Nardò. La chiesa dell’Immacolata e la dimora dei francescani conventuali

 

 

di Marcello Gaballo

Nel 1271 i francescani di Nardò avevano avuto in dono dal re Carlo I d’ Angiò, tramite il suo parente Filippo de Toucy, reggente della città, l’ antico e rovinato castello (castrum temporum & bellorum iniuria destructum), ubicato nel punto più alto della città, per farne un loro convento[1].

Il complesso è nelle vicinanze della cattedrale neritina, identificabile con l’attuale palazzo Castaldo, già Del Prete-Giannelli, a ridosso della chiesa dell’ Immacolata e dell’ Ufficio Postale.

Da quell’anno e per i tre secoli successivi le notizie sull’ordine minoritico in città e sulla loro chiesa sono assai frammentarie. Recenti rinvenimenti di rogiti notarili cinquecenteschi hanno chiarito aspetti sino a qualche decennio fa del tutto oscuri.

La nostra chiesa da svariati Autori è stata sempre attribuita al celebre Giovanni Maria Tarantino, lo stesso delle chiese neritine dell’ Incoronata, S. Domenico e S. Maria della Rosa.

Poco noti sono invece gli interventi di altri fabricatores experti neritini, altrettanto abili, che sul finire del 500 dettero a Nardò l’impronta che in parte ancora possiamo vedere e che ci sembrano meritevoli di accurato studio, in ciò confortati dalla scoperta dei documenti nell’ Archivio di Stato di Lecce, che ci consentono di collocarli, al pari del più noto Tarantino, fra i grandi della storia dell’architettura salentina del XVI-XVII secolo.

Angelo e suo figlio Vincenzo Spalletta, Tommaso Riccio, Donato, Marco Antonio ed Allegranzio Bruno, Francesco delle Verde, sono tra quelli che prestarono la loro opera per realizzare il complesso di cui scriviamo, oltre al menzionato Tarantino, che però in questo caso si limitò a ricostruire il solo chiostro (ancora esistente e adiacente la chiesa, non visitabile).

particolare dell’ingresso con la statua dell’Immacolata

È doveroso riconoscere al prof. Giovanni Cosi il merito di aver dato per primo alla luce alcuni dei capitolati di appalto per la costruzione del nostro complesso, realizzato in più riprese in circa 20 anni, a partire dal 1577.

Altri contributi sono stati pubblicati negli scorsi anni dagli architetti Mario Cazzato, Laura Floro, Giancarlo De Pascalis,  contribuendo così a delineare, con gli ultimi miei rinvenimenti, una microstoria che oggi possiamo ritenere pressocchè definita.

Occorreranno certamente altri studi ed approfondimenti, che si auspicano numerosi, per riscrivere pagine di storia della nostra città, fra le più operose di Terra d’ Otranto, almeno nei tempi passati e, lo speriamo, nel futuro.

Il primo atto notarile sul convento è del 1577, quando i frati danno incarico ai mastri Donato e Allegranzio Bruno, Tommaso Riccio e Angelo Spalletta, affinché realizzino parte della chiesa di S. Francesco (che fu dedicata all’ Immacolata solo nel XIX secolo!).

L’ anno successivo, 1578, dei predetti si ritrovano esecutori dei lavori soltanto Angelo Spalletta e Tommaso Riccio, i quali tutta predetta frabica fino al presente giorno l’ hanno fatta tutti dui essi mastro Jo. Thomasi et mastro Angelo. Ma, per motivi non dichiarati, dopo qualche mese, viene sciolta la società e si conviene con concordia et transazione, che esso m.tro Jo. Thomasi cede et renuntia come già hoggi avanti di noi cede et renuntia a detto m.tro Angelo presente la p.tta frabica di detta ecclesia di S. Francesco.

particolare della facciata

Probabilmente c’è un fermo dei lavori a causa della mancanza di fondi e solo il 15 giugno 1587, con atto del notaio Tollemeto, viene stipulata una convenzione tra i frati, rappresentati dal guardiano Donato Tabba e dal vicario Angelo Assanti, ed Angelo Spalletta. Quest’ultimo, con i mastri Allegranzio Bruno, Giovanni Maria Tarantino, Giovanni Tommaso Riccio e Giovan Francesco delle Verde, realizzerà quattro claustri (super fabrica facienda quator claustrorum). Più in dettaglio il rogito riporta:

I detti mastri siano obligati scarrare à loro dispese lo claustro fatto vecchio, cortina de la cisterna et quanto sarà di bisogno, per la quale scarratura, succedendo rovina al convento, sia à danno et interesse di detti mastri, et la terra de la scarratura et cavatuira di pedamenta detti mastri siano anche obligati portarla fora al giardino di detto convento a loro spese;

item detti mastri saranno anche obligati fare detti claustri con cinque arcate per claustro à colonne con vintiquattro lamie di spicolo;

item saranno anche obligati detti mastri fare di novo la porta di battere di detto convento di carparo bastonata, con una loggia à lamia di palmi sidici di larghezza e vinti longa.

Mentre i frati provvederanno alla calce – continua l’atto – ai mastri spetterà fornire le pietre, che nel caso delle terrazze, capitelli e cornici delle colonne saranno della tagliata di Santo Georgio. Le pietre della facciata  della chiesa del convento et li pezzi delle colonne siano di la tagliata di Pergolati (Pergoleto, Galatone), de la petra forte et negra.

La somma pattuita è di 400 ducati, di cui 20 dati come acconto[2].

Ma anche questa volta il contratto fu sciolto, per cause imprecisate, perchè l’anno dopo, a proseguire e completare i lavori si ritrova ancora Angelo Spalletta, consociato però con il congiunto Vincenzo, oltre a Sansone ed Ercole Pugliese, magistri fabricatores dicte civitatis Neritoni.

Nella convenzione si stabilisce che essi realizzeranno per la fabricam faciendam in aedificandis et construendis: crocera, cubula (cupola), sacrario (sacrestia) et campanile in ecclesia conventus[i][3]. Il capitolato, alquanto articolato e assai interessante, lo riporto in successivo contributo.

Due cartigli sulla facciata riportano a sinistra le cifre “S.T.” e a destra “S.B.”; si potrebbe ipotizzare che queste siano le firme dei mastri realizzatori (Spalletta-Tarantino; Spalletta Bruno?). Al centro ancora un cartiglio sembra riporti 1580 o forse 1589, più consono con le vicende della fabbrica, come è riportato nei documenti che si allegano.

particolare del coronamento superiore. A destra il cartiglio con le cifre “S B”

Nel 1598 ancora un contratto (che si allega nell’altro post) documenta lavori da ultimarsi: il campanile, la sacrestia, parte delle volte. Sulla conduzione del convento e sulle vicende architettoniche successive si conosce ben poco. Nel 1783 comunque dimoravano in esso undici Minori Conventuali: sei sacerdoti e cinque conversi.

Nel primo decennio del XIX secolo, a causa della soppressione di molti ordini, il nostro fu requisito dal governo e venduto a Marcello Giannelli, che ne fece la propria abitazione.

La chiesa rimase chiusa ed abbandonata, riducendosi in pessime condizioni statiche. A causa del crollo della tettoia, il vescovo Luigi Vetta, verso il 1850, fece realizzare la volta in muratura e la risistemò dedicandola alla Vergine Immacolata, gestita dalla confraternita omonima.

L’attuale chiesa, pesantemente riammodernata sotto il rettorato di Aldo Garzia, poi vescovo, risulta alta ed ampia, di forma rettangolare, con sette altari, il maggiore, tre a destra e tre a sinistra, collocati sotto arcate o cappellette.

Del primitivo altare maggiore, maestoso e in marmi policromi, poi barbaramente scomposto in più parti negli anni 70 del secolo scorso, sopravvivono due colonne con capitelli. Su una di esse, che sostiene il Vangelo, è scolpito lo stemma della famiglia Personè, probabile finanziatrice dell’opera. La balaustra, anch’essa rimossa e scomposta, è conservata nella sacrestia; niente sopravvive del pergamo e del coro ligneo dei frati, collocato un tempo dietro l’altare maggiore.

Entrati nel sacro edificio il primo altare di destra (della metà del Settecento)è dedicato a S. Giuseppe da Copertino, con una tela del titolare. Nella chiesa il santo ebbe un’estasi durante le Quarantore del SS.mo Sacramento, elevandosi sino all’altezza dell’ostensorio contenente l’Eucaristia e, nonostante le numerose candele accese, sostò tra le stesse in adorazione per qualche tempo[4]. L’ovale in alto riproduce la Visita della Madonna a S. Elisabetta.

Il secondo altare in origine era dedicato alla Presentazione di Maria al Tempio,  la cui tela fu sostituita da un quadro in cartapesta a rilievo, coperto da vetro, raffigurante Santa Rita da Cascia[5].

Era privilegiato e in alto ospitava il dipinto di San Giovanni da Capestrano.

secondo altare del lato destro

Il terzo altare era dedicato all’Assunzione di Maria, raffigurata nella tela; l’altro dipinto raffigura S. Biagio, commissionato dai baroni Sambiasi, che qui avevano diritto di sepoltura, come confermano l’epigrafe e lo stemma posti ai lati dell’altare.

Sul lato sinistro il primo altare, anche questo settecentesco, era dedicato alla Purificazione di Maria, come conferma la tela in alto. Un secondo dipinto si ritiene raffiguri il protettore cittadino, S. Gregorio Armeno; in verità sarei più del parere che si tratti di Simeone. Lo stemma del Vescovo Carafa conferma la datazione più tarda rispetto agli altri altari.

Il secondo era dedicato all’Annunciazione, con la relativa tela e l’altra sulla cimasa raffigurante la Maddalena.

secondo altare del lato sinistro

L’ultimo ospita una tela con la Natività di Maria Vergine e in alto una mediocre, più piccola, raffigurante S. Giovanni Battista, forse in sostituzione di una precedente.

Rilevanti nella chiesa la grande tela con l’immagine dell’Immacolata posta frontalmente, sul presbiterio: l’artistico organo seicentesco, collocato su apposito palchetto a ridosso della controfacciata; l’interessante e molto bella statua lignea della Vergine, precariamente collocata a destra del presbiterio.

 
 
 
cantoria con organo

Per approfondire:

Coco Primaldo, I Francescani nel Salento, Lecce 1916.

Perrone Fr. Benigno, I conventi della Serafica Riforma di S.Nicolò in Puglia (1590-1835), voll.3, Galatina 1981.

Perrone Fr. Benigno, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, voll. 2, Galatina 1980.

Tafuri Giovanbernardino, Dell’ origine, sito e antichità della città di Nardò, in “Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio.Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò”, in A. Calogerà, Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, t. XI, Venezia 1735.

Vetere Benedetto (a cura di), Città e monastero – i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Galatina 1986.

particolare dell’altare privilegiato

[1] Wadding Luca, Annales Minorum in quibus res omnes Trium Ordinum a S. Francisco iustitutorum ex fide ponderosius…, II e VIII, 1647: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

[2] Per questo ed altri lavori del convento v. pure G. COSI, Il notaio e la pandetta, Microstoria salentina attraverso gli atti notarili (secc. XVI-XVII), a c. di M. Cazzato, Galatina 1992, pp. 72,75.

[3] Rimando al mio articolo La chiesa dell’Immacolata e il convento dei Francescani, identificati gli autori del complesso cinquecentesco, in “Portadimare”, dic. 1998, p. 3; L. Floro, La cinquecentesca chiesa di S.M. Immacolata, in “La Voce del Sud”, 22/11/1997; G. COSI, Spigolature su Nardò. Come venne su la chiesa di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 14/11/1981; G. COSI, Spigolature su Nardò. Giovanni Maria Tarantino e il convento di S. Francesco, in “Voce del Sud”, Lecce 6/3/1982.

[4] E. Mazzarella, Nardò Sacra.

[5] Nel 1952 nella chiesa è stata istituita la Pia Unione di S. Rita da Cascia, che ancora attende alla cura ed al decoro del sacro luogo, alle funzioni liturgiche ed alla  diffusione del culto e delle virtù della Santa.


Carosino. Ricorrenza dell’Immacolata: tra fede, storia e tradizione

La statua dell’Immacolata dell’antica cappella di Carosino

di Floriano Cartanì

Da sempre l’inizio dell’Avvento viene vissuto a Carosino, in provincia di Taranto, come un preciso segnale che annunzia l’imminente nascita del Signore e, nel contempo, dà il via ai preparativi  per i festeggiamenti natalizi.

La festa dell’Immacolata Concezione per esempio, che rappresenta appunto una sorta di giornata d’apertura delle memorie di questo periodo, qui a Carosino vanta una consuetudine addirittura secolare, come ricorda l’ultra centenario monumento eretto in suo onore in Piazza Dante, nei pressi della Chiesa Madre.

Una devozione mariana che ha precisi riscontri storici, se è vero com’è vero che mons. Capecelatro già nella sua relazione del 1790, evidenziava la presenza di una cappella dedicata alla Vergine nel borgo carosinese.

Questa venerazione religiosa di tutto rispetto appare legata  agli antichi nobili locali del tempo, i cui discendenti provvidero ad ufficializzarla attraverso un vero e proprio atto formale datato 8 ottobre 1829. In quel documento, l’allora Principessa di Sant’Angelo e Faggiano, nonché Duchessa di Carosino, proprietaria della suddetta cappella, cedette il manufatto alla Municipalità di Carosino, proprio per il culto della Vergine Immacolata.

In segno di gratitudine per questo gesto, la cittadinanza decise allora di istituire un’apposita festa in ricordo di quella ricorrenza, da solennizzarsi al pari dei festeggiamenti più importanti, come quelli dei Santi protettori per intenderci.

Che i Carosinesi fossero molto attaccati a questo ricordo, lo si può facilmente intuire allorquando nel giugno del 1856 si decise di aggiungere altri tre incaricati alla deputazione già esistente, in modo che la festa fosse celebrata nel migliore dei modi possibile.

Fino a tutta la seconda metà dell’800 i festeggiamenti furono eseguiti nell’ultima domenica di luglio. Solo verso la fine del secolo scorso si decise di spostare la solennità al 7 e 8 dicembre, mantenendo tuttavia una peculiarità nello svolgimento della processione.

Tutto aveva inizio il pomeriggio del 7 dicembre quando la maggior parte della popolazione carosinese,  col parroco  in testa, si recava in processione alle porte del cimitero, a prelevare il simulacro della Madonna Immacolata dall’antica cappella. Dopo alcune preghiere di rito, la statua era trasferita nella  Chiesa Madre, ove rimaneva esposta alla venerazione dei fedeli  fino al pomeriggio dell’8 dicembre. Da qui, dopo una breve sosta presso la chiesa di San Francesco, veniva riportata nell’antica cappella, il luogo dove aveva avuto origine la tradizione.

Dell’antica usanza processionale, gloriosamente trascinatasi fino all’inizio del secolo scorso, oggigiorno esiste purtroppo solamente la fiaccolata cerimoniale che si tiene la sera dell’8 dicembre dopo la messa vespertina. A questa pratica, tuttavia, viene tutt’ora affiancata l’antica consuetudine, conservatasi grazie ad un gruppo di volenterosi, che vede nella notte fra il 7 e 8 dicembre una banda musicale percorre le vie del paese suonando classici motivi natalizi.

Erano ed in alcuni casi sono ancora oggi questi, i segni che ci ripropongono, anno dopo anno, la caratteristica atmosfera di questa festa e l’immutata devozione mariana dei Carosinesi. Ci piace immaginare che ancora oggi, come allora, si dormiveglia un pò tutti in questa fatidica notte dell’Immacolata, nel tentativo di percepire dapprima in lontananza e poi sempre più vicini qui magici suoni musicali i quali, come nel più classico dei copioni di questo periodo, riscaldano oltremodo il cuore di ognuno di noi.

Raccontare storie

Emigranti di Collemeto a lavoro all’estero negli anni ’50 del secolo scorso. Da sinistra: Uccio Congedo, Misciali, De Matteis e De Riccardis.

di Alfredo Romano

Raccontare storie. Anche “Piccoli seminaristi crescono”, il mio ultimo libro, racconta una storia, la storia di un ragazzo e di altri suoi coetanei che si chiudono, per così dire, per cinque anni in un seminario al sol fine di formarsi per diventare un giorno dei sacerdoti votati alla salvezza del mondo.

Ma perché c’è questo bisogno di raccontare storie? Tutti raccontano storie, le storie finiscono nei discorsi, finiscono nei libri. Fin da piccoli tutti abbiamo avuto bisogno di storie parlate, di storie scritte. Come si può spiegare questo bisogno di raccontare e ascoltare storie? Le leggi fisiche non lo possono spiegare, perché le leggi fisiche spiegano il mondo per quello che è, ma non possono spiegare le esperienze o gli eventi che avvengono nelle vite individuali di ognuno di noi. Solo la letteratura e le arti in realtà lo possono spiegare.

Ma raccontare storie fa parte di un istinto primordiale, giacché l’uomo, a differenza degli altri animali, vede la propria vita in termini narrativi: c’è un passato, c’è un presente e c’è un futuro da raccontare. Grazie a ciò noi siamo in grado di immaginare scenari e situazioni della nostra vita che ci aiutano poi a prendere delle decisioni, a scegliere quale strada intraprendere al sol fine di garantire la nostra vita. L’immaginazione, in certo qual modo, ce la può salvare. Prendiamo l’uomo primitivo, per esempio, che riusciva a immaginarsi i pensieri che frullavano nella testa del suo nemico, di sicuro ciò costituiva per lui uno strumento di sopravvivenza perché in tal modo poteva  elaborare un piano di difesa. Immaginare storie perciò, raccontarle, sì, può salvare la vita anche nel senso che le storie nobilitano il nostro vivere quotidiano a volte così banale.

Quando Marcello Gaballo, direttore del blog Spigolature Salentine, mi propose qualche anno fa di scrivere sulla vita e sulla formazione dei seminaristi di Nardò nei primi anni ’60 del secolo scorso, immaginai che Marcello volesse propormi di scrivere un saggio. Ma io non so scrivere saggi, o almeno non ci ho mai provato: io so raccontare solo storie. Sono cresciuto in un mondo in cui la vita era fatta di storie. E già, perché solo le storie potevano riscattare la precarietà della vita di quei tempi, i tempi in cui, recandomi a scuola ogni mattina, mia madre provvedeva a sistemarmi nella cartella di cartone una fetta di pane condito con vino e zucchero o con olio e pomodoro. Ed era un lusso, giacché alcuni compagni arrivavano a scuola anche digiuni. E quanti bambini ho visto morire d’inedia, di tifo, di meningite, di tisi e febbri varie.

Raccontare storie era come riscattare, dare un senso, farsi la ragione di una vita che doveva misurarsi ogni giorno con la fatica, con gli stenti, con la fame. E noi bambini assistevamo alla morte con quella normalità con cui si assisteva alle azioni quotidiane. E dovevamo essere presenti all’agonia dei nonni, presenti alle veglie, presenti alle grida e allo strazio dei familiari, perfino i morti dovevamo baciare. Non eravamo risparmiati per nulla dalle piccole e grandi tragedie che accadevano in paese, anche noi dovevamo farci carico del dolore collettivo, farci carico di quel mistero che si chiama morte, che ci attraeva per certi versi perché portava scompiglio nel paese e ci faceva restare a bocca aperta.

Eppure, accanto a tutto ciò, c’era un contraltare, giacché, come spesso avviene, non tutti i mali vengono per nuocere. Nel contesto di cui parlo, un contesto non privo di fatti e di episodi a volte tragici, a volte curiosi, ecco che nascevano gli affabulatori, coloro che con gesti e parole riuscivano a rappresentare la vita e i personaggi del paese e tramandare anche le storie popolari che si raccontavano da secoli: storie tragiche e storie per ridere. Accadeva di sera, riuniti d’inverno intorno a un braciere o a un caminetto; d’estate, fuori casa, in un crocicchio al fresco della sera. E si raccontava anche nelle fasi della lavorazione del tabacco, all’alba, col volto sonnacchioso mentre si raccoglieva e quando si stava seduti per ore a infilzare il tabacco con quel lungo ago, detto cuceddha, sempre pronto a pungerti i polpastrelli.

I libri che ci leggeva in classe la maestra Ada nell’ultima ora di lezione.

Quand’ero ragazzino, non c’erano libri né in casa, né in paese. Ma le persone che raccontavano ogni giorno, a cominciare dai genitori e dai nonni, non ci facevano rimpiangere la mancanza di libri. Il primo libro è stato quello di lettura in prima elementare. e qui scoprii che anche un libro poteva raccontare storie. La nostra maestra, Ada Distante, ogni giorno, nell’ultima ora, ci leggeva un brano di Cuore, Pinocchio, Le mie prigioni (per dirne alcuni), anche alcune pagine di quella fantastica enciclopedia per ragazzi, così ricca di immagini a colori, che era Conoscere. La maestra, alla bisogna, si portava da casa un volume per trattare l’argomento del giorno. Per noi scolari L’Enciclopedia Conoscere rappresentava il nostro immaginario, il sogno proibito. Questo s’accresceva perché ci era vietato toccare quell’enciclopedia, la maestra non voleva che la sciupassimo. Io avrei voluto assaporarla nel tatto, nell’odore, entrare nelle immagini colorate, esplorarla, come mettermi in viaggio per mondi sconosciuti. Anni dopo, un giorno che andai a Lecce a trovare la mia maestra, la prima cosa che le chiesi fu quella di farmi “toccare” l’Enciclopedia Conoscere. Mi guardò con aria interrogativa: “Sono anni che sogno di sfogliare la tua enciclopedia” ammisi. Rimase spiazzata, la sfiorava come un senso di colpa. Si avvicinò all’anta di uno scaffale vetrato, l’aprì: l’enciclopedia era lì, intatta, come nuova, e vi affondai il naso, la bocca, gli occhi, la testa, il cuore, la mente.

Ecco, ho finito per raccontarvi una storia nelle storie e così… allungo la vita anche a tutti voi, perché è proprio bello svegliarsi alla vita di ogni giorno aprendo la finestra per assaporare la ventata d’aria fresca dell’alba dalle dita di rose, come la chiama Omero. Gli uccelli lo sanno da un pezzo, ché, con i loro cinguettii, saltando di ramo in ramo, concertano i suoni e i colori dell’alba prima che un raggio di sole “spazzi via le tante ombre della nostra vita”, ci ricorda frate Francesco d’Assisi.

No ttegnu nna màgghia… ma nc’è màgghia e màgghia (Non ho una maglia…ma c’è maglia e maglia)

di Armando Polito

La parte della locuzione dialettale prima dei puntini di sospensione era usata in passato per sottolineare uno stato se non di indigenza almeno di provvisoria mancanza di denaro nelle proprie tasche, corrispondente più o meno all’italiana non ho una lira. Ne parlo perché, aggiornamento in quest’ultima di lira con euro a parte, la attuale situazione economica ne ha acuito l’attualità estendendone la validità anche a ceti prima non toccati da questa situazione e, se continua così, finirà per coinvolgere tutte le persone, quelle oneste…; e ne parlo pure perché rappresenta un esempio, credo chiaro e convincente, di come la ricerca etimologica possa facilmente prendere degli abbagli.

Viene in mente subito, anche per la traduzione che del titolo ho fornito, l’italiano maglia nel suo primo significato (in realtà vedremo subito che è il secondo) riferito all’indumento. Non c’è nulla da eccepire sul piano semantico (basta pensare al senso traslato dell’italiano rimanere in mutande) né su quello fonetico, per il quale vale la pena spendere qualche parola in più. Maglia deriva dal provenzale malha (cfr. francese maille), a sua volta dal

Un vino del Salento lento, lento, lento ma che sa far ballare chiunque

di Pino de Luca

È tempo di lasciare le coste e scendere, scendere fin nella Decatrìa Chorìa, allontanarsi dalle onde e fermarsi al centro della Mediterrònia, equidistanti dal mare circonda il Salento.

A quattro leghe dallo Jonio e quattro dall’Adriatico, terra soleggiata e argillosa, spazzata dai venti che dei due mari portano i profumi, in mezzo proprio il paese della “Crita”: Cutrofiano.

Alla via Di Vittorio, al n. 1 c’è una pineta e una masseria intitolata all’Accipiter Gentilis, rapace matriarcale capace di un volo rapido e acrobatico per districarsi tra le zone della macchia e della boscaglia. L’Astore è il marchio della famiglia Benegiamo che produce vini coniugando l’antica tradizione e la nuova tecnologia finché questa si mantiene rispettosa e costruttiva per l’ambiente. Un appezzamento di terra più a nord di Cutrofiano, in agro di San Pietro in Lama, è ancora popolato da Alberelli di negroamaro che furon messi a dimora nel 1947. Nodosi e contorti dall’età e dalle mani dell’uomo, danno pochi grappoli ormai ma composti da acini sani, forti e dolci come il più dolce dei nettari divini. Provenienti da tempo lungo per lungo tempo (almeno 30 mesi) si lascia maturare il meraviglioso succo di queste bacche rosse. Ne vien fuori un prodotto scuro, rosso profondo, dagli inconfondibili aromi di mora matura, prugna e spezie, uno dei pochi vini al quale il legno fa benissimo. Possente di spalla e persistente nel gusto, racconta nel bicchiere la terra, la fatica, il sole e il vento di un Salento lento, lento, lento ma che sa far ballare chiunque quando lancia la sua “aria stisa”. E qui dove l’Astore vola e gli Alberelli ritrovano senso e onore nelle 3500 bottiglie che Alberelli si chiamano (www.lastoremasseria.it) , qui “aria stisa” è la voce di un monumento della canzone salentina, Uccio Aloisi che ci manca da un anno e che fin da ragazzo ha cominciato a far di tutto cantando, fino alla fine. Con i suoi straordinari stornelli che pennellavano situazioni, caratteri e paesaggi in piccole strofe. Quadri che la sua voce magica rendeva comprensibili anche a chi non conosceva né l’italiano né tanto meno il salentino e che ritmava al suono di tamburelli e organetti capaci di far muovere i piedi anche agli ammalati di gotta.

Me lo ricordo ancora in una sua rivisitazione di stornelli che riguardano il vino, ad una “Sagra te lu Purpu” (sagra del polipo) alle marine di Melendugno del 2009 (http://youtu.be/c8cBoKJM69E): “ci quandu mueru vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nun ci trasu” diceva la versione originale e Uccio, dal palco, alla giovane età di 80 anni, irriverente come solo i grandi artisti sanno essere, la trasformò in “ci quandu mueru vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nà ce trasu” e accompagnò quel nà con il gesto dell’ombrello …

E me lo immagino Uccio, il 21 di ottobre del 2010 che, chiusi gli occhi su questa terra, si presenta a San Pietro. Il simpatico signore lo invita ad entrare offrendogli un caffè di nota marca. Uccio che lo guarda, fermo sulla soglia, e gli dice: “Caffè? Ce mieru teniti?”, pronto a tornarsene da dove stava venendo.

San Pietro rimane sbigottito, non sapendo che fare chiama la direzione. E arrivano Uccio Bandello e Uccio Melissano con una di quelle 3500 bottiglie di Alberelli di casa L’Astore. Uccio li guarda con i suoi occhi pieni di mare, e intona “fior di zagàre/n’auru picca se putìa campare/ma puru a quai ‘nc’ete nu cumpare/l’amici, lu mieru e se po’ cantare”. Il Paradiso ora è un’altra cosa.

pino_de_luca@alice.it

Libri/ La settima stella

 

La settima stella (miscuglio di semi di sesamo e riso), poesie di Maria Pia Romano

 

 di Paolo Rausa

Questa raccolta di poesie di Maria Pia Romano, beneventana di nascita ma salentina d’adozione e ora barese per ragioni di cuore, all’insegna della liquidità, dell’umore acqueo, più che al “Panta réi” (Tutto scorre) del filosofo greco Eraclito e alla “invida aetas” e al “carpe diem” oraziani (il tempo che tras/corre e la necessità di cogliere le occasioni che ci offre la vita), concetti rappresentati dal pittore Salvator Dalì negli orologi liquefatti, attinge la sua ispirazione dall’idea di amore liquido, un sentimento basato sulla fluidità, la fragilità e la transitorietà dei legami moderni.

Maria Pia ci affascina con un linguaggio figurato, dilatato fino alle estreme conseguenze per fissare sulla pagina amori vissuti, presi e lasciati, sentimenti

Antonio Buttazzo (1905-1957) tipografo leccese

ODORE DI INCHIOSTRO

(ANTONIO BUTTAZZO TIPOGRAFO LECCESE)

 

di Paolo Vincenti

Quando si parla dell’arte della stampa, il pensiero corre veloce a Johann Gutenberg, universalmente ritenuto il primo stampatore della storia (per quanto i cinesi avessero già prima di lui sperimentato delle tecniche lavorative in questo settore). E al mitico fondatore della stampa sono oggi intitolate mostre, fiere di settore, librerie e chi più ne ha più ne metta, nella variegata “galassia Gutenberg”, sebbene  una menzione speciale andrebbe anche  a coloro che aiutarono Gutenberg in quell’ intrapresa, vale a dire i misconosciuti Johann Fust, il banchiere che finanziò l’opera, e Peter Schoffer, l’amanuense che ci mise del suo, in termini di “olio di gomito”, grazie ai quali venne stampata a Magonza nel 1454 la famosa Bibbia.

Ma il nostro pensiero va anche a chi importò in Italia questa invenzione, cioè a quell’Aldo Manuzio, veneziano, che pubblicò i primi libri tascabili, gli enchiridia , classici latini senza note e senza commento, realizzati con un nuovo carattere corsivo disegnato da Francesco Griffo. Così la nostra mente viaggia veloce attraverso il Settecento, con i vari Baskerville,  Didot e soprattutto l’italiano Bodoni.

Ovviamente, l’arte tipografica ha subito varie modifiche  nel corso degli anni e dei secoli, evolvendosi  secondo le mutate esigenze del pubblico e le innovazioni, se non vere e proprie rivoluzioni, apportate dalla tecnica. Pensiamo alla prima pressa piano-cilindrica a vapore, realizzata nel 1814 da Koenig e utilizzata nella stamperia del “Times” di Londra e, pochi anni dopo,  sempre al “Times”, l’introduzione della macchina “a quattro cilindri” verticali realizzata da Applegath e Cowper, in grado di far aumentare sensibilmente la produzione dei giornali. Poi, sempre nell’Ottocento, l’invenzione della rotativa e della quadricromia, che si devono all’italiano Ippolito Marinoni; quindi, con quella che ormai era divenuta una produzione industriale,  l’ introduzione della composizione meccanica, con la “Linotype” e la “Monotype”,  e, per venire ai giorni nostri, l’introduzione della stampa off-set nel 1960. E non ci avventuriamo nella descrizione dei grandi cambiamenti avvenuti a livello tipografico in questi ultimi anni con l’introduzione del computer, perché il discorso sarebbe davvero vasto.

Fra gli eredi di tanto prestigiosa tradizione, nel nostro Salento,  Antonio Buttazzo, titolare di quella che oggi si chiama “Tipografia del Commercio”.  Il

L’attualissima eredità del dimenticato Giuseppe De Dominicis (alias Capitan Black): la forza di un modello glocal ante-litteram per salentini e non dei nostri giorni*

“Il parlare quotidiano è una poesia

dimenticata e come logorata”

M. Heidegger

di Pier Paolo Tarsi

Lecce nu bera nienti a nfacce Utrantu:
fegùrate ca tutte ste sciardine
utandu de cqua nturnu, fencattantu
nu ggìri allu castiedhu peccussine;

tutta quanta sta parte a ddunca moi
l’acqua se stagna e llu ranecchiu rita,
cinquecento anni a rretu quandu foi
era paise a ddu fervìa la vita.

E lla vita fervìa mmienzu stu mare,
a ddu moi nu trabbàculu nu rrìa,
nc’eranu bastimenti a ccentenare
de Francia, de Venezia e de Arbania.

Era de centu turri ncurunatu
Utrantu, figghiu miu, quista è lla storia,
E moi de tanta pompa n’ha restatu
Lu nume sulamente e lla memoria
[1]
Con una scena quasi intima che rievoca la funzione più originaria e arcaica del canto poetico, quella della trasmissione orale del proprio passato dal vecchio al giovane, si apre la più bella narrazione storica in versi che si conosca della presa turca di Otranto, il meraviglioso poema Li Martiri d’Otrantu di Giuseppe de Dominicis. Nato nel 1869 a Cavallino, nella provincia leccese, questi era conosciuto soprattutto come Capitan Black, pseudonimo curioso attinto da un romanzo inglese che ricorda immediatamente quanto vasta, nel suo essere proiettata alla più ampia produzione letteraria di tutta (ma proprio tutta!) Europa fosse la cultura di questo poeta, nato nella periferia più estrema del continente e morto a soli 36 anni. Verseggiava per lo più in vernacolo (benché non manchino sue opere in lingua) e nel suo dialetto, nelle immagini e nei modi di dire della propria gente, attingendo simbolicamente dal vivere contadino del Salento

Accade in Puglia. 90 giorni per espiantare un ulivo secolare. La parola all'agronomo

Per i Consiglieri della Regione Puglia per spiantare un Olivo Monumentale basta il silenzio assenso

 

di Antonio Bruno

«I popoli del Mediterraneo cominciarono ad uscire dalla barbarie quando impararono a coltivare l’olivo e la vite» (Tucidide, V secolo a.C.)

Mi dispiace in questo ultimo scorcio di 2011 dover rimpiangere il codice babilonese che regolava il commercio dell’olio d’oliva, un’attività a cui per millenni è stata attribuita straordinaria importanza. Addirittura mi trovo a vergognarmi se penso ai Greci che furono i primi a regolamentare la coltivazione dell’olivo, i cui alberi dominavano la rocciose regioni rurali della Grecia e divennero i pilastri della società ellenica; pensate amici miei che erano così sacri che chi ne abbatteva uno era condannato alla morte o all’esilio. La coltivazione era protetta ed incentivata: ad Atene si poteva incorrere in severe sanzioni, passibili anche di condanna a morte, se si violavano le leggi promulgate da Solone a difesa degli olivi.

C’è un fantasma che si aggira nella Regione Puglia
Invece nella Regione Puglia c’è un nemico da battere. Sapete chi è? Ma i

Tra fili, pili e fiche siccate…(Tra fili, peli e fichi secchi)

di Armando Polito

Oggi per esprimere una valutazione negativa si ricorre a ben altre metafore, tra le quali spicca quella che si riferisce all’organo genitale maschile. Al di là di ogni riflessione sul maschilismo linguistico (nonostante le conquiste del femminismo, continua, se è vero come è vero, direbbe Antonio Di Pietro,  che da tempo pure le donne scocciate dicono che palle!) e sul sesso considerato (non dico per colpa di chi o di quale istituzione…) a lungo come peccato (anche se praticato all’interno del matrimonio ma senza finalità procreative), resta per me il paradosso (frutto della colpa appena accennata) dell’assurgere a simbolo di nullità,  o quasi, dell’organo maschile che, in collaborazione con l’altro femminile, ha consentito a me di scrivere queste scemenze (appunto…mi sembra di sentire) e al lettore (e qui l’appunto precedente si riferisce solo a chi non si è limitato ad una rapida scorsa al titolo ma ha continuato imperterrito) di prenderne atto.

In passato i termini di confronto erano ben altri. Per esempio, nel mondo romano (come tutti sanno, ma nessuno come Cetto Laqualunque…) era il pelo1 a dettar legge, non solo in riferimento alle persone comuni, ma anche nei confronti del mondo militare e della stessa divinità2.

Gaio Valerio Catullo (I secolo a. C.), Carmina, XVII, v. 17 : Ludere hanc sinit ut lubet, nec pili facit2uni (Permette a costei di spassarsela a piacimento e non la stima un solo pelo); X, vv. 9-13: Respondi, id quod erat, nihil neque ipsis/nunc praetoribus esse nec cohorti,/ cur quisquam caput unctius referret,/praesertim quibus esset irrumator/praetor, nec faceret pili3 cohortem (Risposi, era la verità,  che ciò che era vero, che non c’era nessun guadagno per gli stessi pretori, nè per la coorte, non c’era motivo perché qualcuno riportasse la testa più leccata,
specialmente quelli che avessero un pretore sporcaccione e non stimasse un pelo la coorte).

Petronio Arbitro (I secolo d. C.), Satyricon, 44:  Nemo caelum putat, nemo Iovem pili facit3 sed omnes, opertis oculis, bona sua computant (Nessuno prende in considerazione il cielo, neppure uno stima un pelo Giove,  ma tutti, ad occhi chiusi, contano le proprie ricchezze).

Prima che la metafora anatomica di cui ho detto all’inizio s’imponesse, la valutazione negativa era compendiata in frasi come non valere un fico secco4, non valere una cicca e pelo aveva, oltre all’uso in senso letterale, quelli ricordati nella nota 1; analogo il destino di filo, metaforicamente usato in un filo di speranza, vita attaccata a un filo, un filo d’olio, un filo di bontà, un filo di bene, etc. etc.

Sotto questo punto di vista il dialetto si mostra più creativo, conferendo oltre al valore di nome comune [filu ti lana, filu ti cuttòne (filo di lana, filo di cotone)] anche quello a prima vista avverbiale di no ll’àggiu istu filu (non l’ho visto per niente).

Ho detto a prima vista avverbiale perché sarebbe strano se un sostantivo fosse contemporaneamente avverbio (è normale, invece, per un aggettivo: per esempio lontano); infatti, come successo per il genitivo di stima, anche qui ci sono elementi sottintesi che hanno dato vita ad una struttura ancora più sintetica, in cui l’elemento temporale si confonde con quello della quantità: no ll’àggiu istu (mancu pi nnu tièmpu cusì piccìccu quantu è nnu) filu [non l’ho visto (neppure per un tempo così esiguo quanto è) un filo)]; in altri contesti è l’idea della quantità quella dominante: no lli ole filu bbene (non gli vuole per niente bene), da no lli ole (mancu pi qquantu ete nnù filu) bene [non gli vuole, (neppure per quanto è) un filo, bene].

E ora siete liberi di dire ‘stu post no nd’è piaciùtu filu…   

___

1 Sopravvive metaforicamente come sinonimo di quasi niente nelle espressioni: per un pelo (o, non a caso, per un capello) non c’è stato l’impatto e cercare il pelo nell’uovo; registra quasi un ritorno al significato di base in non avere peli sulla lingua. Nel dialetto il significato metaforico è in lu pilu intr’a llu ‘nsartu (il pelo nella sartia) riferito all’acutezza visiva se il verbo reggente è itire (vedere), corrispondente all’italiano il pelo nell’uovo se è circàre (cercare).

2 Oltre al pelo erano abbastanza quotati il fiocco (flocci fàcere=stimare un fiocco), il guscio di noce (nauci fàcere=stimare un guscio di noce), l’asse [(una moneta) assis fàcere=stimare un asse].

3 Pili è definito dalle grammatiche genitivo di stima, ma nessuna di esse cerca di spiegarne l’origine. Consideriamo l’intera espressione pili fàcere (o fàcere pili): se dovessimo tradurla alla lettera sarebbe fare di un pelo, che non ha senso. Anzitutto va detto che il verbo fàcere oltre che fare significa pure stimare, valutare, significato che è rimasto in espressioni del tipo ti facevo più sincero, in cui dall’idea iniziale di fare si è passati a quella di immaginare e, alla fine, valutare. Sostituendo nella traduzione letterale (fare di un pelo) fare con valutare avremo valutare di un pelo, che continua a non aver senso. Tenendo presente che fàcere è un verbo transitivo e che nel caso del complemento oggetto (l’accusativo) va la cosa o la persona valutata (nel primo esempio un eam sottinteso, nel secondo cohortem, nel terzo Iovem), nelle nostre frasi (e in tutte quelle in cui ricorre il cosiddetto genitivo di stima) quel genitivo in realtà dipende da un ablativo strumentale sottinteso (existimatione). Integrando così una qualsiasi delle nostre frasi, per esempio l’ultima, si ha nemo Iovem pili existimatione facit che, tradotto alla lettera, suona: nessuno valuta Giove con la stima di un pelo; e il senso, questa volta, c’è tutto. Un originario, semplice genitivo oggettivo, per quella che io chiamo una comoda menzogna grammaticale, è diventato alla fine un genitivo di stima.

4 No bbalìre mancu nna fica siccàta (non valere neppure quanto un fico secco) probabilmente è di origine relativamente recente, poiché i fichi secchi fino a sessanta anni fa nell’economia contadina avevano un grande valore. Il termine di paragone, comunque, è già obsoleto col costo che i fichi secchi hanno raggiunto. Corsi e ricorsi storici, direbbe Giambattista Vico…     

La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto

 

Un inedito di Lanfranco

 

di Nicola Fasano

La sacrestia della chiesa San Pasquale di Bylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.

Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.

Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale in cielo sorretta da un gruppo di cherubini, uno di essi sembra mostrare compiaciuto allo spettatore il vaso contenente l’unguento che servì alla Penitente per profumare i piedi del Cristo.

L’iconografia è ricorrente nell’età barocca dove il soggetto viene rappresentato ignudo e coperto da fluenti capelli, adagiato su un banco di nubi come una Venere.

Dal punto di vista compositivo, il pittore si avvale di un luminosità rivelatrice, svelando nella parte bassa accesi contrasti chiaroscurali che esaltano il vigoroso incarnato dei putti e nella parte alta una luce abbagliante di provenienza ultraterrena, che staglia la Maddalena su un fondo dorato e dà risalto all’estasi della figura e alla forte carica spirituale, preludendo al clima esaltante del barocco.

Il dipinto si può mettere in relazione con una tela similare di analogo soggetto, esposta nella mostra sul pittore parmense tenuta a Napoli nel 2002, tela che si trovava a Genova in collezione privata, ed ora sul mercato antiquariale (AA.VV. Giovanni Lanfranco, Barocco in luce, Napoli 2001 p. 43) .

La tela in San Pasquale potrebbe provenire dalla ricca quadreria di casa Carducci che annoverava probabilmente l’apostolado dei Fracanzano, conservato ora nella stessa sacrestia. Solo degli approfonditi riscontri archivistici darebbero, però, la definitiva certezza sulla provenienza del quadro.

L’influenza di Giovanni Lanfranco a Taranto si riscontra anche in altre opere, come nel celebre affresco di Paolo De Matteis nel cappellone di San Cataldo, che nella disposizione dei personaggi e nel bagliore dorato richiama il Paradiso che Lanfranco aveva affrescato a Napoli nella Cappella del Tesoro.

Taranto si fregia così di un artista di primissimo piano della poetica barocca, nella speranza di un risveglio culturale e di una consapevolezza dei nostri tesori, spesso celati e poco fruibili.

Patriarchi verdi del Salento di Lucio Meleleo

di Lucio Meleleo

…In nient’altro si può trovare il simbolo della nostra provincia se non nei giganteschi e pittoreschi ulivi plurisecolari, che, come maestose colonne tortili, sormontate da larghi capitelli d’argento, tormentate, spaccate o scoppiate, di un vetusto tempio pagano dedicato a Pallade, si perdono, a vista d’occhio, per chilometri e chilometri, da Lecce fino al mare, fino a Finibus Terrae. Qui, nella nostra terra, l’ulivo ha il suo regno, qui l’ulivo sin dall’epoca messapica è stato spettatore di tante antiche vicende, di tante illustri civiltà, di tutto il nostro glorioso e doloroso passato… (Emilio Panarese)

Radici forti e chiome maestosamente splendenti sono simbolo del cuore salentino (Antonio Mauro tra i commenti della petizione online “Nessuno tocchi gli ulivi di Puglia”).

Vini/ Jo, Figlio di Terre Libere

di Pino de Luca

Il nostro viaggio in compagnia di Bacco, Euterpe e Polinnia, ci porta da Copertino a Taranto.

È ancora estate, la costa dello Jonio, quando è scevra dall’opera dell’uomo, è splendida, spiagge bianche e acqua cristallina. Una volta a Cuba ci venne da dire: che bel mare, sembra di stare ai 4 Gatti …. Da Copertino si scende verso Porto Cesareo e si percorre la Litoranea: Torre Lapillo, Punta Prosciutto, Torre Colimena, Specchiarica, San Pietro in Bevagna, pausa, un vigneto a due passi dal mare, alberelli schierati come militari in formazione, alberelli che portano i segni del tempo, non sono reclute, sono veterani che hanno molto combattuto. Son li, testimoni di mezzo secolo di storia, senza piegar la testa, a difesa di un fazzoletto di terra rossa e feconda.

Poi ancora la costa fino a Lama, alla casa di un giovane che solo sette anni or sono ha deciso di diventare agricoltore, anzi vignaiolo. E di questa terra si è innamorato e di questi ceppi vetusti. E la vigna gli ha risposto non certo con la baldanza e la copiosità della gioventù ma con la forza serena della qualità e dell’esperienza.

Gianfranco Fino e sua moglie, Simona, (http://www.gianfrancofino.it )hanno legato alla terra il loro futuro, consapevolmente e per scelta. Non

Torri costiere del Salento meridionale

 

 

Torre Pali (Salve) (ph Nicola Febbraro)

TORRI COSTIERE DEL SALENTO MERIDIONALE. INQUADRAMENTO STORICO

 

di Marco Cavalera e Nicola Febbraro

Il sistema difensivo della Puglia, a partire dalla presa di Otranto del 1480/81, si caratterizzava per una generale insicurezza e precarietà, in quanto le strutture fortificate risalivano, per lo più, alla metà del XV secolo, ossia all’assetto difensivo definito e voluto dagli aragonesi.

Nel 1484, con la ferita che aveva lacerato il Salento pochi anni prima ancora aperta, i Veneziani occuparono la penisola, dopo essere sbarcati presso Mancaversa (Taviano).

Taurisano, tra il 1522 e il 1532, venne ripetutamente saccheggiata, come attestato dal sensibile calo di popolazione registrato nei documenti storici (Cortese 2010).

Nel 1537 i Turchi, guidati dal pirata algerino Khair-ed-Din (detto il Barbarossa),  distrussero Castro, Marittima e, sul versante ionico, Ugento.

Le coste del Salento, anche negli anni successivi, subirono continue incursioni piratesche. Al 1543, in effetti, risale lo sbarco nei pressi della Marina di Morciano di Leuca, con i Turchi che si spinsero nell’entroterra alla volta di Presicce. Nel 1544, invece,  giunsero sulle coste gallipoline e, tre anni dopo, ben quattrocento pirati – condotti da Dragut – sbarcarono nei pressi dell’attuale Torre Pali da dove partirono alla volta di Salve (che non riuscirono ad espugnare) e dei paesi limitrofi. Le loro scorribande si fermarono a Gagliano del Capo dove molti cittadini radunati in chiesa furono uccisi, mentre altri vennero deportati come schiavi (Cazzato 1989).

Torre Uluzzo (Nardò) (ph Nicola Febbraro)

 

Il reggente Ferrante Loffredo, per contrastare l’incombente minaccia turca,

Ulivi traditi

ph Donato Santoro

di Elio Ria

In quella notte, tra gli ulivi del Getsemani, si concretizzò il più grande tradimento della Storia: Giuda, figlio di Simone, detto Iscariota, uomo della falsità, tradì Gesù Cristo. Gli ulivi attoniti nulla poterono per fermare l’uomo vigliacco.  

Ora invece il tradimento è avvenuto in un’aula del parlamento regionale della Puglia e  il tradito è l’ulivo. Una legge consente l’espianto degli ulivi dai luoghi di origine per spostarli altrove. Alberi migranti? Alberi in cammino verso quali luoghi? E perché?  Riusciranno a sopravvivere alle scelleratezze degli uomini?

Il Salento s’indigni per tale legge. Gli ulivi saranno privati della memoria del luogo, la macchia mediterranea patirà la loro assenza, gli uomini non godranno della bontà di questi alberi forti e innocenti. Il paesaggio del Salento deturpato, violentato e ucciso. Qual è stata la molla di questo tradimento? Perché modificare ciò che è già?

Gli ulivi alberi buoni della nostra Terra non meritano di morire. Hanno saputo darci l’olio profumato che in passato ha alleviato la sofferenza della miseria. Hanno saputo condurre gli uomini verso approdi sicuri e prosperosi. Adesso li ripaghiamo condannandoli alla mutilazione, cancellando ciò che di buono c’è sulla nostra Terra. Vigliacchi noi che non sappiamo preservarli dal male.

È un brutto momento per la gente del Salento. Qualcuno ha deciso iniquamente per essa, senza tenere conto delle istanze già abbondantemente

Andata e Ritorno: è la storia del Sud Italia

di Michele Stursi

Se c’è una cosa in libreria che mi dà il voltastomaco e mi fa stringere i pugni e digrignare i denti e che inevitabilmente a priori mi porta a non acquistare un libro è vedere quelle maledette fascette colorate avvinghiate alle copertine, come sanguisughe che ne azzoppano il fascino decimandone la capacità seduttiva. Scelte editoriali alquanto discutibili perché, diciamocelo francamente, bisogna essere alquanto sempliciotti per scegliere un libro solo per il fatto che milioni di persone l’abbiano già letto, o perlomeno acquistato, prima di noi oppure che l’autore abbia già scritto quel tale romanzo.

Detto ciò, il libro che intendo presentarvi mi è stato regalato e come tale non poteva non avere un’orrenda fascetta gialla, che tra l’altro stona tantissimo con la copertina, che già di per sé non è il massimo. Io non l’avrei acquistato per i motivi di cui sopra, ma per fortuna esistono gli amici che a Natale non si dimenticano di noi. Potete quindi immaginare la faccia che ho fatto quando l’ho tirato fuori dalla carta regalo e orgoglioso me lo sono portato sotto il naso: era come se si ostinassero a gettare secchiate di rabbia e tristezza sul mio volto al solo scopo di distorcerne i lineamenti in una smorfia di disgusto. Fatica inutile però: vi sareste aspettati come minimo un urlo, un lancio fuori dalla finestra o in pasto a qualche cane o gatto, e invece ho riso di gusto leggendo le tre righe stampate su quella odiosa fascetta gialla: “I milanesi sono tosti come i rovi negli anfratti ed hanno ben donde d’esserne fieri, ma un salentino a Milano è un girasole in cantina”.

Solo per questa ragione non l’ho strappata quella orribile fascetta, ma non la potevo nemmeno lasciare lì dov’era per una questione di coerenza: quindi l’ho usata come segnalibro e mi ha accompagnato di pagina in pagina nella piacevole lettura di “Lecce – Ravenna. Andata e ritorno” di Maurizio Monte (Edizioni Clandestine, pp. 152, 2006). L’ho letto d’un fiato e mi ha fatto ridere, sognare, riflettere e anche piangere. E mi è venuto da pensare che

Piazzetta Giosué Carducci a Lecce: luogo di cultura e vandalismo

Lecce, piazzetta Giosuè Carducci (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

 

Da le vie, da le piazze glorïose, / Ove, come del maggio ilare a i dí / Boschi di querce e cespiti di rose, / La libera de’ padri arte fiorí;

Questi versi di Carducci calzano a pennello con le vicende recenti e passate della piazza di Lecce dedicatagli nel 1904[1]:

 

le piazze glorïose: è pregno di storia questo larghetto su cui, sin dal XIII secolo, si affacciava il Convento di San Francesco d’Assisi, spiazzo la cui toponomastica ne sintetizza la storia: largo dei Gesuiti (1832), piazzetta degli Studi (1871), piazzetta Giosuè Carducci (1904);

Boschi di querce: richiama una delle figure nello stemma civico di Lecce;

cespiti di rose: Ilias Miahm è il venditore di rose aggredito nei pressi della piazzetta;

La libera de’ padri arte fiorí: è questo un luogo d’istruzione, che, dal 1816 al1960, ha formato generazioni di giovani leccesi.

L’ignobile aggressione a Ilias Miahm, avvenuta il quattro novembre nei pressi della piazzetta, ha scatenato una ridda di reazioni contrastanti, ben evidenziate dalla stampa nell’ultimo mese: se da una parte si è potuto assistere al flash mob antirazziale in piazza Sant’Oronzo[2] e ascoltare le critiche costruttive di Gerard Depardieu[3] e di tutti coloro che sono avvezzi a proporre e non a disporre, dall’altra si è assistito alla richiesta di far chiudere lo spiazzo, azione che causerebbe la conseguente migrazione in altro spazio dei maleducati che insozzano la piazza e le sue vicinanze, con la conseguente preclusione ad accedervi delle persone che la rispettano e la amano, anche nelle ore serali. Nel frattempo si sono intensificati i controlli delle forze dell’ordine. Ben venga! Da molto tempo gli esasperati residenti della zona, segnalano i disagi causati dal non saper convivere[4], sino ad ora, però, sono state pochissime o nulle le azioni mirate a far rispettare questo slargo[5].

Chi maltratta piazza Giosuè Carducci è consapevole di offendere, non solo i residenti della zona, ma anche un’istituzione fondamentale di Lecce e

Lo sterminio degli Italiani di Crimea. 70° anniversario

Cerimonia nel 70° della deportazione in ricordo degli Italiani, per lo più Pugliesi, di Crimea – Milano, Sala Affreschi della Provincia,  il 21 gennaio 2012

di Paolo Rausa

L’Associazione Regionale Pugliesi di Milano riprende ancora una volta l’iniziativa a favore degli Italiani, per lo più Pugliesi, di Crimea, a un anno circa da quella precedente  organizzata a Milano, da 3 al 5 dicembre 2010, “Lo sterminio degli Italiani di Crimea: una tragedia attuale” che prevedeva l’allestimento di una mostra fotografica sulla nascita, sviluppo e deportazione della nostra comunità, una cerimonia civile con apposizione di corona floreale al cippo eretto al Parco della Memoria per ricordare le vittime dei gulag e un convegno di studio e testimonianza allo Spazio Oberdan. Infatti con il patrocinio della Vice Presidenza e Assessorato alla Cultura promuove alla Sala Affreschi della Provincia,  il 21 gennaio 2012 alle ore 16,00 una cerimonia in memoria di questi nostri connazionali, dimenticati dalle Autorità sovietiche, ucraine e anche italiane, deportati il 29 gennaio 1942 nonché in solidarietà con i sopravvissuti e i discendenti, privati anche del riconoscimento dello status di deportati, al contrario di quanto ottenuto dalle altre popolazioni (la tedesca, la tatara, la greca, l’armena e la bulgara).

Italiani di Crimea a Kerch

E’ necessario richiamare brevemente qui ora le vicende che hanno coinvolto e stravolto le vite di questi italiani, per lo più pugliesi, emigrati fin dall’800 nella penisola di Crimea, situata a sud dell’Ucraina sull’istmo fra il Mar Nero e il Mar

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