Libri/ Maurizio Nocera infaticabile promoter della poesia nerudiana

NERUDA “IL GRANDE AMICO”
 
di Paolo Vincenti

Francisco Velasco Nunez fu fraterno amico del grande poeta cileno Pablo Neruda, nonché suo medico personale. Insieme alla moglie Maria Martner, comprò la casa della Sebastiana, sulla collina Florida di Valparaiso, in società con Neruda. Qui, il grande poeta risiedette per un certo periodo della sua vita e Velasco , professore di teoria e storia dell’arte presso l’Università del Cile, gli fu molto vicino in vita e continua ad essergli vicino anche dopo la morte, come conferma la sua vasta attività letteraria legata, prevalentemente, al ricordo dell’illustre amico perduto. Lo confermano alcuni suoi titoli: Dizionario. Neruda attraverso le sue metafore,    I volti di NerudaYo/El QuijoteDiario di Neruda. Gli sono state consegnate diverse medaglie, come quella ricevuta nel 1984, insieme con la moglie Maria Martner, per avere meritoriamente contribuito alla diffusione nel mondo dell’opera di Neruda. Diversi altri riconoscimenti, ricevuti non solo in Cile, confermano la sua indefessa attività a favore dell’opera nerudiana.

Ora esce in Italia questo libro, dal titolo Neruda Il grande amico, nella collana de “I poeti de L’uomo e il mare”, grazie alle cure di Maurizio Nocera, anch’egli infaticabile promoter della poesia nerudiana e in questo senso, omologo dell’autore del suddetto volume. Questo libro,  che della gallipolina collana fondata da Augusto Benemeglio e diretta dallo stesso Nocera, costituisce il quaderno n.7, rappresenta l’ennesimo atto d’amore nei confronti di Don Pablo, un autore che è diventato un mito, ormai, il cui nome si identifica totalmente con quello della sua terra e della eroica battaglia contro la dittatura che interessò il popolo cileno negli anni della

Salento terra di santità. San Lorenzo da Brindisi

San Lorenzo, frate minore cappuccino

di frà Angelo de Padova

Giulio Cesare Russo, nasce a Brindisi i 22 luglio 1559, sul luogo  in cui egli stesso volle che sorgesse una chiesa intitolata a S. Maria degli Angeli, da Guglielmo Russo ed Elisabetta Masella.

Frate Lorenzo Russo è a Piacenza malato grave; il duca Ranuccio I di Parma si fa già promettere dai Cappuccini la consegna della salma, da tenere come reliquia. Questo accade nel 1616. Nel 1619 il frate muore a Lisbona, in casa di don Pedro di Toledo, e questi vuole il suo corpo per mandarlo a un monastero della Galizia.

D’altra parte già nel 1601, alla battaglia di Albareale (in Ungheria) contro i Turchi, molti soldati imperiali lo credevano un essere soprannaturale, vedendolo passare disarmato e illeso tra frecce, pallottole e scimitarre, per soccorrere feriti e confortare morenti. Questo frate Lorenzo è principalmente uno studioso, ma le vicende del tempo fanno della sua vita un’avventura continua.

Orfano dei genitori a 14 anni, è accolto da uno zio a Venezia. Studia a Verona e a Padova. Si è fatto cappuccino, nel 1582 è ordinato prete, diventerà Generale dell’Ordine. Lui è uomo da libri, conoscitore eccezionale della Bibbia (che può citare a memoria anche in ebraico), e diviene famoso come predicatore, appunto per la vasta cultura, aiutata poi dalla bella voce e dalla figura imponente.

Lo mandano sulle prime linee più difficili: in Boemia dove in gran parte la popolazione si è staccata dalla Chiesa cattolica. Accolto ostilmente, si dedica a un’intensa predicazione, sostiene controversie, guida l’opera dei Cappuccini. L’evidente coerenza tra le sue parole e la sua vita lo fa rispettare anche da autorevoli avversari. Quando celebra la messa, poi, lo si vede davvero “rivivere” il sacrificio della Croce rinnovato sull’altare: si può

SCUSA, SARA!

di Rocco Boccadamo

Se, in quaranta e più giorni, nonostante i potenti e mirabolanti moderni mezzi a disposizione e l’encomiabile impegno delle Forze dell’ordine, degli inquirenti e dei volontari spesisi nelle ricerche, a livello di collettività, di famiglia sociale del 2010, si è primeggiato soprattutto, se non esclusivamente, sotto forma di chiacchiere, parole ripetute, congetture, sbirciate sulle pagine di un diario personale, annotazioni e commenti circa frequentazioni di pub e rientri alle prime ore del mattino e, addirittura, con la cornice finale di un programma TV, tua madre ospite, recante la comunicazione in tempo reale del tristissimo epilogo.

Se, passo dopo passo, come il solito distrattamente, non si è avuta la capacità di scorgere alcun segno, nemmeno una qualunque sequenza di minuscoli sassolini in funzione di sentiero o tracce d’indirizzo utili a raggiungerti. Purtroppo, l’intuito, una volta permanentemente e normalmente all’erta in ciascuno e, sovente, maestro risolutore di dubbi, incognite e difficoltà, ha oramai finito con l’atrofizzarsi ai minimi termini, perdendo completamente efficacia.

Se, tanto vano cincischiare si è posto all’antitesi, autentico pugno nello stomaco, rispetto al tuo forzoso e scomodo sonno, crudelmente indotto in una misera manciata d’attimi, per giunta per opera di una mano tanto ostile e spietata, quanto al contrario, avrebbe dovuto muoversi buona e carezzevole.

E’ accaduto, Sara, come se i tuoi quindici compleanni, anziché assommare aiole di fiori di campo, boccioli promettenti, ramoscelli protesi alla crescita semplicemente sotto la spinta di una linfa naturale, abbiano vissuto e attraversato una modifica, uno stravolgimento transgenico, con il drammatico e misero sbocco in una repentina recisione, nell’appassimento della chioma verdeggiante, nell’abbassamento muto e irreversibile di due palpebre.

Se l’ammissione di quel familiare è veritiera, reale e sincera, è successo,

Un po’ di fantalinguistica

di Armando Polito

La lingua, si sa, è un organismo in continua evoluzione e, per quanto gli sviluppi siano imprevedibili, anch’essa  obbedisce, comunque, a condizionamenti storici contingenti ma pure ad altri più antichi sottesi da regole, non solo fonetiche,  consolidate, in base alle quali è da presumere che si verificheranno i futuri sviluppi.

Coinvolgerò in questo mio strano viaggio una parola, tisàna, ed un fenomeno, la paretimologia.

Comincerò proprio da quest’ultima e quando ne avrò dato la definizione sarà facile capire come questo fenomeno sia antichissimo: la paretimologia è, in riferimento ad un termine,  la sua spiegazione etimologica arbitraria, non basata su tesi storiche o scientifiche, ma su assonanze ed associazioni di idee, spessissimo di origine popolare. Due soli esempi: emottisi è dal greco tardo haimóptusis, composto di àima=sangue e ptúsis=sputo; la variante emotisi è per paretimologia su tisi (dal greco fthisis=deperimento). Necromante è dal latino medievale necromànte(m), dal greco nekrómantis, composto di nekròs=morto e mantis=indovino;  la variante negromànte rivela l’influsso di negro per accostamento paretimologico alla locuzione magia nera.

Passiamo ora a tisàna: la voce è dal latino tìsana(m)=orzo mondato, decotto di orzo, variante di ptìsanam, dal greco ptisàne con gli stessi significati del latino, da ptìsso=mondare orzo o grano; l’accento della voce italiana, più che ricordo di quella greca, probabilmente è dovuto ad influsso del francese tisane.

Quale potrebbe essere il suo futuro paretimologico? La previsione più ovvia è che sia spezzata nella locuzione ti sana1 (affiancata al lemma unico, così come oggi tutti i dizionari registrano entrambe le varianti dei due lemmi che ho prima citato) per suggestione semantica del suo effetto finale; si verificherebbe, cioè, il processo inverso rispetto a nessi come non ti scordar di me, lecca lecca, fuggi fuggi passati poi (senza perdere la registrazione della forma originaria) al lemma integrato nontiscordadimé, fuggifuggi (o fuggifuggi) e leccalecca (o leccalecca).2

Nessun rischio, invece, corre il corrispondente neretino pònciu, dallo spagnolo ponche, a sua volta  dall’inglese punch, che è probabilmente dall’indi panc=cinque, perché composto in origine di cinque ingredienti: tè, zucchero, acquavite, cannella e limone; la bevanda neretina, nella sua versione povera,  prevede come componenti: il vino (in sostituzione dell’acquavite), i fichi secchi (in sostituzione dello zucchero), la cannella, la buccia di limone e qualche guscio di mandorla secca.

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1 Nella vignetta l’ho portata alle estreme conseguenze.

2 Lo stesso mi attendo che si verifichi, per coerenza, con i nessi gratta e vinci, mordi e fuggi e simili.

La Puglia è bianca… ma colorata come una tavolozza

di Gianni Ferraris

“Pomeriggio da solo, in un po’ troppa Toscana…” così cantava un Vecchioni d’epoca. Il professore della canzone italiana, oltre che di greco e latino. “Due giornate fiorentine” era il titolo, non era una canzone allegra, come spesso accade agli introspettivi. Già, erano i cantautori degli anni in cui tutto si metteva in discussione.

Però De Andrè era pur sempre un poeta. Jannacci resta, comunque, un grande: “…faceva il palo nella banda dell’ortica, ma era guercio, non ci vedeva quasi più…”.

Beh, a costo di essere tacciato di plagio anch’io dico: “due giornate salentine”. Novembre tutti i santi e subito dopo i morti. Ricorrenze. Il primo novembre, uscendo dal bar, mi sento dire “auguri”, contraccambio e mi chiedo perché diamine mi fanno gli auguri? Ognissanti, perbacco. E si che io non sono rappresentato. Solo Giovanni, Gianni è una riduzione impropria.

Perché mai ricordare i defunti il 2 novembre? Ho sempre pensato che una persona si porta dentro le altre persone importanti, anche se sono andate via, a prescindere dalle giornate. Forse per questo non ho mai capito fino in fondo questa ricorrenza. Ad Alessandria, comunque, si mangiano ceci nel giorno dei morti. Messi in ammollo con il giusto anticipo. Mi piacciono i ceci, però ogni volta,  memoria antica come tutti gli anziani, li abbino con il giorno del cimitero, dei crisantemi, e di una ricorrente, penetrante nebbiolina piemontese che mette malinconia… saudaji. Però è festa, diamine, quindi ben vengano  due giornate salentine. Domenica 31 a Locorotondo, poi a  passeggiare fra i trulli.

Il paese rotondo è stupendamente appoggiato in cima a un’altura, sopra di noi nuvole grigie, sotto la valle d’Itria. Viuzze nel centro storico, case bianche, nella miglior tradizione pugliese. “La Puglia è bianca…” pensavo un tempo guardando le fotografie. Poi ho scoperto che è colorata come una tavolozza.

Un ragazzino scivolava leggero con il suo scooter nei vicoli, era l’ora di pranzo, in giro eravamo in pochi, qualche turista instancabile e poco più. Tutti in religioso silenzio. Si parla a bassa voce nei vicoli deserti.  Ogni tanto uno squarcio di sole fra le nuvole grigie, la chiesa era chiusa.  Il vento impudente ci schiaffeggiava e fischiava nei meandri dei vicoletti.  Mignani si affacciano sulla strada, porte basse, porte alte. E i tombini, come in buona parte del Salento, portano un fascio littorio fuso per essere immortale. Uno aveva solo lo stemma Sabaudo. A prescindere dalla simbologia che, incolpevolmente, pubblicizzano, pensavo che certi  manufatti sono veramente eterni. Soprattutto se paragonati ai tre o quattro cellulari che mi si sono fusi dopo un utilizzo neppure troppo esigente. Non si ripara più nulla. E ripensavo alle montagne di rifiuti che incombono ovunque. E si che ne parla bene anche Luigi Viale della necessità di tornare al recupero anziché alla rottamazione. Si producono merci per creare nuove ricchezze. Si brucia la natura per creare merci.  “Quando morirà l’ultimo animale e l’ultimo albero, mangeranno i soldi” diceva un saggio pellerossa americano.

Pensieri incombenti girando attorno alle mura antiche della città.

E manifesti di ogni genere appesi. Uno mi ha colpito. Era la riproduzione di un De Pero, stupendo futurista. Bello, peccato quello che, incolpevolmente, la carta portava scritto: “22 ottobre 1921 – 22 ottobre 2010, la marcia continua”. Chissà perché   un abbinamento sibillino mi è venuto in mente: un telefono che squilla nella notte, quello della questura di Milano: “liberate l’egiziana”.  Attualità, non c’entra con le giornate salentine. All’ingresso del centro storico di Locorotondo ci sono molte lapidi in ricordo di Garibaldi, dell’Unità d’Italia, di Vittorio Emanuele, dei caduti. Accoglienza salentina, anche verso i ricordi. Dell’invasione piemontese parleremo forse in altra sede.

Alberobello l’avevo visitata moltissimi anni fa, talmente tanti che quasi i ricordi sbiadiscono, risucchiati nel nero antro delle streghe (ecco fatto, anche halloween è servito, il sacro e il blasfemo).

Ora è più ordinata. Ora i parcheggi costano 2 euro l’ora, oppure 4,50 per tutto il giorno. È bello passeggiare fin su, alla chiesa/trullo. Anche a novembre è pieno di turisti, moltissimi i francesi, forse un tour organizzato. “Trullo con giardino panoramico. Ingresso libero” dice il cartello.  Per arrivare al giardino si deve passare fra cascate di trullini “artigianali”, bottiglie di liquori dai colori bizzarri, fischietti e altro. Impossibile non guardare. Vabbè, il giardino è a due piazze, nel senso che ci stanno due persone alla volta. Sul concetto di “panoramico” potrei eccepire che, forse maldestramente, pensavo a qualcosa di diverso dalla visione dei muri di cinta, a meno che non si sia alti 2 metri circa. Comunque sono veramente belli  i trulli. “Caldi in inverno e freschi in estate”, mi si dice. Poi si prosegue la salita dolce, sirene suadenti cantano i loro ritornelli: “entri ad assaggiare i prodotti tipici” “ingresso libero”, “liquori di Alberobello”, “fischietti”. È vero, comunque, di turismo si deve vivere. E lo deve fare anche quella ragazzina dall’aria annoiata che vende scialli e presine a forma di trullo.  Infine siamo arrivati alla chiesa, recente, trullesca. Nulla più.  Poi siamo ridiscesi e risaliti verso il “trullo sovrano”, tutelato dalle belle arti e dall’UNESCO. Attraversando il paese una piazzettina deliziosa, non si può passarci accanto senza rimanerne ammaliati. È incastrata fra due vie, ed è a pianta triangolare. In mezzo ha una piccola fontana rotonda. Gli alberi che la incoronano sono incredibilmente potati in forma quadrata,  e tutti assieme formano un grande rettangolo. L’apoteosi delle figure geometriche.  Pitagora ed Euclide sarebbero commossi.

Peccato che qualche sciagurato ha deciso di togliere una delle pochissime cose legali rimaste in questa mesta Italia, l’ora. Infatti imbrunisce esageratamente presto per passare nella selva di Fasano. Al buio non si vede nulla. Lo so, ho appena scritto un’ovvietà, però la lascio.

Il giorno dopo è nuovamente festa, si parte al mattino sul presto. “Dove andiamo?” “Boh, andiamo verso Taranto, poi decideremo”. Se ti trovi ad Alessandria, puoi muoverti nei 4 punti cardinali. Qui siamo in una penisola stretta e lunga, o vai a nord o a sud. Al massimo puoi andare negli intermedi nordest, sudovest ecc.   Manduria, “ma si, vediamola”. Stupendo centro storico. Balconate in ferro o muratura. Molti stemmi che, mi si insegna, “dicono di una città importante”. E’ l’ora di pranzo, chiediamo informazioni ad un signore che, ci dice,  “devo far passare il tempo”, così ci accompagna nel ghetto ebraico. Viuzze strette, una ex sinagoga che ora è casa privata “però hanno lasciato l’altarino”. E le vie, ribattezzate, portano anche il vecchio nome. Così leggi   “Corte Modeo – già Sotto la fica” , oppure “Vico  Messapico – già Vicolo cieco” , questo mi ha lasciato titubante, sarà pure messapico, però rimane cieco a prescindere.

Nel pomeriggio e fino all’imbrunire in riva al mare. Torre Colimena, bellissima, affacciata su un mare turbolento. Poi il tramonto. Vento sul mare, sabbia e acqua nebulizzata nell’aria. Sembra nebbia. Sembra il giorno dei morti.

Libri/ La Maglie di Emilio Panarese

 

La ricerca locale come militanza di impegno civile. La Maglie di Emilio Panarese

di Albarosa Macrì Tronci

Nell’elegante veste tipografica (legatura e lucida sovracoperta con locali dipinti settecenteschi) della meritoria “Biblioteca di cultura pugliese” dell’editore Congedo di Galatina, vede la luce il monumentale volume di Emilio Panarese su Maglie (1995). Opera poliedrica, quanto e più non dicano i quattro titoli esplicativi: L’ambiente, La storia, Il dialetto, La cultura popolare. Elaborazione di una ricerca maturata lungo l’arco di un’intera esistenza, tutta spesa nella paziente fedeltà a un appartato e coraggioso lavoro di consultazione e scavo di fonti documentarie e storiche, di ricostruzione e interpretazione di ambienti e di epoche, di spogli e glossari, in un ampio ventaglio di direzioni aperte tra storia e linguistica, araldica e toponomastica, storia dell’arte e dialettologia, urbanistica e letteratura, stratificate e intrecciate attraverso le 490 pagine di cui si compone il volume.
Lavoro meritorio, quindi, nella duplice prospettiva dell’autore all’attivo di un’opera da fare appetito a cattedratici del ramo e del ricevente, quel pubblico magliese e generalmente salentino, glorioso nella tradizione, ma troppo spesso impigrito e dimentico. Al quale è rivolta la ricerca di E. Panarese, radicatasi nell’amore per la propria terra, che diventa ricerca scientifica coniugando rigore di studio (vedi la sterminata consultazione di documenti dai contemporanei alle secentine) al gusto della notizia, della scoperta, della tradizione, sentita come patrimonio collettivo, prima che personale.
Così si muove l’autore, con un rispetto profondissimo, sacro, per una civiltà, la propria, sedimentata da millenni, coerente e fedele in una esemplare corrispondenza sincrodiacronica di usi e di aspetti architettonici, di lingua e di arte, esclusivi di una terra integra e feconda, indenne da contaminazioni estranee a quelle assimilate e fuse nel gruppo originario messapico-greco-salentino.
Scandaglio a tutto campo, quindi, unito alla fiera passione di chi è dentro

Salento terra di santità. Beato Fra Silvestro Calia da Copertino

 

di frà Angelo de Padova

Giovanni Paolo Calia nacque a Copertino il 13 gennaio 1581 da Francesco e Laura Fortino. A 23 anni si recò presso il convento dei Riformati di Casole e chiese di entrare a far parte dell’Ordine. Fu accolto nel convento di Francavilla dove intraprese l’anno di noviziato. Il 26 febbraio 1605 emise i voti, cambiò il nome di battesimo in Silvestro e fu mandato nel convento dei Riformati di S. Maria del Tempio di Lecce. Visse in diversi conventi tra cui in quello di Bari, Lequile, Nardò e infine in quello di Casole a Copertino dove vi rimase fino alla morte che lo colse all’età di 40 anni, il 18 luglio 1621.  L’esistenza di questo frate fu costellata di episodi che i suoi contemporanei definirono miracolosi.

A lui si devono molti prodigi che compiva attraverso l’uso del pane: “Ecco – diceva – questo pane è impastato col sangue dei poveri” e nello spezzarlo sgorgava sangue. A Giuliano, ospite del notabile Pietro Panzera, riappacificò la madre di questi con una sua cugina, facendo ricorso al prodigio del pane. Anche a Castellaneta fra Silvestro operò il prodigio del pane nei pressi della porta di un governatore violento e crudele.

Stesso prodigio si verificò nei dintorni di Napoli allorquando fu ospite di un cavaliere amico del feudatorio del posto. Qui fra Silvestro rifiutò categoricamente il pane e quando gli fu chiesto il perchè, rispose che quel pane era pieno del sangue dei poveri. E mentre pronunciava queste parole, strinse in mano un pezzo di pane dal quale colò tanto sangue da riempire il piatto.

Fra Silvestro ebbe anche il dono della profezia in quanto predisse alla marchesa Dè Monti che sarebbe guarita da una grave malattia se avesse accettato tutto per volontà di Dio. La marchesa accettò e guarì. Sempre a Castellaneta venuto a sapere di una relazione extraconiugale del governatore lo richiamò e lo invitò a smettere altrimenti sarebbe stato ucciso. Il governatore se la rise di gusto, ma un mese dopo fu ucciso con un colpo di pistola da Giovan Matteo Monaco di Montalbano. I contemporanei raccontano che fra Silvestro ebbe anche il dono della bilocazione, che sapeva ammansire gli animali e che riusciva a domare le forze della natura. Non mancarono nella vita di questo frate le visioni della Vergine.

Collemeto e la sua chiesa

Della chiesa di Collemeto a 50 anni dalla consacrazione e di don Salvatore Nestola

 

di Alfredo Romano

Torno ogni estate a Collemeto. Non nascondo che col tempo il viaggio si fa sempre più lungo, più faticoso: ti pare di non arrivare mai. Ma per nulla al mondo rinuncerei a quegli attimi di commozione che ogni volta mi prendono, quando, nei pressi della casa cantoniera, sulla Lecce-Gallipoli, il mio sguardo coglie la sommità delle case bianche in mezzo agli ulivi, e su tutto svetta la chiesa col suo campanile asimmetrico, il simbolo del mio paese.

Il ritorno è bello ed anche amaro a volte. Ci sono cose che hai lasciato e che non trovi più. Il paese va avanti, si trasforma, cambia; i luoghi della tua infanzia spariscono man mano; tanti volti di persone care non ci sono più; altri si affacciano, sempre più numerosi, tanto che a volte hai come l’impressione di essere un estraneo nel tuo paese.

Io, nel mio egoismo, vorrei magari che tutto restasse come prima, fermo a quel giorno lontano di 35 anni fa, quando un furgone mi strappò via per altre terre più feconde. Ma questo pensiero, lo so, è il difetto di tutti gli emigranti, ed io non sono da meno.

Una cosa che non cambia mai però c’è, e se ne sta lì immobile, maestosa: è la chiesa. È grande la chiesa, la… più grande del mondo, a guardarla con quegli occhi di quand’ero bambino, allorché le cose reali sfumavano nell’immaginario e spesso, come in tutti i bambini, assumevano dimensioni fantastiche, gigantesche.

È che io sono cresciuto con la chiesa; io e la chiesa siamo nati insieme, e insieme stiamo invecchiando. Mi conforta sapere che il giorno in cui non ci sarò più, la chiesa sarà sempre lì, con la sua maestosità, testimone della storia di un paese e delle piccole storie di ognuno di noi, che, intorno ad

Uno scrigno di preziose informazioni: l’Archivio Caracciolo – de’ Sangro di Martina Franca

di Lucia Lopriore

Il Salento terra dove arte, folklore e tradizione fungono da corollario nella storia del territorio, conta la cospicua  presenza di archivi pubblici e privati a testimonianza di una lunga storia. Questi luoghi, spesso dimenticati e frequentati, quasi sempre, da studiosi appassionati o dagli addetti ai lavori, restano sconosciuti ai più.

In genere gli archivi sono considerati come luoghi polverosi e monotoni dove non c’è nulla di interessante. Ovviamente, così non è, perchè gli archivi, al contrario, rappresentano, con le loro preziose carte, un patrimonio importante di notizie dove si può ricostruire dettagliatamente la storia del proprio paese. Tra i tanti è utile segnalare l’archivio Caracciolo – de’Sangro di Martina Franca.

Questo archivio, custodito nella Biblioteca Comunale “Isidoro Chirulli”, raccoglie 1322 buste ed è strutturalmente suddiviso in due sezioni, la Sezione Antica e la Sezione Contemporanea.

 

SEZIONE ANTICA

Venne donata al comune di Martina Franca nel 1978, per disposizione testamentaria dell’ultimo duca di Martina, Riccardo de’ Sangro. Comprende materiale cartaceo e pergamenaceo tra la metá del XIV sec. e l’inizio del XX sec., ed è stata oggetto di vari riordini, il primo dei quali affidato all’archiviario Giuseppe Petter nel 1790.

Il secondo riordino è documentato da una Pandetta organizzata per Armadi, all’interno dei quali, la documentazione venne riposta ordinata per argomento, riconducibile alla metá del XIX sec.

Il terzo ed il quarto rimaneggiamento di questa sezione d’archivio, sono presumibilmente contemporanei e contingenti una divisione ereditaria degli inizi del XX sec.; in effetti, quasi contemporanei risultano un Inventario dell’archivio della Casa de’ Sangro organizzato per fasci ed un inventario notarile, quest’ultimo redatto tenendo ben separate le carte per asse

Antonio De Viti De Marco, il conservatore liberale

Casamassella, il palazzo in cui abitò Antonio De Viti De Marco

di Tommaso Manzillo

Il maestro di Luigi Einaudi e scienziato delle finanze, sul finire del XIX secolo già teorizzava il decentramento amministrativo e fiscale quale soluzione alla secolare questione meridionale

ANTONIO DE VITI DE MARCO, IL CONSERVATORE LIBERALE

S’incorre, certamente, in errore pensare che il tema del federalismo sia stato un’invenzione della Lega Nord, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, figlia di uno stato di insofferenza per un Nord ricco e opulento e un Sud destinatario di assistenzialismi fini a se stessi, con sperperi di denaro pubblico di origine nordista, dove la corruttela politica è la protagonista indiscussa di scelte meridionalistiche improduttive e scellerate. Eppure, l’esigenza di uno Stato decentrato si avvertiva già all’indomani dell’Unità d’Italia, riconoscendo la molteplicità delle diverse problematiche territoriali, come conseguenza di differenti percorsi storici e culturali.

Di questa necessità si fecero promotori proprio gli uomini del Sud, primo fra tutti il marchese di Casamassella, frazione di Uggiano La Chiesa, il professore universitario e scienziato delle finanze, ossia della nuova visione dell’economia intesa come scienza, Antonio De Viti De Marco (1858 – 1943).

Il contesto storico in cui viene a operare l’aristocratico è l’Italia post-unitaria, in un periodo che dalla fine di Depretis, passando per la lunga esperienza giolittiana, giunge fino agli inizi del fascismo (1931), quando la sua intesa attività didattica e politica fu bruscamente interrotta dal rifiuto di giurare fedeltà al nuovo regime. Fu costretto a lasciare la cattedra universitaria di Roma, ritirandosi dalla vita pubblica, dichiarando la sconfitta dei suoi principi democratici e liberali (chissà quale svolta avrebbe impresso De Viti De Marco alla democrazia e soprattutto nel pensiero economico senza la parentesi del Ventennio!).

Un suo grande critico fu l’economista Vilfredo Pareto (1848 – 1923), che non le mandava certo a dire tramite Maffeo Pantaleoni, circa la necessità, secondo l’aristocratico salentino, di applicare la matematica nei problemi economici e finanziari (da qui la nascita delle scienze delle finanze), principio universalmente accolto e approfondito a livello internazionale anche dallo stesso Pareto.

Francesco Crispi, figlio della borghesia commerciale siciliana, ma di origine albanese, già ministro dell’Interno con l’ottavo e ultimo governo Depretis, ricoprì l’incarico di presidente del Consiglio dei Ministri nel 1887, dopo la morte dello stesso Depretis, puntando proprio al rafforzamento dello Stato

Salento terra di santità. Beato Paolo Grasso da Salice Salentino

di frà Angelo de Padova

Con queste brevissime note storiografiche su Paolo Grasso ci piace presentare una pregevole vicenda spirituale sviluppatasi intorno all’umile figura di un francescano laico di Salice Salentino, piccolo paese in provincia di Lecce.

Visse, questi, fra il XVI e il XVII secolo per lo spazio di 54 anni, dei quali più della metà nel luogo nativo e gli altri nei primissimi conventi assegnati ai Francescani Riformati della Provincia Monastica pugliese dedicata a San Nicola di Bari.

Le ragioni di questa proposta si orientano nella direzione della Santità che fra’ Paolo seppe esprimere, condividendo a fondo l’ideale evangelico del Serafico d’Assisi e adattandosi perfettamente all’epoca della restaurazione post-tridentina, quando nel popolo cristiano si ebbe il risveglio della fede e negli ordini religiosi esplosero ideali entusiasmanti per la vita ascetica e apostolica, benissimo esemplarizzata dai frati laici. Nel tentativo di delinearne brevemente il profilo biografico, è conveniente consegnare ai lettori in forma schematica e col presente storico i momenti salienti della sua vita. Nel 1561 nasce in Salice Salentino (Le) quartogenito di un agricoltore di nome Luigi; gli viene imposto il nome di Lupo. I suoi fratelli,

Piccoli seminaristi crescono. L’igiene e sanità nel Seminario Vescovile di Nardò. 1960-1965

L’igiene e sanità nel Seminario Vescovile di Nardò. 1960-1965.

(Quattordicesima parte)

 

di Alfredo Romano

I seminaristi, in gran parte, provenivano da famiglie modeste. Ciò non nel senso di indigenti, dal momento che si campava con dignità e resisteva una cultura del vivere e del pensare che si tramandava da secoli; non mancava neppure la casa di proprietà col mobilio indispensabile, ma tutto il resto era un lusso: un lusso era l’acqua dentro casa, un lusso era il bagno, la doccia. Fuori, nel giardinetto, c’era la fossa biologica.
Entrati in Seminario, noi ragazzi trovammo dei servizi igienici che erano quasi un lusso rispetto a quelli di casa: ogni camerata disponeva di gabinetti e lavandini con acqua corrente. Mancava il bidet naturalmente, ma, a dire il vero, a quei tempi non era ancora entrato nelle case degli italiani (Non c’è da meravigliarsi, perché, pressappoco dieci anni dopo, nei 14 mesi di militare, 1974-1975, nelle caserme di Foligno e poi di Trento, in quanto a servizi igienici trovai una situazione analoga). C’erano anche le docce, ma si trovavano a pianterreno, adiacenti al cortile, e ne usufruivamo una volta la settimana, a volte anche ogni 15 gg. Nel cortile, invece, luogo della ricreazione, c’erano a disposizione due gabinetti con le turche, che, per quanto si vuole, erano più igienici di quelli in camerata con le tazze. Una novità per noi fu l’uso dello spazzolino da denti: stranamente, però, era d’obbligo usarlo solo la sera prima di mettersi a letto. La biancheria certo non abbondava, per cui i cambi non potevano essere frequenti. E dire che si sudava di brutto nel giocare in ricreazione. Adesso, a pensarci, mi meraviglio, se non addirittura resto incredulo, ma allora era considerato normale tutto ciò. I più, in ogni caso, per quel che potevano, ci tenevano a mantenere un certo decoro nella pulizia e nell’uso del vestiario. Certuni, però, non amavano l’acqua, né cambi vari di biancheria e, se ti capitava di averli prossimi in camerata, in studio, o a refettorio, venivi tramortito da certi ‘profumi’ che vi lascio immaginare. Per questo, a volte, si faceva intervenire il vice rettore. Chi non è stato mai in una comunità non può capire. Questo succedeva in ogni modo più quando si era ragazzini, ché, più grandicelli, si diveniva più responsabili.
Mi capitò, una volta, di trovarmi delle croste sul cuoio capelluto. Lo feci presente a don Giorgio Crusafio, il vice rettore, che, amorevolmente debbo dire, mi portò nel reparto docce, si munì di una bacinella d’acqua calda e con dei batuffoli d’ovatta strofinò pazientemente a lungo fino a farle scomparire. Ecco, questo è un ricordo dolce che ho di don Giorgio. Rammento anche quando scoprii di avere delle unghie incarnite. Stavo a colloquio col padre spirituale don Raffaele Mastria e non so come lo misi al

Libri/ Maurizio Nocera e Pablo Neruda

“NERUDA CENTO ANNI”  DI MAURIZIO NOCERA
 

Con questo libro, dal titolo Neruda Cento anni, che è il Quaderno n. 11 della gallipolina collana “I poeti de L’uomo e il mare”, Maurizio Nocera   manifesta in maniera poetica e dirompente (alla sua maniera, insomma, chè lo conosciamo uomo dalle forti emozioni) il suo amore per il grande poeta cileno Pablo Neruda. Neruda Cento anni è un  libro dalla colorata copertina double face, opera del pittore Antonio Massari (uno dei nomi più ricorrenti nella produzione noceriana), che ritrae un Neruda giovane accanto ad un Neruda più attempato da una parte e, come un gioco di specchi,  lo stesso poeta da giovane e da vecchio sul retro di copertina, che reca il titolo del libro tradotto in castigliano ( Neruda 100 anos).

Il volume si presenta abbastanza vario dal punto di vista contenutistico  e raccoglie molta parte delle esperienze umane e letterarie maturate dal suo autore negli ultimi anni. Con quest’opera, non siamo i primi a dirlo, Nocera ci consegna la sua prova letteraria più importante e matura (insieme a  Compianto) sicchè, a ragione, si può ritenere questo libro, dalla genesi così particolare, come il suo opus magnum.

Come spiega lo stesso Nocera nella “Avvertenza”, il poemetto è stato abbozzato a Valparaiso, in Cile, dove l’autore si era recato nel luglio 2004 in occasione dei festeggiamenti per il Centenario della nascita di Pablo Neruda. In quell’occasione, venne presentato il libro di Sergio Vuskovic Rojo,  Neruda/ L’invenzione di Valparaiso, già pubblicato in Italia nel 2001 col titolo Neruda/ … sono un poeta di pubblica utilità” (Bleve Editore), a cura dello stesso Nocera. Maurizio Nocera, autore poliedrico e valente operatore culturale, fra i più attivi del nostro Salento letterario, ha pubblicato una mole di materiali eterogenei nelle forme più disparate, sicchè sarebbe davvero arduo ricostruire la sua bibliografia con completezza. Fra riviste, giornali, volumi, miscellanee, cataloghi, fogli sparsi, contributi on line, opere collettive, Presentazioni, volumi a sua cura, Prefazioni, Postfazioni, Nocera si è sempre speso completamente , dando alle stampe, a volte, anche

Il sentimento e la tecnologia

 

Vincent Van Gogh, Il Seminatore al tramonto (1888) Rijkmuseum Kroller-Muller, Otterlo

di Armando Polito

E’ opinione da tutti condivisa che indietro non si può tornare e questo concetto è nello stesso tempo il padre e il figlio (potenza del cervello umano!) di un’epoca in cui il concetto del sacrificio sembra essere lo strano prodotto cerebrale di pochi, stupidi illusi.

La capacità di adattarci alle circostanze e sfruttarle a nostro favore (la famosa intelligenza…), liberi da quei vincoli naturali che gli altri animali ancora oggi rispettano (ma loro sono meno intelligenti di noi…),  ci ha portato al risultato (che rischia di essere la fine della nostra intelligente specie) che pure è sotto i nostri occhi e che fingiamo di non vedere.

Abbiamo pensato prima che la salvezza stesse nell’ideologia e che il capitalismo avrebbe risolto ogni problema sostituendo il comunismo con il consumismo (in fondo, si trattava solo di scambiare di posto alcune lettere, quella che in filologia si chiama metatesi:-muni->-numi– e aggiungere, per non farla troppo sporca, una –s– dopo la –n– di –numi-.). Poi, visti gli esiti non proprio felici dell’operazione, qualcuno ha pensato bene di affermare che è la religione quello che ci salverà; il problema è che ognuno è convinto che questa funzione salvifica è un’esclusiva della sua religione, con il risultato che al panorama delle vecchie guerre di religione (basti pensare alle Crociate), già abbondantemente inquinato da finalità non propriamente spirituali, si è sostituito quello delle nuove, che appare come un coacervo di torbidi interessi rimestati all’ombra della bandiera sempre più sanguinaria di un dio sempre più sbiadito.

E allora? Niente panico! C’è o non c’è la tecnologia? A parte il fatto che mi fa paura la sicurezza apodittica (ma, forse, è la disperazione nascente dalla inconscia consapevolezza che siamo ormai alla frutta e che questa è l’ultima spiaggia) con cui la scienza applicata (non è questo la tecnologia?) ci promette  un  futuro meno  nero  del   presente  (dopo  il   fallimento  dei  due precedenti espedienti escogitati dalla nostra mente un po’ più di prudenza sarebbe stata opportuna, perché almeno avrebbe dimostrato che forse sappiamo ancora far tesoro degli errori, che, cioè, non siamo scesi ad un livello inferiore rispetto a quello degli altri animali), mi vengono i brividi solo a pensare alla disinvoltura (che è poi la connivenza generalizzata e nefasta tra la ricerca e i suoi sponsor) con cui, per esempio, gli O.G.M. sono stati introdotti in agricoltura, senza un congruo periodo di osservazione: il profitto, si sa, non può attendere…

Il risultato è che indietro, ormai, non possiamo tornare, neanche se lo volessimo! Resta solo, per quelli tra noi che ancora sono attrezzati per fruirne, il conforto del rimpianto, la struggente nostalgia del ricordo, la testimonianza della memoria.

Così, mentre osservo un macchinario ipertecnologico che contemporaneamente ara il terreno e semina (non mi meraviglierei se fra pochi anni la versione evoluta mi consentisse anche a pochi secondi dalla semina di assistere al raccolto), non posso fare a meno di pensare alle vecchie tecniche di coltivazione (che io nel mio piccolo orto personale ancora pratico): zappare il terreno con una zappa pesante almeno tre kg. (zzappa ti scatèna1) e seminare a spaglio (spàgghiu) sementi, spero non geneticamente modificate…

Però, quando io, insegnante in pensione, semino a spagghiu2, i risultati sono disastrosi: appena le piantine (mettiamo di rapa) cominciano a spuntare, immediatamente si notano zone del terreno in cui ho seminato assolutamente deserte, altre con una elevatissima densità di popolazione; quel residuo di umiltà che ancora, almeno spero, mi caratterizza, mi fa capire che per fare certe cose non è necessaria la laurea, ma, oltre al cuore, un minimo di mestiere e, forse, non solo quello…

Jean-François Millet – Uomo con la zappa (1860) collezione privata

Il contadino che mezzo secolo fa lavorava la terra con la zappa aveva la possibilità, anche perché le distanze erano estremamente ridotte, di mantenere con la terra ma anche con la zappa, quando, per esempio, il manico (margiàle3) cedeva, un antichissimo rapporto affettivo di amore-odio, che si rinnovava ed intensificava ad ogni stagione; anzi era lui stesso che nelle giornate di pioggia si costruiva il manico sgrossando un ramo, per lo più di lezza4, con una piccola accetta e rifinendolo con un coccio di bottiglia5. La semina a spaglio, poi, aveva quasi una valenza religiosa e il seminatore agli occhi dell’ignaro spettatore assumeva movenze ieratiche, sembrava compiere un gesto rituale, quasi fosse consapevole delle speranze connesse a quel gesto, che non aveva bisogno, nella sua potente espressività, della recitazione di  qualsivoglia formula augurale6. Conclusione: oggi, per seminare decentemente un po’ di rapa, ho bisogno di mio cognato Giuseppe, imprenditore agricolo, che, pur adeguatosi ai tempi,  non ha dimenticato quelli in cui suo padre Mario e lui, che fungeva da assistente o, meglio, da apprendista, seminavano a spaglio.

Un’ultima osservazione: è noto che, proprio per mantenere un rapporto in un certo senso affettivo tra il prodotto e chi contribuisce alla fase finale della creazione, nelle catene di montaggio, prima dell’avvento della robotica, c’era il palliativo delle “isole” (io lo chiamerei assemblaggio parziale) e bisogna dire che restavano più  fortunati, sotto questo punto di vista, l’artigiano e l’artista che avevano la possibilità di seguire la loro creatura dal concepimento allo svezzamento. Ora che l’artigianato è quasi in agonia, dopo i fallimenti dell’ideologia, della religione e della tecnologia sarà l’arte (quella vera) a salvarci? Ma perché Essa, pur essendo il fenomeno più antico, non si è mai arrogato il diritto o la presunzione di cambiare il mondo?

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1 Zappa più pesante del normale, in grado di spezzare in zolle anche il terreno più compattato (catene).

2 In italiano: a spaglio o alla volata, consistente nello spargere uniformemente il seme sulla superficie del terreno per interrarlo, poi, con una lavorazione molto superficiale. Spaglio è probabilmente da spagliare (detto di acque che straripano allagando il territorio), di etimologia incerta.

3 Per l’etimo il Rohlfs non avanza alcuna proposta e non ne conosco di altri autori. Riporto di seguito una serie di mie congetture in ordine di attendibilità:

a) da un latino *marciàle=da martello, aggettivo neutro sostantivato dal latino medioevale marcus=martello; per il suffisso confronta Martiàlis da Mars/Martis, mundiàlis da mundus.

b) forma aggettivale da màgghiu [(in italiano maglio, dal latino màlleu(m)], secondo latrafila: màgghiu>*magghiàle>*maggiàle (velarizzazione della g)>margiàle(dissimilazione –gg->-rg– poco convincente non solo perché non se ne vede la necessità ma anche perché è assente nel derivato (da màgghiumàgghiàtu=caprone da riproduzione (alla lettera “fornito di maglio”) e, paradossalmente, anche caprone castrato (alla lettera “colpito col maglio”).

c) forma aggettivale da mergus=propaggine (da mèrgere=affondare, metter dentro); se è così sarebbe anche etimologicamente parente di margotta (metodo di riproduzione delle piante consistente specialmente nell’avvolgere una parte di ramo con terra umida per farne germogliare radici e metterlo quindi a dimora; estensivamente, il ramo di una pianta sottoposto a tale metodo), voce dal francese margotte, a sua volta dal latino marcus, variante del citato mergus.

d) forma aggettivale (*marriàle) dal latino marra, da cui la identica voce italiana indicante un attrezzo simile a zappa. Anche in questo caso, tuttavia, non si spiegherebbe la necessità della dissimilazione *marriàle>margiàle.

e) forma aggettivale dal sostantivo o aggettivo  mas/maris=maschio, maschile (trafila: *mariàle>margiàle). Approfitto dell’allusione sessuale contenuta in questa etimologia per ricordare che nel Tarantino (Sava)  la locuzione farsi lu margiàli equivale a masturbarsi e che nel neretino margiàle è usato pure (seguendo in questo il destino di tante voci attinenti alla sfera genitale) come sinonimo di stupido.

4 In italiano leccio, tipo di quercia diffusa nella macchia mediterranea, il cui legno è particolarmente duro e resistente. La voce italiana è, per aferersi di i-,  dal latino ilìceu(m)=relativo alla quercia, aggettivo da ilex=quercia. La voce neretina, a conferma dell’uso di un unico nome, femminile, ad indicare sia l’albero che il frutto (la fica, la mèndula, la seta, la scèsciula, etc. etc.; uniche eccezioni che conosco sono chiàpparu e lamàscinu, giustificate dal genere neutro che esse avevano nelle lingue d’origine, rispettivamente càppari in latino e damàskenon in greco) deriva dall’aggettivo latino prima citato al femminile: ilìcea(m).

5 I manici di oggi, probabilmente non solo perché prodotti industrialmente con una materia prima meno “selvatica”, si spezzano facilmente di fronte alla prima resistenza opposta dal terreno o dall’oggetto che l’utensile è destinato a trattare.

6 Non a caso speranza deriva dal latino tardo speràntia(m), dal classico  speràre=sperare, da spes=speranza; e speràre secondo alcuni filologi è connesso col greco spèiro=seminare.

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