Sant’Ippazio a Cavallino (Lecce)

di Valentina Antonucci

A proposito di s. Ippazio, vescovo orientale dalla controversa agiografia e decisamente poco presente nella tradizione iconografica cattolica, ma dedicatario di un culto antropologicamente interessantissimo in provincia di Lecce, nel paese di Tiggiano (si vedano gli scritti di Andrea Erroi e di Giacomo Cazzato in Spigolature Salentine), mi sento in dovere di aggiungere una notizia, che forse potrà interessare qualche storico dell’arte o qualche studioso della religiosità locale.

Nella chiesa matrice di Cavallino (Le), dedicata a Santa Maria Assunta come la gran parte delle chiese matrici della diocesi di Lecce, è presente un altare seicentesco sormontato da un dipinto a dir poco singolare, per stile e per iconografia.

Cavallino, chiesa matrice, altare dell’Immacola (ph Valentina Antonucci)

Un’epigrafe sulla sommità dell’altare attesta che esso fu fatto costruire nel 1687 dal sacerdote Domenico De Pandis di Cavallino[1]. Il dipinto potrebbe essere coevo o di poco successivo.

Cavallino, chiesa matrice, altare dell’Immacola, tela dell’Immcolata con i santi Michele arcangelo e Ippazio (ph Valentina Antonucci)

L’iconografia è complessa, anche se resa in modo estremamente paratattico, senza piani di profondità e senza dinamismo: in alto, nella zona più luminosa del dipinto, appare la Vergine Immacolata, circondata da Angeli con alcuni simboli lauretani, stante su una falce di luna su cui si avvinghia il Serpente; in basso, dove i toni oscuri predominano, vi è san Michele Arcangelo che ha sottomesso un mostruoso Satana con i suoi seguaci e che, secondo la tradizione bizantina, sorregge la bilancia in cui vengono pesate due animule (di peccatore demoniaco e di innocente in preghiera).

Sul margine inferiore destro, quasi in esergo, si inserisce una statica icona di s. Ippazio Vescovo in paramenti episcopali e accompagnato dal titulus S. IPATIO. V. M. e da un’ulteriore sigla il cui significato resta da sciogliere: S. P. M.[2]

L’apparentemente bizzarra associazione dell’Assunta con san Michele Arcangelo e il santo vescovo orientale è resa comprensibile da un elemento iconografico, e dunque anche simbolico, che accomuna i tre personaggi sacri: il dragone. Esso rappresenta esplicitamente il Demonio nella tradizione iconografica dell’Immacolata, che si richiama alla fonte biblica dell’Apocalisse di Giovanni, così come, ovviamente, nella raffigurazione dell’arcangelo Michele che abbatte Satana, risalente alla medesima fonte. Per quanto riguarda invece s. Ippazio, è noto che esiste una leggenda orientale (inserita nell’agiografia dei Sinassari greci) secondo la quale il vescovo di Gangra fu protagonista di una misteriosa lotta contro un drago che impediva l’accesso al tesoro dell’imperatore Costanzo II, il figlio di Costantino il Grande che regnò nella stessa epoca in cui viveva Ippazio[3]. Che l’episodio fosse ben noto e centrale nell’agiografia del santo è testimoniato dalla stessa icona lignea conservata nella Matrice di Tiggiano, dove Ippazio è raffigurato in abiti vescovili e nell’atto di schiacciare il dragone. Se nel dipinto tale elemento non compare è, dunque, tanto per motivi di composizione dello spazio, quanto perché qualunque fedele era in grado, a quel tempo, di integrare mentalmente l’immagine e di collegarla, per il legame iconografico-simbolico, a quelle dell’Immacolata e di san Michele: il santo vescovo è strumento della Chiesa Cattolica per schiacciare e sottomettere il Male, da qualunque cosa esso sia incarnato, la malattia come l’eresia (non è superfluo ricordare che ancora alla fine del Seicento nei territori salentini era in pieno svolgimento una vigorosa propaganda antiprotestante).

Il dipinto è molto interessante anche dal punto di vista stilistico: esso condivide sotto questo profilo alcune caratteristiche di ductus con la tela raffigurante S. Giovanni Elemosiniere e la famiglia Castromediano, collocato sull’altare adiacente e databile ai primi anni del XVIII sec.

Il linguaggio pittorico secco e bizzarro di questi due dipinti li caratterizza e isola nel panorama della pittura chiesastica diocesana. Pur tenendo conto che i recenti restauri delle due tele potrebbero non aver rimosso interamente parziali ridipinture deturpanti (soprattutto nella tela con l’Immacolata e sant’Ippazio), non si può far a meno di notare l’assoluta indifferenza manifestata dall’autore per i parametri di bellezza più correnti e diffusi nella pittura italiana del XVII secolo.  Per il pittore, o più probabilmente per i pittori (vicini, ma non identificabili) che realizzarono i due dipinti si potrebbe forse ipotizzare un’origine e una formazione artistica nell’area dell’Europa orientale, greco-balcanica in particolare.


[1] Garrisi A., Cavallino, i luoghi della memoria, con documentazione fotografica di P. Garrisi, Lecce 1998, p.125.

[2] Mi viene in mente che la sigla si potrebbe sciogliere in Santu Pati Martire, ma resterebbe da capire perché sia stato aggiunto il titulus per esteso.

[3] http://www.santiebeati.it/dettaglio/92358

8 dicembre. Sine macula. Una tela dell’Immacolata Concezione a Squinzano

 

di Valentina Antonucci

La chiesa dell’Annunziata di Squinzano è uno dei più straordinari ambienti ecclesiali seicenteschi conservatisi integri, anche per quanto riguarda  la decorazione pittorica, nella diocesi di Lecce. Entrando nella grande chiesa squinzanese ci si sente immediatamente trasportati nel cuore del XVII secolo: la suggestione è emozionante. Il visitatore si trova infatti immerso in un ambiente riccamente decorato, con quasi tutte le tele originali ancora al loro posto: tele dalle dimensioni impressionanti, che misurano poco meno di quattro metri d’altezza per due e mezzo di larghezza! L’abside è occupato da un maestoso altare ligneo ornato da piccole pitture tra cui, al centro, quella della Madonna col Bambino. Tutta la chiesa è un inno al culto mariano: a Maria Vergine è infatti interamente dedicato il programma iconografico.

Lo stato di conservazione dei dipinti è precario, per alcuni di essi è pessimo, e tutto il complesso versa purtroppo  in un grave stato di abbandono. Alla mancata valorizzazione si tentò anni or sono di porre rimedio con l’organizzazione di una bella mostra documentaria, a cura del dott. Salvatore Polito. Dagli studi allora realizzati, pubblicati sul materiale illustrativo dell’allestimento (non altrove, per quel che io sia riuscita a sapere) si possono trarre molte e puntuali informazioni sullo stato di conservazione, sui dettagli della tecnica pittorica dei dipinti e sull’iconografia.

La storia della chiesa dell’Annunziata di Squinzano attende dunque ancora di essere ricostruita e scritta nei suoi particolari, che comprendono anche le notizie relative allo straordinario evento religioso e culturale che fu la sua stessa fondazione da parte della devota Maria Manca nonché alla venerazione che intorno a questa figura e al santuario da lei fondato si sviluppò nel tempo. Quel vero e proprio repertorio di pittura salentina che in essa è fortunatamente conservato attende per parte sua di essere recuperato con gli opportuni interventi di restauro, rivalutato, studiato e reso finalmente fruibile al pubblico.

Entro la metà del secolo l’Annunziata di Squinzano, grazie al finanziamento e alle cure di Maria Manca, era completata , ma già dagli anni ’30 del secolo probabilmente erano all’opera i pittori che avrebbero dovuto realizzare le vaste superfici pittoriche previste.

Non vi è alcuna coerenza stilistica e linguistica tra le diverse tele: si deve perciò supporre che siano state eseguite in modo indipendente l’una dall’altra e non dalla medesima bottega. Tuttavia si scorgono in esse legami con artisti attivi in ambito francescano: la Visitazione, dalla bizzarra ambientazione architettonica di sapore rinascimentale, sembra infatti legata ai modi espressivi di fra’ Giacomo da San Vito, mentre la Circoncisione di Gesù, nonostante la pesante ridipintura che la copre, è attribuibile all’anonimo maestro della Presentazione al Tempio di S. Maria degli Angeli a Lecce, la quale d’altra parte è iconograficamente legata al grande telone dal medesimo tema presente proprio nell’Annunziata.

Altre tele sembrano invece degli unica di artisti che lavorarono in modo sporadico in diocesi di Lecce, senza essere legati al contesto produttivo locale. Lo stile fresco ed espressivo della Natività della Vergine ad esempio non trova riscontri in altre opere della diocesi, così come il linguaggio carnoso e vigoroso della bella Immacolata Concezione, per la quale non sembrano esservi analoghi, se non altro sul piano della qualità.

E’ proprio su quest’ultimo dipinto che voglio soffermarmi in questa sede, per metterne in rilievo alcuni aspetti iconografici e alcune caratteristiche di stile che gli conferiscono, a mio giudizio, un fascino tutto particolare. Si tratta di una versione particolarmente bella e grandiosa di uno schema iconografico piuttosto diffuso nella diocesi e, più in generale, nel Salento: Maria è in piedi su una falce di luna sorretta da due angioletti che, specularmente, reggono in mano rami di due piante simboliche, le rose bianche e l’ulivo, entrambe riferibili alla Vergine;  ai suoi lati due ordinate, ascendenti schiere di Angeli sorreggono i simboli delle litanie lauretane; al di sopra, all’interno della centina, il Padreterno appare tra le nubi a benedire la propria creatura perfetta, sine macula, sul cui capo volteggia la colomba dello Spirito Santo. Una regale corona è posata sui capelli biondi, mentre un alone di luce dorata l’avvolge tutta. Sono elementi comuni nell’iconografia dell’Immacolata del XVII secolo, ma si osservi come qui vengano tradotti in modo inconsuetamente grandioso e attraente: gli Angeli che sorreggono da un lato la gigantesca Turris e dall’altro il modellino in grande scala del Templum si affacciano al proscenio paffuti e dolcemente sorridenti, avvolti da vesti riccamente panneggiate, dialogando tra loro con gli sguardi e con i gesti, conquistando l’ammirazione dello spettatore e suggerendogli al tempo stesso le proporzioni, le distanze e le profondità in cui si scalano gli altri personaggi, fino ai remoti Angeli musici assisi nella corte celeste. Maria riempie tutto lo spazio aurato con il suo amplissimo mantello azzurro, con le braccia che si muovono in eloquente gesto di intercessione, con i bei capelli soffici sparsi sulle spalle.

L’ambiguità iconografica con il tema dell’Ascensione e Incoronazione della Vergine è frequente nelle rappresentazioni seicentesche del controverso dogma immacolista, approvato ufficialmente dalla Chiesa soltanto nel XIX secolo (ma caldamente patrocinato già ai tempi del nostro dipinto dalla corona di Spagna e dall’Ordine francescano): la tela squinzanese non fa eccezione, richiamando anch’essa l’idea che Maria stia appunto ascendendo al Cielo, incoronata e trionfante.

Facendo poi scorrere lo sguardo verso il basso e osservando ciò che si trova sul “proscenio” del dipinto, troveremo ancora elementi caratteristici e degni d’attenzione. Il Serpente, nemico veterotestamentario della nuova Eva, appare qui raffigurato come una creatura dalle fattezze diabolicamente antropomorfe, contorte in una smorfia di rabbia e terrore cui non è difficile dare spiegazione, poiché la punta d’acciaio di una lancia, la cui asta è però invisibile incombe su di lui come se fosse spinta da una forza soprannaturale, è già quasi conficcata nel suo cranio. Si tratta di una soluzione bizzarra e inedita per raffigurare la sconfitta del demonio ad opera della Vergine Madre di Dio.

Ai due lati, in basso, secondo uno paradigma iconografico che si diffonde nel XVII secolo, sono raffigurati due santi in adorazione della Vergine, come se fossero comuni devoti ritratti nell’atto di preghiera e contemplazione: si tratta di uno straordinario stratagemma comunicativo che consente allo spettatore di sentirsi “sullo stesso piano” del santo che, come lui, rivolge il proprio sguardo alla Vergine Immacolata, l’icona cui si tributa venerazione.

A sinistra è raffigurato un giovane e commovente sant’Antonio da Padova con il suo ramo di giglio, la tonsura, il saio francescano: si osservi la cura con cui il pittore si è soffermato a rendere l’incarnato del volto delicato e roseo, le mani tornite e paffute, gli occhi quasi rovesciati in estasi, le labbra leggermente dischiuse in una preghiera che, nel silenzio assorto della chiesa, sembra quasi di udirgli mormorare.

A destra invece il pittore, certamente su richiesta del committente, ha giustapposto la vigorosa vecchiaia di un canuto san Nicola, rigorosamente bardato di abiti vescovili ma, nelle fattezze, già ad un passo dall’assumere l’aspetto che, qualche secolo dopo, trionferà sui manifesti pubblicitari della Coca Cola. In questa figura l’anonimo artista salentino sembra aver speso il meglio della sua capacità di tornire e cesellare l’immagine nei dettagli più corposi e realistici, dai peli della barba ai riflessi della luce sulla pelle lucida del volto del vecchio, dalle minuscole perle che ornano la sua mitria agli intagli che arricchiscono il suo pastorale.

 

Bibliografia: P. Coco, Cenni storici di Squinzano, Lecce 1922, pp. 239 ss.

Tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce

Nel secolo fui chiamata Margarita… 

Una rara leggenda agiografica tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce.

 

di Valentina Antonucci

Una delle più belle chiese di Lecce, benché non tra le più note, è quella dedicata a S. Maria della Provvidenza.

Affacciata sull’odierna piazzetta Giorgio Baglivi, poco distante da Porta Napoli, essa faceva anticamente parte di un complesso monastico appartenente all’ordine degli Alcantarini, francescani riformati che seguivano la Re­gola di S. Pietro d’Alcantara. Nella fattispecie, la residenza di piazzetta Baglivi era sorta per ospitare la comunità femminile delle Alcantarine di Lecce, costituitasi nel 1698.

Si tratta di un edificio ad aula unica con altari laterali e presbiterio a pianta quadrata. La facciata a due ordini, sormontata da cimasa a timpano, è ornata da nicchie con statue di Santi . Fu eretta a partire dal 1724 su disegno dell’architetto Mauro Manieri per volontà e con il finanziamento del barone di Torchiarolo, Giuseppe Angrisani, che lasciò in merito precise disposizioni testamentarie.

La fabbrica fu completata nel giro di vent’anni e nello stesso arco di tempo furono realizzati gli altari, i quali erano originariamente quattro: altri due ne furono aggiunti nel XIX secolo e trovarono posto nel vano di due porte che erano state murate dopo l’abbattimento del convento adiacente e la risistemazione urbanistica dell’isolato.

Qualche anno fa ebbi occasione di osservare e studiare alcuni dei dipinti facenti parte dell’arredo pittorico della chiesa. L’occasione fu quella del loro restauro, che venne affidato ad un laboratorio in cui avevo agevolmente accesso, stanti i rapporti di stretta collaborazione che mi legavano alla restauratrice di esso responsabile. Per uno storico dell’arte, non vi è situazione più felice di quella in cui gli sia dato agio di seguire il restauro di opere pittoriche che rientrino nell’ambito dei suoi interessi di studioso: la visione ravvicinata del dipinto nella luce perfetta del laboratorio, con le emozionanti scoperte di iscrizioni o di dettagli iconografici che quasi sempre comporta, nonché la possibilità di osservare la materia pittorica e persino la consistenza e la struttura del supporto, sono condizioni di studio ideali,

Il santuario dell’Addolorata di Taviano

di Marcello Gaballo

Primo numero della collana Restauri e Riscoperte dell’A.I.RES (Associazione Interdisciplinare per il Restauro), i cui scopi basilari sono quelli di diffondere le informazioni tecniche e storiche acquisite durante i diversi interventi conservativi. Si parte dunque con la chiesa annessa all’ex convento di Sant’Antonio di Padova dei francescani riformati di Taviano, chiesa oggi dedicata alla Beata Vergine Maria Addolorata, i cui lavori ultimi di restauro e conservazione hanno coinvolto sin dal 1999 un cospicuo stuolo di tecnici e storici dell’arte.

Il convento, voluto dal secondo marchese di Taviano e signore di Supplesano Andrea de Franchis (+1659) e sua moglie Luisa Caracciolo, fu realizzato in periferia tra 1643 e 1647, con la partecipazione del popolo tavianese e della comunità minoritica per il tramite del loro procuratore Paolo de Paula. La chiesa, sulle cui date di erezione non vi sono testimonianze documentarie certe, fu costruita, secondo l’ipotesi della storica dell’arte V. Antonucci, nello stesso arco di tempo, secondo il tipico schema icnografico e architettonico minoritico. Essa si presenta oggi alterata nel suo aspetto originario dalle importanti modifiche settecentesche e dalle recenti (1960) addizioni di due campate, del campanile e degli ambienti a servizio della catechesi, nonché dalla distruzione della facciata seicentesca.

Intatte si presentano invece le restanti campate a vela, il presbiterio, il piccolo coro inferiore, le cornici e le decorazioni barocche, così come gli imponenti altari lignei e un cospicuo numero di dipinti, almeno questi scampati alle travagliate vicende della soppressione ottocentesca degli ordini monastici, che riguardò il nostro complesso nel 1867. Fortunatamente si salvò anche il pregevole tabernacolo, pur se decurtato della cupola, probabile avanzo del perduto retablo ligneo dell’altare maggiore che doveva essere anch’esso, come gli altri altari, opera della scuola secentesca di intagliatori francescani, assai attiva nel Salento, fondata dal celebre frate Giuseppe da Soleto.

L’analisi delle frammentarie e poco chiare vicende feudali del centro salentino fa ipotizzare committenze diverse, che ancora meritano approfondimenti, e non è improbabile che un’ulteriore analisi delle testimonianze araldiche visibili nel tempio possano aiutare per definirne l’evoluzione architettonica, distinguendo un primo periodo legato ai De Franchis (XVII sec.) ed un secondo ai Caracciolo (XVIII sec.), anch’essi notoriamente munifici nei confronti dell’ordine minoritico.

Un dettagliato excursus storico, supportato da valida documentazione bibliografica, introduce gli altri brevi ma numerosi saggi, tutti finalizzati a descrivere quanto si è salvato dalla dispersione e che, grazie ai restauri, è pienamente fruibile all’interno della chiesa francescana.

Ci si sofferma in particolare sulle opere pittoriche e sulle opere d’intaglio e scultura, con diciassette schede descrittive e altrettante di restauro raccolte nel nutrito catalogo (pp. 40-91). Tra le prime certamente risaltano il dipinto raffigurante S. Pasquale Baylon, tuttora inserito nella sua imponente macchina d’altare (Cat. n. 6 e Cat. n. 14) e il lacerto della decorazione murale seicentesca con la Natività di Cristo (Cat. n. 12), riscoperto dietro la settecentesca struttura lignea.

Di tutt’altro spessore qualitativo l’inusuale tela della Madonna con il Bambino in gloria incoronata dagli Angeli (Cat. n. 7), che la Antonucci giustamente riconosce come una “bella versione settecentesca della napoletana icona della “Madonna dell’Arco”, conservata e venerata nell’omonimo santuario a S. Anastasia (NA). La stessa storica dell’arte ne ipotizza l’attribuzione all’ambito dei pittori Bianchi di Manduria e la ritiene, verosimilmente, commissionata dal feudatario tavianese Caracciolo di Amorosi, magari in occasione della nascita della primogenita di don Francesco, venuta alla luce nel 1735 proprio nel casale di Sant’Anastasia.

 

Una Galleria d’Arte Francescana tra XVII e XVIII sec. Il Santuario dell’Addolorata di Taviano, a cura di Valentina Antonucci, Mariachiara De Santis, Francesca Romana Melodia, Lecce, Il Raggio Verde Edizioni, 2008, Collana Restauri e Riscoperte diretta da Francesca Romana Melodia e Giusy Petracca, cm. 27×21, 100 pagine, numerose fotografie colore, tre rilievi di Simonetta Previtero. Euro 25,00.

Testi di Valentina Antonucci, Mariachiara De Santis, Adriana Falco, Gaetano Martignano, Francesca Romana Melodia, Simonetta Previtero; prefazione di don Albino De Marco; fotografie di Valentina Antonucci, Mariachiara De Santis, A. Fulvio, G. Martignano, Francesca Romana Melodia, Simonetta Previtero. Supervisione artistica di Giancarlo Montelli.

La pittura sacra nella diocesi di Lecce dal Concilio di Trento all’inizio del XVIII secolo

La nostra amica e collaboratrice Valentina Antonucci ha conseguito nei giorni scorsi, con il massimo dei voti, il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte Meridionale tra Medioevo ed Età Moderna nei rapporti col Mediterraneo Orientale ed Occidentale, presso l’Università degli Studi del Salento, Facoltà di Beni Culturali – Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia, discutendo la tesi “La pittura sacra nella Diocesi di Lecce dal Concilio di Trento agli inizi del XVIII secolo”.

Ci ha fatto dono dell’abstract del suo pregevole lavoro, che volentieri pubblichiamo sul nostro spazio, e gioendo con lei per l’ambita meta, formuliamo vivissimi auguri.

ph. Valentina Antonucci

La pittura sacra nella diocesi di Lecce dal Concilio di Trento all’inizio del XVIII secolo

di Valentina Antonucci

Partendo da una ricognizione sistematica dei dipinti a tutt’oggi esistenti negli edifici sacri della diocesi (considerando anche quelli musealizzati, ma di documentata provenienza ecclesiastica diocesana), il presente studio ricostruisce il panorama della pittura sacra a destinazione pubblica nell’ambito storico-topografico della città sede vescovile e del suo territorio ecclesiastico tra gli anni che seguono la chiusura del Concilio di Trento e il primo decennio del XVIII secolo, scegliendo come criteri d’indagine e come descrittori della situazione studiata: il ruolo della committenza, le figure artistiche e le tendenze pittoriche emergenti, la ricorrenza di temi, soggetti e iconografie nonché la loro corrispondenza con le istanze della Chiesa controriformata.

Ampio spazio viene dedicato, in sede introduttiva, al problema della dispersione degli arredi mobili negli ultimi due secoli, fenomeno che, durante la campagna di ricognizione sul territorio, lavorando in parallelo con l’indagine documentaria, la dott.ssa Antonucci ha potuto registrare in tutta la sua gravità, descrivendone le origini storiche e le diverse cause che si sono sovrapposte nel corso del tempo fino ad oggi.

I tre capitoli del testo sono dedicati allo studio delle diverse componenti della committenza, alla definizione di un profilo delle personalità e delle tendenze artistiche emergenti, all’analisi dei filoni tematici e iconografici che risultano nettamente prevalenti quanto a ricorrenza, sia in senso sincronico che in senso diacronico.

Due volumi di Catalogo corredano il testo: in essi sono state raccolte le immagini, appositamente realizzate per la presente ricerca, di circa duecentocinquanta opere appartenenti al patrimonio di pittura sacra della diocesi di Lecce risalenti al periodo tra la metà del XVI e il primo decennio del XVIII sec.

Ogni opera è stata schedata in modo dettagliato, con l’indicazione di soggetto, autore, epoca, tecnica, dimensioni, stato di conservazione, nonché con una relazione storico-critica e la bibliografia di riferimento. 

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