Tempi di guerra

Noci, monumento ai Caduti

di Pietro Gigante

La guerra continuava e la sua funesta azione portava lutti, distruzione, fame e miseria: bisognava arrangiarsi per sopravvivere il meno peggio possibile. In ogni paese di questa zona c’era un distaccamento di truppe, più o meno consistente a seconda del numero degli abitanti e l’importanza strategica del luogo. Queste truppe erano considerate d’occupazione dalla popolazione, perché occupavano le case migliori del paese; non si considerava affatto che fossero alleate, nemiche, ex alleate o ex nemiche.

Il mondo continuava ad alternare le notti ai giorni, gli uomini alternavano pensieri a preoccupazioni: il come procurarsi il cibo ed il vestiario cedeva spesso il posto a come far durare un bene il più a lungo possibile. Le case erano piccole ed i ragazzi per avere un po’ di spazio erano per strada; essi per rendere interessante la vita pattugliavano ogni angolo del paese e conoscevano tutto di tutti, specialmente i depositi dell’esercito.

Nel paese[1] dove hanno luogo gli avvenimenti che andiamo a raccontare era dislocato un drappello, a quel tempo il narratore non aveva alcuna cognizione militare e non sapeva quali funzioni questi militari avessero, udiva quello che i compagni di gioco dicevano e riferiva ad altri quello che aveva udito. Però sapeva che il comando di quello che per lui era l’esercito occupante aveva requisito ed occupato una casa patrizia appartenente a ricchi proprietari terrieri i quali volenti o nolenti si erano sistemati nella loro villa-masseria non lontano dal paese. La truppa, invece, aveva occupato il nuovo edificio scolastico intonso, come un libro di lettura, da poco licenziato dalle maestranze edili. Questi militari per la sistemazione, per il trasporto del vettovagliamento e per le pulizie si erano serviti e si servivano di gente del paese. Queste persone, forse per essere estremamente operative, forse per loro motivi, forse … non lo so, avevano impresso nella loro mente la pianta dettagliata dei luoghi, le vie di fuga ed ogni particolare, meglio di una esperta spia nemica. Tutto ciò che ai più sembrava essere un segreto, lo era di Pulcinella, perché negli incontri con amici e parenti tutti ci tenevano a far confidenze per stare sempre più nell’intimità, ma il tema obbligato era la guerra, quella che si combatteva (si fa per dire data la presenza dei militar-soldati) in casa cioè nel paese. Quello che succedeva al fronte interessava solo chi aveva un parente o un amico arruolato.

Anuccio[2] e Uccio[3] avevano avuto la soffiata: zio Catallo[4], che faceva il vastaso[5], aveva loro detto che aveva scaricato un camion di scatoloni che racchiudevano scatolette di carna bif[6] e di marmellata; poi c’era anche altra merce che egli non sapeva. Egli era certo di quelle derrate perché il

Quando il Rohlfs non si lasciò ingannare dal cielo nuvoloso salentino…

di Armando Polito

Anche l’anestesiologia, come ci confermeranno gli amici comuni Marcello Gaballo e Luigi Cataldi (la soppressione del titolo è un attestato di stima anche nei confronti del lettore: solo quando si parla con gli ignoranti si dice, per esempio, il poeta Dante Alighieri), ha fatto passi da gigante soprattutto se si pensa che fino a venti anni fa non tutti i pazienti potevano essere anestetizzati con rischi accettabili. La parola anestesia, però, non ha subito variazioni da quando Oliver Wendel Holmes , poeta e medico inglese del XIX secolo, la prese pari pari dal greco anaisthesìa=insensibilità, composto da a– privativo e aisthesìe=facoltà percettiva, a sua volta dal verbo aisthànomai=sentire, sviluppatosi da àio=percepire. Non è cambiata nemmeno la corrispondente voce dialettale neretina: nùbbiu. Questo lemma (nella forma nnùbbiu) il Rohlfs lo fa derivare da nnubbiàre, dove si limita ad un confronto con il calabrese òbbiu=oppio. Per lo studioso tedesco, anche se non lo dice espressamente, nnubbiàre dovrebbe derivare da *innubbiàre (alla lettera mettere nell’oppio) con aferesi di i-; a prima vista la proposta appare ineccepibile dal punto di vista semantico  e fonologicamente suppone un raddoppiamento di n dovuto a compenso della caduta di i– (*inubbiàre>’nubbiàre>’nnubbiàre), fenomeno assolutamente normale. Tuttavia, la mancata geminazione di n nella voce neretina nùbbiu potrebbe indurre a formulare altra ipotesi: dal latino nùbilu(m)1=cielo nuvoloso. Nulla da eccepire sul piano semantico; qualcosa, invece, non quadra su quello fonetico; partendo, infatti, da nùbilu(m) dovrebbero essersi verificati i seguenti passaggi: nùbil(um)>*nublum (sincope di –i-)>nùbbiu. Ora, l’esito normale di bl nel dialetto neretino (ma anche in quello leccese) è gghi (per esempio: nègghia=nebbia, dal latino nèbula(m)>*nebla (sincope di –u-)>nègghia2; ssùgghia=subbia, dal latino sùbula(m)>*subla (sincope di –u-)>*sùgghia>ssùgghia (raddoppiamento di natura espressiva)3. D’altra parte non è un caso che nuvola  deriva da nùbilam (a sua volta da nubes), femminile o neutro plurale con valore collettivo del precedente nùbilum, e che la voce neretina è tal quale quella italiana e non nùgghia). Il mancato sviluppo *nublu(m)>nùgghiu, perciò, dà ancora una volta ragione (al di là del mancato raddoppiamento di n- che, ad onor del vero, non sempre è chiaramente percepibile) al Maestro, con buona pace di coloro (sto appena cominciando a servirli, ne vedremo delle belle…4) che hanno la spudoratezza di metterne in dubbio l’acribia con affermazioni generiche e guardandosi bene dal contestare l’etimologia di un singolo, preciso lemma e ancor più dall’avanzare una loro proposta. Ma, si sa, la classe (a scanso di equivoci, quella del Rohlfs) non è acqua.

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1 È l’opinione di Antonio Garrisi (Dizionario leccese-italiano, Capone editore, Lecce, 1990), che al lemma corrispondente afferma: “ dal latino nubi(l)um”, mettendo in conto, dunque, oltre a quello che dopo si dirà, il fenomeno inconsueto della sincope di –l– seguita da vocale; d’altra parte nell’intero suo vocabolario il fenomeno è evidenziato, questa volta correttamente, solo in quattro casi: mutu=molto, da multum, picolla=dislivello del terreno, da plica; sputare2=rivoltare, da svoltare; tapunara=talpa, incrocio fra talpone e topo  (da notare che in tutti i casi –l- è seguita da consonante).

2 Il leccese nìgghia per il Garrisi (op. cit.) è “dal latino nica, il dim. nìcula>nicla, cl>gghi”; anzitutto questo latino nica, a quanto ne so, non esiste; se poi vado al lemma nicàre=nevicare, leggo: “dall’italiano antico nica e dal leccese nie”. A parte l’incongruenza di nica che una volta è latino un’altra italiano antico, faccio presente, anzitutto, che nicàre è dal latino medioevale nivicàre per sincope di –vi– e che nica (se esistesse) sarebbe da nicàre, come spiega da spiegare. E poi, se per assurdo fosse esatto  quanto sostenuto dal Garrisi, semanticamente c’è una bella differenza tra la nebbia e la neve; ma quel che più conta è il fatto che nel dialetto salentino l’esito di cl è sempre chi, per esempio: chiaru dal latino claru(m), per cui il presunto nicla avrebbe tutt’al più dovuto dare nìchia. D’altra parte, lo stesso Garrisi nel suo altro lavoro Il dialetto leccese mostra di ben conoscere il fenomeno, se afferma che “i gruppi consonantici cl-pl-tl- si trasformarono in chi- e cchi” e quindi è inspiegabile come solo nel nostro caso ci sarebbe stato il passaggio cl>gghi.

3 Il Garrisi questa volta mette in campo un latino volgare *sùblia. Tutte le voci ricostruite (contraddistinte dall’asterisco) in filologia rappresentano l’ultima spiaggia, ma qui non era assolutamente necessario approdarvi sfracellandosi sul passaggio obbligato della fonologia, dal momento che l’esito in questione, come credo di aver dimostrato, è di una linearità e regolarità esemplari.

4 Non mi riferisco, anche se qualcuno a questo punto potrebbe pensarlo, all’autore più volte citato, che, d’altra parte, nella prefazione al suo lavoro dichiara che per “registrare i vocaboli, puntualizzandone l’aspetto fonologico sia dal punto di vista della ortoepìa che della ortografìa, risultante dalla più stretta aderenza alla pronunzia leccese-cavallinese,” gli è stato “di grande aiuto il vocabolario del Rohlfs”, anche se, per quanto riguarda l’etimologia, parla genericamente di “ausilio di dizionari etimologici”.

L’amico di San Gasparre

di Pier Paolo Tarsi

Ebbene, lo ammetto, benché agnostico, aconfessionale e ogni tanto anticlericale, anche io ho un rapporto particolare con un santo, precisamente un tale San Gasparre. Io, per la verità, non so molto di costui, anzi so nulla, costui invece di me qualcosa la saprà, se non altro conosce invero il mio indirizzo: già, altrimenti perché da sei/sette anni, ogni 15/20 giorni, mi ritrovo nella cassetta una busta lettera con mittente “Collegio dei missionari di San Gasparre”? Nella busta c’è sempre un foglio illustrativo sulle missioni e le attività dei frati di San Gasparre e una cedola semi-compilata per effettuare un versamento postale in beneficenza. Su quest’ultimo, oltre alle solite cose, come causale del versamento compaiono tre voci da crociare a scelta dell’offerente: missioni di San Gasparre, Santissime Messe, Opere di Evangelizzazione. Di queste ultime due manco a parlarne ovviamente, non pagherei mai un soldo per una messa né mi sognerei di mandare coi miei denari fraticelli in giro per il mondo a rompere i beneamati all’umanità con la loro evangelizzazione. Le missioni, invece, sempre cose buone sono no? E allora, che siano dei fraticelli o degli atei convinti a farle, a me poco importa se posso dar loro una mano.

Così, seguendo questo ragionamento, una volta che andavo con animo carico di mestizia a pagare non so quale bolletta e che, mentre facevo la fila in posta, mi ritrovai per caso tra le mani uno di questi bollettini di San Gasparre di cui avevo già piena la casa, non sapendo lì per lì che farmene dei pochi quattrini che mi restavano dopo aver pagato quanto dovevo ingentemente e urgentemente, decisi di fare un’offerta col resto. Non fu la mia certo un’opera di spirito pio e nobile, quanto piuttosto una questione di simmetria, un desiderio di completamento, come quando si cammina sulle righe dei mattoni senza mettere il piede dove caso vuole o come quando hai fatto trenta e allora, non si sa perché, bisogna far trentuno: e così feci dunque, senza un centesimo me ne tornai a casa e a San Gasparre mi affidai.

 

Da quel giorno il suddetto, avendo forse sopravvalutato il mio gesto e le mie intenzioni, non ha più smesso di farmi visita ogni due settimane al massimo e non ha mai scordato né il mio indirizzo né di inviare a questo il solito bollettino per il versamento (ma questo forse è un maligno dettaglio?). Ebbene, all’inizio la cosa mi dava non poco noia, sempre cartacce da buttar avevo infatti per casa, “sempre a me cerca sto San Gasparre” andavo rimuginando e lamentando, in special modo irritato e punto quando insieme al Santo a visitarmi veniva pure la Telecom, l’Enel e il resto di questa indesiderata trafila di gradassi. Una delle virtù dei santi però si sa è di certo la pazienza e, dopo anni da quella mia prima donazione, Gasparre non demordeva e continuava (così come fa ancora) a infilarsi nella mia cassetta della posta, tanto che, per farla breve, col passare dei mesi se trascorreva più tempo delle due/tre consuete settimane, alla fine iniziavo pure a preoccuparmi: “che sarà mai successo a Gasparre?!” andavo in quei giorni d’attesa meditando, tristemente temevo poi “non si sarà per caso dimenticato di me, dopo tutto sto tempo di carteggio epistolare!?”. E tanto mi struggevo oramai nell’attesa che quando, dopo non molto, arrivava lestamente San Gasparre, non potevo sopire la gaiezza che l’evento mi donava: “ecco -pensavo allora- per San Gasparre io ci sono, costui si che non mi dimentica e che crede ancora in me!”. Non vi dico poi la gioia quando, al ritorno da un lungo periodo d’assenza, ad accogliermi nella casa abbandonata da mesi pensate un po’ chi vi trovai? Beh, avrete inteso, era lui, il santo paziente che nel frattempo aveva persino indovinato sul mio ritorno e per festeggiare l’occasione, pensate, oltre ai familiari bollettini e ai foglietti illustrativi, m’aveva inviato pure un calendario del 2006! “Certo -pensai- poteva però aspettare un poco a farmi sto dono il santo!” (a mia discolpa si pensi che si era infatti in quei giorni ancora alla fine d’estate 2005!) ma a tali pensieri ingrati che subito scacciai vi sostituii la consapevolezza che per un dono ricevuto è sempre il momento giusto, per cui ringraziai sentitamente da parte mia e promisi che alla prima occasione mi sarei ricordato anche dell’amico santo e del suo gesto. Beh, non fu proprio così dato che di occasioni ne sono poi passate diverse ma, alla fine, poiché di bollettini di san Gasparre non resto mai sprovvisto in casa come potrete oramai congetturare, proprio in questo giorno che vi scrivo sono riuscito a mantenere fede alla promessa data. Certo non ho potuto ricambiare grandemente, il calendario non so quanto valore avesse ma fatto bene certo era. Ed ora a dirla tutta sono un po’ teso, io temo che la prossima volta San Gasparre, perdendo la pazienza, mi scriva due righe in più ben ricopiate sul foglio illustrativo accanto al VERSAMENTO: “ah morto de fame giusto cinque euro potevi mannà dopo tutto sto TORMENTO?!”

Omofoni del dialetto neretino: lièntu.

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (11): lièntu.

Il professore paragnosta.

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1 Professore, perché all’andata eri così lento ed ora te ne stai tornando in fretta?

2 Da quella parte c’era una puzza di sudiciume che ti faceva morire.

3 Sarebbe stato meglio che fossi rimasto…

4 So che stai pensando…domani t’interrogherò.

Nel dialetto neretino lièntu può significare sia lento [come l’italiano, dal latino lentu(m)=pieghevole] che puzza di sudiciume: in questo caso la voce, per la quale il Rohlfs non propone alcuna etimologia, potrebbe essere dal latino olente(m), participio passato di olère=aver odore, con connotazione negativa,  aferesi di o– (per errata discrezione dell’articolo: *l’olente>lo lente), normale passaggio –e->ie– (lente>liente) e consueta regolarizzazione della desinenza.

Libri/ Edoardo de Candia, pittore leccese

EDOARDO DE CANDIA, PITTORE LECCESE

di Paolo Vincenti

Uno strano tipo, Edoardo De Candia. Troppo strano per passare inosservato e per non scandalizzare quella Lecce benpensante che, sempre pronta a gridare  crucifigge! cucifigge!, lo stigmatizzò come “pazzo”.   “Fintotontopazzo”, come lo definisce Maurizio Nocera in un suo recente libro (  Edoar Edoar, Il Raggio Verde 2006) , in cui ricorda l’amico perduto, Edoardo De Candia era un leccese purosangue e per la sua città  nutriva un rapporto di amore-odio, come è proprio di tutti quelli ai quali si adatta il noto assioma latino nemo propheta in patria. L’arte era parte integrante della vita sregolata del “santo bevitore” (ma per lui non ci fu nessuna redenzione) Edoardo De Candia, pittore poeta bohemien, come si dice con una definizione un po’ abusata, stravagante artista del pennello, “il vichingo di Via Sabotino” come lo definì il suo grande amico e “scopritore” Antonio Verri, per via della sua bionda chioma e della sua smisurata mole che ricordavano  gli storici navigatori del Nord Europa. Trasandato, vestito sempre con la solita giacchetta ed il solito logoro paio di jeans, vagabondo per le strade di Lecce, chissà quanti se lo ricordano quando se ne andava masticando pensieri e sigarette, bestemmiando contro lo stato delle cose. “La vita di Edoardo De Candia”, scrive Maurizio Nocera, “è stata libera come

Non ci sono alibi…

di Armando Polito

La tecnologia mette oggi a nostra disposizione strumenti preziosi per conoscere e conservare le testimonianze del passato. Indagini impensabili fino a qualche decennio fa sono rese possibili da sofisticatissimi strumenti che trovano nell’informatica il partner ideale per l’elaborazione e la comparazione dei dati, alla ricerca di verità nascoste o offuscate dalle offese del tempo. Da qui le ricostruzioni in realtà virtuale che consentono di rivivere il passato, sia pure con i rischi di spettacolarizzazione che nell’era dell’immagine sono sempre in agguato. E sul piano della conservazione? Il discorso qui è molto più complicato perché coinvolge risorse umane ma, soprattutto, finanziarie. In un paese, come l’Italia, che detiene una parte notevolissima del patrimonio culturale dell’umanità il problema non è stato mai particolarmente sentito, nemmeno quando erano i tempi delle vacche grasse, figuriamoci oggi! Se gli affreschi a Pompei lentamente ma inesorabilmente svaniscono (ma qualcuno è pure svanito in un istante nel nulla…), se ai graffiti antichi si sovrappongono quelli moderni di visitatori idioti, che importa? Ci sono ben altri problemi da risolvere! Se penso ai cassintegrati ed alla schiera di giovani in cerca di un lavoro che non comporti lo sfruttamento schiavistico delle loro competenze, finisco, non guardando alle responsabilità oggettive che stanno a valle della crisi, per essere anch’io d’accordo con questo atteggiamento. Allora, se Pompei è destinata ad andare in rovina, se è fatale che manoscritti e libri antichi siano oggetto dell’attenzione privilegiata dei topi e delle muffe, se un fabbricato antico diventato nel corso del tempo rudere fra dieci anni dovrà essere solo un ammasso informe, perché non procedere sistematicamente almeno alla riproduzione digitalizzata del suo stato attuale? Nell’era del decentramento basterebbe che ogni amministrazione comunale utilizzasse le stesse attrezzature riservate ad immortalare, per lo più,  le gesta della maggioranza di turno; gli operatori, poi, potrebbero essere, naturalmente a titolo gratuito, quei numerosi cittadini che in ogni centro danno prova di amore disinteressato per la loro città e per la sua cultura. Ogni riproduzione, poi, prima di essere immessa in un catalogo generale, dovrebbe essere certificata dalle istituzioni competenti per evitare il rischio dell’intrufolamento di qualche immagine falsa o ritoccata da parte del solito idiota. Tutto ciò comporta preliminarmente l’abolizione di tutti i lacciuoli e le esclusive che attualmente impediscono al privato cittadino di effettuare riprese fotografiche in edifici  aperti al pubblico di qualcosa che è, in fondo, patrimonio di tutti. Il consenso alla ripresa, insomma, resterebbe solo nel caso di edificio privato…non in palese stato di totale abbandono.

Per dare spessore concreto al mio discorso prenderò in esame l’epigrafe presente in un ambiente di quella che era la fabbrica della chiesa di Santa Maria della Grotta1, nell’immediata periferia di Nardò.

La mia foto in basso, elaborata per accrescerne la leggibilità, risale al 2006.

L’epigrafe consta di sette linee, delle quali sono ancora agevolmente leggibili le prime quattro contenenti, come vedremo, il nome dell’intestatario e la brava serie di titoli suoi e del suo “principale”; purtroppo le condizioni del manufatto degradano irrimediabilmente nella metà inferiore (molto probabilmente perché più soggetta alle conseguenze di qualche dissennata attività di tiro a segno o, addirittura, di sovrascrittura), proprio quella che doveva contenere le motivazioni che avrebbero potuto darci qualche ulteriore lume sulla storia della chiesa, sicchè pare un colpo di fortuna che nell’estremo lembo destro si sia  conservata appena leggibile l’indicazione dell’anno.

Eccone la trascrizione:

J(ESUS) H(OMINUM) S(ALVATOR)2 JOANNES GRANAPHEUS BRU(N)DIS(INUS)

U(NIUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERA)LIS HOD(IE)

D(OMINI) FABII CHISII NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)

HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HA(N)C ECCL(ESIAM)

……………A REPR……….O

…………..ANTE…….

AN(NO) DOM(INI)3 (?) MDCXL

Va subito detto che molto probabilmente la tendenza all’abbreviazione delle parole fu conservata anche nelle linee ora illegibili, sia pure in misura ridotta, dal momento che non vi dovevano comparire, come nella parte precedente, titoli ma solo indicazioni circa l’intervento effettuato sulla chiesa.

Traduzione:

GESÙ SALVATORE DEGLI UOMINI.  GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI4,

DOTTORE DI ENTRAMBE LE LEGGI, PROTONOTARIO APOSTOLICO, PREPOSITO REGOLARE, OGGI VICARIO GENERALE

DEL SIGNOR FABIO CHIGI5 VESCOVO DI NARDÒ ED IN GERMANIA

OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO, QUESTA CHIESA

…………………

…………………

NELL’ANNO DEL SIGNORE(?) 1640

Lascio al lettore immaginare cosa sarà dell’epigrafe fra qualche decennio e cosa sarebbe stato possibile a quella data ricostruirne senza l’ausilio di una foto più o meno datata.

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1 Il lettore che abbia interesse all’argomento può trovarne ampia e dettagliata notizia in Emilio Mazzarella, Nardò  sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina,  1999, pagg. 377-378 e figg. 116-122.

2 JHS è il trigramma, acronimo rivisitato dell’originale greco IHS, abbreviazione di IHSOUS (Gesù).

3 Il dubbio riguarda solo se la formula era riportata in modalità estesa o abbreviata.

4 Nativo di Mesagne, marchese di Carovigno, dottore delle due leggi e protonotario apostolico, inviato a Nardò dalla S. Sede quale vicario apostolico, fu poi fatto nominare vicario generale da Fabio Chigi e l’8 giugno 1635 prese possesso della diocesi. Nel 1636 fu nominato canonico della Cattedrale e nel 1639 preposito.

5 Ordinato sacerdote nel 1634, vescovo di Nardò dal  9 gennaio 1635 al 13/5/1652,  non mise mai piede nella diocesi né mai conobbe Nardò, impegnato a Malta come generale inquisitore e delegato apostolico, alla fine del 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere. Mentre era a Colonia fu nominato prelato domestico ed assistente al soglio pontificio. Dal 1655 al 1667 fu Papa col nome di Alessandro VII.

AMARCORD: IL RIGOLETTO SU RAIUNO E QUELLO DEI CONCERTI BANDISTICI NELLE FESTE PATRONALI

di Rocco Boccadamo

Ho assistito con gusto e godimento, beninteso da non intenditore, alla recente messa in onda, su RAIUNO, del “Rigoletto a Mantova”, i tre atti “live” dell’opera verdiana.

E’ stato per me motivo di semplice e insieme grande emozione, il contatto, ovviamente mediato dal teleschermo, con il maestro Zubin Mehta, che molti anni fa ho avuto agio d’incontrare e salutare  di persona al Ravenna Festival, con il famoso tenore Placido Domingo, con la suggestiva ambientazione nel palazzo Te del capoluogo virgiliano.

Inoltre, dalla visione delle scene  e, soprattutto, dall’ascolto delle melodie e delle arie del capolavoro del Cigno di Busseto, ho tratto spunto e ispirazione per riandare indietro, con la mente, a stagioni lontane e a rappresentazioni del “Rigoletto” in un contesto logistico ben diverso e assai più circoscritto, e però contenenti un’anima e un fondo coinvolgenti, quasi sullo stesso piano e di eguale spinta penetrativa, rispetto alla freschissima presentazione in

Piccoli seminaristi crescono (undicesima parte)

Le passeggiate nel Seminario Vescovile di Nardò dal 1960 al 1965

 

di Alfredo Romano

Nel primo pomeriggio di ogni giorno si andava in passeggiata, l’unico contatto quotidiano col mondo esterno, una boccata d’ossigeno che ti apriva alla varietà dei colori, dei volti delle persone,  delle cose, della natura. Terminato il pranzo, si saliva in camerata per prepararsi all’uscita. Ai neretini bisognava dare un’immagine ordinata e pulita dei seminaristi, perciò si dava il lustro alle scarpe, si spazzolava il completino clergyman e anche quel po’ di ciuffo di capelli in fronte residuo di una tosatura mensile a tutto campo. I gruppi in uscita erano due, divisi per camerate dei grandi e dei piccoli, ognuno guidato da un vice rettore coadiuvato da un prefetto e un vice prefetto. Le destinazioni dei due gruppi erano diverse, ma la meta era sempre una periferia della città verso le strade per Lecce, Leverano, l’Avetrana, il camposanto, la Chiesa dell’Incoronata. La passeggiata durava un’ora; la domenica, invece, si allungava di mezz’ora con la possibilità di spingerci fino ai Pagani, località allora immersa in una distesa di ulivi e pajare (oggi un ammasso di case… che non lasciano l’erba, direbbe Celentano). Varcato il portone del Seminario, si attraversava il centro storico con regole ben precise: in fila per due, composti, ordinati e in silenzio. I neretini ci osservavano sempre con riguardo al nostro passaggio, facevamo loro tenerezza, piccini quali eravamo. Non così le bande di piccoli monelli che si divertivano un mondo a canzonarci con cori del tipo: Li papiceddhi! Li papiceddhi! Sta ppàssanu li papiceddhi! E giù risate a non finire. L’obbligo era d’ignorarli, ma dentro di noi albergava ancora quel vecchio monello che soffriva a dover frenare la voglia di rincorrerli e affrontarli rotolandosi per terra a suon di pugni. Ah! se poco poco il vice rettore, per dire, ci avesse dato libero spago… che botte da orbi! E invece, come se nulla fosse, si procedeva con malcelata indifferenza e quei monelli continuavano a riderci alle spalle. Finalmente in periferia e il vice rettore, col suo fischietto, dava ordine di sciogliere le file e anche il silenzio. Per 20 minuti circa si poteva parlare, ridere e scherzare. Era permesso portarsi anche un’armonica a bocca. Il primo a farci da colonna sonora con la sua armonica fu Antonio Tòzzoli, ma anch’io me ne feci procurare una da mio padre. I motivi da suonare erano quelli delle filastrocche popolari per ragazzi che apprendevamo dal vice rettore don Giorgio Crusafio durante le colonie estive a Villa Tabor delle Cenate. Alcuni titoli: Alla fiera di mastro Andrè, Cameriere porta mez slitte (filastrocca del Nord Italia), Chevaliers de la Table Ronde (filastrocca in lingua francese) e La nonnina bella, per scoprire, anni dopo, che non de La nonnina bella si trattava, ma de La Rosina bella. Certo che storpiare una filastrocca così innocua per non contaminare la cosiddetta virtù dei seminaristi era troppo. Basta questo per capire forse a quali e quante manomissioni e censure siamo stati sottoposti per essere preservati dal “maligno”. Che cosa sarebbe stato di noi, una volta sacerdoti, quando sarebbe scoppiata quella vita reale che avremmo dovuto

Cartoline da Tuglie

Largo Fiera, per memoria

di Luigi  Scorrano

Del Largo Fiera solo chi c’è nato e vi ha trascorso un bel pezzo della sua vita può coltivare la nostalgia da paradiso perduto che il luogo insinua nella memoria. È come dire che chi vi è nato ha aperto gli occhi sulla luce di quel quadrato di cielo sopra le case che il profilo degli edifici non riesce a contenere. E la luce sfugge allegra per le vie circostanti, a raggiera, come in una paesana e dolcemente improbabile Place de L’Étoile di casa nostra.

Per chi lo vede oggi, e non l’ha mai visto com’era quando in effetti vi si svolgeva la fiera dell’Annunziata, ch’è l’occasione che gli dette il nome, Largo Fiera è segnato da uno dei tanti pettinati assetti urbani che il tempo e nuove esigenze di vita comportano. Sicché pare che ricordarlo com’era, fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, sia una sorta di privilegio. Certo è un segreto appuntamento con la malinconia delle cose perdute o di quella perduta parte di noi stessi che riaggalla a tratti nella mente e rende più pungente il senso del passato.

Un largo, come dice il nome: non una piazza. Un largo senza muretti di confine a segnare con decisione le strade. Uno spiazzo dove i bambini delle famiglie che vi abitavano intorno trovavano il luogo ideale dei loro giochi ed erano sotto l’occhio amorosamente vegliante delle madri. L’ingombrante Casa del Fascio, rimasta incompiuta ed in seguito utilizzata  in vario modo (scuola, municipio), tolse respiro al luogo; ma nello spazio dell’attuale “villetta” gli alberi del pepe (li chiamavamo così) scuotevano languidamente i loro molli rami, quasi travestendosi da salici al margine di uno specchio d’acqua inesistente.

Il toponimo, prima degli anni Ottanta divenuto Piazza Municipio, gli è stato provvidamente restituito, perché della funzione di quel luogo non si cancellasse la memoria. Il giorno della festa patronale, la Madonna dell’Annunziata, protettrice del paese, vi sostava un bel po’, ferma di fronte al luogo dove in suo onore venivano “sparate” fragorose “batterie”. Era in compagnia d’una teoria di santi, che le assicuravano scorta e facevano un bel vedere, nella luce fresca di marzo, con i loro gesti imperiosi o dolci, con le loro divise multicolori.

Largo Fiera era un luogo della gioia. A Natale vi si accendeva il più bel falò del paese, quello che durava per più giorni. Il calore di quel fuoco riscalda la mente, a ripensarlo. E le faville che ne scaturivano si sono attaccate alla volta celeste e sono le stelle che brillano nella notte di Natale.

Libri/ Gallipoli e le sue donne

di Paolo Vincenti 

“Gallipoli e le sue donne” è una pubblicazione del Crsec Le/48 Gallipoli,  a cura di Cosimo Perrone, che fa luce sul passato glorioso della cittadina Jonica attraverso le imprese delle sue donne, vale a dire quelle, più o meno conosciute, eroine  del passato, che hanno contribuito a fare grande la sua storia.Con una scrittura agile e molto chiara, l’autore ci offre uno spaccato dell’universo mondo femminile, l’altra metà del cielo gallipolitano,  partendo dalla vita leggendaria di alcune donne vissute nel Cinquecento (“Gli amori di Maddalena e di Elisabetta Sansonetti”e “Gli amori di Erminia Scaglione”)  che “fanno accostare l’ideale femminile gallipolino a quello greco”, passando per “La serva di Dio Lucia Solidoro”, nata nel 1910 e morta nel 1933 a soli 23 anni,  in odor di santità, poi per l’eroina del Risorgimento Antonietta De Pace, forse il personaggio femminile più intenso e importante a cui Gallipoli abbia dato i natali, fino a  Sofia Stevens, delicata poetessa dell’amore, vissuta nell’Ottocento, “l’ultima e la più soave Camena gallipolina, dalle fattezze elleniche, dal cuore di Saffo”, come ebbe a scrivere Emanuele Barba in “Scrittori ed Uomini insigni di Gallipoli”, riportato da Perrone. Ed ancora, tutte quelle donne che hanno svolto i lavori più umili ma al tempo stesso importanti per l’economia salentina del tempo passato, i cui nomi non rifulgono nel firmamento delle glorie gallipoline, al pari di quelli delle donne testè elencate, ma che meritano tutto il nostro rispetto ed un accorato ricordo per il ruolo determinante che hanno svolto nella società del secolo scorso.

Parliamo delle tabacchine, delle tessitrici e delle contadine salentine. L’autore, inoltre, si occupa della “Donna gallipolina nella letteratura”, come la “Nifide” descritta dal Galateo in un suo famoso epigramma o quelle dal medico galatonese descritte nella sua opera “Callipolis descriptio”,  ed inoltre le donne cantate dai poeti dialettali come Nicola Patitari. Un altro capitolo è dedicato alla “Donna nei Motti e nei Proverbi gallipolini”. Le foto che compaiono nel libro sono opera di Cosimo Perrone, Mario Milano ed Elio Pindinelli. L’autore, poi, si occupa in appositi capitoli, della “Donna nel

Una nuova Babele?

di Armando Polito

Nella mia risposta al pregevolissimo post di Gianni Ferraris È possibile trasformare l’arte e la cultura in PIL? del 4 settembre u.s., ironizzando su PIL, ho fatto cenno ad un mio lavoro sugli acronimi formulando la speranza che il sito offrisse ospitalità ad un estratto dell’originale. Se la mia speranza non è andata delusa, il lettore sappia che io sono un tipo che generalmente mantiene le promesse, ma soprattutto le minacce…

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1 Zio rincoglionito, lo sai che questo libro che abbiamo scritto insieme sta avendo un grande successo?

2 Gloria, non mi distrarre, perché devo compilare prima Unico, poi F24, poi devo telefonare all’FDB (si tratta dell’acronimo di un’azienda locale per la manutenzione degli impianti di riscaldamento, acronimo che non sciolgo perché pare che la pubblicità palese sia più grave di quella occulta…) perché domani deve venire l’ASEA (vale quanto detto per FDB) per controllare il BTZ (Basso Tenore di Zolfo, con riferimento agli oli combustibili usati negli impianti di riscaldamento urbani). Intanto passami un foglio formato A4…

Probabilmente il più grande progresso fatto dall’uomo nell’uso onesto del linguaggio consiste nella formulazione di frasi quanto più possibile sintetiche ma chiare, non suscettibili di interpretazioni difformi; è questa un’apparente involuzione che sembra percorrere il cammino inverso rispetto alle forme espressive dell’uomo primitivo di cui, naturalmente, non abbiamo le prove (è fantascientifico, a tal proposito, immaginare in un futuro più o meno lontano la possibilità di captare questi suoni imprigionati nell’ambiente in cui furono emessi, sempre che noi uomini del duemila siamo in grado di conservare intatto quell’ambiente a beneficio di chi potrà studiarlo forse meglio di noi?), ma che supponiamo composto sostanzialmente di articolazioni elementari, magari di carattere onomatopeico, cioè imitante i suoni e i rumori connessi col concetto da esprimere e col messaggio da mandare; poi, proprio come avviene nel bambino, sarebbe avvenuto il passaggio, attraverso la liberazione dall’imitazione e l’elaborazione personale,  verso forme comunicative sempre più sofisticate, in grado addirittura (è quello che io chiamo uso non onesto del linguaggio, anche questo ben presto manifestatosi, secondo me, in epoca primitiva…) di mascherare i nostri reali stati d’animo, perfino le nostre emozioni e i nostri affetti. E’ indubbio, comunque, che un modo di esprimersi chiaro e sintetico è per sua natura vincente, non fosse altro perché non fa scattare nella mente di chi ascolta la prima pericolosa domanda:” Ma questo, che vuole dire?” e la seconda, fatale: “Ma questo, quando la finisce?”.

La sintesi va senz’altro bene, ma anche in questo campo il troppo storpia. Ne è una prova inconfutabile, con cui ognuno di noi in tutti i campi, da quello professionale a quello sentimentale, deve oggi fare i conti, la serie sterminata di sigle giornalmente impinguata da nuovi arrivi, sicchè non mi meraviglierei se fra qualche anno almeno i due terzi di ogni vocabolario fossero occupati proprio dalle sigle, dalle loro sorelle, le abbreviazioni, e dai loro fratelli, i simboli.  E’ un fenomeno, direbbero i sociologhi, strettamente connesso con la rapidità che caratterizza il nostro tempo in ogni sua manifestazione e alimentato anche da quelle che un po’ troppo pomposamente vengono chiamate nuove tecnologie, telefonini e SMS (Short Message System) in primis, tutte accomunate dall’uso di un linguaggio (sono costretto mio malgrado a mediare un termine dal settore informatico) compattato.

Questa indagine non riguarda sigle che col tempo sono diventate nella

Le sagge considerazioni di un agronomo

 

 

inconfondibile Salento!

 

 

di Antonio Bruno

Quando la prima guerra mondiale volge al termine, a Giugno del 1918 a Lecce c’è una discussione che appassiona i viticultori: lo zufolo. L’innesto a zufolo si pratica sia sulla vite che sul fico, l’olivo e il noce. Si asporta un cilindro di corteccia dal ramo con una gemma (occhio) della pianta che vogliamo innestare sul selvatico. Sul selvatico asportiamo una parte di corteccia lasciando un lembo. Miglietta ne fece un articolo per spingere tutti a praticare questo semplice giochetto che portava ad avere la pianta innestata con un successo del 96 – 98%.
Il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina frena l’entusiasmo e rincara la dose ricordando che i tralci che vengono usati per lo spacco inglese, che si fa in autunno, vengono dalla potatura e perciò si ha solo l’imbarazzo della scelta, invece i tralci verdi che sono necessari per l’innesto a zufolo non dovrebbero essere tolti dalla pianta perché sono la vegetazione che dovrebbe dare luogo alla produzione dei grappoli.
I testardi viticultori del 1918 impipandosi dei risultati sperimentali andavano dritti per la loro strada, un po’ come gli agricoltori di oggi che bastano a se stessi senza richiedere la direzione del Medico della terra ovvero di noi Dottori Agronomi o Forestali che potremmo essere pagati solo in caso di successo ed incremento della produzione oppure in caso di mancato danno.

“Abbracciami amore mio!”, disse l’olivo

di Antonio Bruno

Da sempre il problema di vendere i prodotti è stato l’assillo che toglie il sonno. L’olio è un prodotto che va venduto entro l’anno altrimenti la sua qualità decade. Il punto è riuscire a far provare un prodotto di qualità come l’olio al consumatore. All’estero poi c’è il passaparola che aiuta nelle vendite ed è la qualità che ci differenzia dai prodotti locali. Insomma bisogna per prima cosa informare, fare assaggiare e poi vendere. Nel caso dell’olio d’oliva moltissimi all’estero ne hanno sentito parlare, ma occorre insegnare come deve essere consumato.
E’ semplice i produttori di olio d’oliva del Salento leccese devono fare cultura al consumo. Dopo avere condotto delle campagne d’informazione organizzando test d’assaggio sicuramente si raccoglieranno risultati positivi. Insomma i produttori di olio d’oliva del Salento leccese prima dovrebbero fare informazione e poi, se serve, pubblicità.

I mercati che si dovrebbero raggiungere con questi semplicissimi accorgimenti sono Germania, Francia e Spagna e tutti i mercati d’Europa, ma i test d’assaggio andrebbero fatti anche a Mosca, in Giappone, in Nuova Zelanda e a Taiwan. Ogni settimana si dovrebbe spedire in quei lontani paesi del prodotto.
Ma la ricetta per sfondare sui mercati esteri è proporsi alle catene della gdo internazionale con delle azioni di supporto alla vendita direttamente nei supermercati. La stessa strategia che ha premiato il Parmigiano-Reggiano, dopo che negli ultimi anni insieme al cugino Grana Padano è stato al centro di un rally dell’export.
Nel 2008 hanno proposto per sostenere azioni di marketing diretto agli esportatori di introdurre azioni di marketing direttamente nei punti vendita. Il primo anno hanno messo a disposizione 3,5 milioni di euro, nel 2009 altri 2,5 anche se erano in attesa dei finanziamenti erogati nell’ambito dell’agenzia Buonitalia dal ministero delle Politiche agricole. Fondi arrivati quest’anno e che condividono con il Consorzio Grana Padano. A questi importi gli esportatori contribuiscono per un altro terzo. Nel 2010 il nostro budget dovrebbe aggirarsi intorno ai io milioni. I mercati interessati sono la Russia e si sta iniziando a guardare alla Cina.

Ma c’è un grande volano per far conoscere l’albero da cui si ricava l’olio d’olivo: abbracciarlo!
Milioni di anni fa siamo scesi dagli alberi, per poi passare gran parte del nostro tempo a tagliarli o bruciarli. Da diecimila anni abbiamo anche imparato a piantarli e ad accompagnarne la crescita, ma lo abbiamo fatto sempre di meno. E adesso che avremmo bisogno di loro per mantenere gli equilibri ecologici, ci accorgiamo che sono troppo pochi. Abbiamo già tagliato almeno la metà delle foreste del pianeta, nonostante i loro alberi abbiano reso il suolo fertile e l’aria respirabile, mitigato gli eccessi del clima, fornito legna, frutti, ombra, bellezza per mille usi indispensabili e piacevoli.

Ci sono molte buone ragioni per abbracciare gli alberi: fa bene allo spirito e all’istinto materno. Aiuta a ritrovare l’equilibrio interiore, a recuperare la dimensione del sè, ad essere genitori migliori, più armonici, per i propri figli.
Il Comune di San Casciano ha deciso di prendere in prestito un’antica tecnica orientale proponendola in forma sperimentale alle neomamme in un programmma di prevenzione della depressione post parto. In realtà la tecnica è antichissima: gli aborigeni australiani lo facevano per assorbire energia vitale. Tra questi alberi c’è l’olivo: l’olivo diventa tutor ‘naturale’ a sostegno delle mamme, in cerca di energia e dello spazio di donna perduti dopo l’esperienza di rinascita fatta insieme al proprio piccolo.

Abbracciare un albero significa stabilire un contatto con l’origine della terra, una fonte generatrice di energia che può essere paragonata a quella della donna mentre dà alla luce una nuova creatura. L’incontro con l’albero è l’incontro con l’ambiente.

Io vi voglio raccontare di come si fa l’olio nel Salento leccese e degli alberi che sono qui ad aspettarvi per essere abbracciati.
Si! Tra gli alberi che potete abbracciare ci sono quelli del Fondo “Polisene” in agro di Ugento del mio amico Vincenzo Pezzulla Un ettaro di oliveto (Ha 1.00.00) con 110 alberi di olivo, 50 dei quali hanno 200 – 300 anni e 60 alberi appena 20 anni (mazzareddre) tutti della Varietà Oliariola. Mi ha anche raccontato come cura i suoi alberi, non mi ha chiesto una consulenza, mi ha solo narrato un’altra agricoltura che c’è, reale, che si incarna nelle paratiche che vi riferisco.

Il mio amico, intorno al 15 Marzo, interviene sui suoi alberi con un Trattamento contro l’ occhio di pavone (fungo che attacca le foglie dell’albero di olivo) utilizzando una miscela che spruzza sulla chioma di concime fogliare 20 – 20 – 20; anticrittogamico, insetticida.
Poi ai primi di Maggio il mio amico Vincenzo interviene sul terreno pieno di erbe spontanee con un Trincia erba oppure con il decespugliatore. Alla fine dell’intervento è possibile vedere la formazione di un tappetino giallo su tutto il terreno.
A fine giugno Vincenzo interviene con l’ Irrigazione di 150 metri cubi d’acqua in media ogni albero ha 4 spruzzatori terminali che sono a lui poggiati alimentati da un impianto aereo fisso. Vincenzo ripete l’ irrigazione in media ogni 15 giorni con 8 interventi irrigui per un massimo di 1.200 metri cubi per ettaro.

Poi sia a Luglio che a settembre fa sciogliere nell’acqua che serve da irrigazione 3 quintali di urea , realizzando la fertirrigazione.
A fine fine settembre primi di ottobre trattamento insetticida contro la mosca (Diptera Brachycera Schizophora Acalyptratae Tephritidae è una specie carpofaga, la cui larva è una minatrice della drupa dell’olivo). È considerata l’avversità più grave a carico dell’olivo, per questo Vincenzo effettua un intervento spruzzando sulla chioma degli alberi di olivo una miscela di concime fogliare 20 – 20 – 20; anticrittogamico, insetticida.
A questo punto a fine ottobre effettua una Prima raccolta che ha anche la funzione di pulizia delle aree impiegando il soffiatore sul terreno. Con il soffiatore si accumulano le olive, poi con le scope si fanno i cumuli, a questo punto con un coperchio di plastica tagliato in due si raccolgono le olive e si ripongono nelle tinelle.
Le olive raccolte dalla tinella vanno nella cernitrice con defogliatore a motore.
Una volta che si è finita la cernita si mettono le olive nelle cassette da 33 Kg o in cassoni di 3 quintali e 40 e vengono trasportate con un carrello al Frantoio, qui il pesatore provvede alla pesa e solo a questo punto le olive vengono scaricate e poi molite.
Si ottiene un olio Olio che ha un acidità da 1 a 5 – 6 gradi (olio lampante); la Resa delle olive è del 6% (da 100 chili di olive si ottengono 6 chili di olio).
La Prima raccolta delle olive che poi daranno olio di qualità Vincenzo la effettua dopo il 2 novembre. Il mio amico prima mette la rete sotto l’albero dopo di che sale con le scale sulla pianta e poi con il pettine di plastica fa distaccare le olive dal peduncolo.
L’orario di lavoro dalle 8 alle 13 per ogni albero di olivo. Ma Vincenzo si è organizzato e chiama un conto terzista che con lo scuotitore riesce a impiegare solo 10 minuti al massimo per ognuno dei 110 alberi di olivo. Il Conto terzista per la sua prestazione chiede intorno ai 170 Euro al giorno e riesce a raccogliere 50 – 80 quintali di olive.
Sia che siano spurgate a mano che con lo scuotitore si raccolgono ogni 20 giorni 30 – 40 quintali di olive che daranno una resa 6% di olio che avrà un’ Acidità da 0,2 a 1 grado.
Il raccolto delle olive avviene ogni 20 giorni ovvero Vincenzo effettua circa sei raccolti l’anno per una produzione totale di 180 quintali di olive di cui 60 quintali raccolti da terra (olio lampante).
Prima di ogni raccolta stessa operazione di prima del 2 novembre e si ottengono 25 quintali di olive alla resa del 6%.
Dai 180 quintali di olive Vincenzo ogni anno ottiene in media 7 quintali di olio extra vergine e 4 di olio lampante.
Voglio sottolineare che Vincenzo da anni fa così il suo olio ma voglio anche dirti che se tu vorrai adottare un suo albero, per abbracciarlo e per assaporare il suo olio potremo stabilire insieme a lui come far stillare da quelle olive l’olio dei tuoi sogni e come trattare la pianta che abbraccerai!

Bibliografia

Anche con il passaparola si conquistano nuovi mercati – Il Sole 24ore del 10 maggio 2010
E’ importante proporsi alle catene della gdo – Il Sole 24ore del 10 maggio 2010
Giuseppe Barbera: Abbracciare gli alberi – Mondadori
A Cerbaia le mamme abbracciano… gli alberi
http://www.gonews.it/articolo_55088_Cerbaia-mamme-abbracciano-alberi.html

Tuglie. Un paese, un racconto

di Luigi Scorrano

Ogni paese ha una storia. Ma questa storia è fatta non solo degli avvenimenti, grandi o piccoli, dei quali un paese è teatro; è fatta anche dalla fisionomia del paese, dai suoi luoghi, dalle generazioni che vi impressero un segno distintivo e lo passano ai posteri. Si può fare storia di un paese anche così, osservando quanto ci circonda nel luogo in cui viviamo, ripensando alla nostra collocazione nella piccola società che esso ospita… Il racconto ‘storico’ di un paese può attingere anche in un percorso inconsueto la sua visibilità, il suo carattere.

Il paese di cui qui parliamo è Tuglie. Per ‘cartoline’.

Ritrattino di Tuglie

Con le sue case, con la sua piazza al centro di un abitato più lungo che largo, con la sua collina di Montegrappa che fa da belvedere su un ampio tratto di territorio, Tuglie, nella sua raccolta fisionomia, non manca di attrattive. Sembra quasi d’obbligo, quando si vogliano vantare origini illustri, rifarsi ai Romani (in Italia, almeno!) o anche più lontano: anche Tuglie non sfugge a questa specie di regola. Qualche traccia, per quanto incerta, una parentela potrebbe stabilirla. Ma è dal Medioevo che abbiamo qualche notizia più sicura; ed è soprattutto tra il Sei ed il Settecento che Tuglie comincia ad acquistare un preciso profilo di paese, di comunità urbana.

Gli studiosi locali hanno illustrato aspetti generali o parziali di questo luogo; ci hanno raccontato, anche, la storia dei suoi abitanti, umili o eminenti che fossero. Un paese è fatto di tutti coloro che ci vivono e in

Una misteriosa parola composta: Ariacorte

L’ARIACORTE E’ CAMBIATA,

UN MARITTIMESE A MILANO, INVECE, NO

di Rocco Boccadamo

Nel caso di cui si tratta, “Ariacorte” non è una misteriosa parola composta, slogan o sigla di chissà che, ma, semplicemente, l’antica denominazione di un rione, piccola isola situata nella periferia di un altrettanto piccolo paese del sud Salento, delimitato e costituito da appena cinque viuzze: Francesco Nullo, Giacomo Leopardi, Pier Capponi, Isonzo e Piave.

Riandando con la mente a circa sessanta anni addietro, un fazzoletto costellato di case generalmente al livello della strada, salvo poche elevate sino al primo piano, con sottostanti locali adibiti a rimessaggio del traino o a laboratorio di tessitura a mano o a deposito di attrezzi agricoli. Dimore modeste, eppure smaglianti nel loro biancheggiare da latte di calce, soprattutto nido e culla per 35 nuclei familiari, con più di 150 componenti.

Popolo di età eterogenee, da ottuagenari e oltre a neonati e pargoli. Senza retorica, 35 famiglie dal punto di vista della mera numerazione anagrafica, in realtà, nel quotidiano divenire delle azioni e cose, alla luce dei vincoli di amicizia spontanea e disinteressata, di fraternità e di solidarietà, un solo, grande desco allargato.

E, così, a più di mezzo secolo di distanza, quali e quanti, per lo scrivente, i ricordi, ancora vivissimi, di quei volti, di quelle voci, delle lunghe e straordinarie stagioni, giorni e notti, snodatesi e trascorse indifferentemente dentro o all’esterno di quegli usci, porte prive di campanello o di nome, naturalmente dischiuse. La sensazione è di seguitare ad avvertire, saper distinguere e riconoscere i passi di ciascuno, compreso il ticchettio, sullo sterrato, di qualche bastone d’ulivo che accompagnava i più vecchi.

Il rione Ariacorte, nella toponomastica della minuscola località urbana e secondo la tradizione della moltitudine, c’è, sopravvive anche nel presente terzo millennio, e però, senza bisogno di aggiungere altro per porre in risalto la differenza, ora non ha più anima.

E’ vero, residuano 9 delle richiamate 35 famiglie, tuttavia si tratta di termini sparuti, in totale 10 persone, si è praticamente esaurita la continuità e la permanenza dei nuclei originari, circa l’80% delle stesse case è passato di mano, divenuto proprietà di turisti arrivati da fuori. Tanti soggetti nuovi, per la verità tranquilli, quieti e silenti, con prevalenza di giovani, aggraziate ed eleganti donne, le quali soggiornano e si ritemprano da sole oppure con compagno o barboncino a fianco.

Se l’Ariacorte, insomma, pullula di visi e figure nuove e, ad ogni modo, ormai non contiene alcunché della sua essenza pregnante di ieri, v’è, invece, nel medesimo paese, qualche singola sfaccettatura, che non muta, dà anzi l’impressione di travalicare il tempo.

Peppino F, classe 1932, se n’è partito da qui ventenne, dal 1955 vive e risiede nel capoluogo lombardo e, dunque, ha pienamente maturato la cittadinanza e il titolo di milanese. Ciononostante, mai che abbia saltato, d’estate, la vacanza nel borgo d’origine, a dirla con precisione, ora che è in pensione, vi si ferma un paio di mesi.

Ecco, difatti, Peppino, che tutti i giorni, intorno alle sette del mattino, in sella al suo motorino zainetto in spalla, si reca all’Acquaviva per “prendere” il bagno e, verso le 9.30, è già di ritorno a casa.

Inframmezzando l’arco della giornata con contatti e chiacchiere con amici compaesani, nel pomeriggio è poi solito portarsi nel boschetto delle querce della vicina Castro oppure al belvedere lungo la strada per l’Arenosa per qualche parentesi di tranquilla lettura.

Un esempio di bella semplicità di vita, non si è d’accordo?

Se è permesso, si vorrebbe, concludere accennando che in Via Piave, rione Ariacorte, qualche tempo fa, nasceva l’autore delle presenti righe.

capasòne è il capofamiglia, capàsa la mamma, capasièddhu il figlio

UNA SIMPATICA FAMIGLIA

CON UN RAGAZZINO PIUTTOSTO PRECOCE…

La capàsa, lu capasòne e lu capasièddhu.

 

di Armando Polito

Chi avrebbe potuto immaginare appena cinquanta anni fa che un oggetto molto diffuso soprattutto nel mondo contadino e per questo poco pregiato sarebbe diventato un cult, proprio come un film di Totò o, forse meno meritatamente, di Alvaro Vitali, il mitico Pierino?

Il miracolo operato dalla famiglia dell’oggetto del quale tra poco parlerò è ancora più sensazionale perché il valore artistico di Totò, anche se snobbato lungamente dalla critica, c’era già all’origine ed era fatale che prima o poi venisse riconosciuto; il nostro oggetto, invece, non ha mai avuto velleità artistiche ed era nato per assolvere ad una funzione esclusivamente pratica, quella della conservazione di alcune derrate alimentari: olio o vino o fichi secchi o altro sotto sale o sotto aceto, in ordine progressivo di dimensione e, correlativamente, almeno in parte, di forma.

Poco prima ho usato la parola famiglia perché mi sembrava la più appropriata per esprimere quel rapporto affettivo che in passato si instaurava con gli oggetti, ancora ravvisabile nei loro nomi, ma che oggi, nell’era dell’usa (più spesso non usa) e getta, appare come pura follia ripristinare.

Passo alla presentazione: capasòne è il capofamiglia, capàsa la mamma, capasièddhu il figlio (il maschilismo imperante anche in campo linguistico relegava capasèddha ad un ruolo marginale, per lo più sostituita dal fratello). Spesso, però il maschilismo linguistico deve fare i conti con l’etimologia ed è il nostro caso: è evidente che il nome primitivo è capàsa, mentre capasòne e capasièddhu sono derivati, rispettivamente accrescitivo e diminutivo.

Basterà, perciò cercare solo l’etimo di capàsa. Il Rholfs invita solo ad un confronto con l’analoga voce calabrese e con il neogreco kapàsa. Antonio Garrisi4 lo fa derivare dal latino càpax/capàcis, aggettivo che significa capace. In Wikipedia leggo “ dall’aggettivo dialettale capase (capace)”. Procederò con ordine obiettando al Garrisi che, siccome tutte le voci, comprese quelle dialettali, di origine latina derivano dall’accusativo e che capax è un aggettivo ad una sola uscita, dobbiamo partire dall’accusativo maschile e femminile (capàcem) o neutro (capax): nel primo caso, ipotizzando la consueta caduta della consonante finale, l’esito sarebbe stato capàce (proprio come in italiano); nel secondo dovremmo immaginare, oltre alla regolarizzazione della desinenza (aggiunta di -a) il passaggio -x>-s invece del normale -x->-ss (luxus>lussu) o -x->-sc- (molto più raro e sostanzialmente limitato allo sviluppo di un ex- iniziale: exclamàre>scamàre)5. Quanto al capase di Wikipedia sarei curioso di sapere da quale dialetto è stato preso. E allora? Giacché ci sono me la prendo pure col Rohlfs, anche se a qualcuno il mio potrà sembrare un lancio senza paracadute. L’obiezione che rivolgo all’insigne studioso è che l’oggetto di cui stiamo parlando è troppo antico perché sia stato mediato dal neogreco e non dal greco antico. Infatti il greco antico registra un kàbasa o Kabàsas che compare in alcune iscrizioni5 relative ad inventari di templi e che indicano un oggetto non identificato. La kabàsas potrebbe, sottolineo potrebbe, essere l’antenata della neogreca kapàsa e della nostra capasa, dal momento che è notorio come nei templi le offerte venissero custodite in appositi contenitori.

Dopo il parziale fallimento del tentato miracolo etimologico (ne è spia il condizionale “potrebbe”),  chiudo con quello ricordato all’inizio: la nostra brava famigliola è diventata un pezzo di antiquariato (naturalmente mi riferisco agli esemplari antichi, che hanno un notevole valore di mercato), ma anche la nuova generazione se la spassa abbastanza bene, visto che è diventata un oggetto quasi privilegiato dell’arredo di ville anche di un certo prestigio.

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1 Mi sono stancata a stare sempre piena di olive.

2 Io, se devo essere sincero, col vino mi trovo bene…

3 Ma meglio di tutti sto io, sempre pieno di fichi…

4 Dizionario leccese-italiano, Capone, Lecce, 1990; è doveroso ringraziare l’Autore e l’Editore che hanno immesso in rete per la libera ed integrale consultazione, tra le altre, anche quest’opera.

5 Inscriptiones Graecae, Berlino, 1902-1957, passim.

Libri/ Studi in memoria di Antonio Michele Ferraro

STUDI IN MEMORIA DI ANTONIO MICHELE FERRARO

di Paolo Vincenti

Due anni fa,  la Microchips di Tricase diede alle stampe un volumetto di  Studi in  memoria di Antonio Michele Ferraro, per le cure di Mauro Ciardo e Sergio Torsello (2008). Si tratta di un piccolo libro che raccoglie una serie di saggi scritti da alcuni autori locali come omaggio all’intellettuale di Castrignano del Capo, morto nell’agosto di tre anni fa annegato in mare in circostanze mai chiarite, per conservarne viva la memoria, non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche tra i suoi amici e parenti e fra quanti hanno avuto modo di conoscerlo e di apprezzarne le doti di storico e ricercatore finissimo nonché la sua carica umana. Il libro, impreziosito da un lavoro inedito dello stesso Ferraro, si presenta molto semplice e scarno nella impaginazione e nell’elaborazione grafica ma  questo, stanti le scarse finanze a disposizione dei curatori, è quanto di meglio si sia potuto fare per ricordare un intellettuale schivo, preparato ma molto spigoloso, sulla cui figura, dopo morto, si correva il serio rischio che scendesse una coltre di dimenticanza o peggio di indifferenza. Ecco cosa scrivono gli stessi curatori nella Presentazione:  “ A due anni di distanza dalla scomparsa dello studioso, ma soprattutto amico, Antonio Michele Ferraro, avvenuta il 12 agosto 2006 all’età di 54 anni, abbiamo sentito il dovere di omaggiare la sua memoria con una raccolta di saggi. Il passaparola tra gli studiosi ha dato i suoi frutti quando hanno risposto all’appello Paolo Vincenti, Francesco Fersini, Giovanni Cosi, Antonio Monte, Giovanni Spano, Mariangela Sammarco, Salvatore Matteo, Salvatore Musio e Giuseppe Negro. Altri sono stati invitati a collaborare ma per i più vari motivi il contributo non è pervenuto. Chi ha conosciuto da vicino Antonio e il suo carattere schivo e solitario, sicuramente immaginerà a cosa starà pensando da lassù: “Ma cosa state facendo? Un libro su di me? Ma lasciate perdere!”.  Odiava gli onori in vita, figuriamoci le commemorazioni da morto. Quando presentò il libro su Castrignano del Capo, si vergognò persino della richiesta di autografi avanzata dal pubblico. Non potevamo, caro Antonio, non lasciare un segno

Toponomastica salentina

di Gianni Ferraris

Viaggiare in Salento è percorrere strade e paesaggi fatte anche di profumi e colori. Di questo ho già detto e probabilmente ancora dirò. Sarebbe importante per queste terre, avere un turismo qualificato e non il mordi e fuggi estivo, fatto di pochi giorni e via.

E’ terra da vivere in ogni mese dell’anno. Però ci sono aspetti che il viaggiatore assetato non solo di mare deve sapere. Chi, come me, ha un senso dell’orientamento carente, si troverà sperso fra ulivi e vigneti, fra mare e campagna se è sprovvisto di navigatore satellitare.

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

Cogliamo l’occasione della presentazione dell’evento “Maglie città giardino” per pubblicare l’articolo del prof. Emilio Panarese “Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei” apparso dapprima nel dicembre 1999 su «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie, e successivamente nel 2002  in appendice alla  «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato (Congedo editore).

Diversamente da quanto riportato da taluni autori (V. D’Aurelio, G.L. Di Mitri), fu infatti per primo Emilio Panarese a dare notizia di ceramiche raffiguranti uno scorcio del centro storico magliese con i suoi monumenti più rappresentativi, valorizzando questa rilevante scoperta, indicando i due principali marchi di fabbrica (“Victoria Ware” e “T.KOPEN AGHEN”) che utilizzarono la veduta settecentesca di Maglie del Desprez come modello iconografico per decorare oggetti fittili di varia foggia che vennero poi diffusi nei paesi del nord Europa e, in ultima analisi, aprendo quindi la strada ad ulteriori studi al riguardo.

L.J. Desprez, Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes

 

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

di Emilio Panarese

Può sembrare poco credibile che una ‘veduta’, un disegno di un paese dell’estremo Salento, vada a finire sui vasi di fine porcellana, vetrificata, traslucida, fabbricati, tra ‘800 e ‘900, in paesi dell’Europa settentrionale (Svezia, Danimarca, Inghilterra, ecc.). Poco credibile, ma vero.

Vaso di fiori: alt. cm. 35; porcellana bianca, forma esagonale, periodo 1920 ca., provenienza Roma; marchio di fabbrica con le parole “T.KOPEN AGHEN”; propr. Massimo Lionetto

Questa felice veduta (insieme con poche altre salentine come la leccese Piazza di S. Oronzo, Otranto, Soleto, Gallipoli), che riguarda proprio Maglie, è, secondo il parere degli esperti d’arte, tra le più belle e meglio riuscite del secondo Settecento salentino. Si deve al geniale architetto e pittore francese Jean Louis Despréz, che la schizzò a Maglie nel settembre 1778 e la rifinì poi, l’anno dopo a Roma, per l’incisione da realizzare con la tecnica dell’acquaforte.

Si ammira in una delle pregevoli pagine in folio di carta forte, vergellata a mano, della monumentale opera, in cinque grandi volumi, del peso di circa mezzo quintale, «Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile», Paris, 1781-’86, ossia «Viaggio pittoresco o descrizione dei regni di Napoli e di Sicilia», realizzata dall’abate Richard de Saint-Non con la collaborazione di esperti: scrittori, architetti, disegnatori, pittori e incisori.

Brocca da lavabo: alt. cm. 22; lungh. cm.24; porcellana inglese, Londra, periodo 1880 ca., marchio di fabbrica con le parole “Victoria Ware”; provenienza Modena; propr. Lello Di Gioia

Con questa opera straordinaria, ma costosissima, destinata solo alle famiglie reali e alla grande nobiltà, si concludeva la fase tardosettecentesca dei viaggi eruditi in Puglia e nel Sud d’Italia da parte di colti viaggiatori (tedeschi, francesi, inglesi) attratti in questi paesi, quasi sconosciuti, dai monumenti classici dell’Italia meridionale (Magna Grecia) e dalle recenti scoperte di Ercolano e di Pompei. L’autore della veduta Maglie (“Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes”) si trovava a Roma nel 1777 presso l’Accademia di Francia in qualità di borsista (pensionnaire du Roi), quando venne scelto e assunto dal Saint-Non come architetto-disegnatore del “Viaggio pittoresco”. A Napoli, il 16 dicembre, ritrae – è questo il suo primo lavoro dell’opera grandiosa – l’animata e popolaresca festa di S. Gennaro; poi la carovana si sposta in Puglia, quindi nel Salento e a Maglie e a Soleto. Lo schizzo originale a matita, che reca in alto l’antica grafia del toponimo (‘Mallia’) e che ritrae, con l’armonioso equilibrio dei volumi, alcuni monumenti della città (colonna in primo piano, chiesa della confraternita delle Grazie, matrice) è oggi conservata presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, dove l’artista morì nel 1804. Delle tavole acquerellate che ricordano la vita di quel giorno settembrino del tardo settecento a Maglie, sulla strada e presso gli edifici del centro storico, esistono tre versioni: nella prima, la più conosciuta (n. 31, G.de Grèce) si vedono in primo piano una squadra di sedici muratori al lavoro presso una casa con balcone in costruzione presso la colonna e delle persone che conversano sui gradini della chiesa vicina; nella seconda, i tre monumenti citati, in basso a destra una carrozza tirata da due cavalli e gruppi di persone qua e là; nella terza, persone singole o in gruppo nella via di mezzo; a sinistra due uomini a cavallo; in fondo, in piazza, la grande croce di pietra di fronte alla chiesa greca di S. Pietro.
Dopo aver compiuto il giro delle esplorazioni archeologiche, l’équipe francese tornò a Roma. Qui il brillante ed affascinante re Gustavo III di Svezia nel 1784 invitò l’eclettico architetto J.L. Despréz, della cui arte era invaghito, a lavorare presso la sua corte come paesaggista, disegnatore, scenografo e coreografo di feste.

 

Gli schizzi originali che l’artista aveva fatto in vari paesi dell’Italia meridionale furono da lui portati nella capitale svedese: alcuni vennero donati all’Accademia delle Belle Arti, altri invece, negli ultimi miseri anni della sua vita, furono da lui venduti, come vendute furono alcune varianti acquerellate, montate in passe-partout, che circolarono in vari paesi del Nord Europa (Inghilterra, Norvegia. Danimarca. Olanda, Belgio, Russia settentrionale).
E proprio a queste varianti acquerellate che ritraggono, con l’aggiunta in verità di alcuni stravaganti particolari architettonici, il centro storico di Maglie si sono ispirati i ceramisti inglesi e danesi autori delle porcellane qui riprodotte. Vivace e animato il paesaggio specialmente nel vaso di fiori T. KOPEN AGHEN, in cui tra figure di cavalli, cavalieri e pedoni, c’è pure, davanti al basamento della colonna, ora finalmente restaurata, un cane che scappa. Preziosa la brocca da lavabo di fine Ottocento con ansa lucida e becco merlettato da corolle di fiori, che nel cerchio del “piede d’appoggio” mostra la ‘marca’ di fabbrica con l’impresa reale (‘Victoria Ware’) sostenuta e difesa da tre agguerriti leoni. La fine struttura granulosa, di solito usata per lavori artistici, richiama alla mente le più famose porcellane di Sèvres, di Sassonia, di Worchester, della napoletana Capodimonte.
Così le figure di tre monumenti magliesi, felicemente disegnati nel tardo Settecento da un geniale architetto francese, finirono, per le sue vicende personali, in paesi lontanissimi dal Salento e adornarono alcune case della gente del Nord europeo. in «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie,
A.IV(4), dicembre 1999, pagina 9
e
in «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato,
Appendice 4 (di Emilio Panarese), pp. 202-203
in “Le guide verdi”, n. 41, 2002, Congedo editore.

Ulteriori contenuti sono consultabili in “Maglie …fuori del comune” http://emiliopanarese.altervista.orgpg014.html 

Mostre/ Paolo Finoglio. Un maestro del Barocco napoletano

Paolo Finoglio, L’angelo appare a San Giuseppe

Tra realtà e leggenda

di Alessandra Boccuzzi

Un ambizioso progetto vede l’Italia e la Francia protagoniste del panorama culturale europeo. Si tratta di due mostre inquadrate in un’ottica di scambio artistico-culturale di altissimo livello tra la Pinacoteca “Paolo Finoglio” di Conversano e il “Palais des Beaux-Arts” di Lille, promosse dal Comune e il Polo Museale di Conversano “MUSeCO”, la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia e il Palais des Beaux-Arts de Lille.
La mostra “Veronese, Tintoretto e la pittura veneta. Capolavori del Palais des Beaux Arts di Lille” – inaugurata il 9 maggio e in programma sino al 21 luglio 2010,  allestita nelle sale della Pinacoteca “Paolo Finoglio”, all’interno del prestigioso Castello Aragonese di Conversano – è stata curata da Fabrizio Vona (Soprintendente ai Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Puglia) e Saverio Pansini (Direttore dell’Area Politiche Culturali del Comune di Conversano, Direttore “MUSeCO”).

L’evento mira non solo a mettere in evidenza la consistenza e la qualità dei manufatti artistici prestati dal museo di Lille, da considerare tra i musei francesi più importanti, ma anche a ricreare percorsi e sollecitazioni utili ad operare un’efficace contestualizzazione del fenomeno tardo cinquecentesco e dei primi del Seicento in ambito pugliese. La collezione di Lille – afferma Saverio Pansini – risulta particolarmente ricca di opere venete e la sua

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: ‘ncarnare

OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (10): ‘ncarnàre.

Come dare torto al cane?

1 Esci immediatamente da qui, sennò faccio che ci pensi Rex!

2 Con quella faccia di cane che hai perchè stai prendendo gusto ad aizzarmi il cane e non vieni tu?

3 Veramente qui l’unico che ha una bella faccia sono io…

‘Ncarnàre (usato riflessivamente) nel dialetto neritino può significare prendere gusto verso qualcosa [corrisponde all’italiano incarnarsi (nel significato letterario di penetrare nella carne), dal latino tardo incarnàre, composto da in=dentro e *carnàre (da caro/carnis=carne] e aizzare [corrispondente all’italiano obsoleto accanàre=inseguire con i cani (composto da ad=verso+*canàre da canis=cane) con sostituzione di in– con ad-; prova ne siano le varianti ‘ncanàre (usata nel Leccese a Squinzano e a Vernole e nel Tarantino ad Avetrana) e ‘ncanàri (usata nel Brindisino ad Oria); l’epentesi di –r– nella voce neretina può essere dovuta, per motivi semantici facilmente intuibili, ad incrocio con la voce corrispondente al primo significato.

Gli omòfoni del dialetto neretino a fumetti: stunare

GLI OMOFONI DEL DIALETTO NERETINO A FUMETTI (9): stunàre.

Reazione a catena.

1 L’attrezzatura è di lusso, il cantante non solo è bello e bravo ma ha pure uno sguardo molto intelligente… peccato che i musicisti stonano tanto che mi hanno già stordita!

Stunàre nel dialetto neritino è usato nel senso di stonare [da s– (dal latino ex=fuori) privativa e tono, che è dal latino tonu(m), dal greco tonos=cinghia, tensione, da tèino=tendere] ed in quello di stordire, assordare,  forse dal francese antico estoner=sbalordire, dal latino*extonàre, composto da ex =fuori e tonàre =tuonare.

Libri/ Un’inedita biografia del Santo dei Voli

a cura di Stefano Donno

Si tratta di un inedito del 1668 rimasto chiuso nelle biblioteche
vaticane scritto da un compagno di cella di San Giuseppe, padre
Giacomo Roncalli, mentre fra’ Giuseppe era in esilio a Osimo  e
completata pochi anni dopo la sua morte. La prima biografia del santo
in assoluto, “censurata” poi dalla chiesa,  che preferì quella del
padre Nuti del 1700 c. sicuramente molto dotta ma priva di quella
umanità tutta di San Giuseppe presente invece in questo monumentale
lavoro di Padre Bonaventura Danza, oggi finalmente autorizzata alla
pubblicazione,

Titolo |VITA DI S. GIUSEPPE DA COPERTINO
Autore | Giacomo Roncalli OFMConv
Collana | Spiritualità
Curatore| Padre Bonaventura Danza
Impaginazione |Rossana Scrimieri
ISBN 978-88-96694-38-1
EURO 30.00  (Cartonato)
Pag 400

«Amico mio», era solito chiamare il Santo copertinese, il padre
Roncalli. Ed amico sincero e premuroso questi lo fu davvero: non solo
in vita, ma ne raccolse con grande sollecitudine e diligente
competenza, dopo la sua morte, lettere, attestati, atti notarili,
confidenze, riguardanti la vicenda terrena sia spirituale che
corporale. Doveva condividerne, questo bravissimo e letterato
biografo, pensieri, sogni, emozioni, dolori, sapienza e conoscenza.
Seppe porsi anche in ascolto del Santo, concedendogli tempo e cuore e
ricevendone un contagio di luce; Giuseppe pronto a darsi e il Roncalli
a ricevere. Tutti e due felici, il primo per aver trovato un nido in
ascolto e l’altro un amico e maestro tutto per sé. Entrambi coscienti

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