Primo maggio, tradizioni popolari a Nardò

di Marcello Gaballo

Fino ad una ventina d’anni fa il primo maggio era particolarmente atteso dai bambini di Nardò per una usanza loro spettante, tanto da farne la loro festa, come mai sarebbe potutto accadere nel resto dell’anno.

Appena svegli e subito dopo la colazione si ritrovavano con gli amichetti, ognuno provvisto di un vassoio (la quantiera), e giravano tra le abitazioni di amici e conoscenti, comunque del quartiere in cui risiedevano, bussando alle loro porte e presentando agli abitanti quel vassoio dopo avergli proferito: lu pumu di maggiu (ancor più lontano negli anni quel maggiu era detto masciu).

Era doveroso ricompensare il piccolo questuante con un dono: biscotti, un tarallo, qualche caramella o i più rari cioccolatini; se proprio non si disponeva di alimentari e dolciumi si poteva riporre qualche soldino (cinque, dieci lire di allora).

Ricordo che spesso nel mio vassoio qualche solita taccagna riponesse uno-due baccelli di fave verdi, in quella stagione nel pieno della produzione, il più misero tra i doni desiderabili, visto che nei giorni precedenti avevamo già fatto man bassa negli orti vicini alle nostre case.

Quando il vassoio era colmo ci si ritrovava con gli altri amici sui gradini della vecchia casa abbandonata per godere dell’abbondanza ricevuta, magari riflettendo sulla bontà di tale zia o dell’altra vicina che, sebbene disturbasse a tutte le ore per chiedere alla mamma il solito sale o caffè improvvisamente terminato, si era limitata a riporre nel mio luccicante vassoio inox decorato in stile rocaille una sola fava verde (che ancora oggi si chiama ùngulu) o una misera caramellina al limone, che era il gusto generalmente evitato nel già magro assortimento di caramelle miste.

Ci si scambiava con gli amici più cari un dolcetto (magari lui ne aveva avuti due-tre dall’amica fidata della sorella o dalla zia notoriamente ricca). I più preziosi tra i doni erano le monete di cioccolato e per averne una dal compagno di gioco si sarebbero cedute anche tre figurine Panini o il ricercato Omar Sivori (per avere Boninsegna invece si sarebbe dovuto cedere quasi tutto il vassoio).

Inutile dirlo che le più inflazionate erano le fave verdi, vista l’ampia disponibilità nei campi, ma noi soliti bambini terribili avremmo comunque gareggiato per vedere chi avesse ricevuto quella più lunga o la più bizzarra. Una insolita forma subito ci avrebbe ispirato di piazzargli quattro mezzi stuzzicadenti, quasi fossero gli arti di una strampalata pecorella. Tutte insieme improvvisavano un gregge e gli amici più cari consentivano che la pecorella del vicino restasse affianco alla propria, allontanando quella dell’antipatico mascalzone, quasi vendicandosi del torto subito qualche giorno prima o magari per non aver condiviso con i restanti i frutti della questua giornaliera.

Il gregge sarebbe rimasto lì, in posa, per qualche decina di minuti, magari aspettando che le amichette fossero finalmente lasciate in libertà dalle mamme e venire dunque a godere della mostra improvvisata sullo scalone sgaruppato. Erano particolarmente gradite le critiche, senza però esagerare, perchè un giudizio severo sulla zampa più corta o più lunga rispetto alle altre le avrebbe escluse dal bottino che avevamo faticosamente messo su dopo tanto peregrinare.

Il gruppo raramente diventava branco (almeno nel mio quartiere e per quello che posso ricordare), ma spesso il gregge fantasiosamente messo su veniva assalito dal lupo vorace che il solito bullo del quartierino si era costruito con la fava portatasi da casa, senza neppure girare di porta in porta. Si era svegliato due ore dopo di noi, aveva fatto colazione con gli squisiti biscotti a tre buchi della Doria, si era fatto costruire il lupo dalla sorella maggiore e veniva di proposito tra noi per rompere il sogno concretizzato in quella misera galleria d’arte.

Lo ricordo ancora il gradasso, ma sfuma nella mente la sua arroganza, mentre resta indelebile il piacere dello
stare con gli altri, della creatività, della fantasia, della solidarietà, della compartecipazione, del vantaggio di restare insieme per fronteggiare il nemico e per far sapere alle bande vicine chi comandava in quel quartiere.

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Un commento a Primo maggio, tradizioni popolari a Nardò

  1. Etimologia: da pomo, con passaggio -o->-u- e slittamento semantico per metonimia [il concreto (il frutto) per l’astratto (l’usanza)]. Tutto ciò, data la sua banalità, mi serve solo da pretesto per dire che l’usanza è morta da parecchi decenni. Quale bambino dei paesi cosiddetti sviluppati (in obesità…) si accontenterebbe di un frutto, il che è certamente sintomo di progresso materiale, che trova la sua espressione più appariscente nel consumismo, ma anche di una parallela, pesante, decadenza morale? Solo un iphone oggi sarebbe (uso il condizionale perché probabilmente già il grande pargolo ne è stato omaggiato dagli altrettanto grandi genitori…) degno di posare le sue avveniristiche chiappe su quella umile, tenera “quantiera”.

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