Il Decalogo del Sacro Risparmio Casalingo

di Paperoga

Utile memento a me e a chi so io che, se seguito alla lettera, potrà apportare significativi risparmi alle casse familiari, ed evitare furibonde litigate con lancio di piatti, coltelli, mobili e fioriere.

1) Ogni volta che si esce da una stanza lasciando la luce accesa, muore un panda in Cina.
2) La lavatrice si mette in funzione dopo le 19. Piscerò personalmente su ogni capo lavato sfruttando la sanguinosissima tariffa mattutina, e la mia rugiada color paglierino laverà l’onta del sovrapprezzo pagato.
3) La prima cosa da fare appena svegliati è tirar su la serranda e ringraziare chi di dovere per la luce gratis che ci è concessa. Ripetere l’azione in tutte le altre stanze. Ogni volta che si vaga di giorno per una casa a serrande abbassate e luce accesa, un iceberg  si distacca dalla banchisa polare e finisce addosso ad una ventina di pinguini inermi provocando una strage.
4) L’acqua è eterna? NO. Perchè la doccia dovrebbe esserlo? Allo scadere del 9° minuto consecutivo di acqua a palla, un coccodrillo è autorizzato ad uscire dall’attiguo gabinetto.
5) Lavarsi i denti con l’acqua che scorre a garganella, in un mondo perfetto, dovrebbe essere punito con la catapulta. Ma mi accontenterei dell’estrazione forzata di un dente ogni volta che capita. Alla 32° estrazione, in regalo una più

SS 275, la follia storicida di un ecomostro a 4 corsie

tratturo in località Serra del fico

 

UDU Lecce

 

in collaborazione con:

il Consiglio Studenti, l’associazione Archès,

Spigolature Salentine, Gaia, LeMiriadi49, Save Salento,

il Formicaio, il circolo Arci Zei,

 

organizza

“SS 275 LA FOLLIA STORICIDA DI UN ECOMOSTRO A 4 CORSIE”

 

Lunedì 9 Gennaio ore 17.00 – Rettorato Università del Salento

L’UDU incontra le 18 associazione che costituiscono il Comitato NO 275, la Facoltà di Beni Culturali, forte della sua unanime delibera di condanna, e tutte le realtà territoriali che credono ad una viabilità propositiva e ad una alternativa al progetto folle che prevede una statale a 4 corsie che vada oltre l’utile allargamento della attuale S.S. Maglie-Montesano con la distruzione, nel nuovo mostruoso tratto da Montesano a Leuca, di un patrimonio

Braci meravigliose

di Pino de Luca

Sboccia il 2012, un altro anno da fine del mondo. Lo dicono i Maya. Antico popolo delle Americhe che ha previsto il redde rationem ma non l’arrivo dei conquistadores che li hanno sterminati. Mah.
Certo il 2012 nasce sotto il segno della “crisi”, della difficoltà di un modello economico di sostenersi. Ma si tratta di un modello umano e, come tutte le cose umane, se ha avuto un principio avrà anche una fine.
Stormiscono fronde e s’addensano nubi, anche nel collettivo senso di impotenza noi continuiamo imperterriti il nostro viaggio tra vini che cantano e fanno cantare, in territori che sono esistiti prima della crisi e dopo la crisi continueranno ad esistere. Non per disinteresse ma solo per maturata capacità di dare giusto peso alle vicende di umane genti dalle capacità inversamente proporzionali alla superbia.
Da Brindisi a Copertino, di nuovo. Ricorre questa città come altre nel mondo enologico, vere e proprie enclavi di sapienza agricola e di trasformazione.
Andiamo a casa del n. 1 indiscusso nella tecnica della produzione del vino, il Severino Garofano di origini campane che, innamoratosi del negroamaro, ha promosso una rivoluzione della quale godiamo, e speriamo di godere a lungo, i riverberi.
Severino ha prodotto, insieme alla sua signora, anche Stefano e Renata che hanno ereditato l’amore per la terra e per il vino, affinato conoscenze e capacità. Dal Negroamaro delle terre di Copertino, dalla sapienza di Severino e la pazienza della sua famiglia nasce Le Braci. Ottenuto da vendemmie tardive e bacche quasi vizze, con rimontaggi frequenti durante la lunga macerazione. Fermentazione a temperatura controllata e invecchiamento in carati piccoli contribuiscono a riempire una bottiglia che oso definire straordinaria, anzi: meravigliosa. Stappata dopo qualche anno, diciamo che cinque anni è l’età giusta, si gode di un colore rosso granato dai mille riflessi, e le stesse sensazioni le percepisce il naso, una complessità di profumi difficilissima da leggere ma di una eleganza e armonia che lascia stupefatti. Al palato si conferma ampio e pervasivo e di una freschezza insospettabile. Che dire dal punto di vista uditivo? Avete mai ascoltato gli stilemi sonori della voce di Giuliano Sangiorgi, la sua capacità di “suonare” tutte le note con le corde vocali? Eccolo allora il Negroamaro racchiuso ne Le Braci con i Negramaro spalancati da Giuliano. Ascoltate la sua versione di quella stupenda ode alla vita che si chiama Meraviglioso, scritta dall’ineguagliabile Mimmo Modugno.
C’è la crisi, ci sono i dolori e le difficoltà, il futuro sembra oscuro e il cenone più magro. Ma davvero non abbiamo nulla?
Ti sembra niente il sole!
La vita
l’amore
A San Silvestro portate a tavola Le Braci, stappato un’ora prima di consumarlo, abbinato con uno dei piatti della tradizione salentina più pura e versato in calici ampi.
Guardatevi intorno mentre ne aspirate il profumo e ne gustate il sapore e ascoltate la voce di Giuliano che arpeggia:
Meraviglioso
ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia/ meraviglioso
a questo punto è facile dire: Buon 2012 a tutti.

Ai primi albori del 2012, una miscellanea di sensazioni, immagini, sentimenti, eventi e riflessioni

di Rocco Boccadamo

 

 

Introdotto da una piacevole sveglia, grazie anche al bellissimo sole che accarezza la temperatura frizzante, l’esordio del nuovo anno fa fortuitamente segnare l’incontro con una compaesana, figura assai familiare e presente nelle antiche stagioni comuni, la quale, ormai da lungo tempo, vive nel capoluogo e, beata lei, ha superato i 90.

Due figli grandi, sistemati con propri nuclei familiari e, a quanto da lei confidato, una nipote già laureata e che s’accinge a convolare a nozze.

Discendente da un casato abbiente del natio paesello, il suo nome di battesimo, Virginia, sin dai primi vagiti, si è trasformato nel vezzeggiativo Lavinia, donna Vinia per tutti i concittadini, almeno per quelli  di una volta.

Da quando ci siamo ritrovati a Lecce, detta donna, ad ogni incontro, dimostra ed elargisce un tratto di spiccata cordialità e un notevole senso di affabilità, comportamento, forse, ispirato dalle identiche radici di territorio e dai non pochi, reciproci ricordi.

Nell’occasione, la predetta amica, immediatamente dopo lo scambio degli auguri, mi chiede se sono a conoscenza di un episodio non buono avvenuto qualche giorno prima nei pressi di Marittima, per la precisione ad Andrano, ossia a dire del tragico incidente stradale occorso ad un pescatore del posto, appena andato in pensione.

Si chiamava Rocco, il povero malcapitato, proveniente con la sua motoretta da una strada di campagna, rimasto a terra esanime; a lungo, aveva atteso al lavoro in mare, insieme a un fratello e allo stesso padre, Mesciu Carmine, con

Tuglie tra fine 800 e inizi 900

CRISI ECONOMICA E AMPLIAMENTO DEL TERRITORIO

 

di Lucio Causo

 

Nel 1816 il Catasto aveva attribuito a Tuglie una superficie di207 ettari. Nella ripartizione territoriale di quel Catasto non si tenne conto delle condizioni di miseria in cui si trovavano i tugliesi, del numero delle persone che vivevano nei paesi vicini (Gallipoli, Neviano, Sannicola, Parabita, Alezio) e neanche dell’ importanza presente e futura dei vari Comuni.

Si tenne essenzialmente conto del domicilio dei proprietari del terreno, infatti, accadde che la masseria Aragona, vicinissima al paese, divenne parte di Gallipoli perché i proprietari erano domiciliati in quella città.

La zona nord di Tuglie era costituita da colline rocciose (Spalla, Cretazzi, Passaturi, Aiavecchia), le quali non erano adatte alla costruzione di strade, case e stabilimenti industriali. Le abbondanti piogge, a causa del pendio delle colline, avevano reso quelle zone inabitabili comportando così per parecchie volte il rifacimento delle strade vicinali. A sud dell’abitato, invece, vi era una vallata dove si depositavano le acque piovane che scendevano dalla collina rendendo così il terreno paludoso e provocando la diffusione della malaria che fece numerose vittime tra i contadini tugliesi. Ciò necessitava di una completa sistemazione territoriale attraverso il deviamento delle acque piovane a monte dell’ abitato, un sistema di fognature all’interno e la costruzione di depositi raccoglitori a valle.

La crisi economica in quel periodo si era ormai affermata, tanto che molti cittadini tugliesi furono indotti a ricercare nuove terre da coltivare oppure, come tanti altri italiani ridotti in povertà, ad emigrare in America.

I nostri emigranti partivano da Gallipoli per raggiungere via mare Napoli per poi imbarcarsi su grossi bastimenti insieme ad altri emigranti meridionali. Per evitare che la disoccupazione si diffondesse sempre di più, nacquero delle Cooperative di lavoro e Sindacati di contadini che proibivano l’importazione della manodopera per difendere quella locale; i risultati furono disastrosi perché nei Comuni di notevole estensione vi era manodopera, anche se non specializzata, invece i tugliesi, pur essendo esperti contadini rimasero senza occupazione per l’ insufficienza di territorio.

Molti furono i tentativi per fare in modo che la crisi non travolgesse l’intera popolazione di Tuglie massimizzando i punti di forza del paese, ma questo non fu possibile per i molti ostacoli che si presentarono. Le maggiori ricchezze del paese sono sempre state la produzione dell’olio, del vino e dell’alcool. Purtroppo, i più importanti stabilimenti erano situati nel territorio di Alezio e nel territorio di Parabita.  In seguito, con la crisi vinicola, molti agricoltori tugliesi trasformarono i vigneti in campi di tabacco e gli industriali fecero

Che fare per raccogliere 90 chili l’ora di olive ogliarole leccesi e celline di Nardò?

di Antonio Bruno

Il Dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’Università degli studi di Perugia guidato dal prof. Franco Famiani ha condotto numerose prove per valutare gli effetti della cultivar, epoca di raccolta, intensità di potatura e carico produttivo sull’efficienza delle diverse macchine agevolatrici della raccolta delle olive disponibili sul mercato.

Cosa sono le macchine agevolatrici della raccolta delle olive?

Le agevolatrici sono macchine raccoglitrici dotate di semplici dispositivi, quali pettini vibranti o ganci oscillanti, azionati da compressori o direttamente da piccoli motori a scoppio, che vengono posizionati all’interno della chioma e provocano il distacco delle olive per bacchiatura o per le oscillazioni indotte nei rametti. Queste attrezzature sono diffuse in zone dove non è economicamente conveniente investire nell’acquisto di grosse macchine o dove le condizioni colturali non sono adatte all’impiego di macchine complesse (Famiani et al., 1998).

Il tempo necessario per ottenere il distacco delle olive

Tutte le prove danno come risultato la quantità di olive raccolte in un ora da un operatore e è necessario precisare che questo conteggio ha preso in considerazione soltanto la fase di distacco delle olive dall’albero.

Questo significa che siccome per qualsiasi macchina è necessario un cantiere per la stesura e spostamento dei teli e poi per il recupero delle olive dai teli stessi e che tali tempi sono identici per tutte le macchine agevolatrici l’unico

Un cavallo bianco, una giumenta rossa e un mulo nero le reali cavalcature dei re Magi

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

 

LA BENEFICA PRESENZA TI LU TIERNU TI LI SANTI RIGNANTI

ovvero

LE CAVALCATURE DEI RE MAGI

 

di  Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Nell’impaginato della campagna, aperto a un intricato linguaggio fatto di segni pronti a convertirsi in circostanza leggendaria e farsi nodo radicale di strane credenze, a volte capitava di scorgere sulla superficie rugosa della terra un chiaro tracciato di impronte animali che senza accusare progressiva dissolvenza o inversione di marcia si interrompevano di colpo, come se la bestia autrice delle orme si fosse improvvisamente volatizzata.

In una ponderata analisi si poteva congetturare l’occasionale proporsi di una diversa solidità del terreno, capace di non accusare impressione, o ripiegare sull’abitudine che le bestie – soprattutto gli equini – avevano di lasciarsi improvvisamente cadere a terra per poi rotolare felici fino alla più vicina delle macchie erbose; ma i contadini, forse per un istintivo gusto al mistero, ne traevano ipotesi assurde, basate sul positivo o negativo a seconda se le orme risultavano di cane o di bove, di capra o di cavallo, avendo ogni bestia – sempre nel concetto del popolo – ben distinte compromissioni col paranormale.

Le impronte a tutti più gradite erano quelle equine, soprattutto se, dalle dimensioni e intersecazioni del tracciato, si arrivava a stabilire che a lasciarvele era stata una triade di bestie, rilievo che portava difilato ad affermare la benefica presenza ti lu tièrnu ti li santi rignànti (del terno dei santi reali), intendendo con tale definizione alludere alle cavalcature dei re magi che la tradizione orale identificava non negli esotici cammelli ma in un cavallo bianco, una giumenta rossa e un mulo nero.

Il meraviglioso di tanta insolita visita stava nella credenza che le tre bestie, per avere avuto la fortuna di trovare la grotta di Betlemme, erano diventate

Quando la befana smise di portarmi le sue calze

di Alfredo Romano

Negli anni Cinquanta del secolo scorso bastava poco per far contento un bambino. Una caramella era già un dono prezioso e, se la ricevevi da un estraneo, dovevi prima cercare l’assenso del genitore che ti faceva cenno col capo. A Collemeto, paese prossimo in linea d’aria al campo d’aviazione militare di Galatina, era facile incontrare degli avieri che frequentavano l’osteria dei Petrelli (la più vecchia che ricordi) che stava a pochi metri da casa mia in Via Padova n. 31. Noi bambini li aspettavamo gli avieri perché si divertivano a lanciarci le caramelle e noi a rotolare per terra per raccattarle con tutto il cuore fino a escoriarci le mani e le braccia.

 

La stessa cosa capitava quando una coppia se spusava te carbu (si sposava in bianco) in chiesa con tanto di cerimonia, codazzo, confetti e cannellini lanciati in aria. Anche qui a rotolarci sulla terra battuta (non c’era l’asfalto allora) per riempirci le tasche e tornare a casa vantandoci del bottino. Accadeva raramente, però, perché, ahimé, la maggior parte delle coppie se nde fucìanu (fuga d’amore) non solo per contrasti familiari, ma soprattutto per non affrontare le spese delle nozze in pompa magna.

Nel giorno di Natale allora non c‘erano regali per i bambini, ma, a cominciare dalla prima elementare, era d’uso porre una letterina sotto il piatto di papà, letterina che era stata preparata a scuola con l’aiuto della maestra. Papà sapeva della letterina, ma faceva finta di niente e aspettava la fine del pranzo per scoprirla. Quindi l’apriva e me la porgeva per leggerla. In poche righe dichiaravo i miei buoni propositi di diventare più buono e ubbidiente e di voler sempre più bene ai miei cari genitori. Finita la lettura, papà si metteva le mani in tasca e ti porgeva 10 lire: ci potevi comprare 2 caramelle con 10 lire, oppure 10 monachelle di liquirizia dalla putea te lu nunnu Vitu Sparpaja. Eppure per noi bambini bastavano a farci provare la gioia del Natale.

Ma l’attesa più grande per noi era quella della Befana, quando arrivavano dei regali veri. Eravamo quattro fratellini e la sera della vigilia c’era un certo trambusto alquanto inspiegabile dentro casa: si trattava dei miei genitori che si davano da fare per cercare i posti più assurdi per nascondere i doni da mettere nelle calze. Noi sapevamo che la vecchia Befana sarebbe scesa dal

Per una storia del teatro a Lecce (quarta e ultima parte). I teatri Paisiello e Politeama

di Alfredo Sanasi

 

Il teatro Paisiello fu considerato uno dei più eleganti dell’Italia Meridionale, ma il suo difetto più grave era il non avere uscite di sicurezza. Nel peristilio di ordine ionico furono posti i busti di Leonardo Leo e Giovanni Paisiello dello scultore Antonio Bortone e sul soffitto del teatro il pittore napoletano Vincenzo Paliotti raffigurò a tempera l’Armonia tra le nuvole e più in basso la Tragedia col tripode fumante ed il pugnale e la Commedia col tirso circondata dalle Grazie: nell’arco sopra la scena eseguì le figure allegoriche del Giorno e della Notte ai lati di un grande orologio.

L’edificio, dall’elegante struttura architettonica di gusto neoclassico, ben presto risultò insufficiente, per giunta il limitato palcoscenico condizionava la scelta del repertorio artistico, il minuscolo golfo mistico non poteva contenere un’orchestra di tutto rispetto. Perciò appena dieci anni dopo l’apertura del rinnovato teatro Paisiello, Lecce, in crescita, sia demografica che culturale, vide sorgere un Politeama, capace di accogliere un più ampio numero di spettatori e di ospitare scenografie ampie ed elaborate, secondo una tendenza già affermatasi nel Nord Italia e in Europa. Quando l’Amministrazione Comunale decise nel 1883 di costruire il Politeama sul suolo adiacente la Caserma del Castello, Donato Greco, imprenditore edile, nato a Galatone, accettò tutte le condizioni; il teatro doveva contenere non meno di millecinquecento spettatori, doveva essere costruito in muratura e in parte in legno e ferro, essere dotato di sistema antincendio, ultimato entro cinque mesi e destinato a rappresentazioni drammatiche e opere musicali.

Col nome di “Politeama principe di Napoli” fu inaugurato il 15 novembre del 1884 con l’Aida di G.Verdi e per la Puglia fu il primo esempio di struttura teatrale paragonabile a quelle costruite nelle grandi città del centro-nord.

Capace di accogliere circa 2000 spettatori era dotato di moderni macchinari per il cambio delle scene e illuminazione a gas trasformata in illuminazione elettrica nel 1909; la sua direzione artistica negli anni venti fu affidata al grande tenore leccese Tito Schipa.

In effetti la costruzione del Politeama avvenne in due tempi. All’inizio comprendeva la sola parte corrispondente alla platea di oggi, mentre la parte anteriore, l’odierno grande foyer, era scoperta e sistemata a giardinetto pubblico con al centro una fontana zampillante.

Solo nel 1913 fu ricostruito tutto in pietra, in luogo del giardinetto fu creato il grande vestibolo con lo scalone d’ingresso ai palchi, dal suo costruttore prese il nome di “Politeama Greco”.

Tutte le opere rappresentate al S.Carlo di Napoli furono allestite in identica edizione al Politeama, sicchè Lecce meritò la qualifica di secondo teatro del Meridione.

Nel 1893 fu data al teatro Regio di Torino la prima di “Manon Lescaut” di Puccini; l’anno successivo 1894 il grande musicista volle modificare il finale del primo atto e presentare l’opera così cambiata al Politeama di Lecce per il  debutto. Ma non solo tutte le grandi opere liriche passarono in quegli anni dal nostro Politeama, vi si rappresentarono numerose opere di prosa, le più in voga in quel periodo storico; val la pena per tutte di ricordare “La Nave” di G. D’Annunzio, che, presentata nel 1908 al Teatro Argentina di Roma, già l’anno dopo passò al nostro Politeama.

Oggi il Politeama è un teatro di prestigio, come può esserlo nelle debite proporzioni la Scala di Milano, il S.Carlo di Napoli, Il Teatro dell’Opera di Roma: è la storia stessa della nostra città e si identifica con tutti gli avvenimenti culturali, artistici, sociali e politici della gente che vi abita.

Nel corso di circa cento anni il Politeama è stato ristrutturato internamente. In considerazione che parte del teatro poggia sull’ex-fossato del cinquecentesco Castello di Carlo V sono state ricostruite in cemento armato le basi di sostegno, è stata sostituita la fatiscente pavimentazione lignea con del materiale ininfiammabile ed acustico, sono state demolite le ormai superate barbacce ottocentesche, sono state arretrate le colonne sotto i palchi, i posti in platea da 530 sono passati a 900.

Merita d’essere ricordato a questo punto un teatro oggi  scomparso che agli inizi del secolo scorso fu per vari decenni il ritrovo preferito dei Leccesi amanti del Teatro di Varietà. Era il Teatro S. Carlino, un baraccone ligneo, che soltanto all’esterno aveva la muratura in pietra.

il teatro San Carlino, non più esistente

Entrò in funzione nel 1908 e venne appoggiato alle possenti mura del Castello di Carlo V tra il Politeama e l’ingresso del Castello. Veniva tenuto con cura ed eleganza e poteva contenere poche centinaia di spettatori leccesi d’ogni ceto, sempre grandi “consumatori” di ballerine del varietà.

Inaugurato dunque nel 1908 ebbe vita breve per un curioso incidente occorso agli inizi degli anni 40. Allora il S. Carlino non era provvisto di lucine elettriche alle uscite di sicurezza, davanti alle quali venivano, durante gli spettacoli, collocati dei lumini schermati con della carta oleata rossa. Una sera particolarmente ventosa un lumino si spense più volte ed il vigile-pompiere importunò ripetutamente uno dei proprietari, Rocco Buda, perché gli fornisse varie volte dei fiammiferi per poter riaccendere il lumino. Il Signor Buda scocciato alla fine mollò un ceffone all’incauto pompiere che dovette ricorrere alle cure d’un infermiere per tamponare una abbondante emorragia. Fu la fine ingloriosa del S.Carlino.

Il giorno dopo agenti di Polizia e Guardia di Finanza appurarono numerose irregolarità e la multa si aggirò intorno alle quarantamila lire, pari ad almeno cinquantamila euro d’oggi; non potendosi pagare una tale somma il locale fu chiuso e poi demolito.

Mario Marti già circa venti anni fa osservava che potrebbe sembrare strano che solo dopo quattro anni dall’inaugurazione del San Carlino (1908), sorgesse nelle vicinanze del Politeama un terzo teatro, l’Apollo, capiente di ben 1600 posti.

Destinato anche a spettacoli di cinema e varieà, fu inaugurato nel maggio del 1912: evidentemente il teatro di prosa, l’opera lirica, il varietà ed il cinema interessavano fortemente l’intera popolazione leccese, compresi i meno abbienti e perfino gli analfabeti. All’origine era una sala, l’attuale ridotto, a cui venne aggiunta l’arena Apollo, ove ora è la platea e solo nel 1926 fu completata l’attuale struttura architettonica con cupola apribile.

prospetto del teatro Apollo col colonnato composito (1911)

Il Teatro Apollo divenne il terzo teatro costruito a Lecce, ma il secondo per importanza poiché vi si rappresentarono opere liriche ed opere drammatiche di vivo successo. La Sala Apollo, poi divenuto Teatro, costituiva, per quei tempi, quanto di più bello e civettuolo si potesse immaginare. Oggi è in completo abbandono, crollata la sontuosa e imponente facciata classicheggiante, si spera che entro tempi non troppo lunghi possa essere salvato, ben restaurato e riportato agli antichi splendori.

Nell’immediato secondo dopoguerra Lecce si è arricchita di nuovi teatri e nuove sale: sul viale Lo Re è sorto il cinema-teatro Massimo (in verità più cinema che teatro, soprattutto perché non mostra una buona acustica). In via Salvatore Trichese, a pochi passi da Piazza Mazzini, sono sorti, in costruzione elegante e moderna, il cinema-teatro Ariston, dove si sono svolti spettacoli musicali, varietà, operette e concerti di notevole livello artistico, ma oggi trasformato purtroppo in sala giochi, e l’accogliente Sala Fiamma, che ha ospitato conferenze, concerti e spettacoli di prosa e d’arte varia di tono raffinato e prestigioso.

Ultimamente, purtroppo, solo il Paisiello e il Politeama continuano a vivere con manifestazioni teatrali attive e culturalmente significative: in un’epoca come la nostra poco incline a coltivare serie attività artistiche, valori spirituali, morali ed educativi, il teatro ha perso molto del suo ruolo formativo, umano e sociale in una città che ha smarrito gran parte del suo empito e delle sue caratteristiche culturali, che l’hanno sempre distinta sino ad epoca recentissima.

 

BIBLIOGRAFIA

Fonti antiche:

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Damasceno N., Vita Caesaris, ed.C.Morris Hall. Northampton Mass. 1923

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Neppi Modona Aldo, Gli edifici teatrali greci e romani, Firenze 1961

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Trianni A.R., Il teatro Paisiello, M.Tresca 1989

Vermeule C.C., Hellenistic and Roman Cuirassed Statues, in Berytus, 1959.

Per una storia del teatro a Lecce (terza parte). Quando fu costruito il Teatro Romano di Lecce?

di Alfredo Sanasi

Quando fu costruito il Teatro Romano di Lecce?

Certo non è facile proporre un’età indiscutibile, per la mancanza di elementi sicuri: ci dobbiamo infatti basare sullo studio di reperti archeologici per averne un’idea approssimativa. Non ci sembra molto convincente l’attribuzione del Teatro al periodo augusteo sostenuta di recente con molto calore e varie argomentazioni dagli studiosi che vedono il teatro come luogo d’incontro tra il princeps ed il popolo: senza teatri, si dice, l’aspirazione di Roma, già dal tempo di Augusto a diventare il centro culturale dell’impero, sarebbe rimasta  poco credibile (P.Zanker)(11).

In effetti tale datazione era stata già sostenuta dalla prof.ssa Delli Ponti circa mezzo secolo fa, ma già allora non ci sembrò molto credibile perché basata esclusivamente su alcuni frammenti di decorazioni fittili, di tipo augusteo, rinvenuti dal Bernardini nella zona del teatro ed ornati con serti disposti a festone e bende frangiate, anzi uno di essi è decorato con una testina muliebre. Se invece esaminiamo la statua virile di stile policleteo, ci si accorge subito, come abbiamo già detto, trattarsi di una replica d’un prototipo greco usato nell’arte iconica imperiale. La statua inoltre è simile per struttura a quella rinvenuta negli scavi intorno all’arco di M. Aurelio a Tripoli, attribuita a Lucio Vero.

Anche la nostra potrebbe essere attribuita allo stesso periodo e gli stessi elementi si riscontrano nel frammento di statua femminile, forse figurazione di Roma, presentata come una vergine amazzonica: buone ragioni che spingono il Bartoccini ad attribuire il monumento ad Adriano o a qualche suo immediato successore. Per giunta noi sappiamo da Pausania che allo stesso periodo adrianeo bisogna far risalire anche l’Anfiteatro e il Portus Adrianus nei pressi dell’odierna spiaggia di San Cataldo: tutti dati ed elementi che ci dicono che Lupiae assunse il suo massimo sviluppo durante l’età imperiale e non solo perché questa città era stata la fedele ospitatrice di Augusto nel suo viaggio segreto da Apollonia a Roma dopo l’uccisione dello zio Giulio Cesare, ma soprattutto per il favore che godette sotto gli imperatori della casa Flavia.

Certo bisogna fare qualche riserva su questa datazione (II sec. d.C.) perché si potrebbe pure pensare che le statue esaminate possano essere state aggiunte in un periodo successivo alla costruzione, ma allo stato attuale non si possono trarre conclusioni più certe circa la sua datazione. Ora se noi ci chiediamo quali tipi di spettacoli dovevano essere dati nel Teatro Romano di Lecce, si dovrà sicuramente pensare alla più ampia gamma di rappresentazioni.

Bisogna anzitutto ricordare che Salentini erano i primi scrittori che tradussero nella lingua di Roma un pò tutte le forme dell’arte teatrale del mondo greco ( L. Andronico era di Taranto, Ennio di Rudiae, come dire di Lecce, Pacuvio era di Brindisi) e quindi è ovvio pensare che i Leccesi amarono rappresentare nel loro teatro le opere di L. Andronico, Ennio e Pacuvio ispirate o tratte a volte quasi di peso dalle tragedie e i drammi satireschi di Eschilo, Sofocle ed Euripide, oltre alle commedie latine di Plauto, Terenzio e Cecilio e le altre forme teatrali minori, quali i mimi, le atellane, le pantomime. Proprio durante l’età imperiale si diffuse la mania delle recitationes, divenute un bene di consumo per i teatri e le sale di

Per una storia del teatro a Lecce (seconda parte)

di Alfredo Sanasi

Le prime tracce dell’esistenza di un  teatro antico a Lecce si scoprirono nel 1929, allorché, durante lo scavo delle fondamenta di una casa tra i giardini dei palazzi Romano e D’Arpe, nel vico dei Marescalchi, oggi via della Carta Pesta, si rinvennero tre gradoni a semicerchio, nonché due frammenti di statue di marmo, un altro di colonna di marmo brecciato e numerose lastrine di marmo colorato.

Lo scavo, ripreso circa dieci anni dopo, nel 1938, mise in luce che i tre gradoni a semicerchio delimitavano un’ area del raggio di mt.5,60, pavimentata con grandi lastre di marmo.

La cavea, ricavata in un banco di roccia, interamente rivestita di opus quadratum,  che un tempo dal Bernardini fu ritenuta di un diametro di soli 40 metri, oggi si ritiene che misuri un diametro di oltre 75 metri, ed è scavata ad un livello di circa tre metri al di sotto del piano della città antica. La parte superiore della cavea, sino alla summa cavea, doveva essere cinta da costruzioni a volte ed archi, simili a quelli dell’Anfiteatro.

la musa del teatro Melpomene (da httpwww.corfu9muses.com)

La gradinata è divisa in sei cunei da cinque scalette radiali. Ciascun cuneo è costituito da dodici scalini alti in media 35 cm. e larghi circa 75, ma questi costituiscono certamente solo l’ima cavea, mancano i sedili della media e summa cavea.

Sul pavimento dell’orchestra si notano numerosi fori, ove forse sorgevano piccole are in onore di Dioniso. Due scalette, situate ai punti estremi dell’orchestra , permettevano l’accesso al palcoscenico (pulpitum), lungo circa 32 metri e alto cm.70 dal piano di terra.

Un lungo canale davanti alla scena, profondo cm.50, era evidentemente destinato a raccogliere il sipario arrotolato. Sul piano della scaena si notano vari piccoli pozzi scavati forse in età medioevale e moderna, ma la grande buca che si vede al centro potrebbe essere, oltre che una cisterna posteriore, il luogo ove era posto l’impianto del deus ex machina. I vari canali che vi si notano e che proseguono anche oltre la grande buca, raccoglievano l’acqua che scendeva dai tetti a spioventi. Certo la frontescena doveva essere complessa e notevolmente ricca, visti i numerosi ed eccellenti ritrovamenti statuari.

Un pò tutti gli studiosi che si sono interessati alle sculture rinvenute nel Teatro Romano si sono meravigliati della ricchezza di tali ritrovamenti, ma molto probabilmente tali statue di marmo erano disposte in nicchie marmoree in una struttura a tre ordini:  oggi la maggior parte di esse si trova nel Museo Castromediano di Lecce. In situ rimane solo una statua loricata molto frammentaria e soltanto da pochi anni è stata rimossa una grande figura femminile acefala, coperta da un lungo chitone a fitte pieghe con un imation (mantello) sovrapposto. Di non molto fine fattura potrebbe raffigurare o un personaggio altolocato in ambito lupiense o meglio ancora un’ imperatrice impostata secondo l’Hera Borghese di scuola policletea o fidiaca.

Gia durante gli scavi del 1929 fu rinvenuta una statua virile acefala che reca sulla spalla sinistra una lunga clamide e sul torace è visibile il balteus che reggeva la spada (3). Agli stessi scavi del 1929 risale un frammento di statua muliebre, appartenente ad una riproduzione dell’Artemide di Gabi: raffigura una fanciulla vestita di corto chitone in atto di affibbiarsi la veste sulla spalla destra. Probabilmente era una riproduzione dell’originale di Prassitele (sec.IV a.C.)(4). Del gruppo di sculture rinvenute durante gli scavi del 1938 ricordiamo anzitutto un grande medaglione di marmo con al centro il busto idealizzato della dea Roma, tratto dallo schema della cosiddetta Athena Hope-Farnese (5).

Raffigura Athena un’altra statua acefala, vestita di peplo e himation ricadente sulla spalla sinistra, sul petto mostra l’egida: è copia di una statua similare esistente nella raccolta vaticana, la cosiddetta Athena Giustiniani.

Mal conservato si presenta un busto loricato, la cui corazza appare decorata con la quadriga del sole che sorge dalle onde e sotto due Nereidi sedute su ippocampi con le armi di Achille(6). L’amazzone ferita, riproducente il noto tipo di Berlino, acefala, è vestita d’un corto chitone che, caduto dalla spalla sinistra, lascia nudo tutto il seno da questa parte. L’originale, probabilmente di Policleto, fu eseguito nel 435 a.C. per il santuario di Artemide ad Efeso (7).Al Doriforo di Policleto rimanda una statua virile acefala raffigurante un atleta in riposo (8). Sempre nel 1938 fu rinvenuta una testa incorniciata da folti capelli e folti baffi che si congiungono ad una barba ondulata ben curata a ciocche (9). Ad Eracle rimanda probabilmente un torso rovinato, che presenta una forte tensione muscolare e tracce delle dita sul fianco destro. Si è fatta l’ipotesi che provenga dal Teatro Romano anche una testa di efebo dalle sembianze idealizzate, dai capelli ricciuti e disordinati (10).

Da questa rassegna di sculture si può arguire che il Teatro Romano di Lecce presentava, soprattutto sulla “frons scaenae” numerose opere scultoree risalenti ad archetipi greci. E se noi ricordiamo che fu atteggiamento spiccato dei Romani volersi circondare di sculture greche o comunque di belle copie di capolavori greci, siamo indotti a pensare che i Messapi leccesi, allorché in età imperiale furono fortemente plasmati dal gusto dei Romani, da questi trassero il desiderio di abbellire i loro monumenti con sculture greche o anche con copie di esse.

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1)       Della Seta, Italia antica, Bergamo 1928, p.133. Da tale interpretazione non si discostano successivamente neppure Aldo Neppi Modona, Gli edifici teatrali greci e romani, Firenze 1961, p.104 e B.Pace, Appunti sui teatri della Magna Grecia, in Djoniso X, 1947, p.272-273.

2)       A.Sanasi, Lecce Romana, in “La Zagaglia”, nn.30 e 34.

3)       La gamba destra è ritta e su di essa poggia il corpo, mentre la sinistra è portata lievemente in dietro e flessa. Sin dal suo ritrovamento fu ritenuta una riproduzione dell’Ares Borghese (S.Reinach, Repertoire de la statuaire grecque e romaine, t.II v.I Paris 1930, p.179).

4)       Secondo il Bartoccini le statue dovevano essere collocate in due nicchie sulla “frons scenae” e rappresenterebbero Augusto e Roma, ideata quest’ultima come un bellicosa vergine amazzonica, secondo un concetto che ebbe molta fortuna durante l’impero (Bartoccini, Il Teatro romano di Lecce, in “Dyoniso” 1936, n.3, p.107).

5)       Ha folti capelli divisi in due masse lungo i bordi dell’elmo, che ricadono sul petto con ciocche ondulate. La veste, scollata a punta, è decorata con la testa di Medusa, al di sotto della quale due serpenti con le code attorcigliate sugli omeri. Il Bernardini ritiene che questo medaglione, per lo stile piuttosto vigoroso, specialmente nel trattamento del collo, appare molto vicino a quelli dell’arco augusteo di Rimini (M.Bernardini, Lupiae, Lecce 1959, p.72).

6)       Ultimamente si è posto questo busto in rapporto ad Augusto da Prima Porta, però le Nereidi su mostri marini e la forma delle placche metalliche nella parte posteriore della statua fanno pensare piuttosto all’eta dei Flavi ( C.C. Vermeule, Hellenistic and Roman Cuirassed Statues, in Berytus XIII, 1959, p.46, n.98; Katia Mannino, in Lecce Romana e il suo teatro, a cura di F. D’Andria, Congedo editore 1999, pp. 46-48).

7)       Certo questa Amazzone di Lecce, pur ferita, non sembra esprimere vero dolore: è evidente lo sforzo del copista romano nel riprodurre i caratteri dell’archetipo in tutti i particolari: qui il problema formale va a scapito di quello emotivo e il foro che si scorge sul fianco sinistro sta ad indicare il punto d’appoggio a qualche sostegno.

8)       Il torso proveniente dal Teatro di Lecce poggia sulla gamba destra, mentre la sinistra appare leggermente spostata in avanti come nel famoso capolavoro policleteo.

9)       In essa M. Bernardini vide Zeus nello schema del dio di Otricoli, di recente invece è stata interpretata come la testa di Asclepio, soprattutto per la “corona tortilis” che compare intorno al capo (Bernardini, op. cit. p. 74; Katia Mannino, in Lecce Romana e il suo teatro, a cura di F.D’Andria, pp.38-40).

10)       Essa fu trovata nel 1869 nell’ex convento di Santa Chiara, situato proprio dinanzi al Teatro. Viene ritenuta una buona copia romana d’un originale greco forse collocabile nella cerchia dell’arte scopadea. Di recente si è pensato al volto idealizzato di Alessandro Magno e ricalcherebbe lo schema dell’Alessandro appoggiato ad una lancia di  Lisippo, perché questo tipo di statua riscuoteva un notevole successo in età romana (I.I. Pollit, Art in the Hellenistic Age, Cambridge 1986, pp. 26-31; K.Mannino, op. cit., pp. 45-46).

11)   Zancher, in D’Andria, Lecce Romana e il suo teatro, pp.35-37.

 

Stop al mega eolico nel Parco dei Paduli in feudo di Supersano

Forum Ambiente e Salute del Grande Salento (province di Lecce, Brindisi, Taranto)

Comitato Nazionale contro fotovoltaico ed eolico nelle aree verdi (più in generale “aree naturali”)

Un Bel Regalo di Natale dalla Regione Puglia per il “Parco naturale dei Paduli”:

SI alla Rinascita della Foresta Belvedere,

NO alle immorali devastazioni della Green Economy Industriale!

Dalla Regione Puglia e dalla Provincia di Lecce giunge lo stop al mega eolico nel Parco dei Paduli in feudo di Supersano e negli altri feudi;

e da Regione Puglia, Provincia di Lecce ed Università del Salento, e dai comuni coinvolti, giunge l’impegno per ripiantarla, facendola rinascere per il bene di tutti, l’antica estesissima Foresta del Belvedere che ammantava il cuore del

Olii di oliva difettati venduti come extravergini. La mafia dell’olio

Devono pagare i danni ai 220mila proprietari di oliveti del Salento leccese

di Antonio Bruno

Il giornale sudafricano Times.online del Sunday Times ha pubblicato ieri una notizia dal titolo “Italian olive oil mostly non Italian”, che fa riferimento a un’inchiesta del quotidiano italiano Repubblica sul mercato dell’olio d’oliva e sugli inganni che si celano dietro etichette di difficile lettura.

L’ha scritto a chiare lettere Paolo Berizzi su “La Repubblica” del 23 dicembre 2011 che c’è una frode commerciale in atto che danneggia i proprietari degli 85mila ettari con 9 milioni di giganti del mediterraneo del Salento leccese che piangono da anni lacrime amare lasciando le olive sull’albero.

Per una storia del teatro a Lecce

di Alfredo Sanasi

Lecce città colta, Lecce città d’arte, si sente ripetere da più parti, ricca di monumenti d’arte e di stimoli artistici, definita per questo anche la Firenze delle Puglie, la Firenze del Barocco, l’Atene d’Italia. In questo ambito ci piace sottolineare che Lecce ha amato il teatro, quale veicolo di manifestazioni artistiche le più svariate, da tempo immemorabile, almeno dal tempo di Roma antica. Ne è testimonianza non tanto l’Anfiteatro di piazza S. Oronzo, perché, si sa, gli spettacoli che ivi si svolgevano anticamente avevano un carattere e un richiamo popolare, ma soprattutto il Teatro Romano situato alle spalle dell’odierna chiesa di S. Chiara. Un teatro antico coinvolgeva e s’indirizzava ad un pubblico colto, e si badi bene, è il solo teatro romano che venne costruito nelle Puglie al tempo dell’antica Roma, segno che proprio qui, a Lecce, l’antica Lupiae, si sentì l’esigenza di intrattenere i Messapi romanizzati e di venire incontro sin d’allora alle loro esigenze di cultura. E non importa se esso debba essere classificato come un vero teatro romano scoperto o come un odeon, cioè un teatro coperto di modeste dimensioni per le rappresentazioni musicali, come si pensò in passato da parte di vari studiosi. In particolare lo sostenne il Della Seta, che per questo si basa sull’avanzo di un odeon a Reggio Calabria e di un altro edificio analogo ad Acre in Sicilia (1).

Nell’uno e nell’altro caso, sia che fossero spettacoli musicali sia che fossero opere drammatiche, si trattava senz’altro di un edificio destinato a spettacoli di notevole interesse e finalità culturali e quindi è sempre una chiara testimonianza degli interessi dei Leccesi per le manifestazioni di un certo spessore artistico-culturale.

Oggi però, in seguito agli ultimi scavi e indagini scientifiche condotte dall’Università di Lecce e grazie all’ultima sistemazione dovuta alla Fondazione Memmo, che vi ha affiancato il Museo del Teatro Romano, si è

Un gigante dell’enogastronomia viene in Puglia

di Pino de Luca

Che Oscar Farinetti venga in Puglia per investire non può che esser salutato come evento di indiscutibile positività. Eataly è, senza alcun dubbio, un marchio che riscuote successo a livello nazionale ed internazionale e confrontarsi con questo gigante dell’enogastronomia è, senza dubbio alcuno, elemento di sprone e occasione di sviluppo.
Altrettanto evidente, e lo deve esser anche questo senza dubbio alcuno, è che Farinetti viene in Puglia perché, essendo un imprenditore intelligente, in Puglia ha da guadagnarci.
Occorrerebbe quindi ragionare non tanto su “cosa ci guadagna Farinetti” quanto su cosa ci guadagna la Puglia e, soprattutto, i produttori e le maestranze della Puglia.
Innumerevoli sono le produzioni pugliesi di qualità alta e altissima, farei torto a molte se ne citassi alcune. E i Pugliesi lo sanno. Certo che ci sono ancora molte persone che comprano prodotti di bassissima qualità e, ovviamente, di bassissimo prezzo. Ma si tratta o di tirchi inveterati o di persone che si comportano così perché null’altro possono fare …. Vorrei vedere chiunque prenda 800 Euro al mese stare a discutere sul Gruyere o sul culatello.
Eataly, è evidente, si rivolge alla fascia di mercato che ha competenza alimentare e disponibilità di spesa. Una fascia che, in Puglia, non ha grande spessore e, però, ha non pochi concorrenti specialmente nell’ultimo periodo.

Libri/ Cesare Vergine: pagine del mio diario

 

CESARE VERGINE: PAGINE DEL MIO DIARIO

Africa Orientale 1935-1936

 

di Lucio Causo

Il Centro Studi “Dottor Cesare Vergine”, costituito a Tuglie da alcuni anni, grazie al Presidente Dott. Ennio Vergine e ai soci fondatori, ha pubblicato il libro CESARE VERGINE: PAGINE DEL MIO DIARIO – AFRICA ORIENTALE 1935-1936, per i tipi della Casa Editrice Del Campo di Roma.

Il libro, curato dagli studiosi di Storia Patria Lucio Causo, Giuseppe Orlando D’Urso ed Ermanno Inguscio, propone alcune fra le più belle ed importanti pagine del Diario scritte dal Dottor Cesare Vergine, illustre medico chirurgo, politico e sindaco di Tuglie dal 1951 al 1969, durante la sua avventura bellica vissuta in Africa nello svolgimento del conflitto Italo–Etiopico del 1935-1936.

Il dottore Vergine si arruolò come ufficiale medico nella 252a Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), denominata “Acciaiata” da Achille Starace, Segretario del Partito Fascista, che la tenne a battesimo. Questo reparto era costituito in gran parte da giovani volontari dell’Italia Meridionale, tra cui i Leoni del Battaglione Salentino e i Lupi di Lucania. Cesare Vergine partì in Africa Orientale da Napoli, a bordo del piroscafo Saturnia, il 12 settembre 1935, col grado di Capo Manipolo medico della

La mia stella

di Armando Polito

È una stella scarna, come qualsiasi cosa che ispiri o persona che nutra la speranza; una stella che affida, una volta tanto, ad una lingua “morta” e non all’inglese il compito di diffondere un auspicio universale. È inutile che il lettore perda tempo con i motori di ricerca per individuare l’autore dell’esametro e delle relative traduzioni: sono io, e si sente…

Non vorrei che quella in dialetto neretino, in cui prevale l’agricolo significato di base del primo verbo, fosse interpretata come la solita paternalistica allusione che il sacrificio su questa terra vale, per chi ci crede, un posto privilegiato nell’aldilà e, in ultima analisi, come un’esaltazione della rassegnazione. Vuole essere, al contrario, la prefigurazione di un mondo i cui protagonisti  trovano  il loro riscatto  nel bando dello spreco e del superfluo e nel rispetto reciproco. Insomma, il trionfo di quella rivoluzione che, anche se non da sola, più di duemila anni fa mise in ginocchio un impero e che in duemila anni ha avuto, quando le cose sono andate bene,  solo sbiadite controfigure del più grande e tradito rivoluzionario di tutti i tempi: Cristo.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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