Il periodo quaresimale nella civiltà contadina del Salento

Ripercorriamo il periodo quaresimale della civiltà contadina alla fine dell’Ottocento, attraverso il simbolico fantoccio salentino che Giulietta  ci ripropone antropologicamente nel libro “Tre Santi e una Campagna”.

 

Salento fine Ottocento

La Quaremma (prima parte)     

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Anche alle prime luci del mercoledì delle Ceneri c’era da assistere a uno spettacolo: quello delle quaremme, che i capifamiglia avevano nottetempo issato sui comignoli e che  ora l’incedere dell’alba via via rivelava nel loro orrido quanto caratteristico aspetto: fantocci a grandezza d’uomo, rozzamente approntati con legno, paglia e stracci, riproducenti vecchie megere tetramente vestite con logori indumenti neri, o comunque molto scuri. Sulla fronte, circoscritta da un fazzolettone annodato alla campagnola, una ciocca di lana bianca a simulare capelli, e all’estremità delle braccia – mantenute in posa orizzontale da un manico di scopa – due pale di ficodindia che, a mo’ di mani, reggevano l’una un fuso con alcuni fili di lana  e l’altra  una maràngia (arancia amara) con infilzate sette penne, strappate alla coda di una gallina nera. Tra fuso e arancia, sette fili di lana che, a meglio esprimere la filatura del tempo penitenziale, venivano separatamente annodati alle sette penne, rappresentanti appunto le sette settimane quaresimali.

Rizzare la quarémma sul proprio comignolo o – se questo risultava internato e perciò non visibile dalla strada – sul cornicione della terrazza era testimonianza di religiosità, anzi un porsi nel novero dei cristiani più osservanti, di quelli (quasi tutti), per intenderci, la cui compiacente affermazione “Nui sciàmu all’antica” (“Noi andiamo all’antica”) denunciava fedeltà ai rigorismi medievali.

Il tempo dei pubblici peccatori lasciati in quarantena dietro la porta della chiesa era ormai lontano, ma sia pure in spigolature aneddotiche ne sopravanzava memoria, rinverginando scrupoli – individuali e collettivi – allorché, in vista del rinnovamento pasquale, si entrava nell’apposito clima della contrizione. Una sorta di ricapitolazione delle proprie manchevolezze, peraltro incentivata dai sermoni dei quaresimalisti appositamente fatti inìre ti fore paése (fatti venire da fuori), i quali, calcando sulla necessità dell’espiazione, non di rado arrivavano a teatralmente disciplinarsi in pubblico come appunto usavano fare i monaci flagellanti del Medioevo.

Di fronte a tanta esemplarità di pentimento, e più ancora per la paura dei tuonati castighi di Dio, il popolo avvertiva l’urgenza di porre un’ipoteca sull’assoluzione pasquale, professandosi  comunitariamente pubblico penitente e scovandone il mezzo enunciatore nell’inalberamento delle quarémme, simbolo in assoluto della colpa proprio perché del pubblico penitente raffiguravano gli elementi caratterizzanti: dal loro esilio-esposizione, riportabile alla vergognosa sosta dietro la porta delle chiese, al vestimento fatto di stracci quale misura allegorica del sacco penitenziale; dalla presenza del fuso, valevole a filare il tempo della condanna, alla mortificazione espressa dall’arancia amara; dalle penne di gallina nera, significanti e lo stato di disgrazia* e il succedersi delle scansioni riparatorie, all’aspetto di vecchie megere che, sommando senilità e bruttezza, esprimevano l’avvizzimento spirituale causato dalla deturpazione della colpa.

Una fattispecie di referto, dunque, la quarémma, incentrato sull’umile riconoscimento delle proprie trasgressioni e il cui tono asseverativo non ammetteva repliche, meno che meno se avanzate attraverso uno strafottente comportamento di superiorità o incredula  indifferenza. Eccezione fatta per le famiglie che, abitando in seminterrati, non disponevano di spazi sopraelevati dove issare un proprio fantoccio, nessuno poteva esimersi dal partecipare al simbolico coro di contrizione, ossia far mancare il proprio apporto all’animazione delle terrazze, in un certo qual modo paragonabile – per presenza materica, non certo per valenza spirituale – all’odierno svettare delle antenne televisive. Visione fiorita come per magia nel giro breve di una notte e che, proprio nella misura in cui veniva a proporre il mutamento aereo del pese, stabiliva la maggiore o minore fedeltà degli abitanti a quelli che erano i canoni della tradizione, ormai caratterizzati in presupposto religioso, ma non per questo meno orpellati di remote, diciamo pure oscure, radici totemiche.

Il rifiuto a costruire e issare la quarémma equivaleva infatti all’uscir fuori da un clan, quasi un rigettarne in modo eresiaco i principi iniziatici, per cui chi tanto osava inevitabilmente sottostava alla riprovazione collettiva, incappando nel giudizio di “Anima senza Ddiu” (“Ateo o superbo”) o quanto meno subendo acide punzecchiature, non di rado dirottate sulla casa, definita “Cumiéntu ti virginiéddhri” (“Convento di verginelli”) a ironicamente significare che gli abitanti si sentivano così puri e innocenti da non trovare ragioni di penitenza, o, con più crudo realismo,  “Casa ntunacàta a quatàra” (“Casa intonacata con la fuliggine”) per rendere l’idea di un nero tanto nero da risultare inconfessabile. Di contrasto, l’abitazione sormontata dal simbolo penitenziale aveva pieno diritto al gratificante apprezzamento dei passanti, che classificandola “Casa ti ggente ngarbàta” (“Casa di gente per bene, timorata di Dio”) e precorrendo i tempi dell’atteso assolvimento, spesso le in dirizzavano l’augurio di “Nna pasca a ppriésciu ti spica” (“Una Pasqua da vivere con la stessa gioia che si avverte alla vista di una spiga piena”).

Questo ribaltare sulla casa tanto le deplorazioni quanto gli apprezzamenti, rende chiaro come la quarémma simboleggiasse non il singolo pentimento, cioè quello del suo effettivo costruttore (il capofamiglia), ma quello dell’intero nucleo familiare, in una sdoppiatura di attribuzioni che lasciava intatta quella che era la sostanza dei meriti e delle responsabilità individuali. Se, tanto per fare un esempio, uno dei membri della famiglia si lasciava in quel periodo sfuggire un’imprecazione o peggio ancora una bestemmia in presenza di terzi, questi, pur sapendo che il peccatore non aveva messo dito alla costruzione del fantoccio, lo trattavano come ne fosse l’esclusivo facitore, rinfacciandogli aspramente: “E mmenu male c’à mpizzàta la quarémma… Stanotte tocca cu ssali sobbra lla liàma e ccu nni sciùngi nn’àura ti  pezza néura!…” (“E meno male che hai rizzato la quarémma!… Bisogna che questa notte sali sulla terrazza  e ne aggiungi un’altra di pezza nera!…”).

Il vedere nei fantocci il simulacro della colpa faceva sì che nella loro manifattura ci si attenesse a delle misure pressoché standardizzate, ognuno temendo che un ‘alterazione delle proporzioni – per eccesso o per di difetto- avesse a procurare a lui e ai suoi la taccia di mmùccia tigna (nascondi pecche) per avere presuntuosamente minimizzato i peccati, o di ntronacàscia (rintronacassa)  per avere farisaicamente  calcato nello scrupolo dell’accusa come chi era uso battersi il petto dandosi dei pugni. Oltretutto, sentirsi pari  nella colpa equivaleva a sentirsi cementati nello spirito penitenziale della quarantena (restituiti alla legge convergente del totemico, appunto), quasi un rifluire lungo il corso di esperienze  primitive quando, a dominare il campo delle forze in gioco, ci si creava un punto-specchio nel cui riflesso inglobare la pluralità trasformandola in unicità di rappresentazione. Un trasbordare le incidenze della coscienza individuale nella latenza della coscienza collettiva che tornava a imporsi in occasione dei rustici cerimoniali eseguiti in ogni domenica della Quaresima, durante i quali non si faceva distinzione fra quarémma tua e quarémma mia dicat peccati tuoi o peccati miei -, tutte unificandole  nel gemito di una postulazione comunitaria.

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi  nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 252 e segg).

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