L’alloro nel mito, nella storia, nell’arte e… in una sorpresa finale.

di Armando Polito

nome scientifico: Laurus nobilis L.

nome della famiglia: Lauraceae

nomi italiani: alloro, lauro

nome neretino: làuru

 

La prima parte del nome scientifico, il secondo italiano e quello neretino sono tutti dal latino lauru(m)1, di cui è forma aggettivale il nome della famiglia. Il primo nome italiano (alloro), contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è il meno corretto anche se il più usato, a conferma che spesso anche tra le parole, come tra gli uomini, il peggiore prevale… Esso, infatti deriva dalla locuzione latina (il)la(m) lauru(m), con errata concrezione e successiva deglutinazione dell’articolo (*lalauro>l’alauro>l’alloro).  La seconda parte del nome latino (nobilis)  significa nobile e tale attributo è, per quanto si dirà, particolarmente azzeccato.

Nel mondo greco, infatti, una corona di alloro era il premio per i vincitori nei giochi pitici (a differenza delle olimpiadi non vi si svolgevano solo competizioni sportive ma anche gare di musica e poesia). Si celebravano ogni quattro anni (il terzo dopo ogni olimpiade) nel santuario di Apollo a Delfi (altro nome Pito, da cui prendono il nome gli stessi giochi e la Pizia, la sacerdotessa del santuario); nelle foto in basso: a sinistra il santuario, a destra lo stadio con la gradinata di sinistra aggiunta in epoca romana.

L’alloro era l’albero sacro ad Apollo, dio della musica, della poesia e delle arti in genere. Se il nome latino, come abbiamo visto, era laurus, quello greco era dafne. Lo stretto rapporto esistente in Grecia tra divinità e natura trova conferma nell’arcinoto mito di Apollo e Dafne, avvenente fanciulla che, per sfuggire alle attenzioni del dio, si mise a correre (altri tempi, con tutto il rispetto per gli dei di allora e nessuno per quelli sedicenti tali di oggi…) e, quando stava per essere raggiunta, ottenne dalla terra di essere trasformata in alloro. Ad onor del vero bisogna dire che Apollo, per una sorta di par condicio sfociante nella bisessualità (a parte il fatto che tale comportamento all’epoca era assolutamente normale e nel nostro caso poi siccome l’oggetto del desiderio di regola veniva trasformato in un vegetale il tutto era inquadrabile in quel rapporto strettissimo tra divinità e natura di cui ho detto), ebbe occasione di fare le sue avances anche a dei ragazzi: il dio, giocando un giorno al lancio del disco (non doveva essere molto bravo con l’attrezzo, ma anche gli dei possono sbagliare…) colpì a morte Giacinto, di cui era perdutamente innamorato e pensò bene di trasformarlo nell’omonimo fiore; poi fu la volta di Ciparisso che, per punizione di aver ucciso involontariamente con un lancio maldestro del giavellotto (non conosco mito in cui l’indiretto responsabile sia il peso, ma non è detto che non esista…) il suo compagni di giochi preferito (non era Apollo, ma un cervo sacro addomesticato )chiese ed ottenne dagli dei di morire e che le sue lacrime scendessero in eterno: fu accontentato e nacque il cipresso.2

Conseguenza della sua buca con Dafne fu la ricorrente rappresentazione della sua testa coronata di alloro: due esempi nelle monete sottostanti.

La prima, uno statere (IV° secolo a. C.),  proviene proprio da Delfi e raffigura nel verso Apollo seduto sull’omphalòs3 con il gomito destro appoggiato alla cetra ed un ramo d’alloro. La seconda, un tetradramma (V° secolo a. C.), proviene da Lentini (Sicilia) e raffigura nel recto Apollo coronato di alloro con intorno tre foglie della stessa pianta.

Nella poesia l’alloro entra come componente suggestivo di scorci paesaggistici in Omero, Odissea, IX, 181-183: “Ma quando giungemmo alla terra che stava vicino, là vedemmo vicino al mare una spelonca  che si apriva nel punto più alto, ricoperta da allori…” e in un frammento (185, 5) di Stesicoro (VII°-VI° secolo a. C.): “Il figlio di Giove si diresse a piedi verso un boschetto ombreggiato da allori”.

Nel mondo romano, a parte le notizie riportate da Servio (vedi nota 1), va ricordato che la forma aggettivale femminile da laurus (laurea) compare con significato sostantivato di corona di alloro già in Plauto (III°-II secolo a. C.)4 e poi in Cesare (I° secolo a. C.)5 e laureàtus (da laurea derivato) in Festo (probabilmente I° secolo d. C.)6. Laurea compare ancora, col significato metonimico di trionfo, in Ovidio (I° secolo a. C.-i° secolo d. C.)7, Lucano (I° secolo d. C.)8, Marziale (I* secolo d.C.)9 e Tacito (I°-II° secolo d. C.)10.

Questa tradizione continuò nel medioevo quando con i rami di alloro si coronava il capo del nuovo dottore in medicina (baccalaureatus o baccalaureus, derivato da  baccalarius=giovane cavaliere, forse connesso col tardo latino buccellarius=soldato privato, tutte voci che non hanno nulla a che vedere con l’alloro e con le sue bacche), fino alla laurea attuale (conseguimento di qualsiasi titolo di dottore al termine degli studi universitari).

Sorvolo sui festeggiamenti attualmente riservati al laureato e che in più di un caso sembrano competere con quelli di cui godevano i trionfatori nell’antica Roma. In realtà il paragone è solo un pretesto per riprendere il filo del discorso antico e dire che al nostro albero Plinio dedicò molto spazio nella  sua Naturalis historia: “(L’olio) si ricava anche dall’alloro, mescolandovi olio di olive mature. Certi lo estraggono solo dalle bacche, altri solo dalle foglie, altri dalle foglie e dalla buccia delle bacche ma vi aggiungono lo storace e altri profumi. Per questo vale più di tutti l’alloro che ha le foglie larghe, selvatico, dalle bacche nere”11; “L’alloro è propriamente dedicato ai trionfi, è anche graditissimo in casa e ornamento delle porte di cesari e pontefici; da solo adorna pure le case e veglia davanti alle porte. Catone ce ne ha tramandato due varietà: la delfica e la cipriota. Pompeo Leneo ne aggiunse un’altra che chiamò mustace, poiché si mette sotto ai mostaccioli. (Dice che) ha foglie molto grandi, tenere e bianche, che il delfico è di colore uguale, più verde, con bacche grandissime e che da verdi diventano rosse; che con questa varietà s’incoronavano i vincitori a Delfo e i trionfatori a Roma; che il cipriota è di foglia corta, nera, con i margini a forma di tegola, crespo. Poi ne aggiunsero altri. Il tino: alcuni credono che questo sia l’alloro selvatico , altri un albero della stessa specie. Il colore è differente:  ha infatti le bacche rosse. Si aggiunge anche il regio, che cominciò a chiamarsi augusto, albero grande e dalle foglie grandi, con le bacche non aspre al gusto. Alcuni negano che esso sia l’alloro regio che ritengono altra varietà dalle foglie più lunge e più larghe. Gli stessi in riferimento ad un’altra varietà chiamano baccalio quello che è diffusissimo e ricchissimo di bacche e chiamano trionfale (cosa di cui mi meraviglio molto)la varietà tra queste che non produce bacche e dicono che se ne adornano i trionfatori; senonché ciò cominciò dal divino Augusto, come diremo, grazie a quell’alloro  che gli fu mandato dal cielo, di altezza minima, dalla foglia crespa e corta, raro a trovarsi. Si aggiunge nell’adornare i giardini il tasso, dalla foglia piccola che si assottiglia in mezzo, come striscia di foglia; senza parlare della spadonia dalla meravigliosa capacità di ombreggiamento tanto che fa ombra al terreno a volontà. E c’è pure il camedafne, arboscello selvatico, nonché l’alessandrino che alcuni chiamano ideo, altri ipoglozio, altri dafnite, altri ancora carpofillo, altri ipelate. Sparge i rami dalla radice, adatti a confezionare corone, con foglie più acute di quelle del mirto, più delicate, più bianche e più grandi, con bacche rosseggianti tra le foglie. Ce ne sono molti sull’Ida e attorno ad Eraclea di Ponto e solo in luoghi montuosi. Pure la varietà che si chiama dafnoide non ha una denominazione costante. Alcuni infatti lo chiamano pelasgo, altri cupetalo, altri stefano [corona] di Alessandro. Anche questo arboscello è ramoso, con la foglia più grossa e più morbida di quella dell’alloro; a gustarlo si infiamma la bocca e la gola, le bacche sono nere tendenti al rosso. Fu osservato dagli antichi che in Corsica non vi era nessuna specie di alloro: oggi piantato si sviluppa anche lì. L’alloro è un albero di pace, sicché quando si mostra anche tra i nemici armati è indizio di quiete. Dai Romani viene aggiunto ai messaggi, alle lance e ai giavellotti dei soldati  soprattutto come annuncio di gioia e di vittoria, adorna i fasci dei comandanti. Da loro viene posto in grembo a Giove ottimo e massimo ogni volta che una nuova vittoria procura gioia. E ciò non perché sia sempreverde o perché sia segno di pace (nell’uno e nell’altro caso è preferibile l’ulivo)ma perché è bellissimo sul monte Parnaso e perciò pure gradito ad Apollo, al quale ormai anche i re romani sono abituati a mandare doni là, secondo la testimonianza di L. Bruto. Forse anche perché ivi egli conquistò la pubblica libertà baciando quella terra laurifera secondo la risposta dell’oracolo e perché è il solo tra gli alberi piantati e accolti in casa a non essere colpito dal fulmine. Per questi motivi piuttosto che sia in onore nei trionfi piuttosto che per il fatto che un profumo e abbia funzioni purificatrici dall’uccisione del nemici, come scrive Masurio. E non è lecito che l’alloro e l’olivo vengano inviliti in usi profani, a tal punto che neppure per propiziarsi gli dei debbano essere accesi  con essi gli altari o le are. L’alloro scaccia il fuoco con uno scoppiettio manifesto e quasi con un certo disprezzo; e il suo legno cura le malattie dell’intestino e dei nervi. Dicono che l’imperatore Tiberio quando tuonava fosse solito incoronarsi di alloro contro la paura dei fulmini. Ci sono anche fatti degni di memoria avvenuti al tempo di Augusto. Infatti un’aquila lasciò cadere dall’alto illesa una gallina bianca in grembo a Livia Drusilla quando era ancora promessa a Cesare e che dopo il matrimonio avrebbe assunto il nome di Augusta; e mentre lei senza paura guardava si aggiunse un altro prodigio, poiché la gallina teneva bel becco un ramo di alloro carico delle sue bacche. Gli indovini comandarono che si conservasse la gallina e la sua prole e che quel ramo fosse piantato  e devotamente custodito. Questo fu fatto nella villa dei Cesari costruita sul fiume Tevere presso il nono miglio sulla via Flaminia, che per questo è chiamata Alle galline; e (dal ramo) crebbe miracolosamente un bosco. Cesare poi trionfando tenne in mano un ramo e portò in testa una corona di alloro tratti da quella selva; e questo fecero successivamente tutti i Cesari imperatori. Si tramandò anche l’usanza di piantare i rami che essi avevano tenuto e le selve ancora  continuano distinte dai loro nomi, forse per questo, essendo cambiati i trionfatori. In latino il nome di questo solo tra gli alberi è posto agli uomini. Le foglie di questo solo si distinguono per nome: infatti la chiamiamo laurea. Dura ancora in Roma il nome posto ad un luogo, dal momento che sull’Aventino si chiama Loreto quello in cui ci fu un bosco di allori. Il medesimo albero si usa nelle purificazioni e, per inciso, sarebbe attestato che si pianta pure per ramo, ma ne dubitarono Democrito e Teofrasto”12.

Se non ci fosse stato lo zampino di Apollo, come abbiamo visto, il nostro albero non sarebbe nato e il suo mito non avrebbe avuto la sua più alta celebrazione poetica, quella di Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi (vv. 452-567), di cui per brevità riporto solo la parte culminante (VV. 540-552): “Tuttavia colui che la insegue sospinto dalle ali di Amore è più veloce, non le dà tregua e incalza alle spalle della fuggitiva e le fa sentire il suo fiato sui capelli scompigliati. Ella, perse le forze, impallidì e, vinta dalla fatica della fuga forsennata, guardando le onde del Peneo disse.-Padre, aiutami! Se voi fiumi avete potere, distruggi cambiandola quella figura a causa della quale piacqui troppo!-“.

La preghiera era appena finita che un pesante torpore le invade gli arti: tutto il corpo viene cinto da una sottile corteccia, i capelli crescono in fronde, le braccia in rami, il piede fino a poco prima così veloce aderisce alle pigri radici, la cima gira attorno al volto…”.

Senza i bollenti ardori di Apollo (e la ritrosia di Dafne) avremmo pure dovuto fare a meno della rappresentazione scultorea meritatamente14 più famosa del mito, quella del Bernini (1622), che si può ammirare a Roma nella Galleria Borghese (foto in basso) e che sembra proprio essersi ispirata ai versi di Ovidio.

E, siccome mi piace mescolare il sacro con il profano (forse non è vero che gli estremi si attraggono, ammesso che sacro e profano lo siano?), dopo aver aperto  in bellezza chiudo in bruttezza (masochista!) con la rappresentazione sottostante (Apollo c’è, manca Dafne…) custodita al Centimetropolitan Museum dei Masserei a Nardò.

* Guarda un po’ che s’è messo in testa oggi!

** Vedo, vedo. Si è montato, in senso metaforico,  la testa ma avrebbe fatto meglio a montarsene , in senso letterale, un’altra per sembrare più intelligente, anziché il resto del corpo per sembrare più giovane. 

________

1 Non ha il minimo fondamento filologico, pur essendo suggestivo, quanto si legge in http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?t=3443 dove si afferma : Il nome del genere dal latino “laus” = lode, lodare per evidenziare le proprietà curative della pianta “lodate” già dagli antichi. Si tratta di una paretimologia, cioè di un’etimologia popolare, riportata da Servio (IV° secolo d. C.) nel suo commento all’ottava ecloga di Virgilio: Lauro autem triumphantes coronantur, hedera poetae: Pollio et Imperator est et poeta. Cur tamen triumphantes lauro coronentur, haec ratio est, quoniam apud veteres a laude habuit nomen, nam laudum dicebant, vel quod hanc in manu habuit Iuppiter, quando Titanas vicit, vel quod ea arbore Praefecti militum, Fidenatibus victis, se coronassent sub Romulo, vel quod semper vireat (Pollione è imperatore e poeta. Il motivo per cui, tuttavia, coloro che riportano il trionfo vengono incoronati con l’alloro sta nel fatto che presso gli antichi esso prese il nome dalla parola lode, infatti dicevano laudo, oppure perché lo tenne in mano Giove quando vinse i Titani o perché i capi dei soldati dopo la vittoria sui Fidenati ai tempi di Romolo si incoronarono con i rami di quell’albero oppure perché è sempreverde). Vedi anche nota 4.

2 Direi che il carattere antropomorfo della religione antica (dalla Natura alla divinità) favorisse una maggiore coscienza ecologica, cosa che, purtroppo, non è da ravvisare, a mio parere, in quella cristiana (da Dio alla Natura).

3 Alla lettera: ombelico [anche umbone dello scudo, per la somiglianza; non a caso umbone è dal latino umbòne(m) e ombelico dal latino umbilìcu(m), forma aggettivale di umbònem corrispondente al greco omphalikòs=fornito di umbone]. Delfi nel mondo greco era celebrata come l’ombelico del mondo [Pindaro (V° secolo a. C.), Pitiche, IV, 74; Eschilo (V° secolo a. C.), Eumenidi, 166) perché meta di pellegrinaggio. Nel santuario vi era una pietra (l’omphalòs, appunto) che indicava il punto in cui si sarebbero incontrate, secondo il mito, due aquile lanciate dai limiti estremi della Terra da Zeus desideroso di accertare quale ne fosse il centro. Dopo tanti secoli non ci resta altra consolazione se non L’ombelico del mondo lanciato (lancio ben diverso da quello di Zeus…) da Jovanotti nel 1995.

4 Cistellaria, 201: perdite perduelles, parite laudem et lauream (sconfiggete i nemici, meritatevi la lode e la corona di alloro). La presenza contemporanea di laudem e lauream in un autore “popolare” come Plauto sconfessa, secondo me definitivamente, la testimonianza di Servio riporatta in nota 1.

5 De bello civili, III, 71, 3: Pompeius eo proelio imperator est appellatus. Hoc nomen obtinuit atque ita se postea salutari passus, sed <neque> in litteris adscribere est solitus, neque in fascibus insignia laureae praetulit (Pompeo per quella battaglia fu chiamato comandante in capo. Ottenne questo titolo e così poi concesse che fosse salutato, ma non fu solito scriverlo nei messaggi né nei fasci mostrò le insegne della corona di alloro).

6 De verborum significatu, 117, 13: Laureati milites sequebantur currum triumphantis, ut quasi purgati a caede humana intrarent Urbem. Itaque eamdem laurum omnibus suffitionibus adhiberi solitum erat, vel quod medicamento siccissima sit, vel quod omni tempore viret, ut similiter respublica vireat (I soldati adornati di alloro seguivano il carro del trionfatore perché entrassero in Roma quasi purificati dalla strage dei nemici. E così era abitudine usare lo stesso alloro per tutti i suffumigi, o perché molto secco vale come medicamento o perché è sempreverde, cosi che allo stesso modo fiorisca lo Stato).

7 Epistulae ex Ponto, II, 7, 67: Praestat et exulibus pacem tua laurea, Caesar (Il tuo trionfo, o Cesare, assicura la pace pure agli esuli).

8 Bellum civile (Pharsalia), I, 122: Tu, nova ne veteres obscurent acta triumphos/et victis cedat piratica laurea Gallis/

Magne, times…(Tu, o grande, temi che le gesta [del tuo avversario] oscurino i vecchi trionfi e che il [tuo] trionfo sui pirati passi in secondo ordine rispetto alla vittoria sui Galli…).

9 Epigrammata, VIII, 15, 6: Nec minor ista tuae laurea pacis erat…(Nè minore sarà questo trionfo della tua pace…)

10 Annales, II, 26, 4: …deportare lauream…(riportare il trionfo).

11 XV, 7: Fit et lauro, admixto druparum oleo. Quidem e baccis exprimunt tantum, alii foliis modo, aliqui folio et cortice baccarum, nec non styracem addant, aliosque odores. Optime laurus ad id latifolis, silvestris, nigra baccis.

12 XV, 39-40: Laurus triumphis proprie dicatur, vel hratissima domibus, ianitrix Caesarum pontificumque: sola et domos exornat, et ante limina excubat. Duo eius genera tradit cato: Delphicam et Cypriam. Pompeius Lenaeus adiecit quam mustacem appellavit, quondam mustaceis subiceretur. Hanc esse folio maximo, flaccidoque et albicante: Delphicam aequali colore, viridiorem, maximis baccis atque e viridi rubentibus. Hae victores Delphis coronari et triumphantes  Romae. Cypriam esse folio brevi, nigro, per margines imbricato, crispam. Postea accessere genera. Tinus: hanc silvestrem laurum aliqui intelligunt, nonnulli sui generis arborem. Differt color: est enim ei caerulea bacca. Accessit et regia, quae coepit Augusta appellari, amplissima et arbore et folio, baccis gustatu quoque non asperis. Aliqui negant eamdem esse et suum genus regiae faciunt, longioribus foliis latioribusque. Iidem in alio gebere baccaliam appellant hanc quae vulgatissima est baccarumque fertilissima. Sterilem vero earum (quod maxime miror) triumphalem, eaque dicunt triumphantes uti: nisi id a divo Augusto coepit, ut docebimus, ex ea lauro quae ei missa e coelo est, minima altitudine, folio crispo ac brevi, inventu rara. Accedit in topiarioopere taxa, excrescente in medio folio parvulo, veluti lacinia folii.Et sine ea spadonia, mira opacitatis patientia: itaque quantalibet sub umbra solum implet. Est et chamaedaphne silvestris frutex. Est et Alexandrina, quam aliqui Idaeam, alii hypoglottion, alii daphnitin, alii carpophyllon, alii hypelaten vocant. Ramos spargit a radice dodrantales, coronarii operis, folio acutiore quam myrti, molliore et candidiore et maiore, semine inter folia rubro. Plurima in Ida et circa Heracleam Ponti, nec nisi in montuosis. Id quoque, quod daphnoides vocatur, genus in nominum ambitu est. Alii enim Pelasgum, alii cupetalon, alii stephanon Alexandri. Et hic frutex est ramosus, crassiore ac molliore, quam laurus, folio: cuius gustatu accenditur os atque guttur, baccis e nigro rufis. Notatum aniquis nullum genus laurus in Corsica fuisse, quod nunc satum et ibi provenit. Ipsa pacifera, ut quam praetendi etiam inter armatos hostes quietis sit indicium. Romanis praecipue laetitiae victoriarumque nuntia additur litteris et militum lanceis pilisque. Fasces imperatorum decorat. Ex his in gremio Iovis optimi maximique deponitur, quoties laetitiam nova victoria attulit. Idque non quia perpetuo viret, nec quia pacifera est (praeferenda ei utroque olea), sed quia spectatissima in monte Parnaso: ideoque etiam grata Apollini, adsuetis eo dona mittere iam et regibus Romanis, teste L. Bruto. Fortassis etiam in argumentum, quoniam ini libertatem publicam is meruisset, lauriferam tellurem illam osculatus ex responso. Et quia manu satarum receptarumque in domos, fulmine sola non icitur. Ob has causas equidem crediderim honorem ei habitum in triumphis potius quam qui suffimentum sit caedis hostium et purgatio, ut tradit Masurius. Adeoque in profanis usibus pollui laurum et oleam fas non est, ut ne propitiandis quidem numinibus accendi ex his altaria araeve debeant. Laurus quidem manifesto abdicat ignes crepitu, et quadam detestatione: interaneorum etiam vitia et nervorum ligno torquente. Tiberium principem tonante coelo coronari ea solitum ferunt contra fulminum. Sunt et circa divum Augustum eventa eius digna memoratu. Namque Liviae Drusillae, quae postea Augusta matrimonii nomen accepit, quum pacta esset illa Caesari, gallinam conspicui candoris sedenti aquila ex alto abiecit in gremium illaesam: intrepideque miranti accessit miraculum, quoniam teneret rostro laureum ramum onustum suis baccis. Conservari alitem et sobolem iussere aruspices, ramumque eum seri ac rite custodiri. Quod factum est in villa Caesarum, fluvio Tiberi imposita iuxta nonum lapidem Flaminia via, quae ob id vocatur ad Gallinas, mireque silva provenit. Ex qua triumphans postea Ceasr laurum in manu tenuit, coronamque capitre gessit; ac deinde imperatores Caesares cuncti. Traditusque mos estramos, quos tenuerunt, serendi ; et durant silvae nominibus suis discretae, fortassis ideo mutatis triumphalibus. Unius arborum Latina lingua nomen imponitur viris. Unius folia distinguuntur appellatione: lauream enim vocamus. Durat et in Urbe impositum loco, quando Loretum in Aventino vocatur, ubi silva lauri fuit. Eadem purificationibus adhibetur testatumque sit obiter et ramo eam seri, quoniam dubitavere Democritus atque Teophrastus.

 

13 Qui tamen insequitur pennis adiutus Amoris,/ocior est requiemque negat tergoque fugacis/ imminet et crinem sparsum cervicibus adflat./Viribus absumptis expalluit illa citaeque/ victa labore fugae spectans Peneidas undas/’fer, pater,’ inquit ‘opem! si flumina numen habetis/qua nimium placui, mutando perde figuram!’/ [quae facit ut laedar mutando perde figuram.]/Vix prece finita torpor gravis occupat artus:/mollia cinguntur tenui praecordia libro,/in frondem crines, in ramos bracchia crescunt,/pes, modo tam velox, pigris radicibus haeret,/ora cacumen obit…

 

14 Nell’ordine: una maiolica attribuita a Nicola di Urbino (prima metà del XVI° secolo);  Paolo Veronese (1575), San Diego, San Diego Museum of Art; Luca Giordano (seconda metà del XVII° secolo), Venezia, Ca Rezzonico, Museo del  Settecento veneziano; Giambattista Tiepolo, (1760), Washington, National Gallery. Pur tenendo conto del diverso strumento di creazione artistica e del gusto della relativa epoca,  nessuna mi pare poter competere con quella del Bernini.

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Un commento a L’alloro nel mito, nella storia, nell’arte e… in una sorpresa finale.

  1. In punta di penna e chiedendo permesso agli Spigolatori che se ne sono occupati , mi piacerebbe aggiungere due brevi notazioni a quanto già scritto sull’alloro.
    La prima riguarda l’oggi ed il nostro progressivo allontanamento ( mito anch’esso) dalla significanza dei miti .Qualcosa che ,a dire il vero, abbiamo vissuto profondamente in Italia negli ultimi vent’anni ma già anticipata poco più di un secolo fa da Guido Gozzano ne “La signorina Felicita ovvero la Felicità”.
    Riporto il brano :
    “Oggi l’alloro è premio di colui
    che tra clangor di buccine s’esalta,
    che sale cerretano¹ alla ribalta
    per far di sé favoleggiar altrui…” .
    La seconda notazione la dice lunga sull’ironia , a volte intelligente autoironia”, con cui i Salentini rispondevano a quelle difficoltà che, non raramente nei secoli , hanno accompagnato la loro vita.
    Fra tutte una , diciamolo con gentile metonimia, dovuta alla per nulla gentile ipoglicemia che impudentemente e un po’ troppo frequentemente aveva l’ardire di colpirli.
    E il pensiero va ad una ricetta conosciuta come “l’agnello fusciutu” dove l’alloro imponeva le proprie regole al sapore delle patate e di agnello naturalmente non se ne vedeva neppure l’ombra perché, appunto, era “fusciutu” , era scappato.
    Trovo tutto ciò geniale, possibile solo a quei gran cuochi che , con un semplice tocco, sono capaci di trasformare un piatto povero in una delizia da Re.

    1) Imbroglione ,un tempo anche venditore ambulante di medicine portentose
    sec. XV

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