di Stefano Manca
I nuovi si riconoscevano subito. La scuola non era poi così numerosa. Ilaria era, appunto “la nuova”. Diventò presto il nostro argomento di conversazione preferito. Elemosinando il permesso di uscire per concederci le nostre prime, proibitissime, sigarette, aprivamo fiumi e fiumi di dibattiti.
Secondo me è del nord.
Secondo me è di qualche paesino qui intorno.
Secondo me snob e famiglia ricca: figliadipapà inavvicinabile.
Le congetture andarono avanti ricreazioni intere. Nessuno di noi, nonostante il look da Bullo Discotecaro, provava ad avvicinarla.
Una così ti fa fare una figuraccia che la scuola ti ride dietro per mesi, pensavamo.
Quella mattina trovai le palle. Il coraggio non era sufficiente. Ci volevano proprio le palle. Finalmente prese a piovere come si deve, come nei film americani. Solo che io non ero Richard Gere e la provincia leccese non era New York. Mi avvicinai con la scusa dell’ombrello.
Ero il primo che la avvicinava con la scusa dell’ombrello.
Ero il primo che la avvicinava tout court.
“Tieni. Per adesso mi sa che non smette”, esordii. Durante il tragitto avevo ripassato la mia banalissima frase.
“E tu? Rimani senza ombrello?”
“Ci sono i miei in macchina, no problem, me lo riporti domani!”.
“Sei molto gentile. Un giorno di questi ti invito a pranzo!”, disse.
“A pranzo? Vivi da sola?”
“No. Perché? Hai paura della cucina di mia madre?”
“No, no. Chiedevo giusto così”.
Chiacchierammo ancora qualche secondo, con la pioggia che cadeva sempre più fitta ai nostri piedi. Le altre informazioni che riuscii a strapparle riguardavano le sue origini emiliane e il rock e la pallavolo. Ma il punto era un altro: che mi aveva invitato a pranzo. A quindici anni.
Una “femmina” minorenne che porta in casa l’amico “maschio” minorenne, sotto gli occhi dei suoi, a tavola coi suoi, alla faccia dei suoi. Immaginai cosa sarebbe accaduto se mio padre avesse avuto figlie femmine. Il primo maschio in casa mia almeno a trent’anni!, avrebbe urlato ogni giorno.
Pensai a questa stramaledetta terra dove pregiudizi e tabù resistevano ad ogni sorta di mondialismo e di aperture di nuovo millennio. Arrivai a casa bagnato fradicio.
Era la prima volta che affrontavo la “questione meridionale” senza manuali sotto gli occhi.
Ilaria ed io.
Il Ducato di Modena ed il cafone borbonico.
Agli altri, il giorno dopo, non raccontai nulla. Le battute allusive sull’ombrello alla nuova arrivata si sarebbero sprecate.
Mi risi in faccia.