La “non poesia” di Elena Maria Fabrizio

 

di Paolo Vincenti

 

Non poesia è un recente libro di Elena Maria Fabrizio, pubblicato  per la collana “il Labirinto” dalla casa editrice  Il Laboratorio di Parabita. Sulla prima di copertina, un’opera di Chagall, “Schizzo per l’aria dei tempi”, mentre nella quarta di copertina leggiamo che l’autrice, docente di  Filosofia e Storia nei Licei, è originaria di Napoli ma vive da molti anni a Lecce. “Attenta e puntuale interprete delle opere del filosofo contemporaneo Habermas, ha pubblicato saggi ed articoli sulle problematiche della Scuola di Francoforte e sul marxismo, interessandosi, inoltre, di Utopia storica”. La sua è una poesia dotta, piena di riferimenti alti, attingendo ella  dal proprio campo specialistico sollecitazioni, spunti, ispirazioni che fondano e sorreggono  il corpus poetico del libro. Il volume è ripartito in diverse sezioni  e i vari nuclei tematici  sono costituiti da liriche in versi sciolti che procedono attraverso un tessuto comunicativo che si dipana poematicamente in corso d’opera. Lontana da ogni maniera,  l’autrice ricerca una comunicazione con i propri lettori attraverso delle strategie di coinvolgimento che rendono non privi di interesse questi componimenti: ben orchestratI, certo lontanI da una facile cantabilità, nei quali il rispecchiamento poetico avviene principalmente attraverso sophia . Queste liriche, mediante un dire poetico lucido e definitorio, ben  sussumono l’habitus da cui nasce la scrittura della Fabrizio.

“Non poesia”: Il titolo vuole essere manifesto programmatico dell’opera che si apre proprio con la sezione omonima che raccoglie le due liriche “Non poesia 1” e “Non poesia 2”.  Una dichiarazione di modestia  e di difesa preventiva dagli strali della critica titolata o un’apertura al nichilismo più totale da parte dell’autrice di questa raccolta? Né l’una né l’altra, credo, ma la sua poesia del “non” vuole essere una forma di resistenza estrema  alla condizione di ingiustizia e confusione in cui versa la nostra società moderna. Una forma di lucida, dotta e razionale difesa dal “dolore del mondo”, tema su cui verte la seconda sezione del libro. Il dolore certo non si può cancellare, come non si possono cancellare la guerra, la fame, la  privazione, le sperequazioni sociali, le dittature, la corruzione, non si può negare l’odio, non si possono negare l’ignoranza, il fanatismo, la violenza.  Ma se tutto ciò non si può negare, non si può negare nemmeno il suo contrario e questo è il motivo numinoso, l’ancora di salvezza, il tesoro ai piedi dell’arcobaleno, la luna in fondo al pozzo, insomma il messaggio di speranza che il libro reca in sé. Quella redenzione spirituale cioè che l’autrice, nelle pagine di questa raccolta, cerca accoratamente, di umano, umanissimo bisogno.

In quella negazione, nel “non” del titolo, c’è il Dio nascosto dell’Antico Testamento, che è alla base di tutta la teologia negativa secondo la quale si può conoscere Dio solo a partire dal suo contrario: dunque, forzando un po’ nell’interpretazione, direi che  l’autrice, attraverso la via negationis giunge, denunciando le storture e i guasti del mondo, a realizzare cosa certamente Dio non è, cosa certamente non vuole. Proprio la conoscenza del dolore del mondo e quindi la presa d’atto dell’errore, dell’inanità e della fallibilità dell’uomo, la fanno avvicinare a Dio, verso il quale dimostra un anelito costante che sorregge buona parte, o quasi tutta, del suo corpus lirico. In quella negazione, forse, c’è il “deus absconditus” di Pascal secondo il quale il nascondimento di Dio è un omaggio alla libertà dell’uomo di cercarlo, al suo libero arbitrio. Dunque, come non si può negare il male e la nequizia dei tempi, scandagliati nella sezione “Il castello”, così non si può negare la speranza. Anche perché,  secondo l’insegnamento di Adorno, uno dei massimi esponenti della scuola di Francoforte,  di cui la Fabrizio è una studiosa (e il quale scrive  “la vita non vive” in epigrafe alla sua opera “Minima moralia”), nonostante quando speriamo nella salvezza una voce ci dice che la speranza è vana, noi dobbiamo coltivare quella speranza  perché, pur impotente, e con i disastri perpetrati dall’umanità che sempre più regredisce ad una condizione quasi ferina, essa è linfa vitale, ci permette di  continuare.  E la speranza  brilla, come prisma di rifrazione, nella sezione intitolata “Eccezioni d’amore”, significativamente suggellata dal dipinto di Matisse “la gioia di vivere”.

Nella sezione “Virtus activa”,sulla quale mi piace soffermarmi ( il lettore, si sa, si appropria di un libro ed opera sempre una propria selezione personale), troviamo  “Gli esclamatori” (“bisogna sentirlo questo grido, Tu Uomo urla!”), che  mi fa pensare per un verso  a “The Howl”di Allen Ginsberg e per un altro a certe canzoni di Adriano Celentano (soprattutto a queste ultime) per un’ intonazione moraleggiante tipica di molte opere del cantante. Ma questa sezione del libro è comunque quella che mi ha colpito di più sia per l’impegno civile dei brani sia per la stesura più felice, chiara, distesa, degli stessi. “Tu Cristo, scendi dalla Croce, ricomincia daccapo/ ritorna bambino/ onora ancora una volta la Sinagoga/”, recita l’autrice in una delle poesie e  si rivolge al Figlio di Dio dandogli del tu e chiedendogli di ritornare fra gli uomini ottenebrati dalla cieca violenza del potere, del malaffare, della corruzione e cercando di convincerlo “dell’umano universale bisogno di un altro Anno Zero”. Anche questa poesia mi fa pensare ad una canzone, questa volta di Antonello Venditti: un vecchissimo brano del cantautore romano, intitolato “A Cristo” nel quale l’autore rivolge a Gesù, in romanesco, pressappoco le stesse sollecitazioni  della Fabrizio. Ecco in “Borghesia barocca”, un atto d’accusa nei confronti di questa classe sociale che dall’essere  stata così importante nella storia del nostro paese, oggi si arrocca su posizioni passatiste, conservatrici, insomma anacronistiche che ne segnano il passo e ne caratterizzano il disperato tentativo di restare pur sempre a galla. Ecco un elogio della verità ed ecco, del pari, anche un provocatorio elogio del suicidio e del suicida, di colui cioè che, dandosi la morte, dona sé stesso, nel sacrificio di sé, a chi però, abbagliato da un vitalismo che l’autrice definisce “stupido”,  non può apprezzare quel dono estremo. Ecco una macabra “passeggiata al cimitero” ed una elegia della Grecia, di quella nazione cioè che ci fu Magna Mater, la Megalè Ellàs, poiché ci diede, culla del Mediterraneo, il pensiero, la poesia, la filosofia, insomma quella cultura classica alla cui fonte anche l’autrice si è abbeverata. Francescana la vocazione che sottende il brano “La condizione della felicità”, mentre si avverte una ricerca costante in “Onore alla realtà”. Certo la Fabrizio non è una poetessa di lungo corso, non può la sua poesia essere intesa come sacerdotale missione;  sono, i suoi versi ,lontani dallo “scandalo della poesia”, di quella poesia cioè che è pietra di paragone (skandalon appunto) in cui inciampano gli altri, i non illuminati, i non veggenti (per dirla con Rimbaud) e si rendono conto dei luoghi comuni. La Fabrizio è una raffinata intellettuale, semmai una filosofa prestata alla poesia.

Si giunge così alla sezione intitolata “Inconscio”. “Siamo sempre in quel luogo dal quale siamo appena andati via e vorremmo sempre essere dove ora non siamo”, scrive Elena Fabrizio in una delle poesie più belle, “Siamo quest’inquietudine che a dire è inequivocabile / a sentire è inafferrabile / impossibile a condividere / oscura ci trattiene dal contagiare la terra bruciata”.  La poesia, dunque, come canto di prefica, come epicedio per la morte di una civiltà, come macabra danza sul cadavere della distrutta umanità? Ma, in filigrana, fra le righe si avverte sempre quell’anelito di speranza, quella promesse de bonheure del messaggio escatologico cristiano. Dall’’homo homini lupus di Hobbes (richiamato anche dall’autore della prefazione al libro, Manrico Murzi) della società moderna, la Fabrizio sa che si potrebbe giungere all’homo homini deus est, si suum officium sciat di  Cecilio Stazio (da lei richiamato della lirica “Spinoza-passim”): cioè che l’uomo davvero potrebbe invertire la rotta se recuperasse brandelli di solidarietà e umana compartecipazione. Dallo spettro del nichilismo iniziale allora siamo giunti ad un’apertura finale. E cos’è che può salvare il mondo dal rischio di nientificazione cui i mali del secolo lo stanno portando, se non la bellezza? Quella bellezza che, come afferma Stefano Zecchi, fondatore del movimento mitomodernista,  è la forma antinichilista per eccellenza, il luogo dove la verità si disvela. E questa bellezza consiste nel recuperare l’humanitas greca e latina, quel concetto classico di umanesimo che può portare armonia e salvezza del mondo. Nella bellezza si possono addirittura ricongiungere mithos e logos, pensiero mitico e illuminismo, fede e ragione. E al “Generare nella bellezza” è dedicata l’ultima sezione del libro. Così con un omaggio a Giordano Bruno ( “Il nolano”) si conclude questo volumetto,  e poesia e filosofia si riuniscono insieme grazie alla penna di Elena Fabrizio.

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