LU MIERU (Il vino) 2/2

Cornelius de Vos, Il trionfo di Bacco
Cornelius de Vos, Il trionfo di Bacco

di Armando Polito

Negli autori latini si ripete tal quale la condanna dell’eccesso da parte della scienza e una certa indulgenza da parte della poesia. Plinio (I secolo d. C.) dedica all’ubriachezza l’intero capitolo 28 del libro XIV della Naturalis historia: “Ma a ben pensarci in nient’altro è più occupata la vita nostra, come se la natura non ci avesse dato l’acqua per bere, usata anche dagli altri animali. Addirittura noi costringiamo anche le bestie a bere vino e mettiamo tanto impegno, fatica e spesa in qualcosa che muta la mente dell’uomo e genera furore spingendo a mille scelleratezze con tanta dolcezza che gran parte degli uomini non concepisce altro premio della vita. Per berne di più ne indeboliamo la forza col colatoio e si escogitano nuovi stimoli. E per bere si preparano anche veleni e alcuni assumono prima la cicuta perché la morte li spinga a bere, altri polvere di pomice ed altro che mi vergogno di dire per non insegnarlo. Vediamo i più accorti di costoro smaltire la sbornia nei bagni ed essere portati via esanimi. Altri non possono aspettare il letto né la veste e dove si trovano ignudi e ansanti afferrano grandi vasi come per ostentare virilità e bevono a perdifiato per vomitare subito dopo e poi ribere; e questo per due o tre volte come se fossero nati per consumare vino e come se esso potesse essere versato solo nel corpo umano. Per questo ricorrono a pratiche straniere e si rivoltolano nella polvere e distendono il petto piegando il collo. Dicono che tutti questi esercizi provocano la sete. Così nei vasi sono nascosti gli adulteri come se l’ubriachezza stessa non spingesse alla lussuria. Così i vini si bevono per lussuria e l’ubriachezza viene premiata e, se agli dei piace, viene comprata. C’è chi per legge dell’ubriachezza viene pagato perché beva tanto quanto mangia e chi tanto beve quanto ha vinto ai dadi. Allora gli occhi avidi vagheggiano una matrona e suscitano nel marito pesanti sospetti. C’è chi fa testamento, chi dice parole mortifere e non riesce a trattenere la voce in gola come dovrebbe, ragion per cui parecchi trovarono la morte. E ormai comunemente la verità è attribuita al vino1. Frattanto perché per loro tutto vada per il meglio non vedono il sorgere del sole e bevono meno di giorno. Da qui il pallore, le guance pendule, gli occhi arrossati, le mani tremanti che rovesciano i vasi pieni, i sonni agitati (questa è una pena continua), l’inquietudine di notte; e il più grande premio dell’ubriachezza è una lussuria mostruosa e una piacevole scelleratezza. Il giorno successivo l’alito è puzzolente e c’è l’oblio di tutto e la morte della memoria. Dicono che in questo modo rapiscono la vita, mentre ogni giorno perdono quello precedente e pure il seguente”. Seguono alcuni esempi di ubriachezza in cui incorsero famosi personaggi romani.

bacco

Più indulgenti, dicevo, i poeti. Tibullo (I, 2, 1-4): “Aggiungi vino e col vino lenisci il recente dolore,/affinché il sonno invada gli occhi vinti dalla stanchezza;/e nessuno tenti di svegliare un ubriaco/mentre l’amore infelice riposa”. Ovidio in Remedia amoris, 805- 806: “Il vino prepara l’animo all’amore, a meno che non se ne beva una quantità eccessiva/e il cuore rimanga stordito come sepolto sotto il suo peso.”; il concetto è ribadito nell’Ars amandi, I, 589: “Da noi sarà data a te una misura certa del bere”, 598: “Come la vera ubriachezza nuoce, così quella finta gioverà”; in Amores il vino diventa un’arma, con la complicità della donna, per mettere al tappeto il rivale in amore: “Insisti perché lui beva continuamente, ma fallo senza che se ne accorga e mentre beve aggiungi, se puoi di nascosto, altro vino”. In Epistulae ex Ponto vi è solo la celebrazione nostalgica delle bevute fatte in patria con gli amici, ma non mi sentirei di escludere che lo scemato entusiasmo di una sana gioia di vivere fosse dovuta, più che all’amarezza dell’esilio, alla pessima qualità del vino del posto in cui era stato esiliato …

Bacco di Rubens
Bacco di Rubens

Orazio in Carmina, II, 11, 13-18: “Perché non beviamo distesi sotto un alto platano o questo pino, così, senza pensare e, finché è possibile,  con i bianchi capelli profumati di rosa e di nardo? Bacco dissipa le preoccupazioni che divorano …”; I, 18, 3-4: “Un dio riservò a chi non beve ogni sofferenza e le preoccupazioni che mordono non vanno via in altro modo”; in Epistulae, I, 2-3: “Nessun canto può piacere né vivere a lungo/se composto da bevitori di acqua …”; I, 5, 16-20: “Che cosa non fa venir fuori l’ebrezza? Essa svela le cose nascoste, rende certezza la speranza, spinge all’azione un inerte, elimina l’affanno dall’animo in ansia, insegna le arti. Chi non fu reso facondo da un calice pieno, chi non libero anche se povero?”. In Ars poetica, 434-437: “Si dice che i re incalzano con grandi tazze e torturano col vino qualcuno quando hanno difficoltà a capire se sia degno di amicizia …”. Una connotazione eminentemente politica ha invece in Odi, I, 37, 1-2 il brindisi per la morte di Cleopatra: “Ora si deve bere, ora col piede sfrenato/ si deve battere la terra …” che ricalca il “Dobbiamo ubriacarci oltre ogni limite:/il tiranno Mirsilo è morto.” di Alceo citato nella prima parte. E, come nella prima parte avevo iniziato col proverbio dialettale della vignetta, così termino questa seconda ed ultima con altri due:

Bbuenu mièru sinu a ffezza, bbona fèmmina sinu a bbicchièzza. Alla lettera sarebbe: Buon vino sino alla feccia, buona donna fino alla vecchiaia; senonché tutti sanno di cosa sia sinonimo la locuzione “buona donna”; e allora: il proverbio vuol significare che, come il buon vino si mantiene tale nel tempo, lo stesso vale per la buona donna? oppure “bbona femmina deve intendersi come se fosse femmina bbona?; e “bbicchiezza”, almeno questa volta, impedirebbe di dare a “bbona” il significato connesso alla fisicità che tutti conoscono …

Ci li ggiùrni mia l’abbìa tutti, facìa cu qquàgghia lu mièru intr’alli utti (Se i giorni miei li avessi tutti, farei cagliare il vino dentro le botti). È febbraio che parla manifestando un’invidia tutta umana, non disgiunta da un pizzico di presunzione, nei confronti degli altri mesi che contano più giorni di lui. In senso ampiamente traslato è come se uno di noi dicesse: se avessi le stesse risorse degli altri, riuscirei a fare quasi l’impossibile.

 

La prima parte qui:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/16/lu-mieru-il-vino-12/

 

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1 Vulgoque veritas iam adtributa vino est. È in pratica il concetto latino del greco Ἐν οἴνῳ ἀλήθεια di cui si è detto nella prima parte, cui corrisponde in latino In vino veritas.

Galatina. La spaccata

la spaccata

di Pippi Onesimo


La sceneggiata de le Signurine coinvolte nel rituale della quindicina della Rusetta si svolgeva con partenza da Piazza San Pietro, dal lato del Castello, e si sviluppava con studiata lentezza, costeggiando tutto il sagrato della Chiesa Madre.

Pare che il Parroco, stando alle male lingue che trasmettevano da “Radio Fante“, avesse più volte tentato di far cambiare piazza e abitudini. Ma invano!

Ingoiò amaro per alcuni anni; ma alla fine (cu llu tiempu e cu lla paja se mmatùranu le nèspule) riuscì a realizzare la sua piccola, silenziosa, sottile rivincita.

Con l’aiuto della politica e… della Democrazia Cristiana, in particolare, ottenne il clamoroso (per quei tempi) risultato di far chiudere la Rusetta, ancor prima che la legge Merlin entrasse in vigore.

Sempre la stessa Radio riferiva che, cercando il pelo nell’uovo, si riuscì a compiere il misfatto con la scusa della carenza di alcuni requisiti igienici riscontrati nei locali della Casa.

Ma, secondo l’ipotesi più accreditata e più attendibile, le fortune della Rusetta finirono quando si scoprì, dopo tanti anni di onorato servizio, che non sapeva leggere.

E, apriti cielo, il suo analfabetismo le fu fatale!

La stessa Autorità che le aveva concesso la licenza, dopo molti anni si accorse misteriosamente (ma non tanto) che la Rusetta non aveva i titoli culturali per esercitare quel mestiere.

Infatti sorse spontanea subito una angosciante domanda: chi controllava i documenti di identità dei clienti per accertare la maggiore età (allora 21 anni), la sola che consentiva l’accesso nelle alcove?

E fu così che anche la Rusetta dovette constatare con profonda amarezza, che quando te pija de punta una triade vincente, e allora lo era veramente, fatta de prèvati, sacristìe e democristiani èranu(?) mari!

In molti sostennero che fu fatta una questione di lana caprina, perché alla Rusetta bastava il naso e l’esperienza per distinguere l’età dei clienti.

Ma la legge è legge, anche per la Rusetta: e, a malincuore, raccozze li fierri (sbaraccò) e chiuse i battenti.

A Lei rimase il sapore dell’affronto, ai clienti solo quello della delusione.

Anche perché non era ancora previsto nel nostro codice penale il reato di sfruttamento della prostituzione.

Oggi, invece, non solo è in vigore, ma è anche balzato prepotentemente agli onori della cronaca, per certe presunte frequentazioni eccellenti, anche col “bunga bunga“, le quali, se vere, al di là dei cavilli procedurali e della loro contestata e disquisita valenza penale, provocano, per l’evidente indecenza dei messaggi che ne deriva, disgusto e imbarazzo.

Comunque sia, qualunque attività, soprattutto economica, ha avuto sempre bisogno di una adeguata pubblicità. Era, ed è, una elementare legge di mercato.

In altri termini, la spaccata (l’attraversamento solenne e pomposo del centro del paese) doveva cominciare proprio da lì. E la Rusetta, che conosceva profondamente il mestiere in tutti i suoi particolari, non trascurava certo nessun pur minimo dettaglio e, quindi, sapeva benissimo come pubblicizzare la sua mercanzia!

Infatti, pe lle Signurine, dopo le prescritte visite mediche presso un medico condotto con bottega nelle immediate vicinanze di Piazza San Pietro, come in un copione non scritto, diventava di rigore fare la spaccata a piedi, accompagnata da brevi bisbigli, velati sorrisi e da occhiate intense ed eloquenti, sulla via de l’Oruloggiu (Corso Vittorio Emanale).

Questa strada, insieme alla via de lu Municipiu (Corso Umberto 1°), alla Chiesa Madre, alla Chiazza (Piazza San Pietro) e alla via de lu Tàrtaru cu lla Chiazza cuperta (il mercato coperto comunale), era veramente, allora, il centro propulsore del tessuto cittadino.

Non a caso si usava dire: “mò vau e bbegnu de la chiazza”, o, ”mò rrivu ‘n attimu alla chiazza“, magari per ascoltare i comizi elettorali (mitici quelli de lu Chirenti, de lu Moru, de l’Onurevule, de lu Petrujaru), o per incontrare gli amici, o per fare acquisti, o intrecciare affari fra Piazza San Pietro, la Pupa e Piazza Alighieri, dove si svolgeva anche il mercato settimanale.

Al loro passaggio, proprio all’imbocco del Corso, i clienti de la piscialora (per lo più vecchietti con problemi di prostata, che visitavano di frequente i gabinetti igienici), costruita dalla Amministrazione comunale con spudorata irriverenza proprio sul lato sinistro della Chiesa Madre e poi demolita verso gli anni ’50, rallentavano il passo.

E, nonostante l’urgenza, si fermavano per brevi istanti, macari thrinchiandu (trattenendo a stento), ma incuriositi, divertiti e… quasi scurnusi per i cattivi, anche se solo platonici, pensieri.

La probabilità di incrociare, qui, qualche terzetto de pizzoche ‘ndolurate (pie donne) non era tanto remota, stante la vicinanza della sagrestia; e, se succedeva, potevi ascoltare un breve, sommesso, velato, appena sussurrato, o quasi biascicato, ma bruciante commento: “nnu bbu scurnati, brutte pulandhre scamuse” (oggi si dice escort con benevola finzione!).

Le Signurine, maliziosamente indifferenti, oltrepassavano, da sinistra, lu stagninu (mesciu ‘Raziu Caballu) che, anche lui frastornato, nonostante l’età, per un attimo riponeva il martello col quale batteva le cazzalore (le pentole) de rame russa per gustarsi il passaggio.

Subito dopo si affacciavamesciu Cici Putenza, trascurando brevemente tarloci e sveje in riparazione, per dare una sbirciata di circostanza, o forse per sbollire un po’ di amarezza e di rabbia per una minaccia di sfratto dall’ angusto sgabuzzinu di proprietà della Parrocchia, prima preannunciata e poi attuata.

Da destra, le putie de ”Caccia e pesca” e de li ”Cappieddhri” de lu Rumanu , a quell’ora, erano quasi deserte.

Subito dopo, sulla sinistra, lu Turicchiu , breve, alto, sottile in camice bianco (il gestore di un noto e attrezzato negozio di generi alimentari) compariva come un’ombra sull’uscio, disinteressandosi della sua “salame allu pistacchiu o allu pepe“ (la mortadella), che solo lui riusciva a tagliare a fette sottili, quasi trasparenti, con una abilità altamente chirurgica, per evitare “menamentu“ (residui invendibili), diceva, manovrando con rara abilità una affettatrice azionata a mano.

Lasciavano, sulla loro destra, la Cartoleria Mengoli, piena zeppa di quotidiani, riviste, giornalini (mitici quelli di Topolino edi Tex), pupazzetti, bamboline, tombole, dadi, dame, scacchi, panarini pe lla mescia, cartelle e valigie di cartone e di stoffa, pennini, calamai, quaderni a righi de prima pe ll’aste, de seconda pe lle vucali e a quadretti, libri di lettura e sussidiari per le scuole elementari, lapis e gomme, modellini di automobili (indimenticabile la serie che riproduceva tutti i modelli Fiat fino allora prodotti ), pipizze e tamburelli, e poi tante altre incredibili, inimmaginabili cianfrusaglie.

Accanto si poneva la Pethrina Nuzzu con le sue indecifrabili chincaglierie, che esercitava di fronte alla putia de lu Scarpa, con la quale duellava in una inevitabile, sottile, rispettosa e leale concorrenza… merceologica, anche se sulu lu Scarpa deteneva, con legittimo vanto, il primato della vendita de li buttuni (di tutti i colori, di tutte le qualità e di tutte le grandezze, ma non quelli foderati, di competenza esclusiva de lu Solidoru).

Spulette, matasse, cumìtuli de cuttone e de lana, bucate de madreperla, buttuni, achi, disciatali pe lle nfiamature , chiusure lampu pe lle gonne e pe lle pitacce, làstiche, ciappe e buttuni automatici pe lle carzunette, nasthri e nashtrini ( compresi quelli tricolori), spille (anche quelle di sicurezza ), spilloni, frange e cordoncini, methri e forbici de sartu ecc… erano le loro armi di battaglia.

Lu Bar de le signurine Ascalone, all’angulu de lu Monte de Pietà, che profumava sempre de crema, pasticciotti e mustazzòli, attirava la loro attenzione, ma…passavano prudentemente oltre, anche perché la cera de la signorina Filomena (zzi’ Nena, per pochi intimi), quasi sempre stirata, con in mano l’immancabile tazzina di caffè e con la testa avvolta in un eterna aureola di fumo di sigaretta, non incoraggiava certo la visita di certe clienti.

Di fronte, ben in evidenza, luccicavano nieddhri, spille, ricchini, tarloci, cuantiere d’argentu e ppendindiffi, (dal fr. pendentif: ciondolo applicato alla collana)esposti, come specchietti per le allodole, nella vetrina della Oreficeria de lu Pignatelli.

Superavano Corte Taddeo, con in fondo, subito dopo la sacrestia, abbastanza defilata la Casa paterna dei “De Maria”, poi la putia de l’Astarìta col suo odore misto di concimi, di spezie e di muffa, e la putia de mobili de l’Angiulinu Belfiume, dove una stanza da letto, allestita ben in vista, ammiccava con inopportuna sfacciataggine.

Inevitabilmente sfilavano de fronteallu Corpu de Cuardia, allora sotta ‘lla Torrre de l’Oruloggiu, da dove il piantone di servizio con la sua candida divisa, lustra ed immacolata, in piedi e a capo scoperto sul portone d’ingresso, osservava il corteo in doverosa compostezza istituzionale.

Accanto alla Barberia Mengoli sostavano in religioso silenzio, in attesa di ricevere ordini dal Capucuardia, lu Ttammone Cchiappacani e lu Cici Schiancatu, i quali, più che incaricati di pubblico servizio, erano due istituzioni civiche: uno addetto al controllo dei cani randagi, l’altro responsabile della nettezza urbana.

Due servizi gestiti direttamente dal Comune, che funzionavano egregiamente (allora) per lo scrupolo ed il senso del dovere degli addetti ai lavori.

L’occhi, però, loru menàvanu spittareddhre, anche se ostentavano una malcelata, diplomatica, marpiona indifferenza.

Don Pantaleo, lu Capucuardia, che aveva osservato tutta la scena, seminascosto nel buio in fondo allo stanzone, li richiamava all’interno degli Uffici per affidar loro qualche mansione.

Forse, era solo una scusa per un scrupolo recondito e inespresso di pudore!

Allora, la dignità e il rispetto per le Istituzioni, quelle che sonointese come espressione democratica della collettività e non come orticello personale,erano due valori che avevano ancora un senso.

Oggi c’è solo avanspettacolo, affarismo e ricerca disperata di visibilità mediatica. Anche a livello locale.

Basterebbe assistere, se si ha stomaco, a qualche seduta delle Camere, o, senza andare lontano, di Consiglio Comunale!

Lu Corpu de Cuardia era accampato, fino a pochi anni fa, a piano terra (ora è a Palazzo e si chiama Corpo di Polizia Locale: come dire, è salito di piano e di… tono) in un solo androne con due stanzette di quattro metri quadri ciascuna adibite, una a Ufficio Comando e l’altra a ufficio amministrativo, poi destinata al vice Capucuardia.

Vi era anche un bagnetto di in…decenza, talmente angusto e ristretto da consentire una sola sconfortante postazione, che si raggiungeva superando un gradino sottoposto.

L’arredo era composto da poche, misere suppellettili: poche sedie, un armadio di legno, due serie di attaccapanni a quattro posti appese al muro, una rastrelliera per le biciclette ed un separé, che delimitava una parte dello stanzone, costruito diligentemente in compensato con sportello e davanzale, sul quale era poggiato il registro degli ordini di servizio e quello di registrazioni delle contravvenzioni.

Al di là, operava il Piantone. Vi sostavano momentaneamente anche le cuardie, che, dopo aver consultato il registro dei servizi, erano già pronte ad andare in strada col passante della visiera della còppula, tirato in giù ed usato come sottogola.

Questo era il segnale che erano comandate in servizio di viabilità.

Tale abbigliamento (il sottogol), semplice e disadorno, era anche il segno delle grandi ricorrenze e delle cerimonie ufficiali: la scorta al Gonfalone, al Sindaco pe llu Còrpusu, ai lati dell’Altare e del Monumento ai Caduti pe lla festa de lu quatthru novembre e pe lla Messa de Santu Sebastianu.

E, a tal proposito, don Pantaleo, le cuardie, lu Sindacu e lu Ucciu De Donnu, quasi nascosti cu quatthru pizzoche nella navata sinistra del Sacramento nella Chiesa Madre, celebravano la ricorrenza del Protettore, partecipando alla prima Messa mattutina e poi, in silenzio, senza clamori e passerelle, ritornavano tutti in servizio.

Una coppia de cuardie, destinata alla perlustrazione delle strade di periferia, intanto trascinava giù dai gradini del portone d’ingresso due biciclette prelevate dal parco ciclomezzi (la rastrelliera), ma si fermava un attimo in attesa che la sfilata finisse.

Già prima, all’interno, avevano accuratamente controllato la pressione delle ruote, utilizzando pompa manuale e curasciùlu ( rigorosamente di dotazione ) e la integrità della borsetta dei ferri, appesa sotto la sella.

Le prime mitiche moto “le Gilera o le Guzzicu lluUcciu e l’Aureliu, che elevavano contramenzioni con inflessibile determinazione, “piacqua o non piacqua “, erano ancora nel libro dei sogni.

Accanto a un armadio, quasi seminascosta, era poggiata al muro una ingombrante pedana per pizzardone, distratta da tempo dal suo compito istituzionale e usata solo il giorno dell’Epifania per ricordare la ricorrenza della “Befana del Vigile“.

Infatti veniva posizionata in Piazza San Pietro, dove cittadini e commercianti depositavano i loro doni.

Quel rito, spontaneo e simpaticamente paesano, che, al di là del suo valore venale, aveva sopratutto il senso di pesare la stima e l’apprezzamento della collettività, andò avanti per alcuni anni; poi si dissolse nel nulla, senza alcun editto, in silenzio così come era nato.

I tempi erano già cambiati!

 

Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne autorizzato la riedizione

 

Tiggiano e Sant’Ippazio, tra fede, virilità, pestanache e giuggiole

tela del Santo nella parrocchiale di Tiggiano (ph Giacomo Cazzato)

Santu Pati: il santo della Fede, della fermezza e della virilità.

Il capodanno contadino nel Basso Salento

di Giacomo Cazzato

Quando si parla di feste patronali spesso ci si fossilizza sui particolari commerciali e di massa, utili per trasformare la festa in una occasione lucrosa, in contrasto con quelli che furono gli originali e sani valori cristiani, cari alla pietà popolare, motivo qui in Salento di ogni festività.

Quella genuinità originale la si può ritrovare intatta nella sua completezza, ancora in terra di Leuca e in particolare a Tiggiano, piccolo paese che si può elevare a paradigma del culto dei santi orientali e delle relative tradizioni popolari.

Sono molti i santi e le festività orientali nel capo di Leuca: Santa Sofia e San Biagio a Corsano, San Giovanni Crisostomo e San Pietro a Giuliano, San Michele Arcangelo a Castrignano, Sant’Andrea a CapraricaPresicce,  Sant’Eufemia e l’Assunta (prima Dormitio) a Tricase, Santa Marina a Ruggiano e Miggiano, San Nicola a Salve e Specchia.

Ad essere venerato a Tiggiano è invece Ippazio di Gangra (Paflagonia), vescovo del IV secolo lapidato a Luziana da eretici novaziani e padre conciliare a Nicea nel 325 d.C.

Il santo dal nome altisonante, di cui poco si conosce per via delle poche notizie desumibili dal martirologio romano, è titolare dell’unica parrocchia, la sola in tutta la chiesa cattolica, e della relativa Matrice in cui si può ammirare una bellissima tela tardo-rinascimentale  ritraente il santo in età senile, datata al 1626. Ed è proprio nel secolo XVII nel passaggio del feudo di Tiggiano dai Gallone ai Serafini che nasce il culto unico di Sant’Ippazio, il cui nome verrà portato ripetutamente da più Baroni nella dinastia ormai estinta dei Serafini-Sauli.

La processione con la statua del Santo per le vie di Tiggiano (ph Giacomo Cazzato)

Ma non è una sola la particolarità del Santo taumaturgo di Gangra; a lui è anche attribuito il potere della guarigione dall’ernia inguinale[1] e quello della fertilità, soprattutto di quella maschile. Mio padre, primogenito, così come tantissimi in paese, porta il nome del Santo Patrono in virtù della propria primogenitura, offerta poi come atto estremo di devozione e di augurio. Ad ogni modo qualsiasi nato non poteva scappare dalla pratica de “li sabbiti”: ogni sabato i bambini in fasce venivano portati sulla pietra sacra dell’altare parrocchiale per ricevere la benedizione per il patrocinio del santo.

Carovane di pellegrini e devoti giungevano e giungono a Tiggiano da ogni parte del basso Salento, molti dal casaranese, dall’idruntino e dal castrense,[2] dove ancora oggi i segni della devozione sono visibili nelle varie matrici.

La festività può essere considerata per le popolazioni del sud Salento una sorta di capodanno contadino, da contrapporre geograficamente alla festività di Sant’Antonio Abate a Novoli.

Oltre alla tradizionale fiera degli animali e alla vendita delle pestanàche e delle giuggiole, celebre è in tal senso il motto dialettale: “Pasca e Bifanìa tutte le feste porta via. Rispunne Santi Pati: e mie a ci me llassati? Se vota la Cannalora: ci su ieu e lu Biasi ‘ncora”[3]. Secondo questo detto a dare continuità diversa alle festività natalizie sarebbe Sant’Ippazio,  cui succederà di lì a breve la Candelora (Specchia) e San Biagio (Corsano).

l’altissimo stendardo viene portato in processione verso la chiesa dell’Assunta a Tiggiano (ph Giacomo Cazzato)

Le messe e l’afflusso di pellegrini si protraggono dall’alba fino alla sera, ma più di tutto è la processione ad essere il culmine della festività: dopo incessabili trattative l’asta dei portantini (che avviene ancora con il vecchio metodo del bastone) si conclude e ad aprire la processione nel suono delle campane a festa è lo stendardo del Santo Patrono, alto ben otto metri ed elevato con non poca dimostrazione di forza, dopo una lunga rincorsa su rullìo di tamburi, dal sagrato della matrice fino alla chiesa dell’Assunta. A seguire lo stendardo del Patrono è quello confraternale, alto parimenti otto metri, cui segue ancora il simulacro settecentesco di scuola napoletana. La benedizione con il reliquiario del santo conclude il tutto in un tripudio di popolo.

LA PESTANACA E LE GIUGGIOLE

Un discorso a parte meriterebbe invece la coltivazione della pestanàca, variante della daucus carota, conosciuta come pestanàca di Sant’Ippazio o carota giallo-viola di Tiggiano, prodotto di nicchia i cui semi vengono gelosamente custoditi dai nostri contadini e che viene venduto durante la festività.

Il frutto, violaceo e dolce, ricco di carotenoidi, è legato da forti fondamenti teologici alla figura del santo ed è simpaticamente ricondotto dal popolo, insieme alle giuggiole, proprio per la loro forma, all’apparato genitale maschile di cui il santo è Patrono.

La pestanàca, presente nell’iconografia bizantina soprattutto nelle cene angeliche o quelle in cui figura il Cristo con gli apostoli, è proprio il simbolo della fede nella natura umana e divina dell’Unigenito: l’inconsistente fragilità di un uomo nella cui profondità si scopre il frutto dolce e divino radicato fortemente nella terra. La tesi ariana combattuta nel Concilio di Nicea si contrappone dunque alla figura del padre conciliare Ippazio e all’immagine della pestanàca, la cui origine etimologica “pistis” indica, nonostante l’apparente espressione dialettale e contadina, il più grande insegnamento di questo santo: la tenacia del martirio per difendere la fede[4], una fede che a Tiggiano e nel Capo di Leuca trova espressione salda nella pietà popolare.


[1]    “HYPATIO SOLVANT VOTUM QVOS HAERNIA TORQVET TAMMERTLA ALTA SVA – 1621” Così recita il fastigio dell’altare a lui dedicato.

[2]    Muro, Scorrano, Andrano, Casarano, Ruffano, Taurisano, sono comuni in cui oltre alla presenza del nome nella popolazione, si conservano opere pittoriche e scultoree dedicate al santo.

[3]    Sant’Ippazio è il 19 Gennaio,La Candelora il 2 e San Biagio il 3 di Febbraio.

[4]    La difesa della  fede è raffigurata nel simulacro dal dragone che cerca di rapire “il tesoro preziosissimo della grazia divina” (dalle preghiere del sacerdote Andrea Caloro).

La statua del santo nella parrocchiale di Tiggiano, restaurata di recente da Andrea Erroi

Sant’Ippazio a Cavallino (Lecce)

di Valentina Antonucci

A proposito di s. Ippazio, vescovo orientale dalla controversa agiografia e decisamente poco presente nella tradizione iconografica cattolica, ma dedicatario di un culto antropologicamente interessantissimo in provincia di Lecce, nel paese di Tiggiano (si vedano gli scritti di Andrea Erroi e di Giacomo Cazzato in Spigolature Salentine), mi sento in dovere di aggiungere una notizia, che forse potrà interessare qualche storico dell’arte o qualche studioso della religiosità locale.

Nella chiesa matrice di Cavallino (Le), dedicata a Santa Maria Assunta come la gran parte delle chiese matrici della diocesi di Lecce, è presente un altare seicentesco sormontato da un dipinto a dir poco singolare, per stile e per iconografia.

Cavallino, chiesa matrice, altare dell’Immacola (ph Valentina Antonucci)

Un’epigrafe sulla sommità dell’altare attesta che esso fu fatto costruire nel 1687 dal sacerdote Domenico De Pandis di Cavallino[1]. Il dipinto potrebbe essere coevo o di poco successivo.

Cavallino, chiesa matrice, altare dell’Immacola, tela dell’Immcolata con i santi Michele arcangelo e Ippazio (ph Valentina Antonucci)

L’iconografia è complessa, anche se resa in modo estremamente paratattico, senza piani di profondità e senza dinamismo: in alto, nella zona più luminosa del dipinto, appare la Vergine Immacolata, circondata da Angeli con alcuni simboli lauretani, stante su una falce di luna su cui si avvinghia il Serpente; in basso, dove i toni oscuri predominano, vi è san Michele Arcangelo che ha sottomesso un mostruoso Satana con i suoi seguaci e che, secondo la tradizione bizantina, sorregge la bilancia in cui vengono pesate due animule (di peccatore demoniaco e di innocente in preghiera).

Sul margine inferiore destro, quasi in esergo, si inserisce una statica icona di s. Ippazio Vescovo in paramenti episcopali e accompagnato dal titulus S. IPATIO. V. M. e da un’ulteriore sigla il cui significato resta da sciogliere: S. P. M.[2]

L’apparentemente bizzarra associazione dell’Assunta con san Michele Arcangelo e il santo vescovo orientale è resa comprensibile da un elemento iconografico, e dunque anche simbolico, che accomuna i tre personaggi sacri: il dragone. Esso rappresenta esplicitamente il Demonio nella tradizione iconografica dell’Immacolata, che si richiama alla fonte biblica dell’Apocalisse di Giovanni, così come, ovviamente, nella raffigurazione dell’arcangelo Michele che abbatte Satana, risalente alla medesima fonte. Per quanto riguarda invece s. Ippazio, è noto che esiste una leggenda orientale (inserita nell’agiografia dei Sinassari greci) secondo la quale il vescovo di Gangra fu protagonista di una misteriosa lotta contro un drago che impediva l’accesso al tesoro dell’imperatore Costanzo II, il figlio di Costantino il Grande che regnò nella stessa epoca in cui viveva Ippazio[3]. Che l’episodio fosse ben noto e centrale nell’agiografia del santo è testimoniato dalla stessa icona lignea conservata nella Matrice di Tiggiano, dove Ippazio è raffigurato in abiti vescovili e nell’atto di schiacciare il dragone. Se nel dipinto tale elemento non compare è, dunque, tanto per motivi di composizione dello spazio, quanto perché qualunque fedele era in grado, a quel tempo, di integrare mentalmente l’immagine e di collegarla, per il legame iconografico-simbolico, a quelle dell’Immacolata e di san Michele: il santo vescovo è strumento della Chiesa Cattolica per schiacciare e sottomettere il Male, da qualunque cosa esso sia incarnato, la malattia come l’eresia (non è superfluo ricordare che ancora alla fine del Seicento nei territori salentini era in pieno svolgimento una vigorosa propaganda antiprotestante).

Il dipinto è molto interessante anche dal punto di vista stilistico: esso condivide sotto questo profilo alcune caratteristiche di ductus con la tela raffigurante S. Giovanni Elemosiniere e la famiglia Castromediano, collocato sull’altare adiacente e databile ai primi anni del XVIII sec.

Il linguaggio pittorico secco e bizzarro di questi due dipinti li caratterizza e isola nel panorama della pittura chiesastica diocesana. Pur tenendo conto che i recenti restauri delle due tele potrebbero non aver rimosso interamente parziali ridipinture deturpanti (soprattutto nella tela con l’Immacolata e sant’Ippazio), non si può far a meno di notare l’assoluta indifferenza manifestata dall’autore per i parametri di bellezza più correnti e diffusi nella pittura italiana del XVII secolo.  Per il pittore, o più probabilmente per i pittori (vicini, ma non identificabili) che realizzarono i due dipinti si potrebbe forse ipotizzare un’origine e una formazione artistica nell’area dell’Europa orientale, greco-balcanica in particolare.


[1] Garrisi A., Cavallino, i luoghi della memoria, con documentazione fotografica di P. Garrisi, Lecce 1998, p.125.

[2] Mi viene in mente che la sigla si potrebbe sciogliere in Santu Pati Martire, ma resterebbe da capire perché sia stato aggiunto il titulus per esteso.

[3] http://www.santiebeati.it/dettaglio/92358

19 gennaio. Tiggiano festeggia il patrono Sant’Ippazio, protettore della fertilità maschile

di Andrea Erroi

Sant’Ippazio nacque in Cilicia e fu vescovo di Gangra (città della Paflagonia, regione storica dell’Asia Minore settentrionale) ai tempi dell’Imperatore Costantino.

Partecipò al Primo Concilio Ecumenico di Nicea (325). Fu martire a Luziana, durante il viaggio di ritorno da Costantinopoli a Gangra, in seguito ad un’imboscata da parte di alcuni eretici seguaci di Novaziano.
Il Santo è molto venerato anche in Russia ed in particolare nella città di Kostroma, dove nel 1330 venne costruito il monastero di Ipatiev.
Il culto per S. Ippazio fu molto diffuso nella Chiesa bizantina e giunse nell’Italia meridionale probabilmente al seguito dei monaci greci. Patrono di Tiggiano, piccolo comune in provincia di Lecce, tradizionalmente è  ritenuto protettore della virilità maschile, benefico per l’ernia inguinale, in quanto ne fu egli stesso a lungo sofferente per un tremendo calcio ricevuto nel basso ventre durante una discussione con gli eretici ariani.

Viene festeggiato, con solenni celebrazioni, il 19 gennaio. Nell’occasione si svolge durante la mattinata la tradizionale Fiera di Sant’Ippazio e nel pomeriggio la processione con la statua del Santo per le vie del paese.

A dare il via alla processione è il rullo di tamburi che segnala l’uscita dalla chiesa matrice con rincorsa dello “stannardhu”, palo in legno di 7 metri con palla di ghisa in cima.

La riuscita dell’innalzamento del pesante e altissimo stannardhu è segno di garantita fertilità e quasi una sfida al protettore dall’ernia inguinale. I pargoli di sesso maschile venivano portati nella omonima chiesa per chiedere al

Per un profilo di Antonio Duma. Scultore galatinese (1916-1986)

 

di Lorenzo Madaro

Recenti pubblicazioni e mostre di ricerca hanno ribadito l’importanza della scultura all’interno delle vicende artistiche pugliesi a cavallo tra il XIX e il XX secolo, facendo emergere figure note e meno note da un vasto panorama non sufficientemente approfondito, almeno rispetto alla coeva pittura. La mostra Gaetano Stella e la scultura da camera in Puglia, ordinata nel 2007 da Clara Gelao nelle sale della Pinacoteca Provinciale “C. Giaquinto” di Bari, è tra gli eventi espositivi che negli ultimi anni hanno avuto il grande merito di far conoscere al pubblico personalità di ampio rilievo ma al contempo – tranne celebri nomi come Filippo Cifariello, Antonio Bortone, Gaetano Martinez – quasi misconosciute, se non per il ristretto mondo degli studi specialistici. Si pensi al tranese Antonio Bassi o, per fare due nomi legati alla Terra d’Otranto, al galatinese Vittorio Vogna e al neretino Michele Gaballo. Non è un caso che alcune tra le opere esposte a Bari tra 2007 e 2008 provenivano dalla prestigiosa collezione di scultura del Museo Civico “Pietro Cavoti” – come nel caso del già citato Vogna o di Nikkio Nicolini, a cui sono state dedicate due schede a firma di Michele Afferri – che vanta difatti opere di significativi autori del panorama territoriale e di respiro, in alcuni casi, nazionale; si pensi, in tal senso, alle opere di Raffaele Giurgola, Eugenio Maccagnani e Pietro Baffa.

Tra le altre opere conservate in questa sezione del museo galatinese – che meriterebbe apparati didattici adeguati, finalizzati a una maggiore comprensione delle opere ivi esposte e a delucidazioni sulle biografie dei loro autori – figura una maternità di Antonio Duma.

Duma nasce nel 1916 a Galatina e, così come avevano già fatto i suoi concittadini Toma, Baffa e Martinez, e come farà il coetaneo Vogna, decide di lasciare il Salento per trasferirsi altrove alla ricerca di stimoli culturali nuovi. Intorno alla metà degli anni Trenta si sposta così a Napoli per frequentare i corsi del Regio Istituto d’Arte, dove nel maggio 1941 riceve il “diploma di abilitazione all’insegnamento nelle scuole ed istituti d’arte del Regno per la Scultura Decorativa”.

Agli anni di studio risalgono alcune opere note solo tramite riproduzioni fotografiche d’epoca, conservate in un archivio privato, che testimoniano prove e indagini intorno alla scultura cinquecentesca, come si ravvisa in una riproduzione dello Schiavo di Michelangelo, datata 1936, e in una testa virile eseguita presumibilmente intorno al 1939-1940, poiché oltre alla firma il giovane ha inciso anche l’anno del corso: il quinto.

Nello stesso torno di anni Duma esegue tre formelle in terracotta con altrettante scene tratte dalla Via Crucis – mediante cui avvia la sua riflessione sull’iconografia cristiana, che poi tratterà ampiamente nella produzione degli anni sessanta e settanta – e una Madre Romana, che è il titolo originale dell’opera conservata nel civico museo galatinese. Cosa emerge da quest’opera? Anzitutto un’attenzione nei confronti della monumentalità, oltre che della semplificazione delle anatomie e delle forme spaziali. Sono i ‘canoni’ propugnati dal regime fascista nel campo delle arti visive, un gusto ampiamente perseguito dagli artisti dell’epoca con maggiore o minore convinzione ideologica. Duma in questi anni si è adeguato a questo flusso, per lo meno dal punto di vista stilistico e iconografico, e la Madre Romana rappresenta l’emblema di questa fase della sua ricerca; la grande figura femminile, che con il braccio sinistro regge con fierezza un bambino e con quello destro alcune spighe di grano, altro non simboleggia che due essenziali valori della cultura italica tanto propugnati dal regime: la famiglia e il lavoro, quello agricolo naturalmente. E quest’ultimo tema ritorna poi senza mezzi termini in un trofeo eseguito in questi stessi anni di formazione – sul retro della fotografia di quest’opera, così come per le altre citate, compare il timbro della presidenza del Regio Istituto d’Arte di Napoli – in cui oltre a due grandi spighe si riscontra un grappolo d’uva e una foglia di vite su cui troneggia un’aquila, esplicito rimando all’iconografia fascista, utilizzato dal regime per sottolineare retoricamente la propria magniloquenza. I temi del lavoro ritornano nell’altorilievo raffigurante due donne e un uomo con il cestino in mano, in cui l’attenzione dell’artista si è soffermata soprattutto sulla resa plastica delle anatomie stilizzate, mentre i volti rimangono poco caratterizzati dal punto di vista fisionomico, tra le finalità di molti artisti del tempo vi è, d’altronde, la rappresentazione di valori collettivi e universali. L’autore si sofferma poi a descrivere i piedi scalzi delle due figure femminili e i grossi scarponi indossati dall’uomo, il quale non rinuncia ad accarezzare il capo di un bambino che tenta energicamente di abbracciarlo. Le due grandi ceste rammentano il lavoro nei campi, ma in un altro rilievo Duma si sofferma sul lavoro nei cantieri edili. La scena, che a differenza delle precedenti è piuttosto movimentata, è dominata da sei uomini impegnati nell’esecuzione di una facciata di un edificio, di cui s’intravede un grande arco e altri particolari evocanti un’architettura razionalista, anch’essa ispirata allo stile dominante. Tra gli altri lavori dell’epoca vi è poi una coppia ritratta in piedi: l’uomo abbraccia la donna, sulla cui spalla poggia il viso dallo sguardo malinconico, la quale in un atteggiamento di rigida fierezza, sottolineata dal lungo abito che rileva le composte anatomie, regge in mano un pezzo di pane. Lo sguardo di Duma si è soffermato sulla condizione umana a lui contemporanea; i temi dell’umanità sofferente ma al contempo della speranza verso il futuro – espressa dallo sguardo fiducioso della donna – ritorneranno anche nelle esperienze plastiche dei decenni successivi, ma il vigore plastico di queste prime realizzazioni lo rendono pienamente al passo con i tempi, inserito, almeno sotto il profilo iconografico, in un dibattito vivace e complesso, quello della scultura degli anni trenta e quaranta, che in Italia ha registrato numerosi e prestigiosi interpreti. Ma d’altronde queste rimangono esperienze legate agli anni di studio a Napoli che presupponevano l’approvazione della direzione del Regio Istituto Artistico, pertanto non potevano affatto distaccarsi dalla cultura figurativa dominante, perseguita per forza di cose anche nelle scuole d’arte.

La stessa compostezza formale, il medesimo rigore plastico – sono d’altronde i valori formali tanto perseguiti e propugnati anche dal punto di vista teorico dallo scultore Arturo Martini o dal pittore Mario Sironi, solo per fare due dei nomi più celebri del panorama artistico italiano di questo periodo storico – sono presenti in un’opera che raffigura un giovane uomo seduto con le gambe accavallate e intento probabilmente a suonare uno strumento musicale, come sembrerebbe suggerire la posizione delle mani. Un profilo essenziale, una sintesi tra plasticismo e arcaismo, ritorna ancora in una statua offerta dagli internati militari italiani al Comune di Därstetten eseguita dal Duma tra il 1944 e il 1945, come conferma la didascalia bilingue di una cartolina edita per l’occasione. Il gruppo scultoreo – probabilmente andato disperso dopo la caduta del Fascismo – è forse il lavoro più retorico della produzione nota dell’artista galatinese, ma non bisogna dimenticare che si tratta di una commissione pubblica.

L’unica opera superstite di questi anni è la scultura conservata al Museo Cavoti, probabilmente donata dallo stesso artista sul finire del decennio, quando la collezione del museo voluto dal segretario della locale sezione del partito fascista, Francesco Bardoscia, s’incrementò grazie alla generosità di alcuni artisti e donatori.

Ma cosa è accaduto dopo la fine degli studi? In seguito alla seconda guerra mondiale, Duma ha fatto ritorno a Galatina avviando la sua attività di docente di disegno presso le scuole medie inferiori e tralasciando, per circa un ventennio, l’attività artistica. Il suo ruolo all’interno delle vicende artistiche del territorio rimane decisamente appartato; non partecipa alle rassegne espositive collettive ordinate in quel torno di anni in Puglia, non riscuote interesse sulla stampa, fatta eccezione per alcuni articoli editi su quotidiani del territorio, e anche nelle antologie dedicate alle vicende artistiche del territorio il suo nome risulta assente, probabilmente per il suo riserbo e, soprattutto, per l’estraneità della sua ricerca dalle coeve indagini artistiche. Duma, difatti, evita qualsiasi forma di sperimentazione linguistica, qualsiasi contaminazione legata alle ricerche visive a lui contemporanee per dedicarsi a un percorso fuori dalla storia ma al contempo – e questo non deve apparire un paradosso – universale, non fosse altro che per la scelta delle tematiche: iconografia cristiana, mitologia, musica e condizione umana. Va così in scena un’umanità afflitta da una sottile malinconia, percepibile negli sguardi assorti, nelle camminate stanche, nella gestualità delle sottili mani e delle braccia affusolate della gente ritratta, elementi questi già ravvisati da Antonio Antonaci che nel giugno 1967 ha affidato le sue riflessioni sull’opera di Duma a un breve articolo edito su “Il Titano” di Galatina.

Un bambino dai calzoni corti s’incammina, un altro scruta il futuro con uno sguardo speranzoso nella sua essenziale divisa scolastica, due fanciulle si avvicinano a una mendicante e gli offrono una ciotola, altre due soccorrono un disabile; un anziano si rivolge affettuosamente a una bambina e un vecchio fuma in solitudine la sua pipa. Gli affetti, il lavoro, la carità, la solitudine. In queste opere si avverte, a differenza dei lavori giovanili noti, un coinvolgimento emotivo da parte dell’autore, il quale nel corso degli anni ha collezionato un vero e proprio campionario di sentimenti e tipologie umane. Dai diseredati che vagano assorti con le proprie intime riflessioni, al chirurgo che impugna il bisturi prima di un’operazione, allo storpio che cammina con l’ausilio di una stampella. E poi, come accennato, la mitologia, come si ravvisa in una Diana cacciatrice e – come riportato in un articolo apparso il 6 novembre 1970 sulle colonne de “La Tribuna del Salento” in occasione di una mostra personale allestita presso la Società Operaia di Mutuo Soccorso di Lecce – con le statue raffiguranti Apollo e Dafne, Ratto di Proserpina e Amore e Psiche.

Tra i cicli ricorrenti nella produzione plastica di Duma in questo torno di anni vi è poi la musica, ballerine e, soprattutto, suonatrici, modellate con un flusso materico mai azzardato, ma non per questo rigido; ed ancora opere legate all’iconografia religiosa – si pensi a un San Francesco o a un profilo della Madonna –, e ancora pescatori, zampognari, circensi e ritratti di giovani modelle in fiore, mentre nella coeva produzione dei bassorilievi – se ne conservano alcuni di grandi dimensioni in collezione privata – si lega soprattutto alla rappresentazione del mondo agricolo e del paesaggio, dove, ancora una volta, “ogni pezzo è un inno alla vita, alla natura alla realtà, è un invito alla speranza, alla umanità eterna delle cose”, come si legge sulle pagine dell’Almanacco Salentino (1970-1972) curato da Mario Congedo e che costituisce l’ultimo contributo noto sull’artista galatinese che morirà nel 1986.

 

Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne concesso la riedizione

Il mistero della lenticchia “porta ricchezza”

Lenticchia e zampone (o cotechino)

quando la panzana si fa classica tradizione.

 

di Pino de Luca

Lenticchie

Passato il rito del capodanno e del cenone di San Silvestro restano sempre da smaltire i resti. Nell’abbuffata che coinvolge grandi e piccini si mescolano, per pura superstizione, cibi beneauguranti di ogni latitudine mascherando il cenone degli “avanzi” (riserve della dispensa dell’anno che muore) con mille e una pietanze che da “portata” si assumono come “portatrici”. Fra queste vi sono le lenticchie, per ragioni che nessuno sa spiegare foriere di ricchezza secondo un costume probabilmente romano.

Alle radici s’associa lo zampone o il cotechino che sulle tavole salentine ha avuto diritto di cittadinanza con la televisione. Sostituendo il capitone, il cappone e il gallo verso i quali l’interesse è scemato quasi totalmente. Sic transit gloria mundi

Rimane il mistero della “lenticchia porta ricchezza.” E allora ci si mette al lavoro. Indubbiamente è il più antico tra i legumi coltivati dall’uomo. Ne parlano in molti e tracce di lenticchie si trovano fin dal 7000 a.c. nell’area della mezzaluna della civiltà nella quale abitarono i Sumeri. Di certo la conoscevano gli egizi vista la presenza del legume in numerose tombe e, senza dubbio alcuno, era nota al popolo ebraico.

Ritrovamenti archeologici risalenti al principio del II millennio a.c. testimoniano l’esistenza della lenticchia come legume costituente mensa umana nelle isole Eolie (Filicudi, Filo Braccio)

Nel libro della Genesi [25,34] si narra di Esaù e di Giacobbe e di come il primo cedette il diritto di primogenitura “per un piatto di lenticchie ”palesando già da allora che si trattava di legume di poco valore.

Le lenticchie compaiono anche per due volte nei Libri storici (Samuele) e una volta anche in quelli profetici (Ezechiele). Ma ciò non ne ha reso un prodotto benaugurale, l contrario gli Ebrei usano consumarlo quando sono in lutto. Di ciò v’è traccia concorde anche nella “interpretazione dei sogni” di Artemidoro nella quale le “lenticchie” sono presagi funerei.

D’altra parte il mito racconta che Esaù, diseredato per colpa delle lenticchie e dell’astuto Giacobbe (il cui nome significa il “soppiantatore”), prese il nome di Edom e dette origine alla più antica popolazione del Sud Italia (gli Idumenei) … non certamente ciò è segno di fortuna.

lenticchia1

La lenticchia era amata invece dai tutori della salute. Sicuramente Galeno, che la recensisce con grandi virtù sia cotta che cruda assegnandogli anche proprietà anticancerose (in realtà anticancrena per quei tempi il cancro non era noto) ma, singolarmente, era nota l’elefantiasi. Ne fa menzione il medico Bresciano Hieronimo Sachetto nel 1562 traducendo l’opera del medesimo Galeno.

Ma la nostra brava lenticchia non genera opinioni concordi: Ateneo di Naucrati, latore dei Deipnosofisti la cita con onore in un discorso fatto a Plutarco, Sopatro ne racconta le virtù come minestra e come portatrici di proprietà cosmetiche, Ovidio ne descrive l’utilizzo in maschere di bellezza e, miste a miele, come medicamento per scottature e eritemi solari.

Ma ancora alcuna radice benaugurale se ne può dedurre. In fondo si tratta di legume comune e componente essenziale della mensa dei poveri. Tanto diffuso da fare minestra di lenticchie ben prima di quella di maggior uso nell’antica Roma e nei suoi territori. Puls (minestra) Lentis (di lenticchie) daranno origine alla ben più nota polenta!!!

Catone e soprattutto Plinio ne glorificano le proprietà alimentari. Facendo della lenticchia la “carne dei poveri” anche per il suo altissimo contenuto proteico e di ferro.

Un singolare uso ne fece Caligola: dovendo trasportare la colonna egizia che si erge in Piazza San Pietro e avendo timore che si rompesse, la fece imbarcare all’interno di un sarcofago pieno di lenticchie. Che spreco diranno i più. Forse. Caligola era un po’ eccentrico come è noto e però non era stupido. I romani avevano un modo singolare di conservare le lenticchie delle quali erano molto ghiotti.

Lo descrive molto bene Lucio Giunio Moderato Columella nel suo De Re Rustica:

(Per conservare la lenticchia) dopo la sua trebbiatura si deve mettere il seme in acqua. I semi che galleggiano vengono scartati. In questo modo si individuano e si separano quelli che dovessero contenere qualche insetto parassita. Gli altri, così selezionati, vengono asciugati al sole e bagnati con aceto contenente radice di laserpizio. Con questo infuso vengono strofinati e sottoposti ad una seconda asciugatura. Quindi si opera una ventilazione con i setacci e infine i semi possono essere riposti in giare ben asciutte, che vengono immediatamente tappate con gesso. In alternativa, possono essere mescolati con cenere setacciata.

E i semi che galleggiano possiamo usarli al posto del polistirolo, e, dopo, come mangime per animali. Ad esempio ne sono assai ghiotti i cavalli.

Dai greci di Grecia ai Griki di Grecìa, un ispirato Antifane declama: “Amici, vi giuro, in nome di quel dio per merito del quale è dato a noi tutti di ubriacarci, che davvero preferisco vivere questa vita piuttosto che avere la potenza del re Seleuco. E’ bello sorbirsi in tutta tranquillità una zuppa  di lenticchie, mentre è da sventurati dormire pieni di paura su morbidi letti.” E il grande Crisippo enuncia: “D’inverno zuppa di lenticchie con lampascioni, oh,oh ! Col freddo gelido è come l’ambrosia!” Poteva Apicio trascurare tanta ricchezza? Ed ecco la Lenticula ex sfondilys, come sempre ricca di spezie e arricchita dalle spugnole.

D’alterne fortune vive questo legume fino ai giorni nostri. Urbanesimo, nuovi legumi (fagioli soprattutto) e nuove abitudini alimentari lo relegano alle mense dei più diseredati, al consumo contadino e ai mercati poveri dei primi comuni.

Scompare quasi, come tutti i legumi, dalle tavole dei secoli della modernizzazione per riapparire alla fine del XX-esimo secolo.

La lenticchia, nel Medio Evo, si fa cattiva fama perché, con tutta probabilità, viene associata con la cicerchia nelle zuppe e la cicerchia però è un legume che, se non è trattato come si deve, produce latirismo, una malattia del sistema nervoso che porta alla paralisi degli arti inferiori.

Solo con l’evoluzione della ricerca e la selezione dei semi la lenticchia ha ripreso il posto che merita.

E, senza alcun dubbio, le lenticchie migliori si producono nello stivale:

Castelluccio di Norcia (PG) ha la DOP. Ma di pregiate e famose ve ne sono a Colfiorito di Foligno (PG), la verde di Altamura (BA), quella di Villalba (CL) a grana grande, di Antillo (ME), la lenticchia nera di Leonforte (EN), quella di Gangi (PA) che è ne la “Manciata di novi cosi”, delle Eolie, di Ventotene, le “microsperme” di Mormanno in fieri di diventare presidio Slow Food poiché di origini asiatiche più che Mediterranee e le piccole, tenere e rare lenticchie di Ustica dal colore marrone scuro e coltivate su terreni vulcanici.

Senza ovviamente dimenticare la lenticchia di Soleto.

Delle “estere” son degne di nota la rossa o “egiziana” a cottura veloce poiché decorticata, e quelle dell’Armuña di origine spagnola, famose per il sapore unico.

Di ricette di lenticchie ne esistono a bizzeffe, non ci sono limiti, anche se la più golosa rimane la zuppa consumata senza cucchiaio, semplicemente attingendo dal piatto con la costola di cipolla cruda …

Resta un mistero l’associazione della lenticchia al buon augurio che, ricordiamo, consiste nel mangiare un cucchiaio di lenticchie appena prima di mezzanotte di San Silvestro ed esse devono essere senza olio altrimenti il denaro arriva ma scivola via.

Un mistero che dal lato della lenticchia non riusciremo mai a dipanare, al massimo potremmo aggiungere la nostra voce a che la fa risalire al “potere della parola.”

La particolare assonanza che, in antico greco, lega la malasorte (kakôs) con la lenticchia (phakôs), potrebbe indurre alla sostituzione di parole e con essa anche quella del destino? E perché no? In fondo tutte le formule magiche son fatte di parole …

Debole però, molto debole, quasi quanto l’usanza romana di regalare un sacchettino con la lenticchia dentro. Anche meno diffusa del mettere in tasca alcuni grani di frumento …

Proviamo a prendere il filo dal capo opposto nel tentativo di dipanare la matassa.

E dunque il Capodanno, secondo il calendario gregoriano, cade il primo giorno di Gennaio. Praticamente tutti i paesi che hanno questo calendario ne condividono l’evento. A questa data proveremo a limitare l’analisi visto che cambiando i tempi e i giorni nessuna tradizione può accomunarsi, ad esempio con gli ortodossi che, utilizzando il calendario Giuliano, fanno cadere il principio dell’anno a quello che per noi è il 14 gennaio e tanto meno al capodanno Ebraico, Islamico, Indù o Cinese.

La nostra ricerca dovrà dipanarsi nei meandri dei paesi che utilizzano il calendario Gregoriano e, ancor di più, nelle italiche regioni.

In primis esaminiamo il caso del calendario Giuliano che assegnava il primo mese dell’anno a Ianus, Giano bifronte. Questo calendario, elaborato da Sosigene di Alessandria, entrò in vigore nel 46 a.c. e sostituisce il calendario di Romolo per il quale si partiva da Marzo.

Per molti anni regnò la confusione e si dovettero aggiungere e togliere giorni e mesi per raccordare la misura. Non sappiamo con precisione quali fossero i giorni che coincidevano con il trapasso dell’anno, in realtà essi venivano decisi secondo esigenze politiche.

Sappiamo di certo due cose: che le festività del mondo europeo occidentale (compresi quindi i Druidi) potevano essere di Sabatt (legate ai cicli del sole) o di Esbat (legate ai cicli della luna).

Di certo i druidi, nel VII secolo d.c., erano usi festeggiare il cambio dell’anno. Ma Sant’Eligio li fustigò severamente con una specie di bolla, e allora le bolle dei santi facevano male assai, e i poveri druidi delle Fiandre dovettero metter fine alle loro sguaiate libagioni nelle quali, magari, potevano comparire le lenticchie.

Si stabilizza dunque il calendario Giuliano e cominciano ad esistere in maniera stabile il 31 di dicembre e il primo di gennaio. Nonostante la “parva superstitio” fosse diventata religione di stato grazie all’Imperatore Costantino, continuano a sopravvivere i riti pagani. E le festività del 31 dicembre e del primo gennaio appartengono tutte alla Esbat. In particolare il 31 dicembre si festeggia Artemide (dea della caccia) e, per l’appunto, la festa dei Sidhe (Popolo fatato). I Sidhe dovrebbero situarsi in Irlanda (poco o nulla a che vedere con la lenticchia) e Artemide proteggeva la caccia, il tiro con l’arco e la verginità … di lenticchie nulla ne sapeva.

Proseguendo nella storia finalmente Gregorio Magno corregge il calendario e lo fa diventare un po’ più normale, entra in vigore il 15 ottobre 1582 saltando undici giorni e funziona solo in alcuni paesi secondo la divisione di quel tempo.

In realtà anche allora ognuno faceva un po’ a modo suo, ad esempio fino al XVIII secolo in Inghilterra ed in Irlanda capodanno era il 25 marzo (e questo anche a Pisa prima e Firenze poi), nella Repubblica di Venezia fino a che è esistita (1797) capodanno era il primo marzo e nelle Puglie, Calabria e Sardegna il primo settembre.

Data il 1691, con Innocenzo XII la bolla papale che stabilisce come principio dell’anno il 1° gennaio, giorno della Circoncisione di Gesù Bambino.

Anche dopo son cambiate molte volte le cose, ad esempio con la Rivoluzione Francese e il Calendario Repubblicano oppure con il calendario fascista che definì il capodanno il 28 ottobre.

Difficile definire tradizioni per un giorno quando il giorno balla così frequentemente.

Non ci aiuta nemmeno il calendario a trovare il principio di questa usanza, il suo asset beneaugurale, la “tradizione” festaiola.

Provare allora con zampone o cotechino dei quali la lenticchia è inseparabile compagna secondo il credo comune.

Intanto richiamiamo la differenza tra zampone e cotechino: entrambi di residui di lavorazione del maiale con i quali, nel primo caso si riempie la zampa del suino e nel secondo le budella.

Il racconto vuole che beccai, lardaroli e salsicciari in quel di Modena fossero gli unici abilitati alla preparazione del cotechino. La corporazione dei suddetti data il 1547 (e cotechino e lenticchia prima non potevano abbinarsi) tuttavia il primo documento concreto nel quale si menziona il cotechino è un “calmiere” (elenco dei prezzi per il pubblico) del 1745. Il cotechino diventa famoso in quanto ricetta n. 322 del celeberrimo ” La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene “ nota come “cotechino fasciato”, (nemmeno l’ombra di una lenticchia).

Allora sarà lo zampone la causa di tutto?

In un paese dai mille mestieri capita che esista o sia esistito (non ho notizie dello status attuale) anche un illustre “mutinologo”: Marco Cesare Nannini. Un “mutinologo” non è altro che un esperto di Mutina, nome con il quale i romani indicavano Modena.

Ad esempio un esperto di Lecce si chiamerebbe lupiologo, e quello di Nardò neretologo.

Marco Cesare Nannini ci racconta che dal primo gennaio 1511 Mirandola, alleata fedele della Francia, è assediata dalle truppe di Papa Giulio II della Rovere (il Papa messaggero di pace è una invenzione molto recente). A Mirandola, in quel tempo, abitava il famoso Giovanni Pico: un geniaccio come è noto.

I mirandolesi sono alla fame e hanno solo i maiali (ma non i frigoriferi), macellarli senza poterli consumare significava semplicemente lasciarli marcire, lasciarli vivi significava consegnarli al nemico.

Il buon Pico (della Mirandola) nonostante l’ingegno non riuscì a venirne a capo. Ci riuscì invece uno dei suoi cuochi che propose di insaccare la carne non consumata nelle zampe del maiale …

Nacque lo “zampino” che poi divenne “zampone” quando i maiali si usarono più grossi e nacque sotto cattiva stella: il 20 gennaio Mirandola capitolava e gli zamponi se li gustarono i papalini, gratis e, sembra, senza alcuna lenticchia.

Lo zampone ritrova traccia in cucina ne “L’economia del cittadino in villa” di Vincenzo Tanara (1667) e, successivamente, con Maria Luigia di Parma il cui cuoco era Vincenzo Agnoletti il quale definisce la mistura del ripieno dello zampone. Ma non l’accompagnamento delle lenticchie.

Singolare che dell’insaccato in budella si abbia traccia nella tebaide e però sia documentato prima quello in pelle …

Come è e come non è, anche qui di lenticchia non abbiamo traccia alcuna.

Eppure se sfogliamo le millanta riviste e i milioni di pagine elettroniche troveremo che tutti dichiarano seraficamente che il classico dei classici nel menù di capodanno è lo zampone (o il cotechino) con la lenticchia. Ma da quando s’è classicizzato?

Non sono in grado di dire chi sia il buontempone che ha propalato questa ricetta fino a farla diventare ”tradizione”, certamente gli emiliani sono dei maghi del marketing e grazie a questa para-tradizione ne hanno vendute di zampe anteriori di maiali e di resti della lavorazione dei medesimi, e a caro prezzo.

Magari mi sarà sfuggito qualcosa, ma, in conclusione mi sembra di poter affermare che l’unica buona ragione per consumare zampone (o cotechino) e lenticchie è semplicemente perché sono buoni, la sorte non c’entra un bel niente.

La superstizione è una panzana in generale, in questo caso è una panzana colossale.

Quattro corsie e un funerale. 275 no al Salento sfregiato

di Paolo Rausa

 

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Il giornalista Francesco Greco ha chiamato a raccolta in questo saggio giornalisti, storici del paesaggio, antropologi, architetti, archeologi e studiosi vari per sostenere le ragioni dell’ambiente e della cultura salentina, che sarebbero compromessi se si realizzasse l’autostrada nord-sud Maglie-Leuca, considerata una ferita che taglierebbe un territorio su cui si sono miracolosamente  conservati gli elementi naturali come tratto distintivo di una cultura che si è sedimentata nel corso dei secoli, fin dall’età preistorica, nel paesaggio, in piccole strutture rurali, nei muri a secco e nei viottoli che si ramificano nelle campagne.

Ripercorrere la storia della proposta di ammodernamento di questa strada, nata per collegare la cittadina di Maglie al Faro/Santuario di Santa Maria di Leuca è defatigante e bisogna ritornare indietro di almeno 20 anni. Gli Enti istituzionali sono giunti a concepire e progettare un nastro d’asfalto di quattro corsie, che si slancia verso il mare. L’ampia arteria stradale prevede inspiegabilmente, nel tratto finale degli ultimi 6 km, un nuovo percorso nella campagna, in rilievo, su una selva di piloni che termina in una maxi rotatoria di 1,5 km di circonferenza. Questo sproposito di autostrada, che non collega centri industriali ma la povera campagna salentina, è parsa esagerata persino all’ANAS e alla Regione Puglia se il Presidente Vendola ha cercato di riparare proponendo dei correttivi, una strada-parco non meglio definita e ricorrendo al Tribunale Amministrativo contro le procedure di appalto, a quanto pare non molto trasparenti. Al quale si è appellato anche il combattivo Comitato contro la 275 che ha promosso una serie di sit-it per richiamare l’attenzione sui pericoli di sfregio del territorio che ne conseguirebbe nel caso della sua realizzazione.

Per quanto il TAR non abbia ritenuto che possa rappresentare gli interessi diffusi della popolazione, il Comitato si è contrapposto punto su punto alle motivazioni dei sostenitori di quest’opera, riassunti nella necessità della sicurezza stradale – l’esiguo numero di incidenti in verità non la giustificherebbe – e nella riduzione dei tempi di percorrenza, pochi minuti a fronte dei danni di impatto ambientale. Non risulta che sia stata mai coinvolta la popolazione locale nelle scelte e nelle decisioni, per es. ricorrendo a un referendum. L’aspetto più inquietante – sottolinea Francesco Greco – è che un ambiente rurale sedimentato nel corso dei secoli rischia di essere devastato da un’opera che porterà distruzione e sconvolgimenti a fronte di un nulla di positivo. E allora la riflessione si spinge a proporre alternative credibili: per es. una cura di ferro per il Salento, ammodernando la locale linea ferroviaria ancora ad un binario e senza elettrificazione, la realizzazione di strade bianche sull’esempio della Regione Toscana, piste ciclabili e ippovie come suggerisce una esperta di turismo verde e alternativo. La resistenza contro la realizzazione dell’opera da parte della popolazione locale rimarcherebbe l’intento di difesa del proprio territorio, come l’unico mezzo che può fornire risorse per un’attività economica basata sulle risorse della terra e sul genio degli artigiani locali.

Il timore soprattutto nasce dal sospetto che questa autostrada diventi il cavallo di Troia di quanti, speculatori e “maghi” della finanza, vogliano usare il Salento per fini residenziali, realizzando mega villaggi turistici, centri commerciali, ecc, distruggendo così oltre al territorio la sua memoria storica e svendendoli sull’altare di uno sviluppo distruttivo, con la conseguenza di seppellire anche l’anima del Salento.

E Francesco Greco, sostenuto da grandi e appassionati difensori di questo patrimonio, giura che questo non avverrà mai! “Quattro corsie e un funerale. 275 no al Salento sfregiato”, Edizioni Miele, 2012, Gagliano del capo, € 14,00.

Dal “palazzo nuovo” di Marittima (Lecce), echi di cronaca sulla morte di Stalin

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di Rocco Boccadamo

 

Non sembri una provocazione, ma, talora, sul metro del sentire individuale e strettamente soggettivo, può succedere che un evento di storia, anzi, come nella richiamata circostanza, di grande storia, rimanga prodigiosamente incasellato e ricordato in seno agli angusti confini di un paesello e alle minuscole vicende e relazioni fra individui, correnti in mezzo a quattro case.

Così, almeno, è per chi scrive.

A onor del vero, lo spunto per le presenti note viene dal recente accenno, fornito dalla stampa e dai mezzi d’informazione in genere, circa l’imminente ricorrenza del sessantesimo anniversario della scomparsa di Stalin, statista, politico e dittatore sovietico bolscevico, Segretario Generale del Partito Comunista dell’URSS e leader di quel Paese dal 1924 al 1953. Sicuramente, figura di spicco a livello mondiale, che, nel bene o nel male, secondo i punti di vista, ha lasciato un’impronta di rilievo sul corso e sul graduale divenire delle vicende del ventesimo secolo.

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Contava solamente dodici anni, nemmeno compiuti, il comune osservatore di strada, quando, sul calendario appeso alla parete, fece capolino il marzo 1953 ed era in 1^ Media, da privatista, cioè a dire affidato alla preparazione a cura del suo maestro dell’Elementari. Questo, per una breve parentesi da convittore, nella lontana e prima sconosciuta Anagni, ingloriosamente conclusasi con il ritorno forzoso a Marittima, invocato a colpi di lacrime per “sintomi” di spaesamento e, soprattutto, per angoscia da separazione dalle cure materne, che aveva fatto saltare i tempi ordinari d’inizio e frequenza dell’analogo corso presso l’apposita scuola pubblica in Maglie.

Cosicché, essendo l’insegnante ad personam, al mattino, occupato con la classe di alunni dell’istruzione obbligatoria, le sue lezioni avevano luogo, in casa del maestro, durante il pomeriggio.

Lì, fra gli altri allievi, veniva anche E.N., per precisione anagrafica L.V.N, la quale, per parte sua, doveva approfondire le ordinarie materie di studio al fine di poter sostenere gli esami d’ammissione alla Scuola Media: all’epoca, per frequentarla, non vigeva alcun obbligo e però era necessaria una prova selettiva.

Una ragazzina aggraziata e gentile, E., di famiglia abbiente, il padre, don P.N., medico e, nello stesso tempo, per eredità, proprietario terriero, la madre, donna V.L.T., una distinta signora originaria di una cittadina del Nord Salento. E. era la terzogenita, prima di lei, una sorella e un fratello, già fuori da Marittima, alle Medie o alle Superiori.

La casa d’abitazione di E. era rappresentata da un grande edificio, a piano terra e primo o nobile, sulla via principale del paese, da sempre e anche adesso noto come “Palazzo Nuovo”.

In realtà, secoli addietro, in quel punto di Marittima, sorgeva un palazzo baronale con ampio giardino attiguo, soprannominato giustappunto “Aria ‘u barone”, fino a quando, tale augusta dimora, non fu attraversata e rimaneggiata da una sede stradale e, quindi, ne residuarono solo due separate sezioni: da un lato, una casa, quasi completa, con bellissimo stemma araldico che, anche oggi, si nota alla sommità del portale d’ingresso e, dall’altro, una torre massiccia detta “Torre d’Alfonso”, dal nome del proprietario.

Ai primi del 1900, proprio a fianco di tale torre, fu edificata una struttura grande e moderna, ecco l’origine dell’appellativo “Palazzo Nuovo”, su due elevazioni: per la precisione, una metà circa dell’area coperta è rimasta incompleta, forse per mancanza di disponibilità nelle tasche di un comproprietario, con i vani terranei, sovrastati, unicamente sul frontespizio, da un’infilata di balconi e finestroni e con, alle spalle, spazi semplicemente a piena aria.

Nella casa di E., invece, stanze enormi e dalle volte altissime, che colpivano gli occhi dell’amichetto e compagno di studio. Senza soverchio riguardo per gli orari, mi portavo spesso e di buon grado nella magione del dottore, dove, oltre che E. e la sua mamma, notavo immancabilmente la presenza, fissa, di una persona di servizio, donna di mezza età, piccola di statura, gentilissima, proveniente da una località del Capo di Leuca, dal nome particolare e inconsueto, che non posso non citare per intero, Carmina.

La signora, con amabilità, mi offriva sempre qualcosa, una caramella, un piccolo dolce, un frutto e la permanenza accanto ad E., tra un problema, una pagina di storia e un tema d’italiano, a quattro mani o a due voci, si snodava simpatica e piacevole.

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Stalin_lg_zlx1In un mattino di marzo del lontano 1953, intorno alle undici, ci trovavamo nella cucina soggiorno: un locale immenso con grande tavolo centrale, pieno di sole, grazie alle ampie vetrate. Appoggiata su una mensola, una radio dell’epoca con struttura esterna in legno, marca “Geloso” o “Telefunken”, non ricordo esattamente, si faceva sentire in sottofondo con voci e suoni. All’improvviso, preceduto da una specie di cinguettio, emise un annuncio nei seguenti termini:

Il giornale radio è trasmesso in edizione straordinaria per annunciare che, a Mosca, si è spento Iosif Vissarionovic Stalin “.

A tale comunicato, tutti i presenti, adulti e ragazzi, restarono bloccati. Anche se l’evento si era consumato a migliaia di chilometri di distanza, evidentemente, la fama del protagonista era talmente elevata da far sì che la notizia lasciasse il segno. In altri termini, anche nella minuscola e sperduta Marittima, si sapeva chi fosse Stalin.

Notare che, quella radio era forse l’unica nel paese, di giornali non se ne leggevano punto, con l’ eccezione di qualche saltuario acquisto presso la rivendita di Sali e tabacchi gestita da Dante e Assunta, a prezzi di saldo, per opera di un ragazzino di 1^ media, di numeri arretrati e rimasti invenduti dei settimanali “Settimana Incom”, “Epoca” e “Tempo”.

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marittima castelloSi sono inanellati sessant’anni, tuttavia, i solchi tracciati dall’aratro del tempo alle spalle di questa vicenda storica, mi sembra che risalgano appena a ieri e, nella medesima suggestione, che la mia stessa età non abbia compiuto, come è nella realtà delle cose, un lungo cammino.

D’altronde, mentre io ho da un po’ d’anni smesso il lavoro, E. è ancora in attività, a Roma, presso un’eminente istituzione giudiziaria. Ci rivediamo, sistematicamente, nel periodo estivo, a Marittima o a Castro, e lei puntualmente a dirmi: “Caro Rocco, tu fai il pensionato, il nonno e vai in barca a vela, beato te, mentre io continuo a lavorare come una ciuccia”.

Al che, con un sorriso, mi limito ad osservare: “Dai, chi te lo fa fare, smetti e tornatene qui”.

Giulio Cesare Vanini. Un ritratto e un libro

copertina libro

Il bibliofilo e collezionista barese Dario Acquaviva, specializzato nella ricerca di materiale editoriale e iconografico di o su Giulio Cesare Vanini, ha recentemente rinvenuto un ritratto fino ad oggi sconosciuto del filosofo nato a Taurisano nel 1585 e bruciato per ateismo a Tolosa nel 1619.

Il ritratto, un’incisione su rame (calcografia), sarà pubblicato in copertina e in appendice al prossimo libro dello studioso vaniniano Mario Carparelli (Università del Salento), in uscita a febbraio, dal titolo “Il più bello e il più maligno spirito che io abbia mai conosciuto. Giulio Cesare Vanini nei documenti e nelle testimonianze” (Il Prato, I Cento Talleri), il quale conterrà un contributo dello stesso Acquaviva in cui si daranno tutte le informazioni sul ritratto (attribuzione, datazione, provenienza ecc.), che qui si pubblica in anteprima unitamente alla copertina del libro.

Nel libro di Carparelli, un lavoro sui documenti e sulle testimonianze riguardanti la vita, il pensiero, la morte e la fortuna di Giulio Cesare Vanini, i passaggi chiave e i retroscena della vicenda biografica e intellettuale di una delle più affascinanti e controverse figure del panorama filosofico della prima età moderna vengono ricostruiti e raccontati attraverso la viva voce dei suoi contemporanei.

Il titolo del libro riprende la chiusura di una lettera privata di Guillaume de Catel, il pubblico ministero che pronunciò contro Vanini l’arringa decisiva e che di fatto lo fece condannare a morte: “Se la mia lettera non fosse così lunga, vi parlerei di un insigne ateo, filosofo e medico, figlio di Napoli, il quale è stato, su mio rapporto, condannato dalle due camere unite ad essere bruciato. Egli è morto come ateo perseverante, in assoluto il più bello e il più maligno spirito che io abbia mai conosciuto. Il suo nome era Giulio Cesare Vanini”.

 

Vanini

 

Mario Carparelli collabora con la cattedra di Storia della filosofia ed è docente a contratto presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento. A Vanini ha dedicato diversi saggi, pubblicati in Italia e all’estero, e due volumi: “Morire allegramente da filosofi. Piccolo catechismo per atei” (Il Prato, 2011) e, con Francesco Paolo Raimondi, “Giulio Cesare Vanini, Tutte le opere” (Bompiani, 2010).

Nardò. Nello scrigno di Sant’Antonio Abate

di Massimo Negro

Era da tempo che meditavo di andarci, ma non c’era mai stata occasione e non ne conoscevo l’ubicazione. Mi era capitato di leggere qualcosa a riguardo, gironzolando tra i miei libri di storia ed arte sulla nostra terra, ma soprattutto ero rimasto affascinato dalla foto di un affresco di un maestoso santo-cavaliere.

Devo dire grazie all’amico Nestore, che informandomi che da li a pochi giorni in quel luogo si sarebbe tenuta la tradizionale focara di S. Antonio Abate, se alla fine mi sono messo in macchina, ci sono arrivato e ho avuto modo di visitare uno dei più bei patrimoni storico-artistici purtroppo non valorizzati del nostro Salento.

La chiesa-cripta di S. Antonio Abate nelle campagne di Nardò, detta anche S. Antonio “di fuori”, per distinguerla dal convento di S. Antonio presente all’interno della città.

Ci si arriva agevolmente se si conosce l’ubicazione visto che, come nelle nostre “migliori” tradizioni, non vi sono indicazioni. Dopo aver lasciato la strada che da Nardò conduce verso la zona industriale e la statale per Lecce si percorre un breve tratto di strada campestre, sino ad incrociare sulla sinistra l’antica masseria Castelli-Arene con la sua bella e turrita torre colombaia.

Dopo qualche decina di metri, accanto ad una casa di campagna si intravede su un pianoro una croce ben piantata in terra.

Nessun altro segno della presenza della cripta. Solo avvicinandosi al luogo, ad un certo punto compare un ampio scavo. E’ l’ingresso della cripta, nelle antiche fonti denominata ‘Santus Antonius de la Gructa’.

La chiesa è scavata nel blocco tufaceo e si accede senza alcun impedimento. Gli antichi monaci hanno infatti scavato dei gradoni che portano verso l’ingresso della cripta, quasi a formare una sorta di vestibolo a cielo aperto che scende per oltre due metri al di sotto del piano della campagna.

Entrare nella cripta è come entrare in grande scrigno che nasconde un tesoro di cui si ignora l’esistenza. Si rimane estasiati dalla bellezza del ciclo pittorico presente su tutte le pareti della cripta. Il tempo e l’incuria hanno posato la loro pesante mano ma la sensazione di incredulità dinanzi a quello che è possibile ammirare, anche ai nostri giorni, è reale e intensa.
Soprattutto è forte il contrasto tra la bellezza della cripta e la brulla campagna che la circonda.
Nei pressi sorge ora una casa, ma immaginiamo come potesse essere lo stato dei luoghi secoli addietro. Silenzio e solo silenzio attorno. E la mano di un monaco che creava il capolavoro.

Il pavimento è regolare ed è in terra battuta. La cripta ha un impianto rettangolare senza alcuna significativa irregolarità nello scavo. Anche il soffitto è tendenzialmente piano, anche se basso.

L’asse liturgico del sito è orientato in direzione Est-Ovest, con altare addossato alla parete orientale. Un gradino-sedile, in parte interrato, corre ai lati dell’altare, lungo la parete a sud e parte di quella opposta. L’ingresso è invece orientato a Nord.

All’interno, muovendosi da sinistra è possibile ammirare l’Annunciazione e ai suoi lati due Santi. Il primo, si ritiene San Francesco, il secondo Sant’Antonio Abate.

La parete successiva è suddivisa in tre riquadri, due laterali e uno centrale posto sopra l’altare. Nel primo riquadro, la Vergine in trono con Bambino. L’affresco centrale è la Crocifissione, anche se ormai poco visibile. Il terzo riquadro è occupato dalla figura di un Cristo benedicente alla greca. Soffermatevi sulla bellezza del viso e dei lineamenti che l’autore ha dato alla figura.

La parete successiva, quella più lunga che si para dinanzi entrando nella cripta, è suddivisa in cinque riquadri. San Pietro, un trittico di Santi anonimi, un Arcangelo e, nuovamente un Santo anonimo. Purtroppo lo stato degli affreschi non consente di risalire all’identità dei Santi a cui gli affreschi sono dedicati. Nell’ultimo riquadro della parete è presente l’affresco di San Nicola.

Nella parete successiva il bellissimo affresco dedicato a due figure di santi a cavallo, San Giorgio e San Demetrio.

Nell’ultima parete, a ridosso dell’ingresso, si trova la figura di San Giovanni Battista.

Il ciclo pittorico si può far risalire tra il XIII inizio e il XIV secolo. Alcuni elementi degli affreschi si ritiene siano stati aggiunti successivamente, quali ad esempio i motivi floreali. Considerando che le iscrizioni visibili sugli affreschi sono in latino, è lecito pensare che tale luogo fosse legata alla liturgia di rito latina e non greco.

E’ molto probabilmente l’unica cripta del medio-basso Salento in cui sono completamente assenti iscrizioni in lingua greca. Ai benedettini, a cui fu donato nel 1080 l’antico monastero greco di santa Maria di Neretum, si deve molto probabilmente la costruzione della cripta come segno, ancora ai tempi embrionale, di questo progressivo passaggio dalla liturgia greca alla liturgia latina. Infatti, nella zona sono diversi i siti che si possono far risalire alla tradizione greco–basiliana. Tra questi San Giovanni di Collemeto, S. Elia e la stessa prima citata Santa Maria de Neretum e diversi altri siti di preghiera.

L’abbandono, l’incuria e il vandalismo hanno già causato nel corso dei secoli molti danni. Il rischio di perdere questo splendido gioiello artistico, testimonianza del nostro passato e della nostra storia, rappresenta purtroppo una concreta realtà e un futuro, ahimè, imminente se le amministrazioni competenti e la proprietà del sito non provvederanno in tempi  brevi alla sua salvaguardia e valorizzazione.
__________
Per una visita virtuale al sito e ai suoi affreschi, nel video sono state montate le foto effettuate durante le mie visite alla cripta.

http://www.youtube.com/watch?v=DqJq5MDd1KY

http://massimonegro.wordpress.com/2011/12/05/nardo-nello-scrigno-di-santantonio-abate/

Scultura dell’Otto e Novecento nel museo Cavoti di Galatina

 

di Lorenzo Madaro

L’interesse per la scultura pugliese dei secoli XIX e XX da parte del mondo degli studi storico-artistici ha registrato negli ultimi anni un netto aumento; non sono mancate, difatti, importanti iniziative editoriali ed espositive. Nell’orbita di questo interesse vanno inquadrati questi appunti sulla collezione di scultura conservata nel Museo Civico “P. Cavoti” di Galatina, di cui ringrazio il personale, in particolare Silvia Cipolla, per la disponibilità accordatami durante i miei sopralluoghi.

Situata in un’ala dell’ex Convento dei P.P. Domenicani di Galatina – dal 2000 sede del Museo civico, dopo il trasferimento delle collezioni dalla vecchia sede di Palazzo Orsini inaugurata negli anni trenta ed attiva solo per pochi anni – la sezione scultura del XX sec. comprende una consistente e disomogenea raccolta di opere di alcuni artisti nati o attivi sul territorio salentino tra otto e novecento ed è da annoverare tra le raccolte più significative del territorio pugliese. È senz’altro la donazione Gaetano Martinez il nucleo più consistente con poco più di trenta opere, alcune delle quelli tra le più interessanti del suo percorso di ricerca, che sono state donate dallo stesso artista nell’agosto 1928 (Specchia, 2003). Così come confermano alcune iscrizioni poste sul retro delle sculture, la donazione di alcune opere del maestro si è certamente protratta anche in anni più recenti, come nel caso di un Nudo femminile del 1947 donata da Giovanni Giunta di Roma nel 1988. Nato a Galatina nel 1882, dopo una prima formazione avvenuta nella locale Scuola di Arti e Mestieri diretta da Giuseppe De Cupertinis, si trasferisce a Roma nel 1911, ma solo per un breve periodo. Al 1922 è datato il suo definito trasferimento nella capitale; nello stesso anno esegue il Caino, tra le sculture più affascinanti della sua produzione, in cui si avverte un forte senso di tragicità espresso tramite suggestioni rodiniane. A Roma non manca di avviare meditazioni sulla sintassi quattrocentesca, come attesta il gesso intitolato Adolescente (1926) al Museo Cavoti, ma gli interessi dello scultore sono molteplici. Numerose le opere degli anni trenta esplicitamente legate a quel senso arcaicizzante e monumentale tipico dell’indagine di un Arturo Martini, anche se in questo stesso decennio non rinuncia a un divertissement slegato apparentemente dalla sua ricerca, considerato che il Ritratto caricaturale conservato nella raccolta è datato 1935. Il decennio successivo, come avverte Federica Riezzo – curatrice, assieme a Giancarlo Gentilini, di una mostra antologica allestita nel 1999 a Palazzo Adorno di Lecce – si apre con la partecipazione alla Biennale di Venezia (1942) con una sala personale. Un riconoscimento al valore di un artista che in questi anni avvia “una singolare produzione di ‘teatrini’ in terracotta” (Gentilini, 1999) interrotta bruscamente dalla morte avvenuta nel 1951.

Un gesso di Pietro Siciliani, filosofo e pedagogista nato a Galatina nel 1832, ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, il legame profondo e autentico con la storia della città in cui è ospitata l’istituzione museale. L’autore dell’opera è Eugenio Maccagnani; nato a Lecce nel 1852 si forma inizialmente presso lo zio Antonio, celebre cartapestaio, per completare poi gli studi all’Accademia di San Luca di Roma, città in cui ha un ruolo preminente nella grande impresa del Vittoriano, inaugurato nel 1911. Autore di un nucleo alquanto consistente di sculture pubbliche e da camera, non troncherà mai i rapporti con la sua città natale; nella Villa Garibaldi, tra gli altri monumenti, si conserva proprio un Busto di Siciliani datato 1891. Muore a Roma nel 1930.

Giacomo Maselli, quasi ignorato dalle fonti pugliesi fino a tempi recenti, è autore di un ritratto in bronzo del Siciliani che restituisce un aspetto più intimista del filosofo, a differenza dei tratti fieri e vigorosi espressi dal Maccagnani. Nato a Cutrofiano nel 1883, nel 1904 si trasferisce a Milano, dove opera attivamente fino al 1958, anno della sua scomparsa. L’opera della raccolta galatinese è un doveroso omaggio a un cittadino illustre a cui è dedicata, tra l’altro, la Biblioteca Comunale ubicata nel medesimo stabile in cui è ospitato il museo.

La presenza delle due opere Gruppo antropomorfo e Vendetta, entrambe databili intorno al 1940, firmate da Pietro Baffa, esorta a qualche accenno, per lo meno biografico, sull’artista nato nel 1885 a Galatina. Si forma presso il locale Regio Istituto Artistico “G. Toma” e, come il compaesano Martinez, nel 1911 emigra a Roma. Frequenta il Museo Artistico Industriale, il neonato giardino zoologico – sin da questi anni si caratterizza come artista animalista – e lavora presso lo Stabilimento di mobili Loreti, dove perfeziona le sue competenze di ebanista, già parzialmente acquisite nel laboratorio paterno. Nel 1914 si sposta a Napoli; insegna presso il locale Istituto Artistico e respira per sei anni la cultura artistica partenopea. A Lecce diviene uno dei più validi maestri del Regio Istituto Artistico fondato dal Pellegrino. In Gruppo antropomorfo le masse dei due animali si fondono fino a diventare un tutt’uno, invadono lo spazio con uno spirito fantasioso che caratterizza ad esempio Tigre e Orso (Galatina, coll. privata), due terrecotte invetriate degli anni venti, assimilabili a un gusto liberty. Echi gemitiani, ricercatezza e raffinatezza esecutiva caratterizzano il satiro che con veemenza sguscia una lumaca in Vendetta, un gesso patinato, la cui replica in bronzo è conservata in una collezione privata leccese.

Rimorso, un gesso patinato del 1935 firmato dallo scultore neretino Michele Gaballo, è un’opera che testimonia l’operatività di un “autore di un numero assai considerevole di sculture in marmo, gesso patinato, bronzo, di vario genere” (C. Gelao, 2008), ma al contempo non ancora studiato approfonditamente. L’artista, nato nel 1896, dopo una prima formazione a Lecce presso la scuola di disegno annessa alla Società Operaia, si trasferisce a Napoli e, dopo poco, a Roma, dove collabora alla realizzazione della statua di Benedetto XV nelle grotte Vaticane (1923). Dopo il suo rientro a Nardò si dedica all’insegnamento; muore nel 1951. L’opera conservata nel museo galatinese ben s’inserisce nella sua ricerca plastica legata a certe istanze novecentiste che si ravvisano in particolar modo nella semplificazione dei tratti del volto.

Appartiene allo scultore leccese Raffaele Giurgola il ritratto di Carlo Delcroix che afferma quel forte senso di plasticismo che connota la sua produzione plastica. Nato nel 1898 si forma alla scuola di disegno della Società Operaia, per proseguire poi gli studi a Napoli, dove è allievo di Achille D’Orsi. Celebre per aver eseguito numerosi Monumenti ai Caduti nel Salento, è stato per quasi un trentennio docente presso l’Istituto Pellegrino di Lecce, città in cui è morto nel 1970.

Vittorio Vogna, artista nato a Galatina nel 1916, si forma nel Regio Istituto Artistico Industriale di Lecce, dove entrerà in contatto, tra gli altri, con lo scultore galatinese Pietro Baffa, docente di scultura con cui intratterrà rapporti amicali anche durante il suo trasferimento a Napoli, dove studia presso la Facoltà di Architettura. Ritorna poi nel Salento dove insegna nel suddetto istituto artistico e avvia la sua attività di architetto. Muore nella sua città natale nel 1995. Poche sono le opere note e si attende pertanto una prima analisi del suo percorso creativo che andrà eventualmente confrontato con i documenti conservati presso eredi e conoscenti. Il Museo custodisce, altresì, una Testa di fanciulla firmata da Nikkio Nicolini, autore misconosciuto che, secondo quanto affermato da Michele Afferri (in C. Gelao, 2008), ha eseguito quest’opera secondo i dettami di un gusto legato al recupero dei valori formali arcaici. Altri ritratti di uomini illustri cui Galatina ha dato i natali si riscontrano, così come per il citato ritratto di Siciliani del Maccagnani, in un corridoio interno al museo, dove sono collocati, altresì, dei ritratti di Baldassarre Papadia, Macantonio Zimàra, Alessandro Tommaso Arcudi e Pietro Colonna firmati, rispettivamente, da M. D’Acquarica, P. Bardoscia e C. Mandorino. Attenzione ai temi animalier si riscontrano poi in due pannelli di I. Montini, mentre è dello scultore A. Trono una Testa virile datata 1927 e difatti conforme a taluni orientamenti stilistici dell’epoca, come l’interessante maternità a firma di A. Duma, altro autore che meriterebbe un approfondimento. Restano poi alcune opere anonime, tra cui un Bozzetto di monumento, tutte da studiare e contestualizzare, anzitutto cronologicamente.

Bibliografia essenziale consultata:

Scultura italiana del Novecento. Opere tendenze protagonisti, a cura di C. PIROVANO, Milano 1993. Gaetano Martinez. Scultore, a cura di G. GENTILINI, F. RIEZZO, Matera, 1999. A. FOSCARINI, Arte e Artisti di Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, a cura P. A. VETRUGNO, Lecce 2000. A. PANZETTA, Nuovo Dizionario degli scultori italiani dell’ottocento e del primo novecento, Torino 2003. Museo Comunale Pietro Cavoti di Galatina, a cura di D. SPECCHIA, Galatina, 2003. M. AFFERRI, Cento anni di scultura salentina, in Arte e artisti in Terra d’Otranto, a cura di A. CASSIANO, M. AFFERRI, Matera 2007. Gaetano Stella e la scultura da camera in Puglia, a cura di C. GELAO, Venezia, 2008.M. GUASTELLA, Scultori in Terra d’Otranto delle generazioni del secondo Ottocento, in Raffaele e Giuseppe Giurgola, “tradizione salentinità ironia”, a cura di L. PALMIERI, Galatina s.d. [ma 2010].

Giulio Cesare Vanini allo Scoperto

2^ Edizione de “Allo Scoperto” – Biblioteca Comunale (TUGLIE)

Vanini…allo scoperto.

locandina OK

Il 20 gennaio 2013, alle ore 19,00, per la 2^ edizione de “Allo Scoperto”, rassegna di autori salentini, gli Amici della Biblioteca in collaborazione con il blog di 20 Centesimo “Parola di Filosofo” scopriranno  Giulio Cesare Vanini, filosofo taurisanese, nato nel 1585. Condannato per ateismo il 9 febbraio 1619 dal Parlamento di Tolosa, roccaforte dell’ortodossia cattolica, con l’accusa di ateo e bestemmiatore del nome di Dio. Molte sono le ombre su quel processo e la sua morte non cancellò le tracce della sua esistenza e del suo pensiero. Antesignano di alcune istanze illuministiche, Vanini si può ritenere uno dei massimi rappresentanti della libertà di pensiero e il precursore del Libertinisme érudit.

La dolorosa vita di Vanini oggi ci può insegnare che il pensiero va difeso con coraggio. “Le esercitazioni” del filosofo possono essere le nostre esercitazioni proiettate verso il futuro.

La conoscenza della vita travagliata di Vanini ci offrirà l’opportunità di riflettere su un tema fondamentale: la libertà vale il prezzo che si paga? La felicità è raggiungibile soltanto se ci sarà qualcuno a distribuire pane e certezze? O è meglio accettare che il segreto dell’esistenza umana non stia solo nel vivere, ma in ciò per cui si vive?

Interverranno: Dario Acquaviva, Manuel De Carli, Simona Apollonio, Giovanni De Stefano, Rita Cardea, Davide Negro, Irene D’Angelo, Erika Sorrenti, Donato Verardi.

Moderatori: Mario Carparelli ed Elio Ria

Parteciperà Luigi Scorrano

La Fòcara di Sant’Antonio: diamo un po’ di numeri!

di Mimmo Ciccarese

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All’inizio dell’inverno, una vecchina, vicina di casa, usava ravvivare il fuoco del suo braciere lasciandolo per alcuni istanti al soffio della tramontana del suo orto. I toni accesi della carbonella ardente erano l’immagine di un’altra storia, quella che pianificava l’accesso ai freddi tramonti di gennaio.

I giorni di gennaio sono ancora oggi per le comunità salentine, quelli del fuoco. In questo periodo è possibile ritrovare tra le campagne le tradizionali focareddrhe a scandire le pause delle lunghe giornate di raccolta delle olive o della potatura secca. Qualcuno, ha già iniziato a potare il vigneto e a recuperare i nuovi sarmenti, quei lunghi e sinuosi tralci arricciati sui loro tutori, che pare quasi non volessero scollarsi dalla loro pianta. Piccoli fastelli posati con ordine lungo i filari prima di essere radunati a formare la poderosa “sarcina te leune” o fascina di tralci di vite, antica unità di misura contadina.

Ci sono ancora vigneti veterani, sopravvissuti ai moderni impianti, alberelli di raro valore, essenze tipiche di una regione, chiamata anche Parco del Negroamaro, di là dal paretone messapico, apprezzata dagli antichi popoli per la sua nota vocazione vitivinicola.

Un saggio vecchietto, mi racconta che da un tomolo di terra, pari a poco più di mezzo ettaro, si riusciva a estrarre con due giornate di lavoro, una quantità pari a circa cento “sarcine de leune” per riempire “ nu trainu ncasciatu” ossia una torre di carretto colma di utile legna.

Nu trainu te leune”, coincideva a circa dieci quintali di rami pronti all’uso, stipate sulle “logge”(terrazze), accantonate nei giardini come scorta per le stagioni fredde o per essere vendute.

Le “sarcine” erano di modesto valore economico ma molto gradite tanto che possederle in famiglia equivaleva ad assicurarsi una certa dose di calore. Bene prezioso un tempo, rifiuto da non sottovalutare oggi per mezzo di un articolo del Dlgs 152/2006 che non chiarisce la sua duplice valenza di riutilizzo. I viticoltori sono obbligati a rispettare molti regolamenti ma anche quello di potare altrimenti la sua filiera produttiva già contrastata dall’aumento dei costi produzione potrebbe decadere.

Le quantità ricavabili dalle potature sono variabili secondo i requisiti del vigneto, tanto che con una produzione di tralci da vite del peso medio di circa mezzo chilo per pianta, si possono ottenere tra i 15-30 qli/ha di residui da potatura. Con misure di venti qli a ettaro e umidità del 30-40% si ottiene circa 12-14 qli di sostanza secca. Valutando che un kg di sostanza secca di tralci di vite corrisponde a 3500 kcal e che un kg di petrolio equivale a un potere calorifico di 9000 cal, si potrebbero azzardare altri conteggi ricorrendo ai coefficienti di conversione in energia elettrica oppure considerando che il potere calorifico di un litro di gasolio (10kw) si ottiene con circa 3 kg di legno con umidità del 30%.

E come se da un ettaro di vigneto si ricavasse un elevato potere calorifico espresso in litri di gasolio e riscaldasse per qualche mese diverse famiglie. Gli scarti della vite presentano per questo una capacità calorifica che dipende in ogni caso, dal contenuto di umidità, che si riduce del 10% ogni quindici giorni, e che può variare dalle 4000 kcal/kg del legno secco alle 2.200-2.300 Kcal/kg del legno umido.

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In questo periodo, i falò sono accesi a riempire le piazze per scaldare la gente, sarebbe interessante azzardare alla luce di tali considerazioni, per curiosità, quanto calore potrebbe generare una pira, ad esempio, del peso di circa 600 tonnellate o con quasi 90.000 fascine.

Il 16 gennaio di ogni anno il comune di Novoli suggerisce il suo tradizionale rito, grande evento che richiama moltitudini, preparativi di una festa smisurata, riconosciuta dalla Regione Puglia come bene culturale, che si snoda in ogni angolo del suo paese in onore del santo protettore. Il sacro clou festivo si commuta la sera nel ciclopico e immenso falò di migliaia di “sarcine di leune” accumulate da altrettante braccia volenterose.

In quel giorno Novoli è l’ombelico del mondo che coinvolge ed emoziona col fuoco acceso dal fuoco; espressione di una terra colorita del suo crepitare; moto popolare che “ mpizzica” e “ stuta”; predispone il suo rito con grande intensità emotiva, “cu lu fuecu te l’aria” o “cu lu fuecu ancuerpu”.

Ci aè bisuegnu te fuecu cu se lu troa”, recita un vecchio dittero salentino, vale a dire essere in grado di riscoprirsi appassionati, risvegliarsi dal torpore invernale e ritrovarsi raggianti intorno allo sfolgorio di un cerchio fuoco.

LU MIERU (Il vino) 1/2

di Armando Polito

vino

Sul vino, anche come espressione culturale in cui molteplici sono le intersezioni tra medicina,  religione, filosofia e, addirittura, politica, l’inchiostro è scorso a fiumi e, sembrerà strano, non ho nulla da obiettare e, tra l’altro, invidio chi, pur non essendo un sommelier, è in grado di distinguere di un vino perfino l’annata (naturalmente senza averla letta prima sull’etichetta …); mi dà solo un leggero fastidio (lo stesso che provo quando leggo una di quelle recensioni in cui con parole altisonanti si tenta, per me con effetti grotteschi, di complicare ciò che è di suo divinamente semplice) l’atteggiamento artatamente ieratico che sovente accompagna la definizione di un vino. Forse dipende dalla mia, a tratti,  animalesca rozzezza e non raffinata sensibilità, quella stessa che oggi mi ispira a scrivere queste poche righe.

Bere bene per bere meglio è lo slogan da qualche anno opportunamente usato tra l’altro anche per la promozione di un prodotto di cui il nostro Salento è, diventato giustamente, anche se in ritardo, leader mondiale. Il consiglio, però, per quanto banale, non è originale, nel senso che ricalca un pensiero molto antico sul quale dirò qualcosa dopo essermi soffermato, e ti pareva!, sulle etimologie.

Vino è dal latino vinu(m), a sua volta connesso col greco οἶνος (òinos, prima della caduta del digamma iniziale era vòinos) da cui eno– primo componente di molti derivati. La voce dialettale neretina mièru è dal latino meru(m)=vino schietto, neutro sostantivato dell’aggettivo merus/a/um=puro.

Per gli intenditori oggi sarebbe un’eresia gustare un vino annacquato, ma questa era la regola per il mondo classico. È giunto il momento di riportarne alcune significative testimonianze (per brevità, questa volta, riporto solo la mia traduzione).

trionfo di Dioniso
trionfo di Dioniso

Partiamo da lontano, cioè dal mio riassunto del mito così come ci è stato tramandato nelle Dionisiache di Nonno di Palopoli (autore greco del V secolo d. C., che, però, si serve quasi certamente di una tradizione precedente): Ampelo (non a caso ἄμπελος è il nome greco della vite), bellissimo satiro amante di Dioniso, muore presso il fiume Pattolo a causa di un toro inferocito scagliatogli contro da Ate, la dea della morte. Giove ha pietà del dolore di Dioniso ed accorda una seconda vita ad Ampolo che rinasce nelle sembianze di una vigna, dalla cui vendemmia Dioniso ricava il primo vino della storia.

Per il mondo greco classico ecco la tripletta Socrate>Platone>Aristotele in cui il simbolo >non ha solo il significato di “poi” ma anche “maestro di”. È più che noto che di Socrate non ci è rimasto nulla di scritto, ma che il suo pensiero lo possiamo ricavare dagli scritti del suo allievo Platone (V-IV secolo a. C.). E mi piace iniziare con un brano (406 c1) del Cratilo in cui Platone ci presenta un simpaticissimo Socrate che ironicamente si esibisce in una scherzosa etimologia del nome del dio greco del vino, Dioniso e del nome greco del vino stesso, mediante un gioco di parole:

“ERMOGENE: -E che dire poi di Dionysos e di Aphrodite?-. SOCRATE: -Sono difficili le domande che mi poni, figlio di Ipponico. Infatti l’etimo dei nomi per questi due dèi può essere espresso seriamente e scherzosamente. L’etimo serio chiedilo a qualcun altro; ma nulla impedisce di trattare di quello scherzoso, perché anche gli dei sono spiritosi. Dunque Dioniso nominato scherzosamente sarebbe “colui che dà il vino”, Didoinysos1, mentre il vino poi, poiché fa sì che parecchi di coloro che bevono abbiano senno mentre non ne hanno, potrebbe essere chiamato a buon diritto oionous2-.

Il Cratilo non è l’unico dialogo che contiene riferimenti al nostro argomento. Nel  Simposio, 176a-d:“dopo, essendosi Socrate sdraiato e avendo cenato  lui e gli altri, essi fecero libagioni e dopo aver celebrato con canti il dio e assolto alle altre consuetudini, si diedero al bere. Poi Pausania diede inizio ad un discorso siffatto: -Bene, amici! Come bere senza tanti scrupoli? Io vi dico : – Via, amici, come s’ha a fare a bere che non s’affoghi?-. Per conto mio io vi dico chiaro e tondo che il mio stato non è dei migliori dopo la bevuta di ieri e che ho bisogno di una pausa. Così credo che sia pure per molti di voi poiché ieri c’eravate. Guardate dunque come dovremmo bere responsabilmente. Allora Aristofane disse: -Dici certamente bene, o Pausania, che in ogni modo si cerchi una pausa nel bere, poiché anche io faccio parte di quelli che ieri sono affondati (nel vino)-. Erissimaco, figlio di Acumeno, avendolo sentito disse: -Parli certamente bene ma ho bisogno di sapere da voi ancora una cosa,  come Agatone sta quanto a voglia di bere-. -Non ne ho- rispose -neppure io sto bene-. E l’altro: -Sarebbe una fortuna per noi, come sembra, per me, per Aristodemo, per Fedro e per questi altri se voi, i più forti nel bere, ora vi tiraste indietro: noi infatti siamo sempre stati debolucci. Escludo dal mio discorso Socrate: infatti egli può abusare o fare a meno del bere, sicché comunque facciamo ci sarà d’aiuto. Poiché dunque mi sembra che nessuno dei presenti sia ben disposto a bere molto vino forse sarei poco spiacevole se dicessi qual è la verità sull’ubriachezza. Io credo questo, che è chiaro dalla medicina che l’ubriachezza è pericolosa per gli uomini; e né io stesso vorrei bere oltre né lo consiglierei ad un altro, anche se non soffrisse ancora i postumi della sbornia di ieri-. Disse, prendendo la parola, Fedro di Mirrinunte: -Io sono abituato a crederti, anche quando non parli di medicina; ora anche gli altri, se hanno giudizio-. Dopo aver udito ciò tutti convennero di evitare l’ubriachezza per quella volta, ma di bere così per il piacere”.

dionysos

È una condanna senza appello e un invito alla moderazione, la sola che può fare del vino un piacere e non un pericoloso vizio, sicché Socrate, che qui compare defilato e che dalle parole dei commensali potrebbe essere semplicisticamente considerato un’autentica spugna, in realtà è il modello di colui che riesce a restare sempre padrone di se stesso perché conosce i propri limiti e ha la forza di non superarli.

cratere apulo a figure rosse (da archeogate.org)
cratere apulo a figure rosse (da archeogate.org)

Questo pensiero trova più ampio sviluppo in Leggi  dove (I, 636e-637b) lo spartano Megillo così si rivolge ad un anonimo (ma non è difficile identificarlo con Socrate) ateniese : “-mi sembra giusto che a Sparta il legislatore prescriva di evitare i piaceri; quanto alle leggi di Cnosso egli4, se  vorrà, le difenderà. Mi sembra che a Sparta ci siano le più belle leggi umane in materia di piaceri; gli uomini infatti non cadono minimamente vittime neppure dei piaceri più grandi, dell’insolenza e di ogni tipo di stoltezza; questo bandisce la nostra legge da tutto il territorio e non ti potrebbe capitare di vedere per i campi né nelle città che sono sotto il controllo degli Spartani simposi né tutto ciò che ad essi accompagnandosi spinge il piacere alla sfrenatezza; e non c’è nessuno che non rivolga subito un grandissimo rimprovero a chi fa baldoria a causa dell’ubriachezza, neppure se accampasse a pretesto le feste in onore di Dioniso, come talora io ho visto succedere sui carri presso di voi e a Taranto presso i nostri coloni ho visto l’intera città in preda all’ubriachezza nel corso delle feste in onore di Dioniso; da noi non c’è niente di tutto questo-“.

Nel corso del dibattito l’Ateniese dimostrerà il carattere ambiguo del vino, cioè la sua capacità di aggregare idee e sentimenti liberi da ipocrisie, inibizioni e falsi pudori, cioè di generare un piacere che non fa male né a se stessi né agli altri, come pure di obnubilare la coscienza, il che non solo preclude la fruizione di un piacere, qualsiasi esso sia, ma crea un danno a se stessi e agli altri. Verrà così ribadito il concetto della misura e dell’autocontrollo strettamente legato a quello della consapevolezza dei propri limiti, anche nell’assimilazione dell’alcool5. Estremamente interessante è, poi, l’idea microcosmica del simposio retto dall’autocontrollo di ciascuno (a partire da chi ne è, in un certo senso, il capo detto simposiarca), che diventa metafora macrocosmica della corretta organizzazione politica della società.

Aristotele dedica all’argomento ampio spazio nella terza sezione dei Problemata, in cui si pone trentacinque domande e dà altrettante risposte sul meccanismo di parecchi effetti dell’ubriachezza (dalla visione sdoppiata al mal di testa, dalla minzione intensificata all’impotenza). La riflessione più interessante, anche per i suoi risvolti giuridici per quella che, volendo inventare un’attenuante, può essere considerata responsabilità parzialmente diretta, mi pare però quella contenuta nel capitolo V del terzo libro dell’Etica Nicomachea: “(I legislatori) puniscono per l’ignoranza stessa quando ritengono che uno sia causa della propria ignoranza; per esempio, per gli ubriachi le pene sono doppie, giacché l’origine dell’atto è in colui stesso che lo compie: infatti egli è padrone di non ubriacarsi, ma l’ubriachezza, poi, è la causa della sua ignoranza”.

Dopo duemila anni i reati provocati dalla guida in stato d’ebbrezza o in preda all’azione di stupefacenti attendono ancora di essere adeguatamente sanciti …

Ne approfitto per dichiarare pure che, a mio parere, legata allo stereotipico binomio genio-sregolatezza e quanto meno discutibile sia l’opinione di coloro che credono che l’assunzione di certe sostanze stimoli la creatività artistica6. Io credo che il genio, comunque, è per definizione “sregolato”, ma nel senso che è lui l’inventore di nuove regole o l’innovatore parziale o totale delle vecchie;  e per fare questo, se si è veramente geniali, basta, sempre secondo me, il cervello che la natura ci ha dato insieme con la capacità e la volontà di mantenerlo sempre in allenamento, altrimenti anche la più sublime opera d’arte non è dissimile dal record dell’atleta dopato, cioè fasulla e truffaldina. E nessuno si è mai chiesto se qualche capolavoro creato in condizioni artificiose documentate non sarebbe potuto essere ancor più capolavoro se l’artista non fosse ricorso all’aiutino?

Continuando la nostra carrellata, una vera e propria antologia di opinioni disparate e sovente contrastanti sul vino è ne I deipnosofisti di Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.). Dato il numero veramente elevato, ne riporto solo le più significative: “Filocoro scrive che Anfizione re degli Ateniesi, avendo appreso da Bacco il modo di temperare il vino, per primo lo diluì e perciò chi aveva bevuto il vino così miscelato camminava correttamente, mentre gli altri procedevano barcollanti. Per questo beneficio innalzò a Bacco Retto un altare nel tempio delle Ore poiché le Ore nutrono il frutto della vite. E vicino a quell’altare ne eresse un altro per le Ninfe, monito per i bevitori che il vino dev’essere temperato poiché si tramanda che le Ninfe furono le nutrici di Bacco. Inoltre promulgò una legge che dichiarava  la quantità di vino che poteva essere servita con i cibi per la degustazione, poi che si poteva bere a volontà il vino temperato ma invocando prima il nome di Giove Salvatore, affinché i bevitori ricordassero che chi avesse bevuto seguendo queste regole non poteva essere in alcun modo incriminato”; “Filocoro dice che non solo coloro che bevono rivelano quel che veramente sono ma che con la loro libera e ingenua conversazione mostrano pure di che pasta sono fatti gli altri; perciò il vino è detto anche verità. Teognide: Gli esperti saggiano col fuoco l’oro e l’argento; ma la mente degli uomini è svelata dal vino”.

Dunque il vecchio proverbio Ἐν οἴνῳ ἀλήθεια (nel vino verità) avrebbe la sua paternità in Teognide (VI-V secolo a. C.) citato da Filocoro (IV-III secolo a. C.), a sua volta citato cinque secoli dopo da Ateneo! E con Ateneo continuiamo a fare un pezzo di strada.

“Paniasi: -Per gli uomini che abitano le terre pari è l’utilità del fuoco e del vino. Usato contro tutti i fastidi il vino è un ottimo rimedio. Per un ottimo simposio occorre una parte di vino, una di danza in coro, una di amabile compagnia: perciò nei banchetti conviene che tu lo beva con animo ben disposto e che non ti metta a sedere come fa un bambino quando è sazio e il cibo ritorna alla gola, dimentico degli obblighi di cortesia”; e più avanti: “-Il vino è un ottimo e magnifico dono degli dei ai mortali: col vino si accorda qualsiasi canto, qualsiasi danza, ogni amabile benevolenza; il vino cancella dal cuore degli uomini tutti gli affanni, se è bevuto in modica quantità; bevuto oltre misura è dannoso-”; “Eubolo -Il vino oscura la nostra prudenza-”; “Anfide -È probabile che la razionalità risieda nel vino: coloro che bevono acqua sono stupidi e fatui-”; “Antifane: -Il vino dev’essere scacciato col vino-”.

Gli autori citati da Ateneo e sopra riportati (ad eccezione di Filocoro che era uno storico e di Paniasi che era un poeta epico) sono tutti poeti comici e questo spiega il carattere provocatorio (se agli scritti fossero seguiti i fatti potremmo parlare di “poeti maledetti” ante litteram) delle loro affermazioni se le contrapponiamo alle posizioni filosofiche riportate all’inizio. D’altra parte pure nella produzione tragica non mancano personaggi che cercano nel vino l’oblio della propria infelice condizione, ma qui si tratta di un espediente congeniale allo sviluppo dell’azione.

Chiudo la carrellata degli autori greci facendo come oggi è di moda, ma qui solo cronologicamente, un passo indietro con quattro poeti lirici che celebrano l’ambiguità del vino anticipando di secoli (magia della poesia …) la trattazione filosofica del tema.

Archiloco (VII secolo a. C.): “Fra le aste c’è per me la farina impastata, fra le aste c’è per me il vino,/d’Ismara e all’asta mi appoggio mentre bevo.”; “Su col boccale tra i banchi dell’agile nave/e stappa il concavo barile!/Spilla il vino rosso; neppure noi/possiamo far la guardia senza bere.”; “Perché io so bene dare inizio/al ditirambo,/il bel canto di Dioniso signore,/folgorato nella mente dal vino.”

Alceo (VII-VI secolo): “Dobbiamo ubriacarci oltre ogni limite:/ il tiranno Mirsilo è morto.”;  “Non bisogna consentire/che il dolore si impadronisca dell’animo/perché il dolore non dà nulla di utile;/va versato il vino perché l’ebrezza è il miglior rimedio.”; “Sta piovendo a dirotto e la tempesta/infuria nel cielo, si gonfiano i fiumi:/supera i disagi della stagione/mettendo molta legna/ al fuoco/e bevendo allegramente vino a volontà.”; “Irrori il vino entrambi i polmoni,/beviamo: il sole sta salendo;/ogni cosa ha sete per l’infuocata stagione.”; “Quando giunge la primavera/il suo rigoglio/è un invito al piacere:mescetemi dolce vino.”; “Il vino è per gli uomini uno specchio:/vino, caro fanciullo, e verità.”; “Salute e bevi/, bevi con noi!”.

Focilide (VI secolo a. C.): “Nel simposio conviene quando girano i calici/sedersi a parlare di cose allegre e tracannare il vino”.

Teognide (VI-V secolo a. C.) è certamente, almeno secondo me,  tra i lirici quello che più si è soffermato sul tema senza, tuttavia, incorrere nel rischio del banale o del ripetitivo: “Bere molto vino fa male, ma se uno lo beve/da saggio gli fa bene.”; “Non posso bere vino perché con la mia dolce fanciulla/giace un uomo di gran lunga peggiore di me./Glielo hanno dato a dormirle accanto freddo i genitori/e lei porta l’anfora dell’acqua dalla sorgente e rimpiange me./Qui le ho stretto la vita col braccio e le ho baciato il collo/ed essa mi ha parlato dolcemente.”; “Bevo, ma non fino ad ubriacarmi; così il vino non mi spinge a dire cose spiacevoli su di te”; “Non succede ogni notte di fare baldoria./Io tra l’altro, che bevo il dolce vino nella giusta misura/, penso al piacere del sonno e andrò a casa./Mostrerò che il vino è piacevole a bersi quando io/, non essendo più sano, non sono ubriaco./Ma coloro che bevono come spugne non sono/più padroni della propria mente e della propria lingua/e dicono cose sconsiderate che ai sobri sembrano turpi e nulla,/preso dal vino, si vergogna di fare./ Mentre prima era saggio, ora è stolto: ma tu, conoscendo ciò,/non bere il vino in misura eccessiva/o allontanati prima di essere ubriaco perché non abbia ad emettere dalla gola grida/come giornalmente si fa con un servo colpevole, o, se resti, non bere. Invece tu hai sulle labbra sempre un “versa!”/, parola stupida che ti fa ubriacare,/ poiché un bicchiere si leva all’amicizia, un altro è già pronto,/da uno bevi in onore dei numi, ne tieni un altro in mano/e non sai dir di no./ È veramente un vincitore/chi si scola molti bicchieri e non dice sciocchezze./Ora dunque abbandonatevi ad una piacevole conversazione stando vicini al cratere/ma lontani da risse e provocazioni,/cantando tutti insieme in accordo:/così il simposio diviene giocondo.”; ”Onomacrito, mi gira la testa e il vino mi spinge/a non essere più padrone della mia lingua./Tutta la casa mi giro intorno, ma voglio provare/ad alzarmi, purché il vino non faccia effetto sui miei piedi/ oltre che sulla mia mente. Ho paura di fare/ubriaco qualche sciocchezza di cui dopo mi debba vergognare”; “È vergognoso per un ubriaco stare in mezzo a sobri, ma è vergognoso pure per il sobrio stare tra ubriachi”; “Del vino mi piace tutto, meno il fatto/che mi eccita a scagliarmi contro mi sta sulle scatole”; “Quando ti sembra di vedere sopra ciò che sta sotto/allora è giunto il momento di andare a casa smettendo di bere.”; “Bevi questo vino che sotto le cime del Taigeto/producono per me le viti che aveva piantato il vecchio/nelle balze del monte Teotimo caro agli dei e condusse lì/le fresche acque dal Platanisto. Bevendolo allontanerai ogni preoccupazione/ed ebbro ti sentirai molto più lieve”; Bevi quando gli altri bevono/e quando qualche preoccupazione ti tormenta il cuore/, perché nessun uomo sappia che stai soffrendo”; “Per ora svuotiamo allegramente i bicchieri/e facciamo a gara a motteggiare./Al futuro devono pensare gli dei.”; “Io bevo e così non penso alla povertà che mi tormenta/e ai nemici che parlano male di me./Ma continuo a tormentarmi per l’amabile giovinezza che vola via/e piango la vecchiaia in cui ho già un piede.”

Termina qui, con questa nota di funerea suspence, a mo’ di telenovela o di fiction di ultima generazione, questa prima parte; mi auguro solo che l’audience della seconda registri una punta più elevata …

 

Per la seconda parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/20/lu-mieru-il-vino-22/

 

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1 Διδοίνυσος è una fantasiosa creazione composta dal verbo δίδωμι=dare+il sostantivo οἶνος=vino.

2 Οἰόνους è come il precedente Διδοίνυσος voce inventata mettendo insieme οἶος=solo+νοῦς=senno.

3 Feste in onore di Dioniso, nel corso delle quali c’è da immaginarsi che non si bevesse acqua …

4 Si tratta di un altro interlocutore di nazionalità cretese.

5 Ultimamente in questo e pure in quel social network è in corso tra gli iscritti una gara a chi rende pubblico un pensiero tratto dagli scritti più svariati dei più svariati autori (e non sempre del padre di quel pensiero si cita il nome …). Ciò che non si sa è che quello stesso concetto, che riteniamo originale,  è vecchio di millenni per un motivo semplicissimo: è frutto di quel buon senso che noi sembriamo aver perso.

6 Anche questo concetto non è nuovo. Basta leggere più avanti il frammento in cui Alceo parla del suo rapporto col ditirambo e col vino.

EPAMINONDA VALENTINO

Di origini napoletane ma gallipolino d’adozione

EPAMINONDA VALENTINO

di Rino Duma

Epaminonda Valentino è da considerare uno tra i più determinati e attivi perasonaggi del Risorgimento salentino. Epaminonda (chiamato Mino dai familiari e amici) nacque a Napoli il 3 aprile 1810 da Vito, consigliere d’Intendenza di Napoli e da Maria Cristina Chiarizia, i cui familiari parteciparono ai sommovimenti che precedettero la Repubblica Partenopea del 1799.

La famiglia Valentino si trasferì ben presto a Gallipoli per motivi di lavoro. Il padre Vito, essendo molto facoltoso, acquistò il palazzo Doxi-Stracca (oggi palazzo Fontana, in Via Micetti) e il casino di campagna Stracca, a poca distanza da Villa Picciotti (l’attuale Alezio).

Il ragazzo crebbe in una famiglia di spiccate idee liberali, cosicché, sin dall’infanzia, fu influenzato notevolmente nella sua formazione culturale e spirituale. Da giovane studente frequentò scuole tra le più famose del napoletano e del Salento, in cui insegnavano i migliori educatori, che contribuirono ancor di più a fortificargli l’idea repubblicana. Aveva in odio il sovrano Ferdinando I di Borbone, il quale, rimpossessatosi del Regno di Napoli, dopo il periodo di occupazione francese, si lasciò andare a una repressione spietata nei confronti dei liberali e, soprattutto, dei giacobini.

Sin da giovane, entrò a far parte dei movimenti settari napoletani, e, forse anche, si iscrisse alla setta carbonara gallipolina “L’Utica del Salento”, capeggiata dai fratelli Antonio e Gregorio de Pace. Questa setta, mitigata negli atteggiamenti politici, era antagonista di un’altra setta cittadina “L’Asilo dell’Onestà”, molto più attivista e intransigente, i cui aderenti si macchiarono di alcuni omicidi nei confronti di gallipolini “Calderari”, fedeli al sovrano.

Con ogni probabilità, frequentando la setta carbonica, ebbe la possibilità di conoscere Rosa de Pace, figlia di Gregorio e sorella della più famosa Antonietta, con la quale stabilì, sin dal 1830, un rapporto sentimentale segreto (Rosa aveva all’epoca solo quindici anni). Qualche anno dopo (1836) i due decisero di convivere, anche perché la sua compagna era rimasta incinta. Nel mese di settembre di quello stesso anno nacque il figlio Francesco, che morirà nell’estate del 1866, all’età di trent’anni, nella battaglia di Bezzecca, al seguito di Garibaldi, nella terza guerra d’indipendenza. Non essendo ancora sposati, al figlio fu assegnato momentaneamente il cognome di Onorati e solo dopo il loro matrimonio, avvenuto nel 1838, gli fu attribuito il cognome del padre. Nel 1841 nacque la secondogenita Laura.

A cavallo degli anni ’30 e ’40, la coppia risedette ora a Napoli ora a Gallipoli, per via dell’attività commerciale dell’uomo, ma soprattutto per la sua intensa attività politica.

Epaminonda tesseva le relazioni tra i repubblicani salentini e quelli napoletani, rischiando il più delle volte di essere arrestato dalla gendarmeria borbonica, perché in possesso di documenti molto compromettenti. Il giovane repubblicano si spostava in continuazione da Napoli verso le varie città salentine e da queste ritornava nella capitale per tenere vivi e costanti i contatti tra gli affiliati.

Ben presto s’iscrisse alla “Giovine Italia” napoletana e divenne personaggio di spicco, insieme al tarantino Nicola Mignogna, al leccese Giuseppe Libertini e ai concittadini Bonaventura Mazzarella, Francesco Patitari ed Emanuele Barba, tre eminenti personaggi gallipolini, insieme ai quali costituì una sezione cittadina legata al movimento mazziniano.

In questa importante opera di “tessitura politica” fu aiutato dalla cognata Antonietta de Pace, che salirà alla ribalta della cronaca per l’intraprendenza e il coraggio evidenziati durante la sommossa napoletana del 15 maggio 1848 sulle barricate di Via Toledo e in occasione del processo contro di lei intentato e dal quale si salvò grazie ad un verdetto “pari” dei giudici napoletani.

Epaminonda e Antonietta formarono un binomio importantissimo nella lotta antiborbonica, tanto che ogni operazione politica era vagliata dai due, prima della necessaria autorizzazione a procedere.

Per l’intensa attività politica, la polizia borbonica aveva incluso nella lista delle persone “attendibili” di Gallipoli Epaminonda, insieme a Stanislao de Pace (zio di Antonietta) e ai fratelli Francesco e Giuseppe Patitari.

Nonostante tutto, Epaminonda fu proposto, in alcune circostanze, come il più “desiderato” a occupare la carica di sindaco della città: una prima volta nell’agosto del 1838, una seconda nel luglio del 1842. In entrambi i casi il suo nominativo fu categoricamente scartato dall’Intendente cittadino.

Sebbene ci fosse stato il netto rifiuto dell’autorità borbonica, nell’agosto del 1844, il Decurionato di Gallipoli ripropose il suo nome alla prima carica cittadina. Il Valentino, convinto che l’Intendente avrebbe rifiutato ancora una volta la sua nomina, scrisse a costui un’ampia e dettagliata lettera, in cui esponeva le ragioni della rinuncia, addebitandole ai numerosi impegni di vita e alle sue non perfette condizioni di salute. L’Intendente inviò la lettera al Decurionato perché ne prendesse atto e presentasse, in sua vece, un altro nominativo. Il massimo collegio cittadino, riunitosi il 1 ottobre di quell’anno, invalidò le motivazioni addotte dal Valentino, sicché ripropose all’Intendente la sua candidatura, ma, ancora una volta, da questi fu rigettata. Anche nel 1845 Epaminonda ebbe un’ulteriore bocciatura in occasione del suo ingresso nel Consiglio Provinciale.

Nel 1848, subito dopo la concessione della tanto agognata Costituzione da parte di re Ferdinando II, Epaminonda, insieme ad Antonietta, Bonaventura, Emanuele, Giuseppe Libertini, Achille dell’Antoglietta, Luigi Settembrini e Nicola Mignogna, combatterono eroicamente sulle barricate a Napoli, dopo che re Ferdinando II s’era rifiutato di apportare alcune modifiche alla appena nata Costituzione. La guerriglia tra la Guardia Nazionale (a difesa dei Liberali) e la polizia borbonica fu impari. In poco meno di un’ora furono spazzate via le barricate a colpi di cannone e sulle strade rimasero i corpi esanimi di quasi mille rivoluzionari.

Dopo lunghe peripezie, i nostri gallipolini ritornarono nel Salento e costituirono un comitato d’azione in difesa della Costituzione, momentaneamente sospesa dal sovrano.

In tutta la Terra d’Otranto ci furono grandi manifestazioni di piazza che portarono alla destituzione delle autorità locali, nei confronti delle quali non fu però torto un solo capello. Fu armata sufficientemente la Guardia Nazionale che soppiantò la polizia borbonica, alla quale fu tolto ogni tipo di arma per neutralizzare una potenziale reazione.

Epaminonda e Bonaventura, insieme a Sigismondo Castromediano, costituirono a Lecce il Circolo Patriottico Provinciale, cui seguì la nascita, in quasi tutti i paesi del Salento, dei circoli patriottici cittadini. In pochi giorni l’intero Salento era pronto a reggere un eventuale urto delle forze borboniche che da Napoli si muovevano verso le terre in agitazione.

L’euforia era tanta ma la paura di essere attaccati dall’esercito borbonico cresceva in ogni salentino con il trascorrere dei giorni. La resistenza, che prima era compatta e determinata, ora iniziava a scricchiolare, soprattutto per le notizie che provenivano da Napoli attraverso la stampa. Un esercito di ventimila uomini (era di soli quattromila) e una flotta di navi da guerra muovevano verso la Calabria e la Puglia. I liberali moderati (erano in tanti) che facevano parte dei vari Circoli Patriottici decisero di rinunciare alla rischiosa impresa, anche perché erano stati sobillati dalle autorità borboniche esautorate. Epaminonda e Antonietta si recarono in diverse città salentine per mantenere alta la tensione e unita la resistenza. Ma ogni cosa fu inutile.

Dopo alcuni mesi il Salento ritornò nelle mani dei Borbone.

Epaminonda, Bonaventura, Sigismondo e tanti altri eroi della resistenza furono ricercati e alcuni incarcerati. Bonaventura fuggì a Corfù, Sigismondo fu arrestato non opponendo alcuna resistenza, Epaminonda si diede alla macchia.

Anche durante questo periodo il Valentino continuò nell’opera di riorganizzazione della resistenza. Purtroppo, tradito dall’Eletto di San Nicola, Giuseppe Rajmondo, fu scovato nella sua stessa casina di Stracca e arrestato.

L’arresto di Epaminonda fu dovuto al caso. Infatti, avvertito per tempo dell’imminente arrivo della polizia, l’uomo, alquanto grassottello e malato di cuore, non potendo fuggire a cavallo insieme ai suoi amici, fu calato attraverso una stretta botola in un granaio, al di sopra del quale fu sistemato un grosso lastrone. All’arrivo dei gendarmi, la moglie Rosa, fortemente preoccupata, volgeva lo sguardo in continuazione verso il granaio. Il tenente borbonico, accortosi dello sguardo fisso della donna in quella direzione, decise di togliere il lastrone. Solo in questo modo fu scoperto il nascondiglio dell’uomo.

Tradotto nelle carceri leccesi dell’Udienza, umide e scarsamente arieggiate, Epaminonda cominciò a sentirsi poco bene. Nonostante le suppliche dei familiari e del medico militare, l’uomo fu tradotto insieme a Sigismondo e ad altri liberali arrestati, in una zona del carcere ancora più fatiscente, dove non filtrava un solo raggio di luce. L’uomo si aggravò sempre più e la notte del 30 settembre 1849, dopo aver chiesto invano “datemi aria… aria!”, spirò tra le braccia di Sigismondo.

Si concluse in questo modo orrendo la bella vita di Epaminonda Valentino: uomo coraggioso, fiero, amante della libertà e “figlio del vento”, come ebbe a definirlo qualche giorno dopo l’avv. Antonio d’Andrea, durante l’omelia tenuta nella chiesa di Gallipoli.

Il corpo di Epaminonda fu sepolto nel cimitero di Lecce, dove, molti anni dopo, fu tumulato anche quello del figlio Francesco.

 

N.B. Articolo pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per averne autorizzato la riedizione.

NORDICI E SUDICI

Centocinquant’anni trascorsi invano

NORDICI E SUDICI

Poco è stato fatto per attenuare l’enorme divario tra un Nord dinamico e un Sud sempre più rassegnato e impotente. L’Italia è tutt’altro che unita, anzi, a distanza di un secolo e mezzo, il gap economico-sociale tra le due comunità è consistentemente aumentato

di Rino Duma

Non me ne vogliano i lettori se, a bella posta, ho utilizzato il termine “sudici” per definire i meridionali: non è mio costume usare parole offensive nei confronti di qualsiasi uomo, figuriamoci se rivolte nei riguardi dei miei conterranei.

Ho preso in prestito la pesante e infelice definizione dal socialista bolognese Camillo Prampolini, che, all’inizio del ‘900, ebbe a distinguere gli italiani – vantandosene – in “Nordici e Sudici”. Una frase, un motto, un marchio d’infamia, che si commenta da sé.

Le ragioni che hanno determinato la profonda frattura tra settentrionali e meridionali sono riconducibili a molteplici cause, tutte figlie di un’unica madre: l’Unità d’Italia!

Con questa affermazione non vorrei essere tacciato di faziosità, assolutamente no! Mi sento italiano a tutto tondo e sono fiero di esserlo. Amo le tradizioni, la cultura, la quotidianità della vita che anima l’intero stivale: le sento mie, le vivo, me ne compiaccio o ne soffro, a seconda delle varie situazioni. Al tempo stesso, però, non posso fare a meno di esternare sentimenti di amarezza e di sdegno per le ripetute umiliazioni e gli abusi subiti dalla mia gente, nel corso di tanti anni, per opera di settentrionali prepotenti e altezzosi, quasi appartenessero a una “razza superiore o dominante”. Le ingiustificate accuse provengono da persone che non conoscono la vera storia che sta dietro all’Unità d’Italia, perché nessuno, volutamente, gliel’ha mai fatta conoscere e studiare. Forse non la conoscono nemmeno gli stessi meridionali. Come dire: la storia dei vincitori prevale su quella dei vinti e prevarica sempre le loro ragioni e diritti.

Per fare maggiore chiarezza esaminiamo la situazione socio-economica italiana all’alba dell’Unità.

Nel Regno delle due Sicilie l’analfabetismo, l’ignoranza, lo sfruttamento e l’enorme indigenza si attestavano intorno all’80% dell’intera popolazione e, soltanto nei grandi centri urbani, scendevano di dieci-quindici punti percentuali. I grandi latifondisti, possessori d’immense proprietà terriere (mediamente diecimila ettari), incravattavano il popolino con pesi e condizioni di vita insopportabili, al limite della sopravvivenza umana. Insomma, si era instaurato e consolidato da diverso tempo una sorta di sfruttamento di tipo colonialistico, nell’ambito della stessa comunità.

Non stavano meglio i settentrionali, che vivevano dei prodotti della terra e della pastorizia ed erano sfruttati sino all’osso dai vari paesi del vasto impero austro-ungarico. Non vi era un adeguato sviluppo industriale, se non nelle grandi città, e l’istruzione era riservata unicamente al ceto sociale più alto. Anche qui, quindi, l’ignoranza, l’analfabetismo e lo sfruttamento regnavano incontrastati.

I settentrionali erano ritenuti dagli austriaci come “gente fiacca e priva di ogni iniziativa”. A testimonianza di tutto ciò, si cita la celebre frase di Clemente di Metternich che, oltre a ritenere l’Italia “una semplice espressione geografica”, considerava la gente padana “un imbelle popolo di straccioni”. Questa accusa inclemente fu poi spiegata da Cristina di Belgioioso, nei suoi “Studi sulla storia di Lombardia”, con “il difetto di energia dei lombardi”.

Quindi, se da una parte i “sudici” non se la passavano bene, dall’altra i “nordici” non stavano meglio. Non erano però straccioni né gli uni né gli altri, poiché in ogni parte d’Europa le condizioni di vita erano suppergiù identiche.

Se potessimo tornare indietro con una fantomatica macchina del tempo e fermarci nel 1860, ci accorgeremmo che l’88-90% dei duosiciliani (i meridionali del Regno delle Due Sicilie), se interpellati in un ipotetico sondaggio, non aderirebbe al progetto di Unità d’Italia. Si pronuncerebbero favorevolmente solo i liberali radicali e i repubblicani mazziniani, che vedevano in questo grande progetto la panacea di ogni male. Poco meno di un milione di persone su un totale di nove. Un’Unità d’Italia, quindi, che non tutti gli italiani hanno voluto.

Proseguiamo nel nostro excursus storico.

Si può asserire, senza alcuna possibilità di smentita, che il Regno duosiciliano era considerato, all’epoca dell’invasione piemontese, uno degli Stati europei più solidi ed efficienti per ricchezza, cultura e organizzazione politica e amministrativa, non altrettanto si può affermare dei cugini settentrionali, che, ad ovest, erano stretti nella morsa dei francesi, mentre, ad est, dell’impero austriaco.

Nel Meridione d’Italia il sistema bancario e finanziario godeva ottima salute e la circolazione monetaria, basata sulla presenza di moneta aurea e argentea (i ducati, per le operazioni commerciali di un certo valore) e bronzea (i baiocchi e i tarì, per i piccoli scambi), garantiva la massima solidità al sistema economico della nazione. Il Banco delle Due Sicilie emetteva in continuazione moneta sonante, che attestava il continuo trend positivo dell’economia nazionale. In Piemonte, invece, (non vi erano banche di Stato) operavano solo Casse di Risparmio, alcune delle quali erano state incaricate dal governo centrale a emettere carta-moneta, che inizialmente era convertibile in oro, ma – si badi bene – non alla pari, bensì in un rapporto di 3 a 1 (cioè, si davano tre lire in carta-moneta per ottenere una d’oro!), ma che ben presto diventò a corso forzoso (cioè non fu più concessa la possibilità di convertire la moneta cartacea in oro) e pertanto tutti gli scambi commerciali avvenivano unicamente in banconote. Si giunse a una decisione del genere per tamponare l’enormità del debito pubblico, paragonabile quasi a quello esistente oggi in Italia. In pochi anni la quantità di carta-moneta fu tanta e tale da determinare una pericolosa inflazione, l’aumento dei prezzi, la conseguente svalutazione del potere d’acquisto e la recessione economica.

Si doveva urgentemente trovare una soluzione al gravissimo problema per non andare incontro a una bancarotta di Stato. Come? Ci pensò Camillo Benso, conte di Cavour. L’astuto primo ministro stabilì importanti relazioni con la Francia, alla quale cedette Nizza e la Savoia, in cambio di un consistente aiuto militare contro l’Austria e di un non-interventismo francese di fronte a una politica espansionistica piemontese in altre parti dell’Italia, in particolar modo nel Meridione.

Il Regno delle Due Sicilie era un boccone prelibato e appetibile. Infatti, in quel periodo, la sua economia era al massimo splendore in ogni settore. Il commercio con l’estero era consistente, tant’è che la Marina Mercantile (la terza in Europa) poteva contare su ben 9.800 bastimenti, che collegavano ogni parte e ogni porto del mondo. Il Settentrione, ahinoi, aveva pochi sbocchi sul mare e, oltretutto, il traffico per terra era quasi nullo perché ostacolato dalla catena delle Alpi e da un quasi inesistente sistema ferroviario. Un’economia, quella del Nord, asfittica, che si raggomitolava su se stessa.

Nel Regno duosiciliano primeggiavano le industrie siderurgiche, su tutte quelle di Mongiana e Fuscaldo, e quella metallurgica di Pietrarsa. Qui si produceva dell’ottimo acciaio, da far invidia a quello inglese, binari, locomotive, carrozze ferroviarie, campane, cannoni, barre di ferro, lamierati, ingranaggi per macchine industriali e agricole, presse olearie, utensileria e oggetti di precisione. Immensi, poi, i cantieri navali di Castellammare di Stabia e Pazzano, dove erano costruite, anche per conto di Stati europei, navi a vapore, bastimenti commerciali e navi da guerra. Importante anche l’industria manifatturiera, come quella tessile, della carta, della ceramica, del vetro, del mobile, della concia delle pelli, della trasformazione delle derrate alimentari (olive, uva, frumento, tabacco, frutta) ecc. Il Regno di Napoli era al centro della vita del Mediterraneo: dai suoi porti partivano bastimenti carichi di ogni ben di Dio, nei suoi porti attraccavano bastimenti stracolmi di prodotti provenienti dalla Spagna, Inghilterra, Francia, dalla Russia, dalla Turchia e dal medio ed estremo Oriente. Dagli archivi doganali dell’epoca emerge che annualmente gli scambi commerciali si aggiravano, tra import ed export, nell’ordine di cinquecento milioni di ducati d’oro!

Una grande fortuna, che suscitava anche tanta invidia.

Nel Settentrione c’erano delle industrie (meccaniche, tessili, manifatturiere, casearie, della ceramica, del vetro e del mobile), ma erano limitate nella produzione, perché limitato era il suo mercato.

Stanti, quindi, una recessione economica preoccupante e un debito pubblico alle stelle, l’unica via d’uscita per il Piemonte era quella di “assorbire”, tramite una fantomatica Unità d’Italia, altri Stati dello stivale. Il Cavour aveva visto bene. In pochi anni, grazie a Garibaldi e Mazzini, furono via via annessi gli staterelli emiliani, il Granducato di Toscana e infine il Regno di Napoli.

Approfittando dell’incerta situazione napoletana, a seguito della morte di re Ferdinando II (22 maggio 1859), e grazie al tradimento di alti ufficiali borbonici (il generale Sforza su tutti), il Piemonte fece un sol boccone della modesta resistenza borbonica, modesta a modo di dire.

Le conseguenze di quell’invasione non tutti le conoscono. Forzieri stracolmi di ducati d’oro, gioielli, oggetti d’arte furono trafugati e spediti a Torino. L’intero territorio fu messo a soqquadro: vi furono ruberie d’ogni genere, stupri di donne innocenti, eccidi di massa (anche bambini) in ogni angolo del Regno, ben quarantamila soldati borbonici arrestati, deportati e fatti morire di fame (ma c’è chi parla di cinquantaseimila!) nelle fredde prigioni piemontesi di Fenestrelle e di S. Maurizio Canavese (sono i primi lager della storia), interi paesi rasi al suolo (Casalduni, Pontelandolfo, Campolattaro). La gente moriva di fame e di stenti. Furono in molti a darsi al brigantaggio per difendere la propria dignità e la propria terra (ma non erano briganti!); in molti preferirono emigrare in Argentina, Australia, Canada, Stati Uniti d’America per non piegarsi ai veri briganti, quelli dai “colletti bianchi”.

I Savoia portarono via ogni cosa (non sto esagerando). Smontarono buona parte degli impianti delle migliori industrie e li rimontarono in Liguria, in Piemonte e in Lombardia. Ne beneficiarono i cantieri Cadenaccio, poi diventati Ansaldo, gli stabilimenti milanesi L’Elvetica, poi rilevati da Ernesto Breda e infine lo stabilimento meccanico torinese, che nel 1899 fu denominato Fiat. Portarono via i brevetti industriali, le maestranze specializzate, le migliori energie umane, la linfa vitale, lasciarono soltanto cumuli di macerie, la miseria, la fame, il dolore, una terra senza futuro, da cui scaturirono ben presto la desolazione, la sporcizia, la rassegnazione, l’abbandono e, nel mentre, si rafforzarono la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta. Portarono via anche la storia e le ragioni di una guerra mai dichiarata, di un’invasione ingiustificata, tutto nel nome di un’Italia Unita. Unità che non era mai stata voluta dai Savoia, poiché il loro vero intento era stato quello di metter riparo al dissesto finanziario, poi scaricato sui bilanci del nuovo Stato, che venne alla luce con il pauroso debito pubblico di 2.374 milioni di lire-oro. Ancor oggi gli italiani continuano a pagarne le disastrose conseguenze.

A voler fare un’ultima precisazione, va detto che il Regno delle Due Sicilie contribuì alla ricchezza dell’Italia Unita con 443,2 milioni di lire-oro, mentre il Piemonte con 27, la Lombardia con 8,1 e il Veneto con 12,7 (Rapporto presentato al Parlamento dal Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti). Ed è quanto dire.

Se ci fosse stata veramente la buona intenzione da parte dei Savoia di unificare e uniformare ogni parte d’Italia, sarebbero bastati pochi anni per farlo. La Germania, dopo la caduta del muro di Berlino, ha impiegato solo vent’anni per ricostruire la parte orientale della nazione. I tedeschi hanno investito marchi per un valore pari a tre volte l’aiuto concesso dagli Stati Uniti all’Europa attraverso il piano Marshall. Ma i tedeschi sono ben altra gente, nonostante i loro crimini di guerra.

Abbiamo ancora tempo davanti a noi per ovviare all’incuria e alle mancate promesse dei vari governi succedutisi nel corso di centocinquant’anni, ma per farlo è necessario che agli Italiani sia consegnata la vera storia e, soprattutto, che ci sia la ferma volontà a “edificare” un’effettiva unità del paese, attraverso una Repubblica Federale, in cui ogni realtà territoriale sia resa autonoma e debitamente sostenuta dal governo centrale. All’epoca, un sistema politico del genere era stato ripetutamente consigliato da Carlo Cattaneo a Vittorio Emanuele II, ma non se ne fece nulla, perché i propositi sabaudi miravano a tutelare ben altri interessi.

Oggi, nonostante i numerosi oltraggi patiti in tanti anni, noi meridionali ci sentiamo di essere Italiani, mentre altri inneggiano a una Padania libera, rinnegando l’Unità d’Italia e minacciando addirittura la secessione dal resto del paese. Come dire: vi abbiamo sfruttato una volta, oggi di voi non sappiamo cosa farne!

Noi, invece, vogliamo bene a quest’Italia, rotta e sfasciata, vogliamo che risorga e che ritorni a essere la nazione che un tempo in molti ci invidiavano e temevano.

Perciò, W l’Italia, con cuore e sentimento, ma senza rancore e ipocrisia!

 

 N.B. Pubblicato su Il Filo di Aracne, la cui Direzione si ringrazia per averne permesso la pubblicazione su questo sito.

Veniva da Lecce la bella maestrina

Caro Marcello, oggi 13 gennaio 2013 mi è arrivata la notizia che la mia vecchia maestra delle scuole elementari è scomparsa. Non so se puoi farne un post con il racconto “Veniva da Lecce la bella maestrina” che a sua volta fu pubblicato.
Un caro saluto
Alfredo

 

 

Veniva da Lecce la bella maestrina: come divenni un leccese

 

di Alfredo Romano

Vestiti d’un grembiulino nero, un po’ lacero ma pulito, con un colletto bianco inamidato allacciato da un grosso fiocco azzurro, stavamo affacciati col naso schiacciato contro il vetro alla finestra della scuola elementare. Attendevamo tutti con ansia l’arrivo della bella maestrina. Era puntuale. Ad un minuto dal suono della campanella sopraggiungeva sul piazzale una fiammante 600, color verdino, con le portiere che dall’interno si aprivano sul davanti.
Accompagnata da un fusto di fidanzato, vestito in doppiopetto grigio con i baffetti alla Fred Buscaglione, la maestrina, nell’atto di scendere dall’auto, divaricando le belle gambe, lasciava involontariamente scoprire un pezzo della sua carnagione bianca. A quel punto per un posto in prima fila alla finestra succedeva di tutto: spintoni, gomitate, cazzotti e colpi bassi. Poi tra un fuggi fuggi generale ognuno al suo banco a far finta di niente al sopraggiungere in classe della maestrina.
Portava generalmente delle scarpe bianche a punta con tacchi alti, un tailleur classico chiaro con gonna che scendeva oltre le ginocchia, una camicetta bianca con colletto smerlato alla quale dava risalto una collana di perle a triplo giro che ornava un collo gentile, a reggere un viso dolce e bianco, di una bellezza non sovrastante ma delicata, pulita, sfumata da una punta di rossetto che sprigionava un profumo vagamente di violetta, profumo che faceva svenire anche quelli dell’ultima fila di banchi che a quel tempo erano i gli asini della classe.
La bella ed elegante maestrina veniva da Lecce. Ma la maestrina non poteva che venire da Lecce. Tutto ciò che era signorile, tutto ciò che era bello, che era grande, che era diverso, tutto quello che noi non conoscevamo, che non avevamo mai visto, veniva da Lecce.
Per noi bambini di Collemeto, una frazione allora abitata in gran parte da contadini, Lecce era un sogno. La maestrina leccese non perdeva occasione di parlarci con dovizia di particolari dei grandi palazzi baronali, delle bellissime chiese barocche, delle ville liberty, dei negozi fantasiosi dove si poteva trovare merce indescrivibile, mai vista, che magari arrivava dall’America o dall’Oriente lontano; ci deliziava facendoci mentalmente entrare in quel bazar che doveva essere il mercato coperto dove c’era tutto il ben di dio: potevi trovare pesci dai mille colori, e alcuni lunghi anche un metro; c’erano montagne di cozze, di ostriche, di polpi; c’erano cataste di agnelli, carni di tutte le specie; c’era gente addirittura che cucinava per strada.
E poi sacchi e sacchi di verdura, di cicorie, finocchi, rape che la gente comprava a bracciate e chi aveva le braccia più lunghe ne portava a casa di più. E c’erano traini pieni di quintali di mandarini, di aranci, di noci. E poi era tutta una festa, Lecce era tutta una festa, con le belle strade illuminate di

Il bambino con le mani pulite

La copertina del libro 052

di Gianni Ferraris

 

Quando nasce cultura è un momento di felicità, se poi è salentina deve essere anche orgoglio, e se aggiungiamo accoglienza, multietnia e fusione di sentimenti, allora il mix è perfetto.

“Io mi sento salentino, Il Salento nero” mi dice Papa Ngady Faye, che noi chiameremo  Amadou come tutti quelli che conoscono quel senegalese nero come la notte, alto, elegante, sempre sorridente, con i libri che vende sotto il braccio. Ora poi che oltre la vendita è sua anche la produzione e  la casa editrice, l’orgoglio e la sensazione di potercela fare rendono ancora più luminoso quel sorriso. Il nome della nuova casa editrice salentina è Modu Modu, così si chiamano i senegalesi che emigrano per contribuire al benessere dei loro cari che rimangono in Africa inviando il denaro guadagnato e magari, come fa Amadou, aprendo una scuola per bambini e ragazzi che debbono studiare per riscattare un futuro meno insidioso, forse emigrando anche loro, ma con la dignità della conoscenza.

Con Amadou abbiamo parlato della sua nuova attività di editore, di quella vecchia di venditore di libri e soprattutto del suo nuovo lavoro. Lo conobbi come autore di un bellissimo libro: “Se Dio Vuole”, per i tipi di Giovane Grafica Edizioni. Ricordo benissimo quel primo incontro, avveniva contemporaneamente al criminale duplice omicidio di due senegalesi per mano di un fascista di Casa Pound a Firenze. Era il 13 dicembre 2011.

 

“Modu Modu come è nata?”

 

“Dopo otto anni di vendita di libri in strada ho incontrato molti clienti che lamentavano una scrittura non scorrevole dei libri che offrivo loro. Una carissima signora che acquistava molto ad un centro punto smise di comprarne perché faticava a leggerli. Io sono molto attaccato alla vendita di libri e mi sono detto che devo fare da solo ed elevare la qualità del prodotto offerto. Lo scopo che mi sono dato è quello di tradurre la buona letteratura senegalese e africana in genere e proporla al pubblico italiano”.

 

“Ti limiterai all’Africa?”

 

“Al momento si, però non escludo nulla. Perché chiudersi?”

 

“Parliamo del tuo ultimo lavoro: Il Bambino con le mani pulite”

In Senegal si dice che un bimbo cone le mani pulite ha diritto di mangiare nel piatto di tutti (n.d.r.)

 

“Io sono solo un coautore, con mia moglie Antonella Colletta abbiamo portato in Italia i testi di Babakar Mbaye Ndaak che è un nuovo griot (cantastorie) senegalese che scrive storie bellissime”*.

 

“Sono favole per bambini?”

 

“Non solo, sono racconti con una morale. Se tu leggi Hondo ti racconta l’importanza dell’umiltà nel viaggio”

 

“Quale viaggio Amadou?”

 

“Quello della vita. E forse è il racconto che amo di più perché è il lavoro che io ho fatto in Italia, il venditore. Un tempo in Senegal erano venditori di acqua. Uno di loro mise in piedi un’impresa che diede molto lavoro ai venditori tutti organizzandolo. Non bisogna sottovalute nessun lavoro, neppure i più umili, perché tutti hanno un senso. E’ il percorso che ho fatto io, ora mi sento più moi même”.

 

“Il prossimo lavoro che uscirà?”

 

“Stiamo traducendo un romanzo senegalese sulla negritudine”

 

“Negritudine?”

 

“Un tempo se dicevi Negro ad un nero si arrabbiava, lo vedeva come uno spregio, ora è diventato bello. In realtà esiste una sola razza, ognuno di noi ha dentro tutti i colori della pelle. Quando arriveremo a comprenderlo in pieno sarà un mondo migliore”

 

Così ci lasciamo, lui con il successo del suo primo libro che lo porta ancora in giro per l’Italia, prossimo appuntamento a Roma in una scuola, ed io con “Il bambino con le mani pulite” sotto braccio. E’ un libro veramente bello, illustrato magnificamente da Marta Solazzo e i suoi brevi capitoli alternati fra le “Confabulazioni” di Amadou e Antonella e i racconti di Ndaak. Se ne parlerà ancora. Inizia così, con un “Buon giorno ai lettori” che dice  : “…Mia  moglie Antonella ed io abbiamo cercato di immaginarvi tutti, uno per uno, sia che siate bambini, adolescenti o adulti di ogni età… Conosciamo tanti adulti ancora bambini e, pensandoci bene, anche qualche eterno adolescente… Sono quelli capaci di camminare con leggerezza e guardare il mondo con uno sguardo sempre nuovo, capaci, qualche volta, di fare scelte ardite. E che non perdono mai la fiducia nel domani…”.

Farà lunghi percorsi il lavoro di questo salentino nero… “Inshallah” mi direbbe Amadou.

 

 

 

 

 

 

*Babakar Mbaye Ndaak, moderno griot che custodisce le storie e l’antica saggezza de l suo popolo, è professore di storia e geografia e presidente dell’associazione senegalese degl iartisti della parola e del racconto Leebon ci leer (raccontare al chiaro di luna). Dopo anni di studio e ricerca pubblica nel 2012 tre album musicati di poesie, elegie, favole e racconti storici.

Quinto quarto e sesto quarto

da gentedelfud.it
da gentedelfud.it

di Pino de Luca

 

Onnivori ci appelliamo. So bene che esistono ormai molti esseri umani che hanno fatto scelte differenti, più o meno radicali. Dobbiamo a tutti grande rispetto e siamo persuasi della reciprocità di questo sentimento.

Siamo attori di conversione di molteplici alimenti e qui proviamo a esserne consapevoli fruitori, aggiungendo alla necessità di alimentarci la ricerca del piacere nel compierlo.

Ho una profonda convinzione che il proprio piacere sia un diritto fondamentale, il cui limite sia solo l’inferenza con il diritto altrui.

Ma so anche dell’imperante ipocrisia che relega il piacere all’area di ciò che è illegale, immorale o dichiarato malsano. Attribuendo virtù a sofferenza e sacrificio e vizio a trastullo e godimento.

Mi appello a scritti di ben più alto rango: “Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!” e quindi, sempre con grande rispetto, mi accingo a raccontare del “sesto quarto”.

Macellare un animale è azione necessaria per poterne consumare le carni. Ovini, equini, bovini, caprini e suini sono i fornitori di gran parte delle proteine dell’alimentazione umana. Data la taglia si suole, dopo la macellazione, suddividere le carcasse in “mezzene” e queste ultime in “quarti”, sicché ogni animale si scompone in quattro quarti.

Si suole appellare “quinto quarto” l’insieme delle componenti povere del macellato: testa, interiora, coda, ecc.

L’alimentazione “popolare”, nei secoli, è stata molto caratterizzata dal “quinto quarto”. Per esso le modalità di preparazione e di consumo si sono sempre più ingegnate ed affinate producendo sapori e profumi che gli amanti del genere (come me) trovano assai intriganti.

Tutti gli animali hanno un quinto quarto, ma il suino ne ha anche un sesto, pregiatissimo ed ormai introvabile. Si sono allontanati i luoghi della macellazione da quelli del consumo. L’idea di un rapporto di inversa proporzionalità tra la distanza del sacrificio e la colpevolezza nel consumarne i frutti è tipica degli ipocriti e dei vili, ma soprattutto impedisce la possibilità di fruire di prodotti che hanno nella freschezza la loro parte pregiata.

Il sesto quarto è il “sanguinaccio”, preziosissima preparazione che affonda la sua esistenza nell’ancestrale ritualità del consumo di prodotti animali. Cibarsi del sangue, del cervello o del cuore della vittima di un sacrificio ha aspetti mistici antichissimi.

Ne preparano uno ottimo ad Alezio (Macelleria Priman) ma solo di mercoledi.

Una bontà straordinaria la cui composizione, articolazione, preparazione non riporto perché immagino possa ferire animi particolarmente sensibili ma che posso garantire è eseguita a regola d’arte. Il sanguinaccio si può consumare a fette, freddo o scaldato o tirarlo nel vino rosso (come ho fatto io). È una delle cose più buone che il palato possa approcciare. “Fummo fratelli adottivi” disse Barbara, “più che di sangue, di sanguinaccio!!!”

Ne esiste anche una versione dolce (callume) ma di questa ne parliamo a carnevale …

Due garibaldini galatinesi: Gioacchino Toma e Fedele Albanese

G. Toma, O Roma o morte
G. Toma, O Roma o morte

di Vittorio Zacchino

 

Come ovunque, in Italia e nel mondo (vale la pena di leggere la superba monografia dedicatagli dal compianto Alfonso Scirocco, Garibaldi, Milano Ediz.Corriere della Sera 2005), anche in Salento e a Galatina Garibaldi fu amatissimo, addirittura idolatrato. Nonostante l’oleografia, l’agiografia e la retorica che hanno invaso e stravolto la storiografia risorgimentale, occorre ammettere che la gente non aveva saputo resiste al fascino travolgente di questo campione dal temperamento forte e deciso, indomabile, generoso, ardimentoso, Giuseppe Garibaldi da Nizza, l’esatto contrario di un carrierista della politica e delle curie.

Nell’agosto 1860 sul punto di varcare lo stretto per puntare su Napoli, dopo aver liberato “le terre sicane / dal giogo” – come cantò il brindisino Cesare Braico – e con la regia di un Giuseppe Libertini giunto apposta da Londra per far insorgere simultaneamente le province meridionali, tanti salentini, ben cinquecento, corsero a indossare la camicia rossa, ad imitazione dei molti conterranei della prima ora che avevano fatto parte dei Mille, dal Braico al Mignogna, dal Carbonelli al Trisolini. Nonostante, turbamenti e crisi di coscienza, roghi di ritratti reali, sommosse legittimiste, assalti ai conventi, istigazioni di preti retrivi e scorribande di briganti per tutta la Terra d’Otranto, i nostri giovani vennero attratti irresistibilmente dal biondo nizzardo e, qua e là, i nostri popolani cantarono: Ci passa Carribbardi / caribbardinu m’agghiu affà.

G. Toma, I figli del popolo
G. Toma, I figli del popolo

Galatina, si diceva, fu tra le città nostre che dettero un contributo rilevante alle campagne di Garibaldi: come le notizie della sua rapida vittoriosa campagna siciliana si diffusero in città, l’entusiasmo scoppiò irrefrenabile e diversi corsero ad indossare la leggendaria camicia rossa, il pittore Gioacchino Toma, il pellettiere Antonio Contaldo che dismise l’uniforme di soldato borbonico per seguire Garibaldi il quale si distinse a Gaeta guadagnandosi una medaglia, e perfino il pretino Pietro Andriani secondogenito del barone di Santa Barbara. Quest’ultimo, qualificato sovversivo e testa calda fin da quando frequentava il seminario, gettò via la tonaca e si arruolò tra i garibaldini. Dopo il 1860 fece di tutto per campare, ma premuto dalla fame e dal bisogno, fu costretto a rientrare nel gregge. Ma le figure più prestigiose restano Gioacchino Toma, pittore di notorietà nazionale, e Fedele Albanese patriota e giornalista.

Gioacchino Toma
Gioacchino Toma

Nato nel 1836, “spirito irrequieto e insofferente di qualsiasi soggezione”, rimasto orfano a soli 10 anni, dopo un’adolescenza difficile e ribelle, trascorsa per sette anni fra i cappuccini di Galatina e un orfanotrofio di Giovinazzo (a carico della Provincia di Lecce) dove lo avevano rinchiuso, Toma se ne era fuggito a Napoli in cerca di fortuna. Qui, mettendo a profitto l’inclinazione al disegno e alla pittura coltivata in collegio, il giovane aveva cercato di sbarcare il lunario. Ma come Garibaldi si affacciava sullo stretto per lanciarsi alla conquista di Napoli, eccolonostro Gioacchino diventare patriota quasi per caso e senza volerlo. Narra il Foscarini che una seravenne arrestato e tradotto nelle carceri della Vicaria ,donde uscì dopo un mese e mezzo per andare al confino in Piedimonte d’Alife. Testa calda e spirito irrequieto e talvolta turbolento, era inevitabile che venisse coinvolto nella rivoluzione in corso. Sicché allorquando Francesco II tentò di salvare il trono con la tardiva concessione delle libertà costituzionali, Toma entrò nelle file dei cospiratori e alla testa di rivoltosi assalì e distrusse la caserma borbonica. Seguì l’ arruolamento nelle file dei garibaldini, nella Legione del Matese, e dopo la presa di Benevento ottenne la nomina a sottotenente. Racconta che mentre la legione ripiegava verso Padula “venne un dispaccio ad annunziare che Garibaldi era entrato in Napoli, ed io,che ero stato un de’ primi a sentir quella notizia,corsi subito a darla ai nostri soldati, che erano alloggiati in un convento. Diventarono quasi matti per l’allegria;mi presero sulle spalle,mi sollevarono in alto ,e gettandomi addosso la paglia in cui dovevano dormire, mi fecero girar così tutti quei corridoi,fino a che stanchi, fra un diavolio da non si dire, mi buttarono a terra e là mi seppellirono di paglia.

ancora un dipinto di Gioacchino Toma
ancora un dipinto di Gioacchino Toma

In seguito Toma aveva preso parte a diversi fatti d’armi, a Santa Maria Capua Vetere, a Caserta, in Molise. Catturato a Pettoranello di Isernia il 17 ottobre, egli era stato condannato alla fucilazione, da cui riuscì a scampare per puro caso, Dai suoi Ricordi di un orfano(Galatina Congedo 1973 per la cura di A. Vallone) togliamo il brano significativo in cui dopo essere stato dato per morto, e dopo aver attraversato “tutta la lunga strada di Isernia al fianco del Generale Cialdini, va a ritrovare a Campobasso i correligionari in camicia rossa che non credono ai propri occhi “ nel vedermi vivo, mentre nella certezza che io fossi morto, avevan già, come ho detto, raccolto il denaro per farmi il funerale. Grande fu l’allegrezza loro e, servendosi di quel denaro, festeggiarono con un pranzo la mia risurrezione e mi diedero in ricordo di quel giorno, un bellissimo pugnale”. Poco dopo,sciogliendosi l’armata garibaldina, diedi anch’io le dimissioni e tornai in Napoli (…).

Compiuta l’annessione del Sud al Piemonte il nostro si dette totalmente alla pittura dipingendo alcune tele in cui rievocava episodi delle campagne garibaldine cui aveva partecipato. Garibaldini prigionieri, O Roma o morte, e Piccoli Garibaldini, sono le più celebri. Quest’ultima, con i piccoli che festeggiano i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, fu sicuramente ispirata dai tanti auto da fè di stemmi ed effigi sabaude infranti nelle piazze dai partigiani borbonici, dei toselli con i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II arsi in pubblico. Se da un lato queste scene patriottiche gli procurarono fama, dall’altro, dati i loro contenuti rivoluzionari, accentuarono il suo isolamento in una Napoli ancora sostanzialmente borbonica per cui in questi primi anni unitari egli patì l’indigenza. Ma l’Amministrazione Provinciale di Lecce corse in aiuto del figlio, sensibilizzata (a insaputa di Toma) da un manipolo di artisti napoletani – Palizzi, Morelli, Catalano ed altri – (cfr. V. ZACCHINO, Gioacchino Toma tra rinnovamento stilistico e difficoltà economiche (1865-1867) in “Il Corriere Nuovo di Galatina. Benché queste sue “bambocciate” erano un poco incerte, trasmettevano il patriottismo e le speranze di un popolo lungamente represso.

Fedele Albanese (1845-1882),è l’altro verace garibaldino galatinese, impulsivo ma di mente sveglia (il termine “garibaldino” nelle famiglie tradizionali allineate con i Borbone era sinonimo di rivoluzionario, testa calda e avventata). Già ai primi del settembre 1860, quattordicenne, con altri studenti, alla testa di un grande stendardo confezionato in casa sua, era salito su una tribuna improvvisata e aveva tentato di tenere un comizio che però era stato sciolto dalla polizia. Più fortunato di lui il cappuccino Giacomo Calignano il quale il giorno dopo, “cinto di sciabola e di sciarpa tricolore, si pose alla testa della cittadinanza , la condusse al Largo dei Cappuccini e la arringò con un sermone patriottico con scandalo dei suoi superiori. Nel 1866 il nostro interruppe gli studi per indossare la camicia rossa ed arruolarsi, appena ventenne, tra i cacciatori delle Alpi impegnati nella spedizione tirolese. Presa poi la laurea in giurisprudenza con lode, il nostro era tornato a indossare la camicia rossa nello sfortunato scontro di Mentana del 1867,insieme a diversi commilitoni leccesi (Panessa, Leone, Morone, Grande, Patera) agli ordini di Giovanni Nicotera. Presa la laurea nel 1868, Albanese si ritroverà ancora una volta il 20 settembre 1870 alla breccia di Porta Pia che varcherà tra i primi, da giornalista. Fu valoroso e onesto collaboratore di numerosi giornali , tra Napoli e Roma; ultimo di essi l’amatissimo “Monitore”, ma quando questo giornale cessò le pubblicazioni,per causa di forza maggiore, il garibaldino Albanese non riuscì a sopravvivergli e si uccise nel marzo 1882. Qualche mese prima della morte del suo eroe Garibaldi.

E’ giusto che oggi, alle soglie del 150° anniversario della pur discutibile Unità, l’Italia ,il Salento, e Galatina ritrovino lo spirito unitario che ebbero il duce di Caprera e i “garibaldini” di Galatina, Albanese e Toma, con tutti i salentini audaci che furono al suo seguito. Perché, siamo certi, passato il rigurgito retorico del 150°, sulla memoria di quegli eroi e di quegli eventi, inesorabile ripiomberà l’oblio e ritornerà “a strisciar la lumaccia”.

 

N. B. Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui Direzione si ringrazia per aver autorizzato la pubblicazione su questo sito

 

Friculàre e spriculàre, ovvero quando fonologia e semantica, almeno per me, vanno a braccetto.

di Armando Polito

spriculare

 

Ogni dettaglio in qualsiasi codice espressivo è importantissimo. Lo stesso tono con cui pronunziamo una parola può ribaltare totalmente il suo consueto significato, sicché anche un “asino!”, anzi, come Sgarbi ha brevettato, un “capra!” indirizzato, per esempio, da un insegnante al suo allievo può essere, se detto nel momento e nel modo giusto,  l’ingrediente ammiccante e complice di un processo educativo in cui il rimprovero, o quello che può sembrare tale, non è per il destinatario la certificazione di una sconfitta subita ma uno stimolo per la vittoria da cogliere.

Nel nostro caso tutto è giocato su un fonema: f (labiale sorda aspirata) nel primo caso, p (labiale sorda) nel secondo.

Procedo, però, per ordine dando delle due voci oggetto dell’indagine di oggi il significato e l’etimologia.

La bagnante, di Pierre August Renoir
La bagnante, di Pierre August Renoir

Friculàre significa strofinare1 e formalmente è parente dell’italiano fregare, che è dal latino fricàre.  Friculàre, però, non suppone una derivazione diretta da fricàre ma da un sostativo *frìculum da questo derivato2.

Spriculàre significa fare a pezzi, sbriciolare; non ha corrispondente formale in italiano e per me deriva da friculàre con aggiunta in testa di s– (dal latino ex) intensiva3 e con passaggio dalla labiale sorda aspirata (f) alla labiale sorda (p).

Come l’aspirazione in fonologia comporta un indebolimento articolatorio e sonoro così spriculàre rispetto a friculàre indica un’azione molto più energica sancita proprio dalla s– intensiva aggiunta e dal passaggio prima evidenziato.

Che tutto questo ragionamento sia fondato lo dimostra la variante intermedia di Soleto sfriculàre=ridurre a cocci o briciole, mentre ancora sfriculàre e l’ulteriore variante sfreculà sono usate nel senso di sfregare rispettivamente nel Brindisino a Mesagne e nel Tarantino a Massafra.

Tutto a riprova della maggiore creatività del dialetto, per oggi mi si consenta di dire quello neretino,  nel saper sfruttare per fini diversi la stessa radice e, nel nostro caso, forse anche una testimonianza della sobrietà ed economicità della vita contadina che si riflette anche nella lingua.

E il Rholfs? Non avanza nessuna proposta etimologica e, pur comparendo la parola briciola nei lemmi in oggetto, non credo proprio che il grande studioso abbia pensato ad una derivazione di sfriculàre/spriculare  proprio da briciola4, cosa che, se è plausibile semanticamente, non lo è foneticamente. Dopo il puntuale riscontro di Nerino ne attendo altri, accademici e non …

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1 Ma la stessa voce è usata pure nel senso di “avere rapporti sessuali” e in questo caso è connessa, oltre che etimologicamente, anche semanticamente con l’italiano frègola, riferito in origine ai pesci che si strofinano contro i sassi nel tempo in cui depongono le uova.

2 Processo già presente nel latino classico: coagulàre da coàgulum, a sua vota da cògere (che è da cum+àgere=mettere insieme) + suffisso -ulum; copulàre da còpula, a sua volta da cum+=insieme+àpere=legare + suffisso –ula; etc. etc…

3 Dalla stessa preposizione latina ex (col significato, però, di “lontano da”, idea di privazione, e non, come nel caso di s- intensiva in quello di “lontano dalla normale misura”, idea di sviluppo eccezionale) è derivata la s- estrattiva (o privativa) di scombinare, sconfortare, etc. etc.

4 Diminutivo di brìcia, che è da un latino *brisiàre variante del medioevale brisàre=spezzare, voce di origine gallica (in francese briser=interrompere).

Nardò 1413 – 2013. Con un concerto si chiude la prima fase dei festeggiamenti

cartelloC

 

Con il concerto di oggi si chiude il primo ciclo delle celebrazioni che hanno caratterizzato il compleanno della Cattedrale e della Città di Nardò, di cui abbiamo scritto per più giorni.

Sontuosa la cerimonia dell’11, con la partecipazione di quasi tutti i Comuni della Diocesi (15 su 18 erano presenti con il loro gonfalone), che ha avuto inizio in piazza Salandra alle 17, con il saluto del Sindaco della Città di Nardò, avv. Marcello Risi, lo scoprimento della targa e la lettura dell’epigrafe su di essa incisa. Simbolica ma importante anche la consegna da parte dell’amministratore diocesano Mons. Luigi Ruperto, acompagnato dal parroco della Cattedrale Mons. Giuliano Santantonio, al Sindaco, di copia della bolla pontificia del 1413 conservata nell’archivio, affinchè venga messa agli atti amministrativi di Nardò.

Il corteo dunque, cui hanno partecipato le Autorità civili e militari (tra le  quali il Prefetto, Questore, Carabinieri, Guardia di Finanza, Esercito, Marina, Capitaneria di Porto) si è diretto in Cattedrale, dove si è tenuta la solenne concelebrazione eucaristica, presieduta da S.E.Mons. Domenico Caliandro, arcivescovo di Brindisi-Ostuni, con la partecipazione del Clero diocesano (circa 80 tra sacerdoti, diaconi e seminaristi).

Una cerimonia molto toccante, che ha reso il giusto merito all’evento che ha rievocato i 600 anni dall’elevazione della chiesa abbaziale benedettina di Sancta Maria de Nerito in Cattedrale e contestualmente della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

 

DOMENICA 13 GENNAIO 2013

BASILICA CATTEDRALEore 19.00

CONCERTO DELL’ORCHESTRA DELLA FONDAZIONE ICO “TITO SCHIPA”

diretta dal Maestro Marcello PANNI, che eseguirà:

Il Canto dell’usignolo, di Igor Stravinskij

Suite da Lo Schiaccianoci, di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

 

la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)
la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)

 

Copia di 4

Garibaldi e il Salento


di Maurizio Nocera

Il Salento, l’ottocentesca Terra d’Otranto, è stata una terra dove grandi e dure sono state le lotte per il conseguimento dell’Unità d’Italia. Qui, agirono figure di livello nazionale, come Bonaventura Mazzarella, Sigismondo Castromediano, Luigi Libertini, Antonietta De Pace, altri ancora. Fra di essi, sicuramente va annoverato anche Emanuele Barba, patriota e uomo insigne di Gallipoli, che ebbe relazioni con Giuseppe Garibaldi, Victor Hugo e altri scienziati e patrioti dell’epoca.

Fu soprattutto con Garibaldi che il Barba di Gallipoli tenne buoni e lunghi rapporti, rilevabili ancora oggi da documenti dell’epoca conservati nell’archivio romano dei Barba, tra cui Eugenio Barba, il famoso regista dell’Odin Teatret danese. Per lo più si tratta di manoscritti e materiale iconografico facente parte di una collezione di «ricordi garibaldini» che il Barba si era proposto di raccogliere a partire dal l882, anno della morte di Garibaldi e che chi qui scrive, nel 1982, anno del centenario della morte dell’Eroe dei Due Mondi, ebbe modo di studiare e trarre da essi alcune riflessioni, in parte poi pubblicate su «Il Corriere Nuovo» di Galatina (anno V, n. 5-6, 1982), diretto allora dal compianto Carlo Caggia.
Garibaldi e il Salento

Qui nel Salento è noto che il Barba fu un sincero patriota e che per tutta la vita rimase fedele agli ideali del Risorgimento. Egli, nel maggio 1848, aveva partecipato ai moti insurrezionali dando un non secondario contributo alla costituzione del Circolo patriottico gallipolino, sezione coordinata del Circolo patriottico leccese.

Per questa sua attività fu perseguitato e più volte incarcerato dalla polizia borbonica.

Fino a che non vide l’Italia unita, lottò sempre, partecipando a tutte le iniziative che nel Salento e nella Puglia vennero  prese a favore della liberazione dell’Italia del sud dal governo dei Borboni. Fu garibaldino della
prima ora, nel senso che si prodigò qui, nella sua terra, a propagandare e sostenere le azioni militari e politiche ispirate o dirette dal generale Garibaldi. La prima volta che manifestò pubblicamente l’ammirazione per Giuseppe
Garibaldi fu in occasione della prima “Festa patriottica”, svoltasi a Gallipoli all’indomani dell’unità nazionale. Sotto la statua dell’Italia turrita fece appendere la seguente epigrafe: «A Garibaldi unico/ l’Italia una.// La sua vita fu olocausto/ il suo nome/ sarà/ simbolo della libertà/ dei popoli».Questa targa marmorea, della quale non c’è più traccia nella città ionica, fu apposta a ricordo del grande contributo dato da Garibaldi alla causa dell’Unità d’Italia. Emanuele Barba, infatti, non dimenticò mai le numerose iniziative che l’Eroe dei Due Mondi più volte intraprese, soprattutto per liberare il Sud dai Barboni.

Nel 1860 Garibaldi, alla testa dei Mille, dopo aver sconfitto l’esercito borbonico ed aver conquistato la Sicilia, aveva reso possibile l’unità nazionale, non riuscendo però a liberare Roma ancora sotto governata dallo
stato pontificio. L’obiettivo del generale, però, piuttosto che quello di Camillo Benso, conte di Cavour, e di Casa Savoia, era quello di vedere Roma capitale dell’Italia unita; per questo, nel 1862, egli  intraprese nuovamente, ripartendo dalla Sicilia, un’azione militare, questa volta però interrotta sull’Aspromonte dalle truppe regolari del nuovo regno d’Italia governato da Torino dai Savoia. È noto che, in quella impresa, lo stesso generale, nel corso di quella operazione, fu ferito e fatto prigioniero. Nelle sue “Memorie” è lo stesso Garibaldi che così ricorda quegli avvenimenti: «dopo marce disastrose, per sentieri quasi impraticabili, l’alba del 29 agosto 1862 ci trovò sull’altipiano di Aspromonte, stanchi ed affamati […]. Giunsero i nostri avversari, e ci caricarono con una disinvoltura sorprendente […]. Noi non rispondemmo. Terribile fu per me quel momento. Gettato nell’alternativa di deporre le armi come pecore, o di bruttarmi di sangue fraterno! […]. Io ordinai non si facesse fuoco, e tale ordine fu ubbidito, meno da poca gioventù bollente alla nostra destra, agli ordini di Menotti […]. La posizione nostra nell’alto, con1e spalle alla selva, era di quelle da poter tenere dieci contro cento. Ma che serve, non difendendosi, era certo che gli assalitori dovevano presto raggiungerci. E siccome succede quasi sempre, essere fiero chi assale, in ragione diretta della poca resistenza dell’avverso, i bersaglieri che ci marciavano sopra, spesseggiavano [replicavano] maledettamente i loro tiri, ed io che mi trovavo tra le due linee per risparmiare la strage, fui regalato con due palle di carabina, l’una all’anca sinistra, e l’altra al malleolo interno del piede destro» (cfr. G. Garibaldi, “Memorie”, Avanzini e Torraca editore, Roma 1988, pp. 452-53).

A causa di questa ferita Garibaldi, dopo essere stato condotto a Varignano (forte militare nei pressi de La Spezia) fu condotto a Pisa, dove gli fu estratta la pallottola. Quindi, per evitare altre inconvenienze,  contrastanti con la monarchia sabauda, fu costretto a rifugiarsi a Caprera laddove, «dopo tredici mesi – scrive ancora nelle sue “Memorie” – cicatrizzò la ferita del piede destro, e sino al ’66 condussi vita inerte ed inutile» (cfr. Op. cit., pag. 454).

Però, occorre dire che proprio inerte ed inutile la vita trascorsa in quell’occasione da Garibaldi a Caprera non fu, in quanto il pensiero della liberazione di Roma rimase in lui più vivo che mai. Della liberazione di Roma, in quegli anni, si occuparono molti altri patrioti. Già il IX° Congresso delle Società Operaie (Firenze, settembre 1861) aveva deliberato, a conclusione dei suoi lavori, il massimo rafforzamento e la più ampia estensione dei Comitati di Provvedimento per Roma e Venezia, sorti dalla trasformazione dei preesistenti Comitati di soccorso a Garibaldi per Napoli e Sicilia, che avevano svolto un ruolo determinante prima e durante la lotta per fare unità l’Italia.

A Gallipoli, l’anima propulsiva di tali Comitati fu indiscutibilmente anche quella del dottor Emanuele Barba. Da molto tempo, infatti, egli si dedicava alla raccolta di fondi, tramite sottoscrizioni pubbliche, che periodicamente inviava all’organizzazione centrale. Di questa attività rivoluzionaria, dà notizia egli stesso su «Il Gallo», giornale popolare gallipolino, del 22 maggio 1862, da lui fondato e diretto con lo pseudonimo di Filodemo Alpimare. Scrive:
«Il nostro Comitato di Provvedimento per Roma e Venezia, il quale da 15 mesi [era stato costituito nel febbraio 1860] ha dato opera allo installamento di altri Comitati filiali in molti paesi del Circondario, in men di due alla distribuzione di più migliaia di Azioni pel Fondo Sacro, ha iniziato nella nostra Città una soscrizione» (cfr.  «Il Gallo», anno 1, n. 1, Stabilimento Tipografico, Lecce 1862, quarta pagina).

Il 4 novembre 1863, una delle tante somme raccolte dal Barba venne personalmente inviata a Giuseppe Garibaldi ancora in ritiro a Caprera per i postumi della ferita subita sull’Aspromonte. Dalla sua isola, l’Eroe dei Due Mondi rispose, ringraziandolo così: «Caprera, 12 novembre 1863. Signor Dottore Emanuele Barba. Ho ricevuto il vaglia di L. 287.39 pel fondo sacro Roma e Venezia e la prego ringraziarne per me i generosi oblatori.  Suo G. Garibaldi».
Due anni dopo, nel 1865, si costituì nuovamente un altro organismo simile al primo, il Comitato Unitario Costituzionale, questa volta con 1’obiettivo di sostenere, nelle elezioni parlamentari, i deputati della Sinistra. Su proposta del Barba, che in Gallipoli in quel momento assumeva l’incarico di vicepresidente dell’Associazione Elettorale Italiana, il Comitato locale venne intestato a Giuseppe Garibaldi.

Sul finire di quello stesso anno,  il Barba, con l’apporto di altri suoi compatrioti, fondò la Società Operaia di Mutuo Soccorso ed Istruzione della città, della quale divenne segretario a vita e compilò uno dei primi Statuti e Regolamenti delle società operaie e di mutuo soccorso di tutta Terra d’Otranto.

Anche in questa occasione, Emanuele Barba dimostrò di essere un fervente garibaldino. Agli operai e ai patrioti di Gallipoli, riunitisi il 4 dicembre 1865 per la fondazione della società, disse: «Fratelli Operai, confortati dagli esempi splendidissimi di altre città italiane, voi volete costituirvi in società di mutuo soccorso ed istruzione, del cui statuto e regolamento vi piacque commettermi la compilazione. Ebbene a ringraziarvi per tant’onore e fiducia vi dirò poche e franche parole, quali si addicono a leale operaio in libera terra. A me pare che col volervi affratellare in questa maniera, mostrate di essere capaci e degni di ogni bene, perché volete onestamente usare dei due primi e più antichi diritti dell’uomo, che sono la libertà e l’associazione. Io spero ancora che voi conseguirete ogni bene, perché volete compiere i due primi doveri dell’uomo sociale, che sono lo scambievole soccorso e l’istruzione. Io anzi affermo che voi già possedete i due maggiori beni che possono avere quaggiù gli operai cristiani, cioè la volontà di perseverare nel lavoro, il quale è l’origine più santa di ogni proprietà, la fine di ogni miseria, e il desiderio di uscir dall’ignoranza, la quale è il più funesto retaggio delle classi laboriose, la cagione precipua d’ogni loro sciagura. Voi dunque potete andare alteri d’imitare in ciò l’eroe più caro d’Italia nostra, Giuseppe Garibaldi» (cfr. “Statuto e Regolamento della Società Operaia di Mutuo Soccorso-Istruzione di Gallipoli”,  Tip. A. Del Vecchio, Gallipoli, 1866).

Di questo periodo della vita del Barba, dei suoi rapporti con Gariba1di, in modo più preciso e dettagliato riferisce anche l’avv. Stanislao Senape-De Pace, che scrisse queste parole:«Scettico in politica dopo il ’60, sentì ancora fremere potentemente il sentimento patriottico al 1866, quando tutta Italia sorgeva animosa a pugnare pel riscatto dell’antica martire delle Lagune, quando Garibaldi gridava: “A Vienna, a Vienna” e ricorrendo al Comitato per la liberazione di Roma e Venezia, che fu uno dei primi a costituirsi in Gallipoli, mandò all’esule di Caprera il contributo dei nostri conterranei. E sotto il governo italiano, ebbe ancora 1’onore d’essere sospettato di troppo liberalismo, tanto che dopo Aspromonte, ricevè varie perquisizioni domiciliari, perché si temeva, ed era vero, che facesse parte del Comitato per 1’arruolamento dei Garibaldini». (cfr. “Albo ad Emanuele Barba”, Tip. G. Campanella, Lecce 1888, p. 85).

Un’altra prova di ammirazione per l’Eroe dei Due Mondi, Emanuele Barba lo manifestò pubblicamente nel 1873 quando, assieme ad alcuni amici poeti, fra i quali Forleo-Casalini, Forcignanò, Prudenzano, Adele Lupo, Minervini ed altri ancora, pubblicò un opuscolo di poesie e racconti brevi, sul quale fece stampare un suo componimento poetico, dal titolo “Garibaldi su la tomba di Ugo Foscolo nel 21 aprile 1864”: «Sotto ciel nebuloso e brulla terra/ Giace lung’ora, ahimè! colui che s’ebbe/ Da ignari e da tiranni eterna guerra:/ Di quei che in Grecia nato Italo crebbe/ Le sacre ossa ignota gleba serra:/ Chi di Pindo e Valchiusa al fonte bevve,/ Chi combattèa dei despoti le brame,/ Dei “Sepolcri il cantor” moria di fame!// Volgon più lustri – e l’Anglica nazione / Plaude festante al Forte di Caprera;/ Muto ristà dei liberi il campione/ All’aurà popolar – Ei tutto spera/ In un pensier di patria religione/ Che rifulge qual Sol che non ha sera:/ E colui che i due mondi onoran tanto/ D’Ugo il sepolcro confortò di pianto.// E dopo il pianto con pietosa mano/ Depone una corona in su l’avello;/ Poi togliendo al divin Carme un brano/ Di suo pugno lo incide su di quello;/ E alla tomba del Pindaro italiano/ Esclama alfin, Macedone novello:/ Ad Ugo al generoso al grande al forte/ Giusta di glorie dispensiera è morte.// E quel grido ripetesi da un’eco/ Che alla voce risponde degli eroi;/ Si ripercuote il grido in ogni speco,/ Quel grido già commove il petto a noi/ Che di Foscolo il genio italo-greco/ Ereditammo, perché figli suoi;/ E… Italia grata omai alzi una voce:/ Ugo riposa eterno in Santa Croce» (cfr. E. Barba, in  “Strenna del giornale «L’Araldo Gallipolino» per l’anno 1873”, p. 63).

Appena due anni dopo, Emanale Barba, nel commemorare a Gallipoli il 19° Anniversario dell’Unità d’Italia, dedicò un nuovo componimento poetico – “Un sospiro di Garibaldi nella festa nazionale del 1875” – con versi che ovviamente riflettono lo stato d’animo di quei patrioti desiderosi di vedere Roma capitale
d’Italia.
Questi stessi versi, scritti su un foglio volante e distribuito in Gallipoli come un volantino, Emanuele Barba li inviò anche a Garibaldi, che così gli rispose: «Prof. Emanuele Barba – Gallipoli. Grazie per la vostra lettera del 7 luglio e per i vostri bei versi. Vi stringo la mano e sono Vostro G. Garibaldi. Frascati, 10 – 7 – 75».
Era il 1875, Garibaldi aveva 68 anni e, la maggior parte del suo tempo, lo trascorreva a Caprera. L’Italia era ormai unita e Roma ne era la capitale. Anche Emanuele Barba non era più il giovane rivoluzionario risorgimentalista del 1848 e la sua vita (ha 56 anni) trascorreva prevalentemente fra i libri della Biblioteca Comunale di Gallipoli, della quale era stato nominato bibliotecario a vita, Le sue preoccupazioni maggiori erano rivolte ad arricchire di libri gli scaffali della biblioteca e, nello stesso tempo a dare corpo a quella splendida istituzione da lui stesso creata e che a tutt’oggi è il Museo naturalistico gallipolino, una delle istituzioni pubbliche più importanti dell’intero Salento. Questi suoi interessi, però, non gli impedirono di continuare ad avere come faro della sua azione l’Eroe dei Due Mondi. Quando Garibaldi morì a Caprera, il 2 giugno 1882, Emanuele Barba dedicò un nuovo componimento poetico, intitolato “Il Forte di Caprera”, VI° Canto dell’ “Album di dolore sulla tomba di G. Garibaldi”, pubblicato a cura dell’amico patriota Luigi Forcignanò.

Ad avvisarlo della morte dell’Eroe erano stati il garibaldino Timoteo Riboli e l’amica Antonina Ceva-Altemps, sposata Stampacchia, due personaggi importanti della prima Italia unita. Timoteo Riboli (1808-1895) era medico e patriota di Colorno, fedelissimo di Garibaldi il quale, nella prefazione alle sue “Memorie”, lo ricordò con queste parole: «Ai cari D.ri Prandina, Cipriani, Riboli, io devo pure una parola di gratitudine, siccome al D.re Pastore. Il D.re Riboli in Francia, chirurgo capo dell’esercito dei Vosges, fu contrariato da indisposizione seria ed accanita. Così stesso, egli non mancò di prestar opera utilissima» (cfr. G. Garibaldi, “Memorie”, Op. cit., pag. 39).

Il Riboli, che fu pure massone come Sovrano Commendatore della Giurisdizione italiana del Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato, ebbe anche il delicato compito, affidatogli da Garibaldi, di collocare il manoscritto de “I Mille” presso un editore. Corrispose con Emanuele Barba sin dal 1880. Antonina Ceva-Altemps Stampacchia era la moglie del patriota salentino e medico di Casa Savoia Gioacchino Stampacchia.

Entrambi questi due amici del Barba, dopo la morte dell’Eroe, continuarono ad informarlo di tutte le iniziative organizzate in Italia nel nome di Garibaldi.  Per anni gli inviarono lettere e fotografie del generale, con le quali il Barba iniziò a formare quella collezione di «Ricordi garibaldini» (oggi conservata a Roma nel ramo della famiglia Barba colà stabilitasi), alla quale rimase affezionato per il resto della vita. Egli aveva formato un piccolo faldone di carte, chiuso con un biglietto inviatogli dall’amico Luigi Castellazzo (1827 – 1890), patriota e garibaldino sin dal maggio ’48, che aveva preso parte alle campagne militari per l’Unità d’Italia del 1859 e del 1860 come ufficiale di Giuseppe Garibaldi. Il Castellazzo fu pure deputato, e cominciò a corrispondere col Barba a partire dal 1884.
Sul biglietto, che chiude il falcone, c’è scritto un pensiero, secondo me di estrema attualità. Eccolo: «Se Garibaldi rivivesse, Egli, nella sua magnanima e fiera natura di Patriota e di Eroe, imprecherebbe a questa Italia degenerata, che lo commemora a parola, gli erige monumenti di pietra, ma non sa imitarne le
virtù, proseguire l’opera e compierne i sublimi ideali».

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Galatina. I racconti della Vadea: palla de pezza, tuddhi e catasca!

 

da repubblica.it
da repubblica.it

di Pippi Onesimo

Vico San Biagio, che promana da Via Biscia e ad essa si aggrappa disperatamente per non ruzzolare rovinosamente giù verso la Staffa de cavallu (piazzetta Cavoti), si trova esattamente nel cuore del centro antico, a monte di piazza Vecchia, che sonnecchia da secoli in precario equilibrio lungo la ripida discesa di via Vignola.

La chiesa delle Anime, saldamente ancorata a valle sulla sua strategica pianta ottagonale, dal basso osserva la più antica piazza di Galatina con trepida apprensione e la sorregge con generosa solidarietà cristiana, da quando si è resa conto che la Casa paterna dei Vignola, pur confinante e precariamente ancorata a Vico Vecchio, non riesce più a tenerla su per i vistosi acciacchi della sua vecchiaia.

A chi osserva vico San Biagio dall’alto, la stradina sembra stretta, buia, triste, angosciante e nervosamente tortuosa, come se piangesse languidamente ripiegata su sé stessa.

Dopo un breve tratto pianeggiante, in precipitosa successione, scivola frettolosamente giù in una silenziosa, irrazionale confusione come un rivolo, che trascina, spingendoli a valle, i suoi fitti misteri e le sue ombre così cupe e dense, che tenacemente riescono a sconfiggere anche la luce del giorno.

In questo suo scorrere vi è tutta la voglia di liberarsi dalle sue ansie, e gridare prepotentemente il bisogno di sorridere e di rivedere il sole.E a valle del pendio si affanna a prendere, finalmente, una boccata d’aria vicino all’ antica arcata, da pochi mesi riaperta, e che solo ora riesce a riaffacciarsi sulla Staffa, dopo la rozza, degradante e offensiva decisione del Palazzo di tenerla murata per molti decenni.

Poi alla fine, con impazienza frenetica, abbraccia voluttuosamente, in un mistico e avvolgente amplesso, lo slargo (abbrutito dalla ingombrante, perenne presenza delle auto in sosta ) di via Lillo, che si modella, per una strana e misteriosa bizzarria architettonica, fra Palazzo Galluccio, la fontanina pubblica, l’imboccatura di vico Freddo e la strozzatura della Staffa).

Intanto, proprio sull’ansa di via Biscia, na decina de vagnuni (alcuni ragazzini) scalzi e accaldati rincorrevano, a frotte ondeggianti in un turbinio confuso e imprevedibile, una rudimentale palla di pezza.

Era stata costruita artigianalmente dal ragazzino più grande e più esperto, nel cortile di casa, arrotolando in un calzino di lana o in una calza di nylon brandelli di stoffe dismesse, poi rinforzata e appesantita cu lle curisce (strisce) di una camera d’aria, recuperata dalla ruota di una vecchia bicicletta in disuso.

Altri, cinque o sei, quasi appartati, fermi più in fondo verso vico San Biagio, attenti e riservati giocavano a tirassegnu cu lli nuci, disinteressandosi di tutto il frastuono che li circondava.

E’ un gioco antichissimo, che risale nella notte dei tempi.

Consiste nel tentare di colpire a turno, da una distanza convenuta, cu lla paddhra (una noce più grossa, scelta fra le più dure e robuste, possibilmente con un guscio a tthre cantuni) una serie di noci, che costituivano lu piattu (la posta), fornite, una ciascuno, da ogni giocatore partecipante e tenute allineate e dritte con sabbia o terra umida disposta su una riga, tracciata sulle chianche. Le noci colpite, e che rimanevano riverse per terra lontane dalla riga, costituivano la vincita.

A volte, se non di frequente, qualche giocatore sfortunato, comunque scorretto, o qualche spettatore invidioso, escluso dal gioco perché non aveva noci da mettere in palio, organizzava la catasca (dal greco katàschesis: il prendere con forza, l’afferrare qualcosa).

Gridando all’improvviso, come uno spiritato, “catasca“, arraffava da terra, con una velocità supersonica, quante più noci possibile e si dileguava in un baleno, correndo a piedi nudi per le vie del borgo, inseguito, spesso senza successo, dai compagni di gioco, inviperiti per l’affronto, per lo scorno, ma soprattutto per il furto. E al danno spesso si aggiungeva la beffa.

Infatti era facile, per chi era nato in quel rione, ricamato da una fitta rete di piazzette, corti, vicoli, viuzze e cortili, attraversare piazzetta Arcudi, dirigersi verso vico del Verme e svicolare da corte Ferrando per uscire a rretu llu spitale vecchiu (alle spalle del giardino del vecchio Ospedale) e poi perdersi fra vico Vecchio o vico Lucerna.

Magari a volte, in segno di sfida e con notevole faccia tosta, risaliva da via Vignola, o dalla via de lu Cazzasajette per vico San Biagio e tornava sul luogo del delitto per godersi impunemente, di nascosto, lo spettacolo di chi era rimasto sconsolato e seduto, a mani vuote, su llu pazzulu de na porta. Ma se veniva afferrato e riconosciuto, ia spicciatu de mmètere e de pisare (non aveva più scampo, perché non gli lasciavano addosso nemmeno i vestiti!)

Anche se nessuno poi, in fondo in fondo, si arrabbiava più di tanto, perché tutti sapevano che il rischio della catasca faceva parte del gioco e che tutti, a rotazione, potevano farla, o subirla.

Intanto due ragazzine, poco più che bambine, silenziose e composte con le loro treccine nervose, asimmetriche, rigide e sporgenti sulle orecchie, come imbalsamate, perché tenute su da un fiocchetto di stoffa colorata, erano sedute, una di fronte all’altra in una zona d’ombra, sul pazzulu di un anfratto di via Biscia, posto accanto al limbatale (soglia) della porta di casa. Giocavano serie e appartate a tuddhri ( sassolini arrotondati e ben levigati di pietra viva).

Era un gioco semplice, allora praticato da tutti i ragazzini perché non costava un centesimo, divertiva e rasserenava lo spirito e soprattutto portava a socializzare; era un gioco antichissimo che veniva da molto lontano (forse risale ai tempi dei Messapi) e si perdeva nella memoria della tradizione popolare.

Adesso è sconosciuto, come tanti altri.

Mazza e mazzarieddhru, la campana, ficura o scrittura, la schiattalora, le stacce, cavaddhru barone, a scundarieddhri, ai quatthru cantuni, alla rota, lu curuddhru, alla linea allu risciu, a spacca chianche ecc.erano alcune semplici testimonianze, veraci ed autentiche, della nostra cultura e della nostra tradizione.

Erano briciole della nostra storia, piccoli scampi del nostro vivere quotidiano, ora irrimediabilmente perduti. Peccato!

Il gioco de li tuddhri si svolgeva con cinque sassolini, scodellati per terra.

Un giocatore, estratto a sorte, afferrava, pizzicando col pollice e il medio della mano destra, un sassolino alla volta e lo lanciava in aria all’altezza del viso, cercando poi di recuperarlo, durante la ricaduta e prima che toccasse terra, nell’incavo che si formava sul dorso della stessa mano, raccogliendo a sé, e tirandoli in su, l’indice, l’anulare e il mignolo.

Le regole del gioco, che proclamavano il vincitore, erano varie e complesse e presentavano delle varianti a secondo dei tempi e dei luoghi in cui si svolgeva.

Non mancava, certo, la fantasia ai bambini!

Passatempi ingenui, semplici e solari che rappresentavano per i ragazzini d’allora, quelli venuti fuori dalla fame, dalla disperazione e dallo scempio morale e psicologico di una guerra vissuta direttamente sulla propria pelle, l’unico diversivo, l’unico divertimento, il loro solo vizio.

Questi rappresentavano per loro la cosiddetta droga povera, quella gratis che si comprava allegramente e liberamente sui marciapiedi, agli angoli delle strade, nei cortili di casa, fra le aiuole dei giardini pubblici, fra i viottoli di campagna e nella fantasia sconfinata, fatta solo di immaginazione, di candide finzioni e di sogni che rimanevano sempre tali, perché non svanivano mai.

La droga ricca invece, quella vera, (c’era anche allora) scorreva solo (fortunatamente per li vagnuni, che non corsero mai il rischio di essere infettati dalla cancrena letale del consumatore di droga a fini di spaccio) nei salotti bene, nelle tasche de li Signurini o nelle borsette delle pulzelle di alto lignaggio e serviva per scacciare la loro noia, ma non la loro insipienza. Poveretti!

Non era facile per loro passare le tante, inutili e vuote giornate, fatte di nulla, di vuoto assoluto, di ozio perenne nei loro ricchi palazzi desolatamente vuoti, ma riempiti di un assordante silenzio, bui e freddi, specialmente d’ inverno, nonostante i camini accuratamente accesi dalla servitù accorta e servizievole.

Il freddo, come la loro aridità, derivava sopratutto dalla mancanza del calore dei sentimenti, dalla incapacità di voler bene, di rispettare gli altri, i diversi, e riconoscere loro la inalienabile dignità di esseri umani.

I giorni, poi, che passavano d’estate nelle immense tenute di campagna erano sempre esageratamente riempiti solo di fatui sbadigli e di insulsi, stupidi capricci.

La loro, era solo una felicità artificiale, dorata ma finta.

Al di fuori da quei palazzi, o lontano da quelle assolate e lussureggianti ville, la vita era più ricca (di sentimenti), più viva, più felice, più vera, più solidale perché, pur se povera, era fatta di momenti autenticamente spontanei e più semplici.

Bastava affacciarsi sull’ansa di via Biscia per capire, gustandola, tutta la differenza !

Vi era un ingenuo, gioioso vociare divertito e scanzonato, fatto di schiamazzi vigorosi che rimbombavano di cantone in cantone. O un groviglio avvolgente di gambe annerite e sbucciate sugli spigoli arrotondati de li scansacarri (paracarri).

O un turbine di inevitabili spintoni che si potevano ricevere sull’onda frenetica e imprevedibile di una palla goffa e irriverente, che ti schizzava accanto.

Qui la vita batteva i suoi ritmi, mentre i giochi scandivano i tempi e le cadenze della felicità.

Questa allegra e scanzonata confusione convinse facilmente la comitiva de lu Cheròndula di scegliere, a ragion veduta, la soluzione della chiesa della Purità.

Oltretutto, così aveva deciso lu Piethruzzu! E dovevano necessariamente assecondarlo, perché, da attore navigato, era molto intransigente.

Pretendeva e otteneva, senza discutere, silenzio, calma, quiete piatta per raggiungere il giusto raccoglimento, scenograficamente adatto, per i suoi contatti… spirituali.

Per tutta questa messinscena qualcuno sosteneva (e forse non a torto) che lu Piethruzzu fosse tutt’altro che della buccata, ma un sornione, inossidabile, bonario… fiju de… bbona mamma.

 

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

La cupeta

da "salentissimo.it"
da “salentissimo.it”

di Pino de Luca

 

“ … chisto non é migliaccio che se pozza spartire a fella, perzò è forza che ad uno tocca la fava della copeta e l’autre se pigliano lo palicco.”

(Lo cunto de li cunti, Giovan Battista Basile, 1636)

Come è d’uopo, i napoletani hanno metafore molto colorite. Il Re deva dare la figlia in sposa e i pretendenti sono cinque e allora spiega che Cianna, la figlia, non è una torta di semolino (migliaccio) che si possa dividere a fette (fella) e quindi uno si prende la “fava della copeta” e gli altri si prendono lo stuzzicadenti (palicco).

Ma cos’è la “fava della copeta”? Se si paragona alla principessa dev’essere la parte preziosa. Se consideriamo il baccello (ùngulu), la fava è la parte interna, quella più dolce e saporita. Ma ùngulu e copeta cosa hanno a che spartire? E la copeta, precisamente cosa è?

Cominciamo con la risposta semplice: ùngulu e copeta condividono la forma (allungata) e il fatto che hanno una parte esterna ed una interna. Nella copeta essa è costituita da mandorle o noci o nocciole o, per i più poveri, da “nùzzuli” (semi di albicocca ma non di “spergia” che quelli sono velenosi … ne riparleremo di questo) e l’esterno da zucchero, miele o vincotto.

La copeta altri non è che quella cosa che caratterizza ogni festa del sud e che si chiama torrone, croccante, copeta, cupeta, cubbaida, ecc.

Accade molte volte che i cibi viaggino sicché Cremona è, dicono, la patria del Torrone sol perché la prima forma con cui compare è quella del Torrazzo, torre campanaria del duecento. I francesi, a loro volta, indicano il torrone (panis turronis) come il pane di Tours (patria di San Martino e di Martino IV, relegato dal sommo poeta nel Purgatorio per la sua golosità. So che Martino IV è Martino II ma qui non stiamo a correggere Dante, o, meglio, i suoi esegeti.)

Per la verità negli archivi di Palermo c’è un atto notarile che riguarda un tale Federico che, di mestiere, faceva il “cubaydario” ovvero faceva la cubaita, assai probabilmente traduzione locale del dolce nordafricano da strada che si chiama “qubbat” ovvero madorlato. Questo documento è del 1287 …

Solo che … i romani avevano un vocabolo: “cupediae” che significa “ghiottonerie” e il “cuppedinarius” era il “venditore di ghiottonerie”.  Ma nelle grandi pere culinarie latine la copeta non compare come ghiottoneria. Non ci resta che rassegnarci ad accettare l’origine nordafricana di questo dolce difficile da fare e difficile da mangiare. Se alla copeta ti approcci in modo aggressivo essa ti resiste, si oppone. Ma se la tieni in bocca dolcemente, si scalda, si scioglie e ti cede fragranze e sapori indimenticabili.

Perché di copeta ne esistono diverse varianti, ogni “cupetaru” ha le sue, chi aggiunge la scorza di agrume, chi i pinoli, chi i pistacchi, chi la cannella, di cupeta, i cui ingredienti principali sono le mandorle e il miele se ne possono fare millanta. Far qui ricette non é il caso tanto se non ci si esercita con qualcuno che la sa fare e insegna a “lavorarla sul marmo”, l’unica cosa che riuscireste a fare è quella di buttare tutto, anche i recipienti.

Sarebbe bello se nella calza della Befana qualcuno si fosse ricordato di metterci della “cupeta” …

Rendite catastali e tributi a Lecce: assessore Monosi o Lucignolo?

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di Rocco Boccadamo

 

Il 30 novembre 2012, con una nota intitolata ”I Monti e i Grilli di Lecce” per riprendere due figure di spicco del Governo nazionale, mi è sembrato opportuno dare lustro ai due più importanti esponenti dell’amministrazione civica locale, Perrone e Monosi, rispettivamente Sindaco e Assessore al Bilancio e ai Tributi.

Grande e meritoria, difatti, l’impresa posta in atto dal predetto duo, tramite e d’intesa con l’Agenzia del Territorio, sotto forma di un vistoso aumento delle rendite catastali – dove il 40%, dove il 20% – che concerne la quasi totalità degli immobili di proprietà di privati nel territorio del capoluogo salentino.

Un gesto che, relativamente alla sola IMU e fermandosi alla variazione minima (+20%), prendendo a riferimento una rendita catastale di 1000, si tradurrebbe in un incremento dell’imposta da 672 a 806 euro se prima casa, e da 1.781 a 2.137 euro nell’ipotesi di altri immobili.

Ne è scaturito un putiferio, la popolazione, a tutti i livelli, non fa che sacramentare di fronte alla prospettiva del’aggravio, né sembra consolarsi col rifugio nel corner del ricorso individuale e/o di un’eventuale azione di protesta collettiva.

°   °   °

Attilio_Monosi,_assessore_al_Bilancio_e_Paolo_Perrone,_sindaco_di_Lecce_Tuttavia, la protervia degli autori della bella trovata emerge a livello davvero esponenziale, ove si pensi che il citato assessore Monosi, in data 10 gennaio 2013, ha avuto il coraggio di diffondere a mezzo stampa un comunicato così recitante:

L’aumento delle rendite catastali era stato previsto nel 2010 quando ancora l’Imu non esisteva e nessuno avrebbe mai potuto prevederla. Peraltro, le rendite catastali risalivano al 1991 ed erano le più basse della Puglia.
La necessità di rivederle è nata dal fatto che in alcuni quartieri la differenza tra le rendite e i valori di mercato era troppo alta. Era giusto, infatti, che una casa del centro storico, e quindi di grande pregio, avesse la stessa rendita di una casa ubicata in periferia. L’intento, dunque, era quello di garantire un principio di equità tributaria e patrimoniale per i proprietari degli immobili comunali.

Nonostante questo, quando il Governo centrale decise di introdurre l’Imu abbiamo cercato di fermare il procedimento di rivalutazione delle rendite catastali. Il sindaco Paolo Perrone ha scritto una lettera al direttore dell’Agenzia del Territorio di Lecce per chiedere di sospendere questa operazione anche perché – come si legge nella missiva – “gli effetti diretti dell’applicazione dell’IMU e della revisione del classamento delle unità immobiliari comporterà per i cittadini leccesi un peso economico oggettivamente difficile da sopportare”.

Ma l’Agenzia del Territorio ha comunque ritenuto di notificare l’adeguamento sottolineando che “la sospensione del procedimento non è prevista dalla normativa in materia e quindi non può essere accolta”.

°   °   °

Non c’è che dire, a Lecce, siamo tutti creduloni e culliamo i nostri sonni con le favolette.

Anzi, francamente e sinceramente, caro assessore, ci sentiamo costernati per il suo rammarico dinanzi al paletto negativo posto dall’Agenzia del Territorio.

Contemporaneamente, però, sarebbe il caso che Lei cambiasse il cognome da Monosi in Lucignolo.

Fuori dai convenevoli, assessore, giacché la scadenza del prossimo pagamento Imu non è lontana, si affretti a varare un provvedimento in base al quale, ciascun interessato, in sede di calcolo dell’imposta, prima di effettuare la catastrofica rivalutazione del 60%, riduca la rendita, ora risultante al catasto, giustappunto del 40% o del 20% a seconda dell’improvvida lievitazione fatta imprimere dall’Agenzia del Territorio.

Insomma, bastando e avanzando gli effetti della crisi corrente, niente ulteriori danni a carico dei contribuenti.

 

Il moretum, salsa per tartine di duemila anni fa, antenato del pesto genovese?

di Armando Polito

Nella ricostruzione fotografica gli ingredienti e gli attrezzi per la preparazione del moretum come descritto nell’omonimo poemetto: formaggio, aneto, coriandolo, ruta, sedano, aglio, mortaio con pestello e oliera. Sulla parete il graffito (di mia invenzione …) POTENTES PEREANT. Simulus (Morte ai potenti! Simulo).
Nella ricostruzione fotografica gli ingredienti e gli attrezzi per la preparazione del moretum come descritto nell’omonimo poemetto: formaggio, aneto, coriandolo, ruta, sedano, aglio, mortaio con pestello e oliera. Sulla parete il graffito (di mia invenzione …) POTENTES PEREANT. Simulus (Morte ai potenti! Simulo).

 

E che ci azzecca il pesto genovese, direbbe qualcuno di comune conoscenza, con la cultura salentina? È vero, ma oggi sono costretto a fare riferimento a questa  salsa tipica a base di olio, basilico, aglio pinoli e pecorino o parmigiano per trattare del moretum. E che ci azzecca il moretum, direbbe lo stesso di prima, con la cultura salentina? Se è vero come è vero che ha ragione, questa volta, però, ce l’ha solo parzialmente perché il discorso sul moretum mi serve come preparazione ad un altro post (che tornerà a coinvolgere direttamente la cultura salentina) sul mandorlo e sul suo frutto. Lì a suo tempo (e sperando nella benevolenza della redazione …) il lettore troverà il riferimento al lavoro di oggi e capirà che non potevo includerlo, sia pure in nota, in quello che verrà senza renderlo eccessivamente lungo, nonostante abbia programmato la sua suddivisione in tre puntate (si salvi chi può …).

Per non far perdere ulteriore tempo lascio la parola direttamente agli autori antichi. A Virgilio (I secolo a. C.) fin dall’antichità fu dubitativamente attribuito un poemetto che reca, appunto, il titolo di Moretum. Lo riporterò integralmente perché è relativamente breve (122 esametri) e quasi interamente dedicato alla preparazione di questo piatto, ma soprattutto perché costituisce un quadretto di vita contadina non angustiata da spread, cassa integrazione, inquinamento, disonestà e corruzione dilaganti & C.: “Già la notte era durata dieci ore1 e l’alata sentinella2 col canto aveva annunziato il giorno, quando il contadino Simulo coltivatore di un piccolo campo, temendo il triste digiuno del giorno che viene, solleva a poco a poco le membra posate sul misero giaciglio e muovendo la mano tasta le inerti tenebre e cerca il fuoco che infine sente dopo che ne ha avvertito quasi scottandosi l’intenso calore. Del tronco bruciato restava un piccolo tizzone e la cenere nascondeva la luce alla brace coperta. Vi accosta, con la fronte china, la lucerna abbassata e spinge innanzi con un ago lo stoppino ormai arido e soffiando ripetutamente risveglia il fuoco languente. Finalmente riacceso, ma a stento, il fuoco, arretra, riparandolo dall’aria con la mano tesa di fronte e, vedendo a stento, apre con la chiave la porta. Vi era sparso in terra un piccolo mucchio di grano; da qui ne prende una quantità pari a sedici libbre. Si allontana da lì e si accosta alla macina e poggia la fida lucerna su una tavoletta che teneva fissa alla parete per quell’uso; a questo punto libera della veste ambe le braccia3 e cinto della pelle di villosa capra con la coda scopa le pietre e il fondo della macina. Chiama quindi le mani all’opera; la sinistra è intenta all’assistenza, la destra al lavoro. Questa si muove circolarmente spingendo in modo continuo (il grano scorre pestato dal rapido colpo delle pietre), frattanto la sinistra subentra alla stanca sorella e alterna i turni. Ora canta canzoni campagnole e con la rozza voce allevia la sua fatica; intanto chiama Scibale: era l’unica serva4, di razza africana, la cui figura tutta attestava il luogo d’origine, ricci i capelli, le labbra gonfie, la pelle nera, il petto abbondante e pendulo, il ventre stretto, le gambe esili, spaziose le abbondanti piante dei piedi. La chiama e le ordina di mettere legna da ardere sul fuoco e di far bollire con la fiamma l’acqua fredda. Dopo aver completato la molitura da lì con le mani sposta la farina sparsa nel setaccio e agita; restano sopra le impurità e scende pura e scorre attraverso i buchi la farina setacciata. Allora prontamente la raccoglie sulla liscia tavola, vi versa sopra l’acqua tiepida, ora preme mescolandole l’acqua e la farina, impasta con un movimento trasversale le parti dure e amalgamate con l’acqua, di tanto in tanto cosparge di sale la massa. E già solleva la pasta lavorata e con le palme la dilata in cerchio e la segna in quadri di eguale distanza. Poi la porta al fuoco (Scibale aveva prima pulito il posto adatto), la copre con tegole e sopra vi accumula la brace. Mentre Vulcano e Vesta recitano le loro parti Simulo nel frattempo non perde un attimo e cerca per sé qualcosa d’altro; perché la pasta da sola non sia sgradita al palato prepara cibi da aggiungere. Non aveva sospesi vicino al fuoco uncini per appendere carni, mancavano spalle o altri pezzi di maiale induriti dal sale, ma pendevano una forma di formaggio trafitta al centro dallo sparto5 e un vecchio mazzetto legato di aneto: dunque il nostro provvido eroe si procura un altro ingrediente. C’era congiunto alla casupola un orto che pochi rami e una canna usata dal leggero stelo difendevano, esiguo per spazio ma fertile di varie erbe. Né a lui mancava quel che esige l’abitudine del povero; talvolta erano i ricchi a chiedere parecchie cose al povero. La coltivazione non gli costava nulla ma era regola d’amore: se qualche volta lo costringevano libero da impegni in casa le piogge o un giorno di festa, se per caso subiva un’interruzione il lavoro dell’aratro, quello era il momento di dedicarsi all’orto. Sapeva disporre le varie piante e affidare i semi alla nascosta terra6 e imbrigliare opportunamente le acque dei vicini ruscelli. Qui c’era il cavolo, lì verdeggiavano le bietole che stendevano per largo tratto le loro braccia, e il rigoglioso romice e le malve e le enule, lì il raperonzolo e i porri che devono al capo il nome [qui anche l’agghiacciante papavero che nuoce alla testa,] e la lattuga gradito riposo dei pregiati cibi … e cresce il ravanello allungando la punta e la pesante zucca abbandonata sull’ampio ventre. A dire il vero il prodotto non era del padrone (chi, infatti, era più sobrio di lui?) ma dei clienti e ogni nove giorni portava sulle spalle in città i mazzetti da vendere, poi tornava a casa leggero nelle spalle ma pesante di moneta, a stento talora accompagnato dalla merce del macello cittadino. Una rosseggiante cipolla e qualche fetta di porro domano la fame, e i nasturzi che con l’acre sapore fanno storcere il volto e le cicorie selvatiche e la ruchetta che risveglia Venere assopita7. Allora pensando pure a questo8 era entrato nell’orto; e dapprima, rimossa delicatamente la terra con le dita, tira fuori quattro agli con le spesse fibre, poi strappa  le tenere chiome del sedano e la rigida ruta e il coriandro tremante9 nell’esile aspetto. Dopo aver raccolto queste erbe si mette a sedere presso l’allegro fuoco10 e ad alta voce dice alla serva di portargli il mortaio. Allora mette a nudo le ciascuna delle teste (dell’aglio) dal corpo nodoso e le spoglia delle membrane esterne e gettandole  sparge qua e là per terra queste parti inutilizzabili; bagna con acqua il bulbo integro nella parte verde e lo pone nel cavo cerchio della pietra. Vi sparge grani di sale, viene aggiunto formaggio indurito dal sale, vi pone le erbe prima nominate, rincalza11 la veste leggera sotto l’inguine peloso, dapprima con la destra frantuma col pestello gli agli profumati e a quel punto pesta gli altri ingredienti mescolando il tutto. Va la mano in cerchio, a poco a poco i singoli ingredienti perdono le loro forze, il colore da vario diventa unico, non completamente verde poiché le sostanze del latte inutilmente si oppongono e neppure bianco per il latte, perchè esso viene cambiato da tante erbe. Spesso l’acre profumo colpisce le narici aperte dell’uomo e col volto rincagnato biasima il suo pranzo, spesso col dorso della mano deterge gli occhi lacrimanti e furibondo lancia rimproveri all’incolpevole fumo. La preparazione procedeva e il pestello non si muoveva più, come prima, saltellando ma più pesante in lenti cerchi. Dunque fa cadere gocce dell’oliva di Pallade, sopra versa gocce di poco aceto, di nuovo mescola la massa e la rivolge. Allora finalmente con due dita passa in giro l’intero mortaio e raccoglie tutta la massa prima sparsa perché sia chiaro l’aspetto del prodotto finito e il nome di moreto12. Frattanto pure Scibale premurosa tira fuori il pane che egli lieto prende con la mano e, fugata la paura della fame e sicuro per quel giorno Simulo indossa i gambali e col capo coperto da un berretto pone i giovenchi sotto il gioco di suo padre legato con una correggia e li conduce nei campi e affonda l’aratro per la terra1314.

Il moretum, dunque, è una specie di salsa dal gusto abbastanza forte, da consumarsi con una fetta di pane a mo’ di tartina (quello che durante la preparazione del pesto era rimasto a cuocere sotto le tegole). La ricetta così dettagliatamente descritta nel poemetto che abbiamo appena finito di leggere ricompare con poche varianti in altri autori. Gli ingredienti di base sono sempre gli stessi, in più ce ne sono, come vedremo, altri (d’importazione: per esempio, il formaggio della Gallia o il lasere di Siria) che certamente l’umile Simulo non si sarebbe potuto permettere, nemmeno nella finzione poetica.

Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Fasti, XII, 367-372: -Non ci vergogniamo- dissi –di aver posto un pesto di erbe sull’altare della dea? O c’è un motivo?-. Rispose: -Si ricorda che gli antichi erano soliti usare latte puro ed erbe, se qualcuna spontaneamente la terra ne produceva. Si mescola candido formaggio all’erba pestata affinchè l’antica dea riconosca gli antichi cibi …”.15

Columella (I secolo d. C.), De re rustica, XII, 59: “Come preparare il moreto piccante o (come dicono altri) garum piccante16.

Metti in un mortaio satureia, menta, ruta, coriandro, sedano, porro che si può facilmente tagliare o, se non ce n’è, cipolla verde, foglie di lattuga, foglie di ruchetta, timo verde o nepitella, poi anche puleggio verde e formaggio fresco e salato. Pesta tutto insieme e versaci un po’ di aceto pepato. Dopo aver messo questa mistura in un piattino versavi sopra dell’olio.

Altrimenti: dopo aver pestato le erbe prima citate, pesta noci sgusciate per quanto ti parrà che bastino, mescolavi un po’ di aceto pepato, poi versa sopra olio.

Altrimenti: insieme con le erbe prima citate pesta sesamo leggermente tostato. Allo stesso modo mescola un po’ d’aceto pepato  e poi versaci sopra olio.

Altrimenti: tagliuzza minutamente e pesta formaggio della Gallia o di qualsiasi tipo vorrai, pinoli se ne avrai a sufficienza o, in caso contrario, nocciole tostate dopo aver tolto la pelle o mandorle, allo stesso modo nella misura giusta versaci olio e aggiungi un po’ di aceto pepato, mescola bene e versa dell’olio sul composto. Se non ci saranno erbe verdi pesta, insieme col formaggio, puleggio secco o timo o origano o satureia, aggiungi aceto pepato e olio. Tuttavia queste erbe secche, in assenza delle altre, possono essere mescolate singolarmente col formaggio.

Composizione di salsa piccante. Tre once di pepe bianco, se l’hai, altrimenti di nero, due once di seme di sedano, un’oncia e mezzo di radice di lasere che i Greci chiamano silfio, un sestante di formaggio; dopo aver pestato e setacciato il tutto, mescolalo col miele e conservalo in una pentola nuova; poi quando ce ne sarà bisogno allunga con aceto e con salsa di pesce quanto ti parrà di consumarne.

Altrimenti: Un’oncia di levistico, un sestante di uva passita tolti i semi, un sestante di menta secca, un quadrante di pepe bianco o nero. Questi ingredienti, se vuoi evitare maggior fatica, possono essere mescolati col miele e così conservati. Ma se vuoi fare un intingolo più sofisticato mescola questi stessi ingredienti con il precedente preparato e conservalo. Se anche invece di silfio avrai lasere di Siria meglio farai ad aggiungerne mezza oncia”17.

Il moretum oxyporum o oxygarum di Columella assume un nome leggermente diverso (oxygarum digestibile=garum piccante digestivo) in Apicio (I secolo d. C.), De re coquinaria, I, 34-35: “Garum piccante digestivo: Mezza oncia di pepe. Tre scrupoli18 di seselio gallico. Sei scrupoli di cumino. Uno scrupolo di cinnamomo. Sei scrupoli di menta secca. Pesta il tutto, passalo al setaccio e impastalo col miele. Quando sarà necessario aggiungi il liquido ricavato dalla preparazione del garum e aceto.

Altrimenti: un’oncia di pepe, un’oncia di prezzemolo, un’oncia di nocciole, un’oncia di levistico. Impasta col miele e quando sarà necessario aggiungi il liquido ricavato dalla lavorazione del garum e aceto”19.

Se il moretum rappresenti veramente l’antenato del pesto genovese resta dubbio; ciò che è certo è che tra gli ingredienti compaiono le noci (nuces iuglandes), le mandorle (amygdalae), i pinoli (nuclei pinei), le nocciole (nuces avellanae), non certo le pesche (nuces persicae), che, oltretutto, miele escluso (ma pure questo ha la prevalente funzione di addensante), sarebbero state come un pesce fuor d’acqua rispetto agli altri ingredienti costituiti, erbe a parte, da frutti che hanno la caratteristica comune di essere utilizzati sia verdi che secchi (ma la presenza delle nocciole solo tostate fa pensare che gli altri fossero utilizzati secchi). Era questo un dettaglio che mi interessava mettere in rilievo in rapporto al prossimo post di cui parlavo all’inizio.

___________

1 I Romani dividevano il giorno in due parti: le ore diurne andavano dall’ora prima (le 6) all’ora dodicesima (le 18) e così per quelle notturne. Qui, perciò, sono le quattro.

2 Il gallo.

3 In dialetto neretino: “si ‘nfòrdica li màniche”. Per l’etimologia di ‘nfurdicàre vedi la nota 11.

4 Può sembrare strano che quest’umile contadino possa avere a sua disposizione una serva, ma bisogna tener conto che si tratta di una schiava e il prezzo medio degli schiavi, essendocene molti sul mercato (altro vantaggio dell’imperialismo …), era decisamente basso. E poi, come si vedrà, più che un bracciante, Simulo sembra essere un piccolo imprenditore.

5 Specie di giunco. Interessante qui la descrizione della sua modalità di utilizzo per la stagionatura del formaggio, la cui prima fase, però, doveva essere già avvenuta nel fìsculus (o fiscèlla).

6 In realtà è il seme che risulta nascosto dalla terra; ma nella traduzione ho volute conservare l’ipallage originale.

7 La ruchetta è solo una delle innumerevoli erbe cui, a torto o a ragione, gli antichi attribuivano proprietà afrodisiache.

8 Fa tenerezza (in più di un politico, e non solo, solo sprezzante commiserazione …) lo scrupolo di chi sta destinando, per giunta in via eccezionale,  a se stesso il frutto del proprio, sottolineo proprio,  lavoro, sottolineo lavoro.

9 Qui l’autore (cosa di cui solo i poeti sono capaci …) attribuisce alla pianta il sentimento animale (dicono …) della paura; dirò di più: attribuisce alla sensibilità del contadino la possibilità di cogliere quel sentimento.

10 Qui l’ipallage è ancora più potente di quella evidenziata nella nota 6: il fuoco ispira allegria perché è esso stesso allegro (quanto rispetto per la natura!).

11 In dialetto neretino: ‘nfordica. ‘Nfurdicare è da un latino *infulticàre, formato da in+*fulticàre, forma intensiva derivata da fultum, supino del classico fulcìre=puntellare, sorreggere.

12 Si tratta, in pratica, di un’etimologia. Se essa è corretta morètum dovrebbe essere trascrizione del greco μορητόν=fatto a pezzi, aggettivo verbale di μορέω=essere tormentato, a sua volta da μόρος=destino, morte, cadavere; e qui cominciano a balenare prospettive a dir poco inquietanti. Infatti fratello di μόρος è μέρος=parte, dal quale derivano μείρομαι=ottenere la propria parte, avere in sorte e μοῖρα (nome comune)=porzione,  e Μοῖρα (nome proprio)=Destino. Dal concetto iniziale di essere tormentato si è passati a quello di spezzettare, dividere, assegnare la parte, morire. Dunque anche i latini mors e mori, da cui rispettivamente i nostri morte e morire, avrebbero la stessa radice. Non è finita: lasciando da parte l’opinione di alcuni autori che, mettendo in campo un moretàrium di molto dubbia attestazione e fatto derivare da morètum, gli attribuiscono la generazione per sincope di mortàrium=mortaio, come si fa a non pensare che il mortaio, in fondo, è una sorta di sepoltura in miniatura, pur essendo il suo uso legato all’idea iniziale del tormentare, frantumare, dividere, non a quella finale e definitiva di morte?

13 Ho tradotto letteralmente terrae, dativo di vantaggio; infatti la traduzione libera più scontata (nella terra) avrebbe distrutto il rapporto d’amore che la lega al contadino e ridotto l’aratura ad un mero atto di violenza.

14 Iam nox hibernas bis quinque peregerat horas/ excubitorque diem cantu praedixerat ales,/Simulus exigui cultor cum rusticus agri,/tristia venturae metuens ieiunia lucis,/membra levat vili sensim demissa grabato/sollicitaque manu tenebras explorat inertes/ vestigatque focum, laesus quem denique sensit. Parvulus exusto remanebat stipite fomes/et cinis obductae celabat lumina prunae./Admovet his pronam summissa fronte lucernam/et producit acu stuppas umore carentis,/excitat et crebris languentem flatibus ignem./Tandem concepto, sed vix, fulgore recedit/oppositaque manu lumen defendit ab aura/et reserat clausae qua pervidet ostia clavis./Fusus erat terra frumenti pauper acervus:/hinc sibi depromit quantum mensura patebat,/quae bis in octonas excurrit pondere libras./Inde abit adsistitque molae parvaque tabella,/quam fixam paries illos servabat in usus,/lumina fida locat; geminos tunc veste lacertos/liberat et cinctus villosae tergore caprae/perverrit cauda silices gremiumque molarum./Advocat inde manus operi, partitus utroque:/laeva ministerio, dextra est intenta labori./ Haec rotat adsiduum gyris et concitat orbem/(tunsa Ceres silicum rapido decurrit ab ictu),/interdum fessae succedit laeva sorori/alternatque vices. Modo rustica carmina cantat/agrestique suum solatur voce laborem,/interdum clamat Scybalen (erat unica custos,/Afra genus, tota patriam testante figura,/torta comam labroque tumens et fusca colore,/pectore lata, iacens mammis, compressior alvo,/cruribus exilis, spatiosa prodiga planta):/hanc vocat atque arsura focis imponere ligna/imperat et flamma gelidos adolere liquores. /Postquam implevit opus iustum versatile finem,/transfert inde manu fusas in cribra farinas/et quatit; ac remanent summo purgamina dorso;/subsidit sincera foraminibusque liquatur/emundata Ceres. Levi tum protinus illam/componit tabula, tepidas super ingerit undas,/contrahit admixtos nunc fontes atque farinas,/transversat durata manu liquidoque coacta,/ interdum grumos spargit sale. Iamque subactum/levat opus palmisque suum dilatat in orbem/et notat impressis aequo discrimine quadris./Infert inde foco (Scybale mundaverat aptum/ante locum) testisque tegit, super aggerat ignis./Dumque suas peragit Vulcanus Vestaque partes,/Simulus interea vacua non cessat in hora,/verum aliam sibi quaerit opem, neu sola palato/sit non grata Ceres, quas iungat comparat escas./Non illi suspensa focum carnaria iuxta,/durati sale terga suis truncique vacabant,/traiectus medium sparto sed caseus orbem/et vetus adstricti fascis pendebat anethi:/ergo aliam molitur opem sibi providus heros./Hortus erat iunctus casulae, quem vimina pauca/et calamo rediviva levi munibat harundo,/exiguus spatio, variis sed fertilis herbis./Nil illi deerat quod pauperis exigit usus;/interdum locuples a paupere plura petebat./Nec sumptus erat ullius [opus], sed regula curae:/si quando vacuum casula pluviaeve tenebant/festave lux, si forte labor cessabat aratri,/horti opus illud erat. Varias disponere plantas/norat et occultae committere semina terrae/vicinosque apte cura summittere rivos./Hic holus, hic late fundentes bracchia betae/fecundusque rumex malvaeque inulaeque virebant,/hic siser et nomen capiti debentia porra/[hic etiam nocuum capiti gelidum papaver,]/grataque nobilium requies lactuca ciborum,/. . . . . . . crescitque in acumina radix/et gravis in latum dimissa cucurbita ventrem./Verum hic non domini (quis enim contractior illo?)/sed populi proventus erat, nonisque diebus/venalis umero fasces portabat in urbem,/inde domum cervice levis, gravis aere redibat/vix umquam urbani comitatus merce macelli:/cepa rubens sectique famem domat area porri/quaeque trahunt acri vultus nasturtia morsu/intibaque et Venerem revocans eruca morantem. /Tum quoque tale aliquid meditans intraverat hortum;/ac primum leviter digitis tellure refossa/quattuor educit cum spissis alia fibris,/inde comas apii graciles rutamque rigentem/vellit et exiguo coriandra trementia filo./Haec ubi collegit, laetum consedit ad ignem/et clara famulam poscit mortaria voce./Singula tum capitum nodoso corpore nudat/et summis spoliat coriis contemptaque passim/spargit humi atque abicit; servatum gramine bulbum/tinguit aqua lapidisque cavum demittit in orbem./His salis inspargit micas, sale durus adeso/caseus adicitur, dictas super ingerit herbas,/et laevam vestem saetosa sub inguina fulcit,/dextera pistillo primum fragrantia mollit/alia, tum pariter mixto terit omnia suco./ It manus in gyrum: paulatim singula vires/deperdunt proprias, color est e pluribus unus,/nec totus viridis, quia lactea frusta repugnant,/nec de lacte nitens, quia tot variatur ab herbis./Saepe viri nares acer iaculatur apertas/spiritus et simo damnat sua prandia vultu,/saepe manu summa lacrimantia lumina terget/immeritoque furens dicit convicia fumo./Procedebat opus; nec iam salebrosus, ut ante,/sed gravior lentos ibat pistillus in orbis./Ergo Palladii guttas instillat olivi/exiguique super vires infundit aceti/atque iterum commiscet opus mixtumque retractat./Tum demum digitis mortaria tota duobus/circuit inque globum distantia contrahit unum,/constet ut effecti species nomenque moreti./Eruit interea Scybale quoque sedula panem,/quem laetus recipit manibus, pulsoque timore/iam famis inque diem securus Simulus illam/ambit crura ocreis paribus tectusque galero/sub iuga parentis cogit lorata iuvencos/atque agit in segetes et terrae condit aratrum.

15 “Nos pudet herbosum, dixi, posuisse moretum/in dominae mensis? An sua causa subest?/Laete mero veteres usi memorantur et herbis,/sponte sua si quas terra ferebat, ait./Candidus elise miscetur caseus herbae,/cognoscat priscos ut dea prisca cibos …”.

16 Traduco alla lettera questa parola composta dal greco ὀξύς=acuto, pungente+garum =salsa di interiora di pesci (anche se essa compare come ingrediente solo in una variante della serie di ricette che Columella ci propone nel brano).

17 Moretum oxyporum vel (ut alii) oxygarum quemadmodum componas. Addito in mortarium satureiam, mentam, rutam, coriandrum, apium, porrum sectivum, aut, si non erit, viridem cepam, folia lactucae. thymum viride vel nepetam, tum etiam viride puleium et Caseum recentem, et salsum; ea omnia pariter conterito, acetique piperati exiguum permisceto. Hanc misturam quum in catillo composueris, oleum superfundito.

Aliter. Qumm viridia, quae supra dicta sunt, contriveris, nuces iuglandes purgatas, quantum satis videbitur, interito, acetique piperati exiguum permisceto ert oleum infundito.

Aliter. Sesamum leviter torrefactum cum iis viridibus, quae supra dicta sunt, conrerito. Item aceti piperati exiguum permisceto, tum supra oleum superfundito.

Aliter. Caseum gallicum vel cuiuscumque notae volueris minutatim concidito et conterito, nucleosque pineos, si eorum copia fuerit; si minus, nuces avellanas torrefactas ademopta cute, vel amygdalas, aeque supra condimenta pariter misceto acetique piperati exiguum adiicito et permisceto compositumque oleo superfundito. Si condimenta viridia non erunt, puleium aridum vel thymum vel origanum aut aridam satureiam cum caseo conterito acetumque piperatum et oleum adiicito. Possunt tamen haec arida, si reliquorum non sit potestas, etiam singula caseo misceri.

Oxypori compositio. Piperis albi, si sit; si minus, nigri unciae tres, apii seminis unciae duae, laseris radicis, quod σίλφιον Graeci vocant, sescunciam, casei sextantem: haec contusa et cribrata melli permisceto, et in olla nova servato; deinde quum egerit usus, quantulumcumque ex eo videbitur, aceto et garo diluito.

Aliter. Ligustici unciam, passae uvae detractis vinaceis sextantem, mentae aridae sextantem, piperis albi vel nigri quadrantem: haec, si maiorem impensam vitabis, possunt melli admisceri et ita servari. At si pretiosius oxyporum facere voles, haec eadem cum superiore compositione miscebis et ita in usum repones; quod si etiam Syriacum laser habueris pro silphio, melius adicies pondo semunciam”.

18  Scrùpulum (o scrìpulum o scrìptulum o scriptulus) era un’unita di misura corrispondente ad 1/24 di oncia, vale a dire poco più di un grammo; per traslato significava anche piccola quantità. Il maschile scrùpulus (o scrìpulus), come il precedente diminutivo di scrupus=sasso aguzzo, inquietudine, oltre al significato di piccolo sasso aguzzo per traslato aveva anche quello di inquietudine, scrupolo, ricerca minuziosa. Nella voce italiana è rimasto solo il formale significato morale (che già in latino fondeva il tormento del sasso aguzzo con il rigore della precisione necessaria per valutare una piccola quantità) che, purtroppo, è vuoto quando quella virtù particolare non viene praticata in concreto.

19 “Oxygarum digestibile. Piperis semunciam. Silis gallici scrupulos tres. Cardamomi scrupulos sex. Cumini scrupulos sex. Folii scrupulum unum. Menthae siccae scrupulos sex. Tunsa cribrataque melle colligis. Cum opus fuerit, liquamen et acetum addis.

Aliter. Piperis unciam unam. Petroselini, carei, ligustici uncias singulas. Melle colligis et cum opus fuerit liquamen et acetum addis”.

La dimensione metafisica nella pittura di Nicola Cesari

di Giuseppe Magnolo

Nicola Cesari è venuto a mancare in modo improvviso nel luglio 2010. La scomparsa di persone che contano nella sfera del nostro vissuto lascia sempre un senso di vuoto, ma al tempo stesso esalta nel ricordo le varie impressioni e sollecitazioni che hanno costellato i momenti di contatto. Nasce anche il bisogno di ripensare giudizi e valutazioni già espressi (vedi il saggio apparso ne Il Filo di Aracne di febbraio 2010 con il titolo “Memini ergo sum: Percorsi della memoria nella pittura di Nicola Cesari”), al fine di individuare aspetti rilevanti che siano sfuggiti per le diverse circostanze di stesura e di pubblicazione.

Abbiamo già evidenziato come l’espressione artistica di Cesari sia sempre da considerare come un tentativo di astrazione dal vissuto mediante una sintesi estrema generata da uno stato concettuale o emotivo innestato sull’esperienza propria ed altrui, filtrato dalla memoria, e riattivato per associazione mentale con i contenuti rappresentati. Tratti peculiari collaterali sono stati individuati nella cura e l’eleganza formale espresse con esattezza geometrica allusivamente simbolica, nella tesorizzazione del mito dell’infanzia che consente di raggiungere uno stato di grazia visionaria, ed infine il tentativo di ricondurre uno stato emozionale a puro effetto cromatico mediante l’uso sapiente del colore.

Dagli elementi definitori suddetti esula tuttavia un requisito importante al fine di pervenire ad una più comprensiva valutazione del modo in cui Cesari concepiva le diverse fasi della realizzazione artistica e le correlazioni tematiche che egli elaborava ed esprimeva sul piano figurativo. Tale aspetto attiene ad una componente di natura metafisica sicuramente presente in alcune opere (anche se in maniera non sempre palese e agevolmente decifrabile), su cui riteniamo utile svolgere alcune riflessioni.

Riguardo al problema religioso Cesari non gradiva in genere dimostrarsi particolarmente coinvolto, preferendo invece ritenersi uno spirito libero, curioso e tollerante verso comportamenti e principi etici anche diversi dai propri, poco propenso ad accettare i vincoli imposti dall’adesione ad una qualunque forma di ortodossia. Egli considerava una prospettiva di tipo laico più consona sia al suo stile di vita che ai suoi orizzonti culturali, ritenendo che potesselasciargli più ampi spazi di conoscenza, confronto e arricchimento.Inoltre il suo senso di ritrosia, proprio di chi conosce la complessità delle proprie pulsioni, lo induceva a non adagiare il suo bisogno di religiosità su una prospettiva acquiescente. E’ quindi naturale che la sua ricerca di spiritualità e trascendenza percorresse altri sentieri, quelli appunto attinenti all’ambito aristico-espressivo. Su questa linea di interpretazione possiamo meglio intendere alcuni elementi apparentemente marginali presenti in molte sue opere, ma certamente non irrilevanti o dovuti al caso.

Procedendo per categorie di riferimento, si possono rinvenire varie evidenze a sostegno della tesi proposta, traendo spunto da alcune opere che appartengono ad una fase relativamente recente della sua vastissima produzione.

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Figura 1

Possiamo innanzitutto individuare un richiamo simbolico di carattere architettonico nelle forme iconiche che spesso nei suoi dipinti racchiudono i soggetti rappresentati. Si tratta ad esempio di archi acuti che possono suggerire la sommità di una cupola (vedi figura 1), e quindi evocare la sacralità di un tempio, oppure forme ad ogiva (semplici, doppie, e anche triple) assimilabili al profilo di finestre presenti nelle cattedrali in stile gotico, attraverso cui possiamo cogliere la suggestione di accesso ad un luogo arcano o che rinvia ad una condizione interna di reclusione indotta dal trasporto mistico (vedi figura 2).

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Figura 2

In altre opere è possibile trovare diversi riferimenti di tipo architettonico, come ad esempio una sezione della volta di una cattedrale nella zona in cui il transetto interseca la navata centrale, oppure un “effetto campanile” generato dallo sciame luminescente prodotto dal riflesso lunare su una superficie riflettente, che poi si innalza nella volta celeste assottigliandosi quasi come la guglia svettante di una struttura architettonica esile e slanciata.

In una ipotesi interpretativa di tipo metafisico, è opportuno anche riconsiderare la funzione di alcune forme di carattere geometrico, in particolare la raffigurazione di una sfera, generalmente disposta in posizione piuttosto centralizzata rispetto all’articolazione complessiva della composizione. Di primo impulso questo elemento potrebbe ritenersi semplicemente riferibile alla visione orfico-pitagorica di figura geometrica che rappresenta la perfezione mediante l’isometria della distanza tra il centro e qualsiasi punto della circonferenza, mentre il movimento circolare lungo la stessa raffigura la visione deterministica dell’eterno ritorno, in cui ogni punto rappresenta contemporaneamente sia l’inizio che la fine. Ma Cesari non si ferma a questa concezione pagana o puramente laica, e crea ulteriori implicazioni. Come possiamo vedere nella figura 3, egli non solo replica su ciascun lato l’immagine della sfera (l’idea della Trinità Divina), ma sovrappone ad essa le bianche ali di una colomba (simbolo dello Spirito Santo), caricando l’opera di valenza superiore connaturata al senso del divino.

 

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Figura 3

Vi è poi un elemento di ulteriore rinvio all’idea di sacralità inerente al modo di intendere la fruizione dell’opera d’arte. Si può infatti notare che alcuni particolari dipinti di Cesari sono realizzati su legno con una tecnica che richiama una pala d’altare, elemento già sufficiente ad evocare la prospettiva religiosa suindicata. Ma ancor di più questo aspetto viene accentuato dal gesto quasi rituale richiesto per poter osservare l’opera, quando questa arriva ad assumere la forma di un polittico, come appunto avviene nel dipinto considerato. Inizialmente questo non si presenta visibile, perché celato dalle tavole laterali incernierate e richiuse a mo’ di ante. Occorre quindi che l’artista stesso, o qualcuno al suo posto, compia il gesto arcano di aprire le imposte di questa finestra per svelare l’immagine che essa nasconde. Necessariamente tanto l’esibizione quanto l’osservazione del dipinto avverrà con la stessa rituale solennità con cui un ministro di culto apre il piccolo uscio di un tabernacolo per esibire il calice con la preziosa reliquia ivi contenuta. Risulta quindi chiaro che l’artista ha intenzionalmente cercato un effetto che attribuisce un significato esoterico non solo al proprio gesto che permette la realizzazione di una sorta di rituale di iniziazione o professione di fede, ma soprattutto a ciò che attraverso il dipinto si offre alla visione dell’osservatore.

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Figura 4

Per altro verso possiamo trarre indicazioni che rinviano al senso del divino mediante alcuni dipinti che raffigurano degli oggetti-simbolo. Una di tali immagini è riportata nella figura n. 4, che può apparire come una semplice litografia, ossia dei segni grafici prodotti su una lastra di pietra, ma potrebbe anche alludere alla sacralità di quanto è in essa riportato, alla stessa maniera in cui vanno considerate le “Tavole della Legge” incise col fuoco sulla pietra, che Mosè ricevette sul Monte Sinai come canone su cui si fonda il corretto agire umano.

Un’altra significativa immagine-documento si può osservare in una pitto-scultura (riportata in figura 5), che presenta longitudinalmente una traccia luminosa di un certo spessore contro uno sfondo scuro. L’ipotesi più immediata è che essa raffiguri un libro chiuso osservato dal lato opposto al dorso, che non reca titolo o autore, e che è pronto per essere sfogliato da chi intendesse consultarlo ed interpretarlo. Ma perché non pensare attraverso questa immagine al “libro dei libri”, il più arcano ed importante che sia mai stato scritto, quello ispirato direttamente da Dio, su cui si può leggere quel che è stato e quello che sarà, il destino di ogni uomo, dell’universo, di Cristo stesso?

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Figura 5

Passando invece a considerare la tecnica figurativa incentrata sul colore e gli effetti cromatici con esso ottenibili, possiamo trovare altri riferimenti di natura biblica, come nel dipinto della figura 6, in cui sembra che l’artista abbia voluto raffigurare l’alba della creazione (Genesi, 1:2), allorché la materia era ancora informe e la luce era indistinguibile dalle tenebre.

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Figura 6

Oppure per contrasto possiamo vedere in figura 7 una resa cromatica successiva all’atto della creazione, in cui la luce e tutti gli elementi naturali manifestano il conseguimento di una giusta collocazione in un ordine universale perfetto, l’espressione di una visione teleologica dell’autore, che produce un effetto di tripudio luminoso attraverso un fitto ammiccamento di colori, e rinvia ad una concezione panica della realtà, in cui un senso di divina armonia sembra penetrare ogni singolo filo d’erba con effetti cromatici insieme esplosivi e rasserenanti.

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Figura 7

L’ipotesi interpretativa che abbiamo illustrato intende affiancarsi ad altri criteri di lettura senza pretendere di superarli o ridimensionarli, cercando di accrescere l’ampiezza e profondità di percezione e comprensione dell’opera d’arte. Lo scopo precipuo di qualunque studioso che analizza l’espressione artistica di un autore non può che consistere nel tentativo di contribuire ad agevolarne la comprensione, suggerendo con chiarezza i diversi livelli di interpretazione che ritiene possibili, e considerandoli come fondamento per ulteriori sviluppi. Questo si rende tanto più necessario con riferimento alla vasta produzione artistica di Cesari, spesso contraddistinta da elementi innovativi sia sul piano tematico che nella tecnica esecutiva.

Riteniamo comunque che si possa convenire sulla validità assoluta del “principio di inclusività”, nel senso di non escludere a priori un qualsiasi criterio interpretativo unicamente per ragioni di tipo preferenziale o meramente soggettivo. La plausibilità di una linea di interpretazione anche in chiave metafisica ci viene offerta dallo stesso autore, che nell’esporre i canoni fondamentali del suo modo di intendere l’espressione artistica ha più volte evidenziato la convinzione che non possono esistere percezioni ed interpretazioni univoche di un’opera d’arte, in quanto qualunque osservatore recepisce il prodotto artistico vedendolo con occhi diversi a seconda degli elementi che egli riesce ad attivare nell’atto di percezione. Tale diversità di requisiti è riferita non solo a quelli senso-percettivi, ma anche e soprattutto a quelli di ordine concettuale, legati al grado individuale di conoscenza, informazione, capacità di associazione attraverso la memoria, e via dicendo. Cesari affermava infatti:”Ciascun individuo vede lo stesso soggetto in modo diverso, e la sua capacità di percezione ed interpretazione è basata prevalentemente su quello che ricorda”.Nel sottolineare ancora una volta la funzione essenziale della memoria nella comprensione dell’opera d’arte, egli postulava anche una conseguente differenziazione circa i significati molteplici che essa può contenere e trasmettere.

Vi è infine una ulteriore riflessione che nella fattispecie ci sembra possa concedere spazio all’attribuzione di una capacità di visione mistico-religiosa in un’ottica individuale ma con effetti a volte diffusivi e condivisibili. Al fine di sostanziare tale convinzione trarremo spunto dalla massima di Terenzio “homo sum: nihil humani a me alienum puto”: sono un uomo, quindi tutto ciò che è umano mi appartiene. E’ ovvio che ciascun individuo impersona una concezione di humanitas con modalità diverse, e quella di Cesari rivelava insieme grande desiderio di conoscenza e afflato partecipativo, poi ricomposti in esiti di lucida sintesi in cui è sicuramente possibile cogliere un anelito di spiritualità, espresso oppure sottinteso. E dunque non avrebbe davvero senso limitare la ricchezza di suggestioni, idee ed emozioni, che con tanta dedizione la sua ricerca artistica ha saputo offrirci. Le sue opere ci consegnano un’eredità preziosa che possiamo riscoprire, a condizione di considerarle non nell’ottica fugace della contingenza, ma in quella più pacata e ponderata del tempo assoluto.

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

 

Gli Spinola a Galatina

galatina-civico 3 

di Giancarlo Vallone

È indubbiamente paradossale, e per più ragioni, che la stagione feudale degli Spinola a Galatina abbia lasciato così scarne tracce di sé; eppure le possibilità di conoscenza erano e restano molte: un dominio di lungo periodo, dal 1616 al 1801, e per un’epoca, poi, nella quale la documentazione non difetta; una famiglia magnatizia sull’intero scacchiere dei possedimenti spagnoli d’ Europa, e ‘Grande di Spagna’, indubbiamente assai ricca ed influente, anche se, per quanto ho potuto apprendere, i loro archivi e le loro ricche collezioni, anche di quadri (inclusi i loro ritratti) sono oggi dispersi. Quel che sappiamo noi, comunque, è quasi nulla e legato a pochi altri scritti, come un mio lavoro dell’antico 1984 che, in qualche modo cercano di sanare i silenzi presenti nelle pagine settecentesche del nostro Baldassar Papadia, che pure si proponeva di narrare le ‘memorie storiche’ di Galatina.

Il testo del Papadia, per altro, è animato da quell’irsuto spirito antifeudale così diffuso nella erudizione locale e nella storiografia municipale del Mezzogiorno d’antico regime ed ha modo di diffondersi largamente in questi sentimenti anzitutto contro i Castriota Scanderbeg, che dalla fine del Quattrocento fino a buona parte del Cinquecento erano stati duchi del paese. Quel che Papadia poteva pensare degli Spinola era stato certamente detto a sufficienza parlando dei Castriota; e proprio alla fine dell’opera il giurista galatinese afferma che non è suo “istituto di parlar di cause nelle presenti memorie”; in altri termini il silenzio sulla famiglia genovese è motivato dal complicatissimo e secolare contenzioso che opponeva l’amministrazione cittadina (universitas) ai suoi feudatari; in un punto, poi, Papadia ricorda anche un’allegazione sulla ‘mastrodattia’ (il diritto di eleggere in genere un concittadino come mastro d’atti, o redattore in scritto degli atti, nel tribunale baronale) che certo apparteneva a quel contenzioso. In altri termini la storia delle cause e del contenzioso, non sarebbe per Papadia, una parte della storia ‘vera’ del paese; ma la sua distinzione è capziosa, e certo nasce dalla esigenza di non schierarsi apertamente contro il fronte ducale, che indubbiamente contava degli ‘zelanti’ fautori in Galatina stessa.

Però il buon Papadia mente, perché sa bene che la storia delle liti è la linfa dello spirito civico, e della sua stessa sopravvivenza, e dunque della sua storia, e poi egli, senza dirlo, usa queste liti, e il loro contenuto ‘storico’ (lo possiamo finalmente riscontrare da una serie di allegazioni settecentesche fino ad ora sconosciute) proprio come materiali informativi ed eruditi già per l’età dei Castriota, e grazie ai quali egli ad esempio descrive, da un anziano testimone di veduta che era intervenuto in un processo del primo Seicento (richiamato poi in un’allegazione successiva), proprio il duca Ferrante, negli umori e nell’aspetto, perché “teneva in Castello una fossa, ove faceva ponere i carcerati, e… era homo alto come un gigante”, che sono, quasi alla lettera, le parole vergate poi dallo storico galatinese. Tuttavia anche il Papadia omette un particolare di fondamentale importanza che noi invece apprendiamo ora, e che consente di valutare in tutta la sua complessità la stagione galatinese degli Spinola, e la posizione, di fronte ad essi, dell’amministrazione universale.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Alla estinzione del dominio dei Sanseverino, successori dei Castriota, il distretto feudale galatinese è acquistato, nel 1608, da un personaggio che ha lasciato in Galatina, e nella memoria locale, pochissime tracce: Antonio Carafa, marchese di Corato; ma l’acquisto del Carafa, a caro prezzo, include un potere giurisdizionale illimitato, “la giurisdizione civile criminale e mista in prima seconda e terza istanza”. Insomma ogni contenzioso civile o penale, esaurisce il suo corso, ch’è previsto, su base del diritto romano, nei tre gradi di giurisdizione, nella mano feudale, anche se poi, per prassi, era possibile addirittura una prosecuzione della causa nelle corti regie con ulteriore esborso di denari per i malcapitati o avventurosi litiganti. Non sono pochissime, ma neanche molte le città ed i distretti feudali sottoposti ad un simile gravame ed all’urto d’un simile potere, che, a ben riflettere, rende costosissimo ogni processo, ed estremamente pericoloso, ed impari poi, un eventuale conflitto con il feudatario, che lo può far definire per ben tre gradi dalle sue magistrature.

Il Carafa ha Galatina solo per cinque anni, ma ben presto, dopo alcuni passaggi di mano, il distretto feudale, con inclusa una simile forza giurisdizionale, nel 1616 giunge in appunto in potere degli Spinola genovesi. In un contesto come quello dell’età vicereale del Mezzogiorno, in cui la sovrapposizione di un potere feudale ad una universitas, e cioè, alla fine, il conflitto tra poteri, è una realtà istituzionale, e con una disparità di forze in campo, nel caso specifico, così evidente, non sorprende che l’iniziativa del contenzioso, ch’è comunque un tratto comunissimo per quasi ogni distretto feudale, fosse appunto degli Spinola. Sorprende, caso mai, la capacità di resistenza dell’amministrazione universale. Alcune cose, di questa forza cittadina, le sapevamo. Sapevamo ad esempio che l’universitas di Galatina, pur subordinata ad un feudatario, giunge a divenire, o ad affermare di essere, a sua volta ‘baronissa’, almeno fin dal 1577, dei proventi delle cause discusse nella corte baronale, con la serie di complicazioni ch’è facile immaginare, e, paradossalmente, consumando abusi feudali a danno del proprio feudatario, anche se questo titolo feudale non compare più (ma resta il potere a titolo di semplice privilegio) nella documentazione della fine del Settecento, travolto, probabilmente da un profilo perdente nel contenzioso con gli Spinola.

Sapevamo anche di un altro titolo baronale di Galatina, che infatti, nel Settecento ha in feudo lo ius scannagii, e che già indica la grande fioritura dell’arte dei pellettieri. Quel che ignoravamo, invece, e che il Papadia si guarda bene dal rivelarci, è, ad esempio, che gli avvocati degli Spinola verso il 1768, giunsero a provare che proprio il prezioso privilegio della mastrodattia, che si voleva concesso da Ferrante d’Aragona nel 1469, era un falso, anche se poi sembra che il duca Spinola perdesse comunque la causa.

Se il Papadia non fa alcun cenno alla questione di questo falso, è perché, per lui, gelosissimo custode dello spirito municipale, la verità del giudicato favorevole, che assai probabilmente avrà assorbito l’eccezione di falso, è più importante della verità storica, dato che a quel falso possiamo forse credere.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Ora questa lotta incessante e dura, che a ben vedere crea spazi di libertà e di modesto benessere e che porterà Galatina, nell’ultimo decennio del Settecento, all’ambitissimo titolo di città, a simbolo di un effettivo e costante progresso e di una certa articolazione sociale; ebbene questa lotta deve il suo tratto moderatamente vincente anzitutto ad una fortunata circostanza di fatto: l’assenza quasi continua dei duchi Spinola da Galatina. E non si tratta della solita assenza del barone meridionale, che va a Napoli per lunghi periodi e poi rientra nel feudo; si tratta di un’assenza dalla stessa Italia meridionale, legata alla ricchezza ed alla alta posizione di questo ramo della famiglia genovese. E gli Spinola, naturalmente lo sanno. Nel 1736 il loro avvocato, senza mezzi termini, dirà: “non si arrosiscono le parti (galatine) di parlare di osservanza, possesso, e prescrizione contro di un barone forestiere il quale è stato sempre assente dal Regno, e la sua residenza l’ha fatta sempre in Genova, sua Padria, o in Milano, e gli Agenti pro tempore sono stati l’istessi suoi vassalli di San Pietro (in Galatina) come furono per molto tempo gli Andreani, quali poteano a lor modo pregiudicare al Barone, e far beneficio all’Università?…“.

In realtà le cose stavano in modo un poco diverso; se è vero che i duchi Spinola quasi mai si sono affacciati nel loro feudo dell’estrema Puglia, è però anche vero che non di rado sono stati loro ‘governatori’ o ‘agenti ‘ in Galatina membri cadetti della famiglia, che in qualche modo hanno esercitato poteri e controlli nell’interesse del ramo feudale. Tuttavia è indubitabile il ruolo fiduciario che gli Andriani (e in qualche caso anche i Gorgoni) hanno avuto e il loro rapporto intenso con gli Spinola, protratto per generazioni, e del tutto in sintonia con la loro scalata sociale che dal mestiere di giurista, secondo un iter consueto nel periodo d’antico regime, ha portato anche loro alla proprietà feudale, conservata poi, fino all’abolizione della feudalità, della vicina Santa Barbara. Tutto questo serve a spiegare, come si diceva, appunto quel progresso costante della città, anche durante secoli, come il Seicento, che erano stati di generale involuzione e povertà. Anche per questo non c’è da meravigliarsi nel constatare che le ‘parti galatine’ non arrossirono affatto; il contenzioso è stato sempre ininterrotto, e termina, in definitiva, con la fine della feudalità, cioè in altre parole quando cessa la ragione istituzionale del contendere.

 

 NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

11 gennaio 1413-11 gennaio 2013. La Cattedrale e la Città di Nardò in festa

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Seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Civitas

 

Ed ecco dunque il giorno del compleanno della Cattedrale e della Città di Nardò. 600 anni dall’elevazione della chiesa abbaziale benedettina di Sancta Maria de Nerito in Cattedrale e contestualmente della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

Molto toccante la liturgia di ieri in Cattedrale, con la presenza di 13 monaci benedettini dell’abbazia di Noci, che hanno recitato, con i fedeli presenti, i solenni Vespri. Notevole lo spessore della riflessione dell’Abate Padre Donato Ogliari, che ha sviluppato il tema: «La Cattedrale: ecclesia mater e segno visibile della comunione nella Chiesa Particolare».

Alle 17 di oggi, in piazza Salandra, converranno le Autorità civili e religiose per scoprire l’epigrafe (provvisoriamente collocata sulla facciata del Sedile, in attesa di collocazione definitiva). Hanno garantito la partecipazione, con i gonfaloni civici, i Sindaci dei Comuni della Diocesi.

Alle 17.30 nella

BASILICA CATTEDRALE

ci sarà la concelebrazione eucaristica, presieduta da S.E.Mons. Domenico Caliandro, arcivescovo di Brindisi-Ostuni, con la partecipazione del Clero diocesano.

 

la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)
la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)

 

Copia di 4

L’epigrafe che ricorda i 600 anni della Cattedrale e della Città di Nardò

cartelloC

Questo è il testo riportato sulla lastra che sarà scoperta oggi in piazza Salandra. La trascrizione e la traduzione sono state effettuate dal nostro Armando Polito, che ancora una volta si ringrazia per la disponibilità e competenza.

…terram predictam in civitatem erigimus et civitatis titulo ac insigniis decoramus eamque in memoriam indelebilem civitatem Neritonensem volumus perpetuis temporibus nuncupari. Et insuper eandem ipsius monasterii ecclesiam in ecclesiam Cathedralem similiter erigimus…

…eleviamo a città la terra predetta  e la orniamo col titolo e le insegne di città e vogliamo a memoria indelebile che essa per sempre si chiami città di Nardò. E inoltre allo stesso modo innalziamo a chiesa cattedrale la medesima chiesa dello stesso monastero…

(dalla bolla pontificia dell’11 gennaio 1413)

 La città di Nardò pose l’11 gennaio 2013

 

Quando si ha stoffa per guadagnarsi il Cielo. In ricordo di Giorgio Cretì

cretì

di  Raffaella Verdesca

 

Non era da molto che mi aggiravo tra le pagine del blog di “Spigolature Salentine”, oggi confluito nel prestigioso sito della “Fondazione Terra d’Otranto”.

Me ne avevano parlato bene, dicevano che avrei sempre e comunque trovato un articolo di mio gradimento, come in un grande bazar ricco di oggetti sconosciuti e preziosi. Curiosa e perennemente in cerca di novità interessanti, avevo quindi iniziato a frequentare questo affascinante mercato, fermandomi qua e là a comprare luccichii e colori tra la merce esposta.

E’ stato proprio in una di queste occasioni che ho incontrato Giorgio Cretì. A prima vista non era facile individuarlo, nascosto com’era dietro alle ricche tessiture dei suoi racconti, ma rigo dopo rigo me lo son visto venire incontro imponente come un gigante, unico con quel suo modo gentile e al tempo stesso crudo di trattare la vita comune della gente e la gente comune di ogni vita.

“Leggete, signori, leggete tra i banchi di questa colta piazza le belle storie di Cretì!” si diffondeva irresistibile il richiamo in ogni angolo.

Si tratta di storie in cui si respira il Salento, in cui un uomo esprime l’ardore e la delicatezza dell’amore per la sua terra rossa e profumata, di ‘chianche’ cosparsa e di luce e di mare, di sudore e di ulivi accesa e consumata.

L’uomo della strada così come il signorotto dei più sperduti paesi di campagna non ha scampo dinanzi all’analisi introspettiva di Giorgio, dinanzi a quel processo di lavaggio e tinteggiatura degli animi, dei difetti, delle virtù e delle debolezze che ogni essere umano porta con sé. L’intreccio dei suoi racconti non è mai barocco, ma semplice, setoso ed estremamente prezioso. Te ne accorgi ogni volta che lo sfiori col pensiero, con la naturale curiosità nata dalle sue trame avvincenti, materia viva al tatto e al cuore.

Di vera la merce è vera, originale, bella da farti accapponare la pelle, così fitta da spingerti a provare le stesse sensazioni dei suoi fili fin nelle pieghe familiari e di paese.

Il fidanzato bontempone, il bracciante, il padrone, la dama e la contadina, l’anziano, il giovane, l’ingenuo e lo scaltro, non c’è nessuno che manchi all’appello narrativo di questo straordinario autore.

Nei suoi scritti c’è sempre un posto d’onore per la tradizione popolare, per le memorie di vedute antiche oggi a rischio d’estinzione, per il pathos e la risata, per il grottesco e il drammatico, il tutto sullo sfondo di dinamiche politiche e culturali simili a ricami a vista.

Lirismo e poesia sfumano le tinte forti dell’esistenza grama dei poveri, incantevoli dipinti bucolici invadono i sensi come stampe su seta illuminando a giorno le pagine fitte di odori e di sapori, cari all’autore come ad ognuno di noi.

E’ la fiera delle meraviglie.

Ma oggi il proprietario del mio banco preferito non c’è.

Mi hanno detto che ha accettato di esporre le sue splendide stoffe in una piazza più grande e luminosa, quella degna dei giusti, e allora mi è venuto da pensare alla fortuna che abbiamo avuto tutti nell’incontrarlo, nel comprare da lui, in questo lasso di tempo, ogni merce possibile pagandola con ammirazione e affetto sonanti. E’ ormai chiaro che nessuno potrà contraffare una simile grandezza, né mai improvvisare la ricchezza con cui finora ci ha avvolto.

Prima di andare, Giorgio Cretì ha tuttavia voluto affidare alcuni dei suoi tesori alle migliori mani possibili, al fine di non interrompere bruscamente i suoi sogni e le nostre certezze. Come avrebbe potuto lasciarci nudi di sè e delle sue emozioni?

Con questo grazie a nome mio, della Pissa, di Donna Maresca e di tutti, colgo l’occasione, Giorgio caro, per dirti che so quanto questo mio ultimo commento ti sia piaciuto più degli altri.

 

Racconti salentini/ Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

Nardò 1413-2013. Tornano i benedettini dopo 600 anni

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Seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Civitas

 

Dopo l’interessantissima lectio del prof. Mario Spedicato, tenutasi il 9 gennaio nella Cattedrale, con un pubblico numeroso, qualificato e attento, preludio di un annunciato convegno che si terrà a maggio, questa sera le celebrazioni prevedono

GIOVEDì 10 GENNAIO 2013

BASILICA CATTEDRALEore 18.00

CANTO DEI VESPRI IN GREGORIANO 

animato dalla Comunità dei Benedettini di Noci, con riflessione dell’Abate P.Donato OGLIARI sul tema: «La Cattedrale: ecclesia mater e segno visibile della comunione nella Chiesa Particolare».

 

la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)
la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)

 

 

 

Copia di 4

Salento e Società Segrete

Nel Salento ve ne erano oltre cento, mentre un migliaio nell’intero Regno delle Due Sicilie

LE SOCIETÀ SEGRETE

Erano movimenti clandestini sorti per contrastare il governo borbonico o per difenderlo

di Mauro de Sica

Premessa

Grazie allo storico Pietro Palumbo di Francavilla Fontana, al notaro Nicola Pignatelli e a Ferrante Tanzi, direttore dell’Archivio di Lecce, la storia salentina del primo Ottocento si è potuta arricchire adeguatamente. Il primo, grazie ad una ricerca meticolosa, ha studiato in lungo e in largo il Risorgimento Salentino; il secondo ha redatto uno zibaldone di cause criminali risalenti alla Repubblica Napoletana del 1799, mentre il terzo ha riordinato pazientemente molte notizie sulle Sette o Vendite Carbonare.

Poco è emerso dagli Atti di polizia relativi al periodo 1800-1860, ammucchiati qua e là disordinatamente in diversi luoghi del Regno. La scarsità di notizie è anche dovuta al fatto che molti storici dell’epoca erano asserviti al regime borbonico, per cui poche verità furono consegnate alla Storia; anzi, uomini di provato stampo repubblicano e patriottico, come Oronzo Massa, Giuseppe Libertini, Nicola Mignogna, Giuseppe Fanelli, Liborio Romano, Epaminonda Valentino, Sigismondo Castromediano, Antonietta de Pace e altri, furono a lungo perseguitati, incarcerati, torturati. Alcuni marcirono in galera, altri furono passati per le armi, in pochi si salvarono.

Origine delle società segrete

Va innanzitutto precisato che, nel Meridione d’Italia, le società segrete erano già operanti ancor prima della Repubblica Napoletana del 1799, fallita nel sangue dopo appena mezz’anno.

A quei tempi si contrapponevano due fazioni estremistiche con finalità diverse: i Giacobini da una parte, i Realisti (poi diventati Sanfedisti, Concistoriali, Trinitari, Calderari) dall’altra.

Sia gli uni che gli altri si muovevano clandestinamente. I primi erano convinti assertori che la libertà, l’indipendenza e il retto governo si potessero ottenere soltanto con una Repubblica democratica. Si muovevano nell’ombra, ma erano legati da vincoli indissolubili e da una buona rete organizzativa. Anche i secondi agivano in clandestinità, ma erano foraggiati e manovrati dai Borbone. Appoggiati dal clero e da alcuni nobili fedeli alla corona, i realisti ritenevano che i giacobini fossero nemici del Papa, di Cristo e del Trono e, come tali, dovevano essere eliminati. Essi usavano tutti i mezzi, leciti o illeciti, per scovarli e combatterli. Molti esponenti giacobini di spicco perirono per mano realista.

 

La società segreta dei Carbonari1

La carboneria vera e propria era stata introdotta nel Regno delle Due Sicilie intorno al 1807, forse dal generale francese Miot, e aveva attecchito immediatamente in quasi tutti gli strati della popolazione. Molti borghesi e nobili napoletani erano stati adeguatamente istruiti e guidati da alcuni ufficiali transalpini al pensiero politico giacobino,in modo che fosse diffuso in tutte le terre del Meridione, sino a radicarsi nelle coscienze di ogni cittadino. Nel 1811 il governo repubblicano di Gioacchino Murat aveva istituzionalizzato il movimento della carboneria, conferendogli il necessario riconoscimento politico e tutelandolo legalmente; ma ben presto le sette carbonare gli si rivoltarono contro per la politica economica sbagliata e ben distante dall’iniziale pensiero riformista.

La finalità precipua delle sette carbonare, che nella struttura erano molto simili a quelle massoniche, era l’emancipazione di ogni uomo e la sua uguaglianza di fronte alla società, alla legge e a Dio. A differenza delle sette massoniche, in quelle carbonare vi era un ordine androgino, cioè vi potevano aderire sia uomini (chiamati buoni cugini) sia donne (chiamate sorelle giardiniere). L’emblema di ogni setta carbonara riportava numerosi simboli caratteristici: la croce drappeggiata, la corona di spine, il fascio e la scure, la spada e il flagello, Marte e Pallade Frigia, il gallo sull’òmphalos, l’albero, il sole, la terra, l’acqua, la bilancia, la scala, il Vangelo, il Cristo e altri minori. I vari simboli erano collocati intorno ai vertici di due triangoli equilateri intersecanti, uno dei quali capovolto sull’altro nella parte mediana. I lati dei triangoli erano costituiti da lunghe catene, a testimonianza delle sofferenze del Cristo, redentore degli oppressi. La Carboneria era in pratica la società degli umili e dei perseguitati. Cristo era considerato il primo carbonaro, san Teobaldo era il patrono della setta. Nella parte interna dei triangoli vi erano delle lettere maiuscole, disposte su due righe. La prima conteneva: A…G…D…G…M…D…U…, vale a dire “A Gloria Del Gran Maestro Dell’Universo”; la seconda, invece, S…G…A…D…N…P…S…T…, cioè Sotto Gli Auspici Del Nostro Protettore San Teobaldo”.

Come in tutte le sette, l’iniziazione alla Carboneria avveniva con riti che avevano del simbolico, del misterioso ed anche del pauroso. All’iniziato erano bendati gli occhi e poi era condotto nella baracca, luogo segretissimo, considerato il Tempio della Virtù. Qui, alla presenza di tre luci (il Gran Maestro e due Maestri) e di persone incappucciate, era sottoposto a una serie di domande e ad alcune prove di coraggio. Se l’aspirante carbonaro superava i vari ostacoli e dimostrava di possedere ingegno, fede e coraggio era sbendato. Si ritrovava con quattro pugnali puntati alle tempie e con il Gran Maestro (anch’esso incappucciato) che gli ricordava che, se avesse tradito, sarebbe stato ucciso brutalmente, il suo corpo fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento. Dopo di che, l’iniziato era invitato a giurare e a firmare con il suo stesso sangue una pergamena. Per ultimo, il Gran Maestro gli consegnava un nastro tricolore (rosso, nero e celeste), chiamato chantillon, e, pubblicamente, lo nominava Apprendista. Alla fine del rito iniziatico, gli rammentava che l’orgoglio, la vanità e le ricchezze dovevano essere bandite dalla sua vita e che nella sua mente dovevano alloggiare soltanto l’umiltà, la giustizia e la fratellanza.

Ogni affiliato non conosceva altro che i superiori immediati della vendita (setta) di appartenenza, ai quali doveva cieca obbedienza. Nel corso della sua vita poteva salire la scala gerarchica, passando da Apprendista, a Maestro, a Gran Maestro e, infine, a Grande Eletto.

I carbonari, per riconoscersi, dovevano far ricorso a un complicato sistema di battute, di toccamenti, di passi e, infine, a seconda delle situazioni, ad una sequenza di particolari parole d’ordine.

Negli anni a seguire si costituirono in tutto il Salento numerose vendite carbonare. I titoli con cui erano denominate risentivano del risveglio della letteratura classica, iniziato dall’Alfieri, che aveva in odio i tiranni.

A Lecce troviamo ben sei vendite de L’Idume, il cui Gran Maestro era Girolamo Congedo, ad Otranto L’Idro, a Galatina I Novelli Bruti, guidati da tale Giovanni Campa, a Gallipoli L’Asilo dell’Onestà e L’Utica del Salento, a Nardò La Fenice Neretina, a Squinzano Il sollievo dell’Umanità, a Monteroni I figli di Muzio Scevola, a Copertino I Figli della Ragione, a Soleto Il Sole Rallegrato, a Carpignano Gli Alunni di Marte, a Novoli Il Nuovo Carbone e Il Novilunio, a Taurisano L’Aquila Imperiale Romana, e tanti altri ancora. A Lecce gli affiliati si riunivano presso la bottega “Alle quattro Spezierie” di tal Giacomo Macella o presso il “Gran Caffè” di Raffaele Persico, in Piazza Sant’Oronzo.

La setta dei Guelfi

Una setta carbonara moderata era quella dei “Guelfi”, presente in molte parti del Meridione e dello stesso Salento. Gli affiliati si limitavano a diffondere l’ideale repubblicano e liberale, piuttosto che prendere parte a movimenti insurrezionalisti e violenti.

Una tra le sette più affermate era, senza alcun dubbio, L’Utica del Salento, sorta a Gallipoli intorno al 1820 da una costola della vendita carbonara L’Asilo dell’Onestà, sanguinaria e interventista. Pare che i motivi della scissione siano da collegare all’uccisione di un gendarme gallipolino, omicidio non condiviso da alcuni affiliati. La nuova setta, guidata nei primi anni da Gregorio de Pace (padre della più famosa Antonietta) e, alla sua morte, dal fratello, il canonico Don Antonio, si riuniva nelle casine di Stracca e di Camerelle, nei pressi di Villa Picciotti (Alezio).

La setta dei Calderari

Rimpossessatosi del regno nel 1815, Ferdinando IV di Borbone aveva immediatamente vietato logge massoniche e vendite carbonare. Per completare la sua campagna contro i Carbonari, il sovrano aveva autorizzato e sostenuto una setta a lui fedele, i Calderari, o anche Calderai, che diedero inizio ad una serie infinita di regolamenti di conti. Quella dei Calderari era un’associazione segreta reazionaria e filo-borbonica, chiamata anche società «del contrappeso», perché la sua attività era contrapposta a quella dei carbonari. Il sangue si spargeva per tutte le terre del regno e la delazione era diventata un fatto quotidiano. In provincia di Lecce, resta famosa la setta dei calderari di Gallipoli, guidata dal notaio Francesco Sambati, il quale più volte si scontrò con gli affiliati de L’Asilo dell’Onestà. È da ricordare anche il violento Ciro Vergine da Maglie.

Malgrado queste pressioni la Carboneria salentina continuò a crescere.

A capo della setta controrivoluzionaria dei calderari c’era il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo, graziato da Ferdinando ai tempi della rivoluzione del ’99 e poi schieratosi sull’altra sponda, tanto da essere nominato ben presto Direttore di Polizia del Regno. Il nobile si lasciò andare a continue scorrerie nelle zone ad alto indice di carboneria. Godendo del favore del governo, i Calderari agivano in modo inconsulto e sfrenato, compiendo violenze e azioni brutali. Per tale motivo la setta, dopo alcuni anni, fu sciolta e perseguitata dallo stesso sovrano.

Altre sette di minore importanza si mossero nella prima metà dell’800. Su tutte ricordiamo i Concistoriali e i Trinitari, dalla parte borbonica, mentre i Filadelfi, gli Edennisti, i Turbolenti e, soprattutto, i Decisi, dalla parte liberale.

Conclusione

A un Ottocento, fervido e movimentato, in cui gli uomini si sono battuti strenuamente per il conseguimento della Libertà, della Giustizia e della Pace, ha fatto seguito un secolo pieno di guerre e di sangue, in cui sono state conquistate soltanto le Carte Costituzionali e una vita (apparentemente) democratica, ma ancora inquieta, preoccupante e molto distante dalle grandi aspettative umane e sociali.

Oggi, purtroppo, godiamo di una libertà contenuta, ristretta, tascabile. Vi sono persone che ne usufruiscono a piacimento, a volte anche per perseguire degli interessi illeciti; ad altre, invece, è concesso il minimo indispensabile per muoversi entro spazi vitali sempre più ridotti e ritagliarsi una vita appena appena decente. La vera libertà, quella di cui tutti vorrebbero usufruire, è ancora inchiodata sulle pagine della Carta Costituzionale e stenta a muoversi tra la gente. Occorrono decenni e decenni di dura fatica, di lotte civili, di impegni sociali perché si riesca ad abbattere definitivamente le roccaforti egemoniche e possa avverarsi il grande disegno che l’uomo si porta dietro dall’alba della Storia.

Estratto da “http://it.wikipedia.org/wiki/Calderari

 

1 La Carboneria era sorta dalla setta dei “Filadelfi”, chiamati anche “Filateti”, il cui capo era Filippo Buonarroti.

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Giorgio Cretì. Da Antonio a Marcello

  • Antonio Chiarello

    Con profondo dolore, ti trasmetto la notizia della scomparsa di un nostro illustre amico: Giorgio Cretì scrittore, affabulatore, memoria storica delle nostre contrade.
    Ho avuto l’onore di essere nelle sue grazie, anche se tardivamente. Mi rimane un grande ricordo.
    Te la trasmetto perchè Terra D’Otranto lo onori in qualche modo.
    Ciao!
    Antonio Chiarello

     

    giorgio cretì

La tua notizia, caro Antonio, chiude una giornata che avevo preventivato molto importante. Ma non a tal punto! Quell’albo lapillo che avevo riservato per contrassegnare il 9 gennaio 2013, giornata prima di un ciclo di eventi che mi ha visto impegnato in questo ultimo periodo, l’ho già sostituito con un nigro lapillo, una pietra nera con cui contrassegnare i miei giorni tristi dell’anno.

Non sono in grado di scriverti altro. L’emozione e la confusione mi annebbiano. I ricordi si accavallano. Le lunghe telefonate tornano per sconvolgere. Ed io che mi credevo ormai insensibile al grande mistero della morte… 

Rileggerò e mediterò sui suoi doni di cui ha voluto considerarmi custode. Custode delle reliquie, come ha titolato un nostro amico un suo libro…

Onore all’amico Giorgio, che in quel di Pavia quotidianamente sciorinava elogi alla sua e alla nostra terra, ubriacandosi di sapori gelosamente serbati per undici mesi l’anno e che la sua amata Ortelle gli aveva procurato nel generoso mese di agosto.

Consoliamoci Antonio. Ne abbiamo bisogno

Marcello 

 

Faccellavatu

coll. priv. Giorgio Cretì (riproduzione vietata)

di Giorgio Cretì

Biagio Sannimaro giunse nel pomeriggio inol­trato di un’afosa giornata d’agosto. Era stato in giro tutta la mattina montando uno di quei caval­li arabi che il barone aveva acquistato di recente e che si erano dimostrati ottimi anche per il dipor­to e per la caccia. Egli aveva il compito di batte­re ogni giorno il territorio delle due masserie che con il loro feudo costeggiavano il litorale adriatico e, quando vi passava vicino, si fermava al casino a conferire con il barone oppure a scambiare due chiacchiere con il casiniere che, come lui, parlava volentieri, e per ristorare il cavallo.

A volte, quando d’inverno la famiglia del ba­rone non c’era, dormiva lì, ma la sua residenza fis­sa era alla masseria Bruficu(1).

Durante la notte non era calata muttura(2) e, av­vicinandosi alla zona la mattina presto, egli si era soffermato qua e là a parlare con i mezzadri sparsi per la campagna. Le macchie di terra rossa zappata rompe­vano ogni tanto la monotoria delle stoppie brucia­te delle grandi colture cerealicole. Vicino ai casolari sparsi i contadini coltivavano anche piccole strisce di cotone e pomodori, dolici(3)  e altri ortaggi, quanti se ne po­tevano permettere in base alla capacità delle ci­sterne di acqua piovana che avevano a disposizione.

Intorno a quelle costruzioni dall’architettura molto essenziale, lussureggiavano a filari le chio­me dei fichi, grande fonte di frutta secca per l’inverno.

ph Giorgio Cretì

Poi i sentieri che Biagio aveva percorso si inoltravano fra i grandi boschi di ulivi, o in mezzo alle vigne, per perdersi nella macchia bassa che copriva un largo tratto dalla parte del mare. Se n’era andato, in quell’intrico di arbusti, un po’ al trotto e un po’ al galoppo, con il cavallo che sembrava divertirsi a volare sopra lentischi e ginepri spinosi, come ricordasse le scorribande di un suo

Nardò 1413-2013. Si comincia con la storia

cartelloC

Seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Civitas

 

Questa sera avranno inizio le celebrazioni dell’importante ricorrenza che ricade nel 2013, anno in cui la città di Nardò ricorda il seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di Sancta Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425),  e contestualmente della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

 

la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)
la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)

 


MERCOLEDì 9 GENNAIO 2013 

BASILICA CATTEDRALEore 18.30

dissertazione storica

del prof. Mario SPEDICATO, docente di Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Salento, sul tema: «Dalla Chiesa abbaziale alla Cattedrale. Alle origini della fondazione della diocesi neretina».

 

Copia di 4

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