nel medioevale annìculus, lemma così trattato nel glossario del Du Cange (la traduzione a fronte, come di consueto, è mia):

 

Annìculus deriva da annus (=anno) con la stessa tecnica di formazione di fenum (=fieno)>fenìculum (=finocchio)>italiano finocchio. Solo che annicchio in italiano non si è sviluppato, finocchio sì; ne approfitto per ricordare che per il significato traslato eufemistico sinonimo di omosessuale in più di un dizionario (per esempio, il De Mauro) si legge che il passaggio semantico non è chiaro. A me sembra chiarissimo, tenendo conto che fenìculum è diminutivo di fenum (=fieno) e che nell’italiano antico finocchio aveva il significato traslato di persona sciocca, incapace; già l’originario suffisso diminutivo aveva acquistato una valenza dispregiativa che, poi, si sarebbe ulteriormente specializzata, con la consueta malvagità umana suffragata da un discutibile concetto di normalità, in senso sessuale. Non mancano in rete al riguardo esilaranti ipotesi di sedicenti etimologi: per esempio nel medioevo insieme con le streghe venivano bruciati pure gli omosessuali e, dettaglio questo totalmente inventato, per attenuare la puzza della carne che bruciava sul rogo venivano gettati fasci di finocchio; ma la più esilarante di tutte è certamente fenus culi=guadagno del culo, che suppone la seguente, debilitante trafila fonetica che il geniale inventore si è ben guardato dal presentare : fenus culi>*fenùsculi (e già avremmo dovuto avere *fenuscùli)>*fenùcculi (assimilazione mai incontrata)>*fenùculi (scempiamento)>*finocchi (sincope di –u– ed evoluzione –cl->-cch-)>finocchio (regolarizzazione della desinenza).

Per chiudere questa parentesi fito-sessuale: anche questa voce, come tante legate alla sfera sessuale, è figlia, oltre che della malvagità di cui ho detto prima, del maschilismo; altrimenti spiegatemi perché finocchio non ha dato finocchia e stronzo ha dato, invece, stronza. Evidentemente l’omosessualità femminile non era nemmeno contemplata, così come la prostituzione maschile (lo stesso gigolò ha avuto sempre una considerazione più benevola e accondiscendente rispetto alla gigolette che da ragazza della malavita ha esteso il suo significato a prostituta); tant’è che solo di recente e fino ad ora solo nel linguaggio parlato da puttana è germogliato puttano.

Non deve indurre in errore il fatto che tutte le voci fin qui elencate si riferiscono al mondo animale e, in particolare, il nìcchia di Vernole alla capra di un anno. Si dirà che sempre di ovino si tratta e che nìcchia potrebbe essere derivato da *aunìcchia, inusitato diminutivo di àunu=agnello [dal latino agnu(m)] e così, per estensione, sarebbe successo a tutte le altre. Sarebbe un’infezione strana che suppone non solo l’aferesi di au– ma un diminutivo formale (*aunìcchia) di una voce (àunu) che diminutiva è già semanticamente.

terreno incolto o lasciato temporaneamente a riposo

nnicchiàricu (nel Brindisino a Carovigno)

nnicchiàrucu (nel Leccese a Tricase) 

nicchiàrucu (nel Leccese a Salve)

nicchiàricu (nel Leccese a Maglie e Otranto, nel Brindisino ad Oria, nel Tarantino a Manduria)

Pure  le voci di questo secondo gruppo sembrerebbero derivare da anniculus con l’assunzione di un doppio suffisso aggettivale. Così nicchiàricu (ma il discorso vale pure per le altre varianti) sarebbe da annìculus attraverso la trafila:

 annìculus>*annicularis>*annicularicus>*anniclàricus>*annichiàricu>*nnichiàricu>nicchiàricu,

come è successo, per esempio, per fumo>fumario>fumarico. Tuttavia, per la pertinenza esclusiva di tutte loro al mondo agricolo e in particolare per la loro attinenza con la coltivazione, non mi sentirei di escludere, anzi privilegerei, una formazione da anno+l’infisso -col- (dalla radice del verbo latino còlere=coltivare)+il doppio suffisso aggettivale già ricordato, per cui la trafila sarebbe stata: *anniculàricus>*anniclàricus>*annichiàricu>*nnichiàricu>nicchiàricu.

L’ultimo posto riservato a nicchiàricu non è casuale perché mi piace chiudere con la sua forma femminile nell’uso di due poeti salentini molto lontani nel tempo. Il primo è Gerolamo Bax  (1689-1740) di cui ci resta solo la farsa Nniccu Furcedda pubblicata la prima volta da Pietro Palumbo nel  1869-70 e una seconda nel 1912-1914; seguì quella di Rosario Jurlaro del 1964, quella di Ciro Santoro nel 1985 e finalmente l’edizione critica di Mario Marti nel 1994.   Riporto dalla prima edizione (anche qui la traduzione in italiano è mia) poche battute (Atto III, Scena VIII, vv. 1903-1917) tra Nniccu Furcedda (massaro della masseria di Fallacchia in agro di Francavilla) e Roccu Spellecchia (dottore, promesso sposo a Nina, figlia di Nniccu, la quale, però, è innamorata di Paolu Ncappacanna).

E siamo al secondo poeta. Nicchiarica questa volta ha avuto l’onore (son sicuro che l’autore avrebbe pensato e detto esattamente l’inverso) di far parte del verso iniziale  di L’oru de lu sud (che poi dà il titolo all’intera raccolta) in Terra mara e nicchiarica (in cui la voce dal significato originario di non coltivata da un anno3 slitta a quello poeticamente esasperato di abbandonata forse per sempre) di Fernando Rausa (1926-1977), uscita per i tipi dell’editore Manni a Lecce nel 2006.

_____________

1 A Nardò, invece, la voce di richiamo per la capra è izza. Siccome in greco capra è αἴξ/αἰγός (leggi àix/aigòs) il Rohlfs, in alternativa all’origine onomatopeica, ha ipotizzato che izza derivi dal tema αἰγ– della voce greca da un *αἰγίτσα=capretta.

2 Di solito l’assunzione di valore sostantivato di un aggettivo suppone una fase intermedia in cui viene sottinteso il sostantivo ad esso collegato; per esempio: in casta (che è dall’aggettivo latino casta=pura; che brutta fine ha fatto pensando pure al suo significato politico!) si è sottointeso razza. Nel nostro caso  il fenomeno trova ulteriore giustificazione nella ridondanza fonetica del nesso agnus anniculus=agnello di un anno, anche se agnus non ha nulla a che fare con annus.

3 Corrisponde, perciò, nel suo significato di partenza, all’italiano novale [che è dall’aggettivo sostantivato latino novale=terra dissodata (in Plinio), maggese (in Virgilio), messi (in Giovenale) da novus=nuovo] che indica un terreno messo a coltura per la prima volta oppure, come sinonimo di maggese, lavorato dopo un periodo di riposo. Il tutto riassunto in queste brevi istruzioni in dialetto leccese (frutto di conoscenza, rispetto e amore antichi per la natura) oggi desolatamente obsolete dopo che le colture intensive in nome del dio profitto hanno reso sterile la nostra terra nel volgere di pochi decenni, frantumando la magia di quel cerchio che evocano le parole che seguono: Subbra lu mascese ranu; subbra lu favale lu massaru face ranu; subbra lu nicchiaricu cade ranu (Sul maggese grano; sul campo prima coltivato a fave il massaro produce grano; sul novale va bene il grano).

Nel latino medioevale novalis conserva l’ambiguità del significato classico. Ecco, infatti, come la voce è trattata nel glossario del Du Cange:

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