di Armando Polito
Accolgo l’invito fattomi dall’amico Marcello nel suo recente post dedicato alla frisèddha e chiedo scusa se, per motivi di spazio, per rispondere non mi avvarrò della casella allo scopo destinata ma lo farò attraverso questo post e se, almeno all’inizio, mi attarderò su qualche voce connessa, prima di affrontare la questione etimologica della voce in questione.
La frisèddha, prodotto tipicamente meridionale, è un pane di piccole dimensioni confezionato (una volta solo in casa) esclusivamente con farina di grano duro o di orzo o entrambe (oggi sovente mescolate l’una e l’altra con quella di grano tenero), impastata con acqua, lievito e sale in forme circolari che subiscono una prima cottura nel forno a legna (oggi, solo a livello artigianale); estratta, la còcchia1 (in italiano coppia, e subito si capirà il perchè) viene tagliata a metà trasversalmente con un filo e le due parti vengono cotte una seconda volta (mpiscuttàte, in italiano biscottate) a forno tiepido.
La trascrizione italiana della voce (presente, però, fino a qualche anno fa solo nei dizionari gastronomici) è frisella o frisa; quest’ultima variante è nata dalla prima che, pure, sembra il suo diminutivo, ma nella realtà gli ingredienti, le dimensioni, il metodo di cottura, le modalità di consumo di entrambe coincidono perfettamente: il mistero sarà svelato tra poco. Frisella, poi, è madre non solo di frisa, ma anche dell’ulteriore diminutivo frisellina (in questo caso con riferimento alle dimensioni più ridotte dettate da moderne esigenze di marketing e non solo…).
Riprendiamo il mistero lasciato in sospeso all’inizio: frisa che nasce da frisella, contro ogni regola grammaticale che vorrebbe il derivato originato dal primitivo. Vedremo quant’è vero, anche in questo caso, che l’eccezione conferma la regola. Procediamo con ordine.
Se frisèlla è trascrizione di frisèddha (foneticamente più di quanto non lo sia rispetto alla sua variante napoletana fresèlla) significa che essa è nata dopo. E frisa? La voce compare in due espressioni differenti appartenenti al dialetto di due regioni geografivamente relativamente vicine tra loro rispetto alla distanza che separa entrambe dalla nostra terra:
a Torino: dame na frisa del to temp (dammi un po’ del tuo tempo); na frisa = mm. 0,18-1,9; a Udine: guarda che frisa! (guarda che pezzo di ragazza!).
Dalle tre espressioni si deduce che frisa è usata nella prima nel senso di pezzo, nella seconda come range di misura, senza alcun riferimento (nemmeno traslato) alla gastronomia o ad altro (a differenza di quanto succede, secondo me, nella terza espressione e, come vedremo, nel napoletano fresèlla in uso metaforico). E’ evidente, comunque, che frisa qui deriva dal latino fresa(m) [o fressa(m)], participio passato femminile di frèndere=digrignare i denti; triturare. E’ altrettanto evidente che dalla stessa voce latina deriva, con aggiunta del suffisso diminutivo –èddha [(corrispondente all’italiano –èlla, dal latino -ella(m)] la nostra frisèddha3.
Ciò, a mio parere, sembra confermato da voci simili che si incontrano in altri dialetti: per esempio, in Sardegna, il logudorese e campidanese fresa che indica un particolare tipo di pane duro di forma molto appiattita e con la crosta molto screpolata [l’atto del dividere la pasta in pezzi rotondi è detto (a)frèsare in logudorese e frèsai in campidanese, dialetto in cui i pezzi così ottenuti sono chiamati fresas], nonché un particolare tipo di formaggio di forma piatta e rotonda, che nel territorio del Gennargentu si chiama anche paneddha per la somiglianza con il pane denominato con lo stesso vocabolo.
Dà, oltretutto, sicurezza a questa etimologia l’indiscussa autorità del Rohlfs, il quale, però, forse perché troppo ovvio, non specifica l’eventuale riferimento o alla materia prima (il grano macinato, il che sarebbe troppo banale nella sua genericità perché riguarderebbe una fase di vita comune a tutte le varietà di pane) o, piuttosto, al fatto che per consumare il prodotto senza bagnarlo bisogna prima frantumarlo in piccoli pezzi.
In conclusione, la voce settentrionale frisa ha la stessa etimologia di frisèddha e il frisa che oggi compare sulle etichette, se non è voce settentrionale, è da considerare una particolare forma di ipercorrettismo (probabilmente di natura commerciale) che ha portato alla nascita (etimologicamente corretta), meglio alla rinascita con slittamento semantico, di frisa dal suo alterato frisèddha.
La proposta etimologica avanzata trova, oltretutto, una suggestiva conferma nell’uso metaforico di fresella nel dialetto napoletano come sinonimo di mazzata, ma anche di vulva (Chella guagliona teneva sotto na fresella….); in particolare, il secondo nesso ricorda la frisa udinese di cui si è parlato prima.
Una prova, infine, della suggestione che la voce ha continuato ad esercitare in tempi moderni in zone diverse da quella di origine è data, per esempio, dalla fondazione nel 1976 a Firenze della compagnia teatrale (di livello internazionale) Pupi e Fresedde ad opera di Angelo Savelli, gruppo che, non a caso, negli spettacoli della sua prima fase [La terra del rimorso (non è casuale l’omonimia col titolo dello studio di Ernesto De Martino sul tarantismo uscito nel 1961), Sulla via di San Michele] coniugava folklore meridionale ed antropologia, mondo contadino e psicanalisi, facendo della musica, del canto, della danza, del dialetto, del rapporto con la cultura meridionale gli ingredienti privilegiati della sua poetica; tuttavia, bisogna aggiungere che il nome venne assunto come una sorta di traduzione di quello della famosa compagnia americana Bread and Puppet (Pane e Burattini) con cui il gruppo agli albori della sua attività aveva prodotto La ballata dei 14 giorni di Masaniello di Peter Schumann, replicata poi in Italia.
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1 Còcchia (in italiano coppia) è dal latino còpula=corda, laccio, catena, legame, da con– (da cum=insieme) e àpere=attaccare, attraverso la trafila còpula>copla (sincope di –u-), passaggio –pl->chi e raddoppiamento espressivo di -c-.
2 Il diminutivo, lungi qui dall’assumere qualsiasi riferimento più o meno pietistico ad una situazione di limitatezza, senso della misura, povertà o, addirittura, bisogno, è, al contrario, specchio del consumismo, cioè dell’opulenza e, paradossalmente, dello scarso sentimento della misura. In passato, infatti, la frisèddha costituiva per la maggior parte dei contadini (e non solo per motivi di praticità,) la colazione, il pranzo e forse anche la cena: poteva chi se ne nutriva, pensare alla vezzosa frisellina? Non gli avrebbe fatto nemmeno il solletico…
3 Mi pare meno praticabile, per questo, l’ipotesi, per prima venutami in mente, che derivi dal francese fraise, forse dall’antico francese fraiser=pieghettare, oppure dalla voce di origine francese frisé (acconciatura con capelli leggermente crespi), participio passato di friser=arricciare (questa voce, secondo me, è connessa con la prima), con riferimento alla sua superficie increspata, rugosa che caratterizza una delle sue facce. Che poi la prima o emtrambe le voci francesi siano connesse con la voce latina fresa (per increspare o arricciare bisogna pur sempre passare da un segno continuo ad uno spezzato) è un’altra questione che, se risolta, insieme con il mancato influsso della pronuncia francese sulle due voci settentrionali riportate, darebbe ulteriore credito alla mia proposta etimologica conclusiva.
Altrettanto impraticabile mi pare l’altra ipotesi, pure venutami in mente, che derivi da fritìlla (variante poco credibile della fitilla, specie di focaccia votiva] che, tutt’al più, può aver dato vita al medioevale fritèlla che (Du Cange, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, Zunner, Francoforte, 1710, pg. 607)significherebbe tipo di focaccia fatta a Cartagine o crosta del pane e che potrebbe essere collegata, secondo me, ad un precedente *friatìlla, dal classico friàre=sminuzzare (evidente parente del già citato frèndere].
Per completare il quadro cito anche altre proposte secondo me ancora meno accettabili:
a)dal salentino frisìllu (nastro decorativo) che ha il suo corrispondente italiano parzialmente formale in friso (negli scafi in legno il corso più alto e robusto del fasciame esterno), forma veneziana del toscano fregio, che è dal latino tardo Phrýgiu(m) (opus)=(lavoro) frigio, da Phryges, dal greco Friùghes, nome degli abitanti della Frigia, regione dell’Asia Minore; non credo che l’aspetto certamente decorativo della frisèddha sia sufficiente a giustificare questa etimologia né l’altra, sempre legata alla Frigia, che, in un percorso etimologico secondo me farneticante, sostiene che sarebbe stato Enea ad introdurre nel Salento la friseddha in occasione del suo sbarco a Porto Badisco;
b) da fresa, proposta che mi pare insostenibile per evidenti motivi cronologici;
c) dallo spagnolo frisoles=fagioli; bisognerebbe supporre che la pratica di inzuppare la frisèddha nell’acqua di cottura dei fagioli fosse in passato la più diffusa, tanto da trasferire il nome dei fagioli alla galletta.
Armando, illuminante come sempre!
Speriamo che la tensione mantenga…
Mi sovviene, per non fare torto ai miei concittadini, che a Gallipoli era tradizione portare le frise in occasione delle uscite in mare in barca, e bagnarle nell’acqua di mare, meglio al largo.
Oggi non mi sentirei più di consigliare la bagna in acqua di mare, neanche nei lidi salentini… a cinque ombrelloni.
Comunque… buona fortuna!