LI MÀRTIRI de UTRÀNTU – Analisi strutturale di due sonetti di Nicola G. De Donno

ACUBAT

 

di Emilio Panarese

 

 

Due sono i nostri poeti più validi che hanno cantato, in vernacolo salentino, l’epopea otrantina: De Dominicis e De Donno. Circa ottant’anni fa  il primo col poemetto ‘Li Martiri d’Otranto’ (50 composizioni, 800 versi); otto anni fa e quest’anno De Donno con ‘Li martiri de Utràntu’  (sonetto pubblicato nel ’72, in ‘Cronache e paràbbule’),‘Utràntu’ (sonetto dedicato ad Oreste Macrì, ivi),‘Utràntu de li martiri’ (otto sonetti che usciranno nel prossimo numero de ‘L’albero’, scritti tra il 4 e il 12 agosto 1980, nella ricorrenza del quinto centenario dell’eccidio) ed, infine, i tredici sonetti, inediti, de Li martiri de Utràntu. In tutto 23 sonetti, 312 versi.

Differenti i livelli semantico-stilistici dei due poeti; assai diverso, sul piano connotativo, pure il tono della decifrazione del messaggio poetico: analitico, retorico, a volte ampolloso e declamatorio nel primo; sintetico, pacato e misurato nel secondo.

Fra gli ultimi tredici sonetti inediti di De Donno abbiamo volto la nostra attenzione a due in particolare, perché, a nostro giudizio, strutturalmente più compatti e, più degli altri, rispondenti alla pienezza ideativa del segno lirico.

In essi la struttura sintattica, di tipo paratattico, tutta  asindeti e polisindeti, leganti in unità i vari sintagmi poetici, è la più adatta ad esprimere i particolari effetti di successione psicologica ed emotiva della sintetica rievocazione della cosa ‘enorme […] strepitosa’, dell’azione, cioè del fatto epico, che rapida precipita, come nelle tragedie greche, verso la catastrofe.

Anche il ritmo, spezzato e volutamente cadenzato, quasi a rendere  acusticamente  il sibilo e la rovina delle palle turche, ora incalzante e frenetico, ora solenne e linearmente disteso, contribuisce sia al giuoco delle cesure interne (come nelle terzine dell’VIII sonetto), sia con gli effetti melodici di certe sillabe e di certe rime, anche quelle equivoche, a darci una visione volumetrica degli incalzanti momenti della fine.

Quanto poi alla semanticità dello stile, che è uno stile nominale legato alla enucleazione essenziale della parola-cosa, senza orpelli e senza scarti, c’è da notare il tono altamente drammatico delle due liriche qui esaminate, che colgono, nel codice vernacolare non certo meno dignitoso e vigoroso di quello nazionale di fronte ad una materia popolare cantata con spirito epico, il momento cruciale e conclusivo della resistenza otrantina.

Di fronte a questa materia popolare De Donno non assume il distaccato atteggiamento ironico-satirico, che gli è quasi consueto. Qui non trovi  più le culozze contestatrici che Primaldu à discitate  […] na notte de luna e radunate sulla Minerva, an giru sozzesozze / ssettate a pparlamentu, ma scopri invece un atteggiamento pensoso e meditativo, anche se – bisogna ammetterlo – il sottofondo psicologico resta sempre imbevuto di motivazioni polemiche ed oppositive verso il potere: da una parte lu Rre (Ferrante) indifferente, che nu ss’ave mossu eSsistu papante,che soltanto ave bbiundati contributi / de ‘ndurgenze; dall’altra Utràntu […] ssula an facce a llu mulossu / Sula.    

Persino la significazione delle figure usate, la metaforica e la metonimica, è qui diversa: è più misurata, più parca, non sovrastruttura, non ornato, ma motivazione reale del segno stesso. Ed anche la catena linguistica è diversa: del tutto scarna, ridotta all’essenziale, fatta per lo più solo di strutture minime binarie e di espansioni adnominali, specialmente nel secondo sonetto (l’VIII), in cui la tragedia della fine incalza ineluttabile.

Un’analisi particolare meriterebbe la disposizione delle parole: si pensi alla forza di quel Ca ggiàiniziale (s. VII), alla ripresa  oppositiva  di quel ma, che porta in primo piano la travagliata resistenza della genticedda otrantina abbandonata al suo destino e votata all’estremo sacrificio. Si consideri pure il valore intensivo di quel cu, tre volte ripetuto, dell’ultimo verso: cu ogne arma, cu lle furche, cu lli spiti e la forza semantica dei quattro gerundi martellanti, incalzanti, condensati in una sola terzina dell’VIII sonetto. Si ponga mente all’efficacia stilistica  dell’aggettivo ripetuto, come in Utràntu è ssula […] Sula,  che isolato, all’inizio del verso seguente, si carica di un pathos particolare, e come in L’urtimi mille […] all’assartu, l’urtimu, e parimenti consideri  la potenza melodica di quell’E ppoi, che messo lì dopo tre  enjambements consecutivi, che allargano il ritmo, sta a segnare il netto distacco tra due momenti decisivi: la vana resistenza e la feroce vendetta.

Il poeta ci dà in questi due sonetti una visione chiaramente plastica dell’epopea del 1480, e sintetica insieme, con un segno davvero compendiario che ricorda l’austera sobrietà e la corposità plastica dell’affresco masaccesco: solo quattro pennellate, quattro abbozzi rapidi e decisi, che aprono un’immensa scena di strage.

In primo piano la morte patruna che, prima dei Turchi, ha già occupato la città, le vie, le case, e Utràntu strazzata finu all’ossu.

Più indietro, la folla anonima, ma viva e corposa, dei surdati, de l’urtimi mille, dei Turchi violenti, dei feriti, dei prigionieri e il grande scenario, in cui, attraverso accenni e tocchi fuggevoli, tu vedi con orrore i corpi de li ccisi col particolare di quella carne che mprusciúna e che dà alla morte di quei derelitti un senso di più desolato abbandono, e la muraja che ancora per poco resiste contru le palle e lli trumenti, ed, insieme le furche e lli spiti agitati per l’ultima, inane difesa, e i barbari che, struncunisciànnu Utràntu via pe vvia, stroncano, strozzano, spezzano, fracassano, squartano, rubano, incatenano, violentano, senza pietà alcuna, più feroci di sciacalli da lungo tempo affamati.

La frequenza delle vocali e dei fonemi invertiti sordi dà al verso una lentezza cadenzata, mista di pietà e di terrore: tru /tru /tra/ tra sono colpi di scimitarre che cadono impietosi, scandendo i tempi della tragica fine.

Ma ciò che commuove il poeta sono quei poveri uomini, contadini e pescatori, che amano la pace dei campi e del mare, ma che, violentemente e improvvisamente, son posti di fronte alla dura realtà della guerra, di fronte a scelte decisive, che li trasformano in eroi, tanto più grandi quanto maggiore è in loro l’attaccamento alla propria esistenza e alla fatica quotidiana della zappa e del remo.

Sono dei vinti, che sanno di dover morire, che accettano la morte con austera rassegnazione. L’epicità è tutta lì: nella loro magnanimità e nella coscienza della fugacità della vita.

 

Maglie, 13 novembre 1980

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