di Pino de Luca
Della “Dieta Mediterranea” patrimonio dell’umanità dicemmo, dei Gusti Mediterranei ne abbiamo fatto scelta di vita per amore, diletto e razionale contributo alla promozione del territorio.
Adesso in tanti ne discettano, spesso con competenza e buon diritto, a volte con marchiane sviste e intenzioni para-salutiste. Il desco non è una farmacia, mangiare è attività necessaria alla vita, è possesso per distruzione, lo si può fare distrattamente o con cognizione di causa. Quando ha un senso e investe il polisenso allora è arte.
Se posso mi nutro d’aromi e sapori, di immagini e suoni, di sensazioni tattili alla mano e alla papilla cercando nella necessità il piacere. E qualche volta anche di provvedere, perché possa godere con me anche chi m’è commensale, vicino o lontano che sia.
M’ha scritto dal Salento una salentina che ha del … cinghiale. C’è un modo salentino per preparare il cinghiale? No. C’è un modo meridionale di farlo, che fu meridionale prima d’essere assunto da latitudini più elevate.
Il cinghiale è cibo da ricchi o da cacciatori di lunga pezza. Suino e selvatico, va trattato come tale. Va “buglionato”, recuperando oggi dai toschi qualcosa che, molto probabilmente, i toschi presero dallo scalco di Federico II.
Il cinghiale arrosto allo spiedo va bene per le scene di film con accampamenti di forzuti guerrieri ma provate a mangiarlo o, se siete capaci, a sentirne l’odore ….
Tre passaggi deve fare la carne del suino selvatico: la frolla, la concia e la cottura.
La carne deve frollare almeno due/tre settimane, ancora meglio la surgelazione.
La concia almeno una notte e la cottura almeno tre ore.
Consideriamo la carne tagliata in pezzi da un Kg circa e surgelata.
Per la concia: avvolgere la carne con della garza sottile (sostituisce la “zippa”) e porla, ancora ghiacciata, in un recipiente ampio, ricoprire con del buon negramaro e aggiungere un rametto di rosmarino, qualche foglia di salvia, una cipolla, una carota, una costa di sedano. Lasciare coperto a macerare per una notte. Si può aromatizzare a piacere, a me piace molto il timo e anche il ginepro.
Il giorno dopo estrarre la carne ormai morbida, levare la garza e asciugarla, tagliarla a pezzi piccoli e, senza alcun condimento, metterla a cuocere in un tegame a fuoco lento. Vedrete che “farà l’acqua” che, se si ha pazienza, si fa assorbire altrimenti si passa nello scolapasta e via.
Mentre il cinghiale fa l’acqua, nel nostro recipiente di coccio alto (buglione o pignata) si fa soffriggere un battuto di cipolla, due spicchi d’aglio, qualche fetta di pancetta e un bel peperoncino. A cipolla ammaccata, si leva l’aglio e si mettono i pezzi di cinghiale rivoltandoli per bene. Si bagna con un bicchiere di vino rosso e si fa sfumare completamente, a vino sfumato aggiungere della passata di pomodoro e regolare di sale.
Il sugo non deve essere molto denso e le scuole di pensiero qui si divaricano: coprire di brodo caldo e lasciar cuocere a fuoco lento e recipiente scoperto per un paio di ore oppure seguire la cottura a recipiente coperto aggiungendo un mestolo di brodo quando necessario.
Qualunque scelta si faccia, deve risultare un sugo non molto denso perché il cinghiale si serve ponendo due fette di pane abbrustolito ai lati di una coppa di terracotta e un mestolo dei pezzetti in umido con il sugo che impregna il pane.
È un piatto bellissimo e dagli odori antichi e meravigliosamente ampi. Al palato la carne è consistente ma di eccellente masticabilità …
Un vino rosso magari maturato per qualche anno è la compagnia giusta. Personalmente non ho alcun dubbio: Nero di Velluto dei Feudi di Guagnano. So che non è, come dire, un vino economico ma il cinghiale è cibo da ricchi o da cacciatori di lunga pezza. I primi hanno isoldi e i secondi ai soldi non pensano proprio … E poi il Nero di Velluto al Puer Apuliae sarebbe sicuramente piaciuto.
pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia del 17 settembre 2010
La Dolce Vita – pag. 29
Interessante questo articolo, nuovo nella presentazione della sconosciuta e quindi rara ricetta.
Mi ricorda le antiche battute di caccia che i signori salentini operavano nella macchia d’Arneo quando questa era popolata anche dai cinghiali.