Le secche di gennaio, ovvero il tempo delle “cozze mateddre”’

pateddhe

di Rocco Boccadamo

 

La mia odierna puntata a Castro – località che gode grande rinomanza, fra l’ altro, per le scogliere ammantate di fascino misterioso e intenso e per i fondali eccelsamene cristallini – ha coinciso con una giornata tersa e serena, caratterizzata da leggero vento di tramontana, calme distese d’onde e, in particolare, da una bella fase di bassa marea che esponeva il susseguirsi del bagnasciuga, lapitu in gergo dialettale, completamente scoperto d’acqua e con lo strato erboso accarezzato dai dolci e tiepidi raggi del sole.

Grazie a un repentino naturale moto interiore, la scena mi ha fatto rievocare immagini e ricordi di stagioni lontane, quando gli occhi del ragazzino in perpetuo moto guizzavano come dardi nella voglia e nell’ansia di osservare tutto.

Nella prima parte dell’anno, si era soliti catalogare un determinato periodo con la denominazione, dalle origini certamente secolari, di “secche di gennaio”, volendo dare sottolineatura, appunto, a un arco temporale che, seppure intriso d’arietta fredda, era nondimeno contraddistinto da belle giornate, mare quieto e lapiti asciutti.

Si parlava allora – così come si faceva relativamente alle olive, all’ uva, ai fichi – di tempo di cozze mateddre. Ciò, con riferimento ai piccoli e comunissimi animali marini della famiglia dei patellidi, commestibili (prerogativa assai importante), attaccati agli scogli per mezzo di piedini a ventosa, a pelo d’acqua, in minuscole conchiglie coniche.

lapiti scoperti d’acqua e in assenza d’onde, risultava più facile e agevole guadagnare la scogliera, sfiorarla nel suo percorso irregolare, gattonarvi sotto, allo scopo di raccogliere, con l’ausilio di un semplice coltellino, le cozze mateddre. Tale frutto era (ancora oggi lo è) molto ambito e ricercato, sia per essere consumato crudo, sia per costituire, dopo una rapida frittura, un prelibato condimento della pasta asciutta.

Numerosi paesani , approfittando di qualche pausa nei lavori in campagna o del frantoio, convenivano di buon grado sui cuti (scogli), attrezzati di pusceddru (piccolo sacchetto di tela ) e temperino. A piedi nudi e pantaloni arrotolati, passavano in rassegna i lapiti per alcune ore, gli occhi fissi sulla scogliera cercando di staccare le cozze mateddre più grandi e carnose e, una volta che il contenitore era dignitosamente rigonfio, se ne ritornavano alle loro abitazioni, non senza, spesso, dispensare piccoli assaggi del raccolto a parenti ed amici.

I suddetti intrepidi, scalzi in inverno, erano assolutamente immuni da raffreddore o tosse, tanto da dover oggi riconoscere che trattatasi, fuor d’ogni dubbio, d’altri tempi e di altre fibre.

Nella sequenza dei ricordi del ragazzo di ieri che scrive, è apparsa anche la figura di uno specifico e definito compaesano, all’epoca giovane ma disoccupato e squattrinato, il quale si prestava a raccogliere manciate di cozze mateddre  per un suo coetaneo meno povero di lui, potremmo in un certo senso dire un signorino, al fine di ottenere in cambio due o tre sigarette.

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