Note sull’artista leccese Francesco De Matteis 

di Giovanni Maria Scupola

Francesco De Matteis nasce a Lecce il 25 febbraio 1852. Giovanissimo frequenta la bottega del noto cartapestaio Achille De Lucrezi dove ha modo di apprendere i primi rudimenti della scultura.

La sua passione lo spinge a trasferirsi a Napoli per iscriversi presso l’Istituto di Belle Arti dove incontra illustri maestri: Stanislao Lista, per l’insegnamento della scultura e Gioacchino Toma, per il disegno.

Ben presto diviene uno dei protagonisti dell’ambiente culturale partenopeo che a quei tempi si imponeva come uno dei più importanti centri di riferimento della cultura artistica italiana. Scultore abile ed innovativo supera le tradizionali forme accademiche e si distingue per la capacità di rappresentare le figure popolari del suo tempo.

La sua fama cresce al punto da essere chiamato, unitamente ad altri noti artisti, a decorare a Napoli il famoso Gran Caffè Gambrinus. Pochi anni dopo, nel 1897 partecipa alla decorazione della facciata del Teatro Del Fondo, successivamente rinominato Teatro Mercadante in onore del noto musicista di origini pugliesi.

Abilissimo, anche come decoratore, De Matteis viene invitato nel 1897 a partecipare alla decorazione del Teatro Comunale di Santa Maria Capua Vetere.
Oramai noto oltre i confini campani, torna a Lecce per decorare due nobili dimore, palazzo Carrozzini e palazzo Garzya (oggi noto come palazzo Famularo).

Nel 1898 è chiamato a realizzare nella città natia il monumento a Gioacchino Toma inizialmente collocato in piazzetta Ignazio Falconieri. Viene invitato a numerose importanti esposizioni: a Torino, a Venezia, a Firenze ed a Milano.

Gli ultimi anni della sua esistenza li vive quasi in disparte, collabora saltuariamente con la nota manifattura di ceramiche Cacciapuoti. Viene nominato Professore Onorario degli Istituti di Belle Arti di Urbino e Napoli, città nella quale scompare nel 1917.

Francesco De Matteis fa parte di quel non esiguo gruppo di maestri salentini che si sono affermati lontano dalla città di origine. Le sue opere si trovano oltre che in raffinate collezioni private, anche in importanti musei.

Manduria. Il San Lorenzo conteso

Manduria. Statua San Lorenzo (sec.XVIII)
Manduria. Statua San Lorenzo (sec.XVIII)

di Nicola Morrone
Tra i primi e più importanti martiri della cristianità occidentale c’è senza dubbio San Lorenzo, nato a Huesca (Spagna) nel 225 e morto a Roma, il 10 agosto 258, nell’ambito della persecuzione dell’imperatore Valeriano.

Trasferitosi in gioventù dalla Spagna a Roma, una volta giunto nell’Urbe divenne arcidiacono, cioè responsabile delle attività caritative della Diocesi. In seguito ad un editto emanato dall’imperatore, all’età di 33 anni Lorenzo fu messo a morte perchè presbitero, cioè sacerdote. Molto probabilmente (anche se, in questo senso, mancano testimonianze storiche inequivocabili) venne bruciato vivo su una graticola ardente. La graticola, perciò, diventò in seguito il suo attributo iconografico.

Piuttosto tardivamente, il culto per il martire giunse anche a Manduria. La devozione locale non nacque per impulso della Diocesi, ma, come talora accade, su iniziativa privata. Intorno al 1547, con un lascito del notaio Giovanni De Basiliis, su un terreno di sua proprietà, fu edificata una cappella dedicata al santo, che risulta già crollata nel 167O [Cfr. L.Tarentini, Manduria Sacra (1899), p.17].

Nell’iconografia pittorica e plastica manduriana, San Lorenzo è presente, in maniera particolare, in due distinti luoghi di culto: la chiesa della Madonna del Carmelo (Scuole Pie) e la cappella della Natività di Maria Vergine (in Sant’Antonio).

Alle Scuole Pie, il santo è abbondantemente riprodotto: a lui è dedicato il secondo altare a sinistra della navata, qualificato da una grande tela centrale che raffigura il suo martirio e da quattro telette laterali con scene della sua vita (ambito dei pittori Bianchi, sec. XVIII). Nella chiesa è inoltre presente una statua in cartapesta che rappresenta il santo, opera di R. Caretta (sec. XX).

Nella cappella della Natività di Maria Vergine (in Sant’Antonio) si può invece ammirare un bel dipinto con il santo in atteggiamento estatico (sec. XVII, scuola pugliese) e una statua in cartapesta di artista locale (sec. XVIII). La statua, come tutto il corredo artistico della cappella, è stata realizzata su iniziativa dei Frati Cappuccini (uno dei tre ordini mendicanti della famiglia francescana, sorto nel 1520) che officiavano il culto nella chiesetta già dalla seconda metà del sec. XVII. Giunti a Manduria intorno al 1660, essi, anche con il sostegno dell’aristocrazia locale, avevano realizzato la cappella e il convento annesso, e tra gli altri, solennizzavano il culto per San Lorenzo Martire con una festicciola nei pressi della contrada [cfr. L.Tarentini, Manduria Sacra (1899), pp.56-65].

Ma la comunità cappuccina, dopo appena due secoli di presenza in città, dovette abbandonare Manduria in seguito alle soppressioni monastiche postunitarie (1866). All’allontanamento della comunità monastica seguì un periodo di abbandono della cappella e del convento, in cui si verificarono, tra le altre cose, anche spoliazioni del patrimonio artistico.

Nell’ambito di quel convulso frangente storico, che ha interessato molte fondazioni monastiche italiane, la statua manduriana di San Lorenzo è stata al centro di una vicenda molto particolare, che abbiamo recentemente ricostruito con l’ausilio di documenti rintracciati nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, sulla scorta delle indicazioni fornite in un saggio scientifico [cfr. A.Gioli, ”Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli Enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione” (Roma 1997)].

Presso L’ACS (fondo Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Antichita’ e Belle Arti, Affari per Province, busta 16, fascicolo 41) esiste infatti un incartamento, della consistenza di cc. 8, riguardante i Cappuccini di Manduria, contenente documenti risalenti all’anno 1872. Sei anni prima, il Regio Decreto n.3036 del 7 Luglio 1866 aveva stabilito la soppressione degli Ordini religiosi possidenti. La legge non prevedeva forme particolari di tutela dei beni artistici presenti nelle chiese e nei fabbricati monastici. E mancando appunto un sostegno giuridico alla salvaguardia dell’immenso patrimonio artistico degli Ordini religiosi ebbe luogo, nell’immediato periodo postunitario, la grande dispersione delle opere d’arte di proprietà claustrale, la cui sorte, nella gran parte dei casi, non è più possibile ricostruire.

Dopo l’allontanamento dei Cappuccini dalla casa manduriana, lo stesso destino sarebbe toccato, tra gli altri, anche alla statua in cartapesta di San Lorenzo Martire, ma stavolta le cose, per una curiosa circostanza, andarono diversamente. Infatti, tra i documenti da noi ritrovati a Roma ce n’e’uno, datato 1872, da cui si evince che la Congrega del Carmine di Manduria (Scuole Pie) aveva fatto istanza ad un particolare ufficio del neonato Regno d’Italia (l’Amministrazione del Fondo per il culto) per ottenere la statua di San Lorenzo Martire, già appartenuta ai Cappuccini, al fine di istituire nella propria chiesa il culto del santo e solennizzarlo con una festa annuale (10 agosto).

Per permettere lo spostamento della statua dalla chiesa dei Cappuccini a quella delle Scuole Pie occorreva però, secondo le leggi del tempo, che essa fosse riconosciuta “di nessun valore artistico”. In caso contrario, essa sarebbe rimasta di proprietà dello Stato, come patrimonio acquisito in seguito alla soppressione della comunità cappuccina di Manduria. Gli ufficiali del Regno d’Italia incaricarono dunque la Regia commissione Conservatrice di Monumenti storici e delle Belle Arti di stimare il valore artistico della statua, e, anzichè mettere tutto nelle mani di tecnici forestieri, si affidarono al personale del Museo provinciale di Terra d’Otranto (Lecce), che avrebbe inquadrato l’opera nel giusto contesto storico ed artistico, e ne avrebbe poi fornito, in base a questi parametri, una stima anche economica. E così fu.

Nel fascicolo da noi consultato a Roma, c’è infatti una bellissima relazione, senza data, sottoscritta dal Direttore del Museo Provinciale di Lecce (il patriota Sigismondo Castromediano). Dalla sua lettura si evince che una commissione del Museo, composta da Luigi De Simone, Cosimo De Giorgi, Pietro De Simone e lo stesso Castromediano, si recò a Manduria la sera del 13 settembre 1872 e, dopo essersi accordata col sindaco, col ricevitore del demanio e con i RR. Carabinieri, il giorno successivo prese visione della statua.

Questa era già stata collocata nella chiesa del Carmine. Dopo essere stato riconosciuto sotto l’aspetto formale come opera di gusto barocco, il manufatto fu giudicato dalla commissione come opera di “artista poco perito”. Alla fine della meticolosa relazione si sottolinea che “se v’ha alcun pregio in questa statua non è certo estrinseco od estetico; la è una brutta copia, è una pessima caricatura di tante statue consimili di San Lorenzo che si trovano in diversi paesi della provincia, le quali potranno avere soltanto un valore archeologico tra un milione di anni, se la materia prima con la quale sono state modellate potrà resistere alla corruzione del tempo, del tarlo, e della tignola. Per tutti questi motivi la Commissione giudica la statua di nessun valore artistico, e crede che il prezzo dell’opera quale attualmente si trova sia di 80 a 100 lire italiane”.

Sulla base di questa valutazione, l’Amministrazione per il Fondo del Culto accordò alla Congregazione del Carmine di Manduria l’utilizzo della statua, anche se i confratelli, come detto, avevano già provveduto a spostare l’opera dalla sua sede originaria, con processione solenne.

La statua di San Lorenzo Martire, dunque, è rimasta a Manduria proprio per esser stata considerata “di nessun valore artistico”. Questa valutazione, effettuata nel 1872 dagli esperti leccesi, è stata dunque provvidenziale, poichè ha permesso all’opera, a differenza di tante altre disperse, di rimanere nella sua città. La valutazione della commissione, però, pur provvidenziale, non fu criticamente equilibrata. Il Tarentini afferma che, all’epoca, la statua “riscosse erroneamente fama di grande lavoro artistico”, senza però motivare questo suo giudizio negativo.

Lo studioso S. P. Polito, tra i massimi conoscitori della cartapesta salentina, si esprime invece sul San Lorenzo manduriano in termini decisamente positivi, descrivendolo come un manufatto “pregevole”, che “denota nei tratti e nel gesto una tenuta qualitativa non eccellente, ma, ad ogni modo, piuttosto alta [….] non troppo lontana dagli esiti raggiunti dal Manieri” [Cfr.S.P.Polito, La cartapesta Sacra a Manduria (Manduria 2002), pp. 20 e 136].

Nella fattispecie, si tratta, tra l’altro, di un vero e proprio incunabolo della cartapesta salentina, dal momento che i primi manufatti di plastica cartacea documentati nel Salento risalgono appunto al sec. XVIII. Il verdetto dei tecnici leccesi pare anche a noi eccessivamente severo: osservando direttamente la statua, che fu realizzata più di due secoli e mezzo fa, si nota uno sviluppo solido ed equilibrato della massa plastica, una sufficiente attenzione al dettaglio decorativo, e, non ultima, una buona capacità di caratterizzazione psicologica.

In ogni caso, a quella lontana valutazione “al ribasso” dobbiamo comunque, lo ribadiamo, il salvataggio dell’opera dalla sua sicura dispersione. La statua di San Lorenzo, dopo essere stata acquisita dai Confratelli del Carmine per le loro esigenze cultuali (tra l’altro legittimate da una devozione che, nata su impulso privato, era presente alle Scuole Pie già dal primo ‘700) ritornò poi, giustamente, nella sua sede originaria, cioè nella cappella della Natività di Maria (ora in Sant’Antonio).

Nelle Scuole Pie fu, al suo posto, collocata un’altra statua in cartapesta del Santo, quella realizzata ai primi del ‘900 dal leccese Raffaele Caretta.

In conclusione, da una superficiale valutazione tecnica dell’importanza di un’opera d’arte è venuto alla comunità manduriana un vantaggio, di cui i concittadini possono tuttora beneficiare. Purtroppo, di tante altre opere, di cui si fece a suo tempo “corretta” valutazione artistica, si è perso finanche il ricordo.

 

Nicola Morrone

 

Un pregevole presepio di Malecore a Nardò

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Tra fede e tradizione

L’artistico presepe in cartapesta di Malecore

nella chiesa del Sacro Cuore a Nardò

di Marcello Gaballo

Ben volentieri richiamo l’attenzione sul grande livello qualitativo di un gruppo statuario che è presente nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò. Ogni anno, ormai da oltre otto lustri, la comunità esibisce il complesso figurativo in originali e mai ripetitivi presepi, seguendo le volontà del sacerdote che volle commissionare le opere, don Salvatore Leonardo (1939-1997), primo parroco, il cui ricordo e la cui sensibilità restano ancora vivi tra quanti lo ebbero pastore.

Questi ebbe grande cura della comunità e dell’edificio sacro a lui affidato, preoccupandosi di dotarlo di ottimi arredi, tra i quali le statue presepiali di cui si scrive in questa nota.

Attento cultore dell’arte popolare e particolarmente devoto al grande evento della Natività di Cristo, francescanamente innamorato del presepe di Greccio, don Salvatore volle dotare il suo gregge di quanto meglio potesse rievocare la lieta Novella.

Si rivolse dunque al più valido artefice della cartapesta leccese vivente, il maestro per eccellenza, Antonio Malecore,[1] ultimo esponente della celebre bottega ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica, impiantata dallo zio Giuseppe nel 1898.[2]

ancora un presepe tradizionale realizzato negli scorsi anni dalla comunità dela parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò. Le statue, come nelle altre foto d’insieme, sono quelle del maestro Antonio Malecore

Il sacerdote aveva notato la finezza e la valenza artistica del Malecore in numerosi lavori sparsi nelle diverse chiese salentine, cogliendone la cura meticolosa dell’esecuzione, il sorprendente realismo dei personaggi e la perizia tecnica esercitata in ogni particolare delle statue. Era soprattutto attratto dalla dolcezza dei volti del maestro, dall’anatomia, dal panneggio e dalla delicata cromìa, mai esagerata, non translucida, ben accostata.

Ne commissionò ben sei, con costi non indifferenti per quel periodo (1979) e per le limitate risorse degli offerenti, sempre ripromettendosi di ampliare la scena con successive committenze, come effettivamente avvenne nei decenni successivi da parte del suo successore e dei parrocchiani.

Maria, Giuseppe, il Bambino con la mangiatoia, il pastore in ginocchio, l’umile contadina con il cesto di mandarini, il pifferaio. Meravigliose opere gelosamente custodite nel corso dell’anno, tolte dal luogo “proibito” solo alla vigilia, per essere collocate nel presepe allestito, ultimo atto da compiersi poco prima della Veglia della Santa Notte.

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Nel 1998 alcuni fedeli, desiderosi di incrementare il patrimonio scultoreo, commissionarono al medesimo maestro, ormai al termine della carriera, i tre Magi, l’angelo e un terzo pastore.

La diversa cronologia delle opere non si ravvisa in modo netto, è evidente per lo più nella crescita artistica del Malecore: è il caso ad esempio degli alteri Magi, particolarmente interessanti rispetto alle restanti statue per la capacità manuale che senz’altro supera il limite dell’artigiano.

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Non è da meno il bel pastore genuflesso sull’arto destro, figura che si volge delicatamente verso destra, con un atteggiamento devoto che nulla ha da invidiare ai simili dipinti nelle più belle opere del Seicento. La raffinata resa delle mani, i lineamenti del volto, l’andamento della barba e la garbata posa forse potrebbero designarlo come il miglior pezzo della collezione.

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Non esiste tuttavia competizione tra le figure, rispettando ognuno il suo ruolo ed esercitando un fascino che solo Malecore poteva attribuire loro. E quanta dolcezza nel volto di quel giovin suonatore di piffero, le cui mani stringono con incredibile eleganza l’umile strumento che sembra davvero diffondere un melodioso suono nell’angusta stalla.

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Lo stile del gruppo statuario senz’altro richiama ai leccesi altari zimbaleschi, infinite volte ammirati dal maestro nella chiesa del Rosario in particolare,  la sua “maniera” tuttavia si distingue dallo stile accartocciato barocco, prediligendo una composizione più sobria e più vicina al gusto del contemporaneo. L’angelo del presepio neritino, per esempio, nulla ha a che fare con gli angioletti paffuti e giocosi degli altari di S. Irene o di Santa Croce e di tanti altri altari barocchi salentini, offrendosi allo spettatore in posa severa, consapevole dell’evento che si celebra, fiero di esibire quel cartiglio che esorta alla Gloria al Padre per tutti gli uomini nel più alto dei Cieli, in eterno.

E quella che potrebbe apparire come la statua più semplice, raffigurando un contadinello con la legna nella saccoccia, ancora una volta conferma l’abile modellazione plastica del Malecore, evidente nella realizzazione di caratteri somatici sempre differenti, marcati, tipici della gente del Sud, con uno standard che non tradisce mai la sua inconfondibile arte scultorea.

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La semplice carta, ridotta in poltiglia secondo tecniche centenarie, diventa pregevole materia capace di competere con i più nobili materiali, alla ricerca della perfezione e della bellezza classica che indossa le vesti del popolo salentino. Ma anche quando deve trattare “reali” personaggi, come i tre Magi, l’artista riesce a conservare la dolcezza dei loro volti, l’umile posa, rendendoli esuberanti solo per le vesti degne del loro status, impreziosite dall’abile collocazione  di gemme e minuterie in metallo dorato.

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Il risultato è dato dall’insieme di undici figure a tutto tondo, di grandezza proporzionatamente ridotta (la più alta è di circa 120 cm), colorate a pennello, dal peso alleggerito grazie alla struttura impagliata.[3] Il contesto presepiale in cui vengono annualmente inserite – anche questo mai ripetitivo – conforme al mondo contadino di fine Ottocento, esalta la bellezza dei manufatti, esprimendo egregiamente il bimillenario racconto della Natività nell’angusta stalla.

Non ci vuole molto a capire che il maestro Antonio Malecore qui, come per altri presepi sparsi nelle sedi più prestigiose del mondo, è andato ben oltre la tradizione leccese, con risultati che lo inseriscono di diritto nella storia della cartapesta. Un catalogo delle sue opere, a mio parere, è più che mai auspicabile, a dispetto degli scettici che si ostinano a ritenere quella della cartapesta un’arte di livello inferiore.

Il gruppo statuario neritino, per la sua singolarità e il gusto realistico, meriterebbe una collocazione stabile nel sacro edificio, magari in un’apposita cappellina laterale. Questo eviterebbe gli immancabili guasti delle opere, in più punti già riscontrabili con le cadute di colore e la frattura di alcune parti più deboli, come purtroppo ho potuto constatare.

Plaudo comunque alle sagge scelte della fervente comunità, che ha saputo ben scegliere, investendo attentamente sulla cultura dell’arte popolare a Nardò e nel Salento.

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Le foto sono state concesse in esclusiva a Spigolature Salentine e non è consentita in nessun modo la loro riproduzione.©

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (quinta e ultima parte)

Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I
Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I

 

di Cristina Manzo

Le statue dei misteri di Taranto

Nell’ottobre del 1900 il consiglio di amministrazione della confraternita del Carmine di Taranto decise di sostituire tre statue della processione dei misteri[1],ormai deteriorate, con tre  nuove raffiguranti gli stessi momenti della passione di Cristo: la Colonna, l’Ecce Homo e la cosiddetta Cascata.

La scelta per l’esecuzione di quei lavori cadde su uno dei più noti artisti cartapestai dell’epoca, già più volte premiato in Italia e all’estero, Giuseppe Manzo, che consegnò personalmente quelle tre statue nei primi mesi del 1901. Il maestro aveva cercato inutilmente di sottrarsi a quell’impegno (viaggiare sino a Taranto per la consegna):

 

“Ill.mo signore – aveva scritto il 15 febbraio 1901 al priore della confraternita – essendo che le statue dei misteri sono per finirsi, e per la fine del mese o forse prima saranno pronte, vi scrivo la presente per sapere se i splendori per le stesse li dovrò far fare io o ve ne occuperete voi stesso. Di più, trovandomi affollato di lavoro vi domanderei se fosse possibile di risparmiarmi la venuta e se al contrario potesse venire qualcuno della commissione per consegnarle, altrimenti sospenderò io e verrò. In attesa di leggervi al riguardo con stima vi saluto.”

 

Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

Ma nonostante la richiesta, nessuno si era fatto vivo, sicché imballatele a dovere, il maestro fece trasportare le statue alla stazione di Lecce e da qui, dopo averle fatte caricare su un vagone merci, partì alla volta di Taranto[2]

Per la realizzazione di quelle tre statue il cartapestaio aveva chiesto un compenso complessivo di 650 lire, e  quando il priore e quelli che erano con lui, al momento della consegna ammirarono i capolavori, non si pentirono per un attimo della scelta compiuta. Correvano felici da una all’altra osservando con gioia tutti i bellissimi particolari, che confermavano il capolavoro che il professore aveva compiuto. Qualche giorno dopo, esattamente il 19 marzo 1901, nel redigere il rendiconto degli introiti e delle spese riportate per l’acquisto delle nuove statue, l’allora segretario del Carmine, Luigi De Gennaro, avrebbe infatti testualmente annotato: “Per le nuove statue dei sacri misteri. Costo e spese di trasporto al Prof. Giuseppe Manzo di lecce, giusta sua quietanza, lire 700.”[3]  Leggendo il libro di Caputo, inoltre veniamo a conoscenza di due curiosi aneddoti su questi lavori, che riguarderebbero il Cristo alla colonna. Durante la sua realizzazione in laboratorio, infatti, il Manzo si accorse dell’errore che era stato fatto dai committenti, pretendendo che il Cristo durante la flagellazione dovesse avere la corona di spine in testa, mentre in realtà, questa riguardava una fase successiva, e poiché  era molto preciso sui suoi manufatti, la cosa rappresentava un grosso problema, ma quando anche nella riconferma della commissione del 2 novembre 1900, furono ripetute quelle condizioni, egli decise di rassegnarsi.

La confraternita, sempre per la realizzazione di questa statua, aveva fornito al Manzo un’immagine per altro riuscita piuttosto male e in bianco e nero che illustrava l’originale colonna di santa Prassede a Roma, quella a cui  Gesù, fu legato, nel cortile della fortezza Antonia, il Pretorio di Pilato in Gerusalemme, per la flagellazione.

 

Il Cristo alla colonna di Giuseppe Manzo
Taranto, Cristo alla colonna Giuseppe Manzo, 1901

Non potendo individuare in alcun modo il colore, il Manzo abbondò con il verde, mentre la colonna originale è di marmo diaspro, proveniente da una roccia calcarea che assume colorazioni che vanno dal bianco al bruno. Nella colonna Gesù ha le mani legate dietro la schiena. Una cordicella gli tiene uniti i polsi, che a un primo sguardo non sembrano legati alla colonna, il Cristo dà l’impressione di essere solo poggiato ad  essa, ma così non è. Una colonna bassa che assomigliasse a quella originale così come l’avevano voluta quelli della confraternita, dava non pochi problemi, su come poter legare le mani alla stessa, ed era impensabile che anche all’epoca della flagellazione Cristo non fosse stato legato.

 

“Ecco allora che il Manzo s’inventò letteralmente l’anello di ferro al centro della parte superiore della colonna e attraverso quell’anello fece passare a più giri la cordicella che stringeva i polsi di Gesù. Dico s’inventò, perché il cartapestaio leccese non poteva aver visto su  una figura degli inizi del secolo un anello che nella colonna che si conserva a S. Prassede non è visibile neppure oggi. Ma fece bene il maestro, forse fu l’intuito a guidarlo. Certo non gli mancava la fantasia[…] Due piccoli capolavori impreziosiscono questa statua: quelle mani legate dietro la schiena che sembrano quasi parlare e il merlettino che orna il perizoma di Gesù. Due capolavori firmati Giuseppe Manzo.”[4]

Nella seconda statua realizzata, quella dell’Ecce Homo, ancora una volta il maestro, in maniera impareggiabile, esprime tutta la sua abilità nel catturare la storia e l’emotività del personaggio. Abbiamo un Gesù che, dopo la sofferenza della flagellazione, sa che sta andando incontro alla sua fine, non si aspetta più niente dalla crudeltà degli uomini, non guarda la folla, non guarda Pilato, cammina ad occhi bassi verso il suo destino, i capelli sono intrisi di sangue, che da una spalla, in tante pieghe sapientemente ondulate dal Manzo, cola in rivoli.. Nelle mani legate stringe una canna, lo scettro che gli hanno regalato i soldati. Non gli interessa ciò che accade intorno a lui.

 

Taranto, Ecce Homo, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, Ecce Homo, Giuseppe Manzo 1901

 

Ma fu nella Cascata che il maestro raggiunse il massimo della sua arte. Qui non solo era chiamato a modellare un Gesù steso per terra e schiacciato dal peso che portava addosso, ma doveva anche fare i conti con quella tunica, creando ora le pieghe della spalla sulla quale poggiava la croce, ora quelle della spalla libera, poi ancora le pieghe delle lunghe maniche, e infine quelle che scendevano lungo il corpo di Gesù, tenendo presente che la cordicella che stringeva la vita del Cristo, accresceva le arricciature che diventavano piccole, grandi, fluenti…

Il Manzo seppe raggiungere magnificamente lo scopo, ma dovette anche far ricorso alla sua ben nota pazienza, facendo e rifacendo chissà quante volte quelle pieghe e usando continuamente i ferri arroventati per focheggiare, segnare, correggere e perfezionare ondulazioni e arricciature. Gli occhi di Gesù, nella cascata, ricordano molto da vicino quelli della Colonna. Sembrano due sguardi identici, tanto che separando e isolando  gli occhi dal resto dei due volti, si ha difficoltà  a identificare a quale statua essi appartengano. Anche qui, gli occhi sono rivolti a sinistra verso l’alto e sembrano quasi voler esprimere un’invocazione di pietà da parte di Gesù nei confronti dei soldati. Tornano evidenti i segni del dolore fisico, e della fatica già presenti nella Colonna; ma si ha anche l’impressione che nella cascata l’artista abbia voluto mettere sul volto di Gesù più uno sguardo di giustificazione che di pietà. Giustificazione per quella caduta accidentale, avvenuta contro la volontà del Cristo, per aver causato un grattacapo al centurione. Gesù alzando la testa sembra voler chiedere perdono, come a dire che la sua caduta era dovuta alle sue precarie condizioni fisiche, non voleva rallentare, il suo cammino verso la crocifissione.

 

“La statua insomma doveva anche parlare., ed egli in questo senso era un innovatore. Non realizzava soltanto delle figure, ma cercava, nei volti dei suoi Gesù e dei santi, anche la parola, la comunicazione. Chi osservava, non doveva soltanto vedere, ma anche ascoltare, capire sino in fondo il soggetto rappresentato. Con il Manzo possiamo dire che la cartapesta leccese voltò pagina.”[5]

 

Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901

 

Taranto, Particolare degli occhi del Cristo alla Colonna, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, Particolare degli occhi del Cristo alla Colonna, Giuseppe Manzo 1901

 

Oggi, la cartapesta leccese non è più quella di ieri. C’è ancora qualche bottega che resiste qua e là, ma quella lavorazione, scrupolosa, paziente, emotiva, che apparteneva ai cartapestai di una volta non esiste più. Tranne pochissime eccezioni, laddove qualcuno ha appreso la tecnica dal padre o dal nonno, da qualche maestro di una volta, l’arte dell’unicità ha ceduto il passo all’industrializzazione, i santi si fabbricano in serie, con le forme e paiono tutti uguali, senza un’espressione propria che li identifichi, senza un’anima che possa trasmetterci emozioni. Alcuni tra i giovani si sentono protagonisti di una fondamentale operazione di recupero e parlano di una nuova forma di ispirazione, quasi inconscia, dalle loro botteghe nel centro storico della città. Cercano una chiarificazione del proprio ruolo artigianale, dove la cartapesta non rappresenta un inutile revival, ma nemmeno la rottura con la tradizione, ci ricordano che le botteghe artigiane[6],

 

“possono ancora costituire la linfa per la rinascita di un centro storico tra i più belli di tutto il sud, dove i laboratori anche all’esterno, mantengono il rispetto della linea architettonica del vecchio borgo, l’anima della città, la sua filosofia di vita”.[7]

 

Ma c’è anche a Lecce, in Puglia, in Italia, nel mondo, tutto un patrimonio della cartapesta da salvaguardare e da valorizzare. Si tratta di autentici capolavori che hanno segnato un’epoca e dei quali si potrebbe tentare una non impossibile, anche se difficile catalogazione generale.[8]

 

Lecce, centro storico. Il palazzo a due piani, che si affaccia sul monumentale teatro greco, fu l’abitazione di Giuseppe Manzo, a due passi dal suo reale laboratorio, oggi proprietà del nipote Dino Manzo
Lecce, centro storico. Il palazzo a due piani, che si affaccia sul monumentale teatro greco, fu l’abitazione di Giuseppe Manzo, a due passi dal suo reale laboratorio
Lecce, centro storico, la via dell’abitazione che fu di Giuseppe Manzo
Lecce, centro storico, la via dell’abitazione che fu di Giuseppe Manzo

La nostra città, fiera dei suoi artisti e della sua storia, ha inaugurato nel  dicembre 2009, il Museo della Cartapesta.[9] Esso  rispecchia la storia di un’arte che si intreccia con la storia della città, fin dal diciottesimo secolo. La statuaria in cartapesta, nel solco dell’influenza partenopea, è un tratto distintivo della cultura salentina. Nelle diverse sale al pianterreno del Castello di Carlo V, si ripercorrono le tappe di un’arte, a torto, considerata minore.

Come affermava G. Klimt: “Chiamiamo artisti non solamente i creatori, ma anche coloro che godono dell’arte, che sono cioè capaci di rivivere e valutare con i propri sensi ricettivi le creazioni artistiche”.

 

 

Bibliografia

Bambi E., Quando la cartapesta si trasforma in arte, in “Tempo” 20 agosto 1982Da «L’Ordine» – Settimanale Cattolico Salentino, 10 gennaio 1942

Barletta R., Appunti e immagini su cartapesta, terracotta, tessitura a telaio, Fasano, 1981

Bazzarini A., Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Francesco Andreola, Venezia 1830-1837

Caputo N., Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991

Castromediano S., L’arte della cartapesta in Lecce, in “corriere meridionale”, IV, n 17, Lecce, 1893

De Marco M., Catalogo delle opere sacre in cartapesta conservate presso la chiesa e il convento dei padri passionisti , in “ I Passionisti a Novoli. 1887-1997”, Manduria, 1987

De Marco M., La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997

I PP. PP. A Novoli 1887-1987, (Lecce) 1894

L’ultima cartapesta, divagazioni su Lecce settecentesca ed una poesia di Vittorio Bodini. Quaderni della banca del Salento, n. 1, a cura di Franco Galli, 1975

Marti P.,  La modellatura in carta, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1894. (opuscolo)

Natale, storia, racconti, tradizioni. Paoline,  2005

Lazzari G., in Anxa, anno X, n. 56, maggio-giugno 2012 , Associazione culturale Onlus, Gallipoli (Le)

Ragusa C., Guida alla cartapesta leccese. La storia, i protagonisti, la tecnica, il restauro. A cura di Mario Cazzato, congedo editore,1993

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Sabato A. (a cura di) Costumi, cartoline, cartapesta, Lecce, 1993

Solombrino O., Serrano Microstorie Ricordi sentimenti a cura di S. Solombrino, Congedo, Galatina 2005

Tragni B., Artigiani di Puglia(con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986Rossi E.,Un’arte senza domani vive la sua agonia: la statuaria leccese, in “ La tribuna del Salento” anno I,Lecce, 1959

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Wikipedia, l’enciclopedia libera

 

Sitografia

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Gli artisti della cartapesta leccese nella pubblicistica salentina www.culturaservizi.it

Il Cristo morto, www.brindisiweb.it

Museo della cartapesta, www.quisalento.it

Santa Trinità, www.sstrinita.manduria.org

Settimana Santa di Taranto, it.wikipedia.org/wiki/Settimana_Santa_di_Taranto


[1] I riti della Settimana Santa di Taranto sono un evento che si svolge nella città a partire dalla Domenica delle Palme, e risalgono all’epoca della dominazione spagnola nell’Italia meridionale. Furono introdotti a Taranto dal patrizio tarantino Don Diego Calò, il quale nel 1603, fece costruire a Napoli le statue del Gesù Morto e dell’Addolorata. Nel 1765 il patrizio tarantino Francesco Antonio Calò, erede e custode della tradizione della processione dei Misteri del Venerdì Santo, donò alla Confraternita del Carmine le due statue che componevano la suddetta processione, attribuendole l’onore e l’onere di organizzare e perpetrare quella tradizione cominciata circa un secolo prima. Nel corso del tempo a queste due statue donate se ne aggiunsero altre sei, per arrivare a un totale di otto statue.( Tre di queste sono quelle rifatte dal Manzo nel 1901. In occasione del centenario della sua realizzazione e consegna, nel 2001, durante la processione dei misteri, fu assegnata una targa in ricordo del grande maestro cartapestaio, al nipote Dino.) Questa processione esce alle cinque del pomeriggio del giovedì Santo dalla chiesa del Carmine, e si conclude alle cinque del venerdì, rientrando nella stessa chiesa, portando le statue che simboleggiano la passione di Gesù. I confratelli sono vestiti con l’abito tradizionale dei Perdoni e procedono a ritmo lentissimo accompagnati dalle marce funebri. La processione è composta dalla Troccola, strumento che apre la processione, il Gonfalone ovvero la bandiera della confraternita, la Croce dei misteri, il Cristo all’Orto, la Colonna, l’Ecce Homo, la Cascata, il Crocifisso, la Sacra Sindone, il Gesù Morto, l’Addolorata (appena essa esce sulla piazza, verso le otto di sera, si chiude il portone del Carmine). È accompagnata da tre bande che suonano marce funebri, ed effettua durante il percorso una sosta nella chiesa di San Francesco da Paola. Vi erano inoltre tre coppie di poste sistemate davanti alle statue, divenute quattro a partire dal 2012 e sette Mazze che hanno il compito di mantenere ordinata la processione e di sostituire i confratelli in caso di necessità. Fonte: it.wikipedia.org/wiki/Settimana_Santa_di_Taranto

[2] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 9

[3] Archivio confr. del Carmine, Taranto, fascicolo corr. con G. Manzo, rendiconto 1901, in Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p.27

[4] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, pp. 39, 41, 51, 53, 107, 110

[5] Idem, p. 120

[6] Bianca Tragni, Artigiani di Puglia (con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986, p. 321

[7] Da una intervista di E. Bambi, Quando la cartapesta si trasforma in arte, in “Tempo” 20 agosto 1982, p. 2

[8] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 142

[9] Caterina Ragusa, è la  direttrice del Museo, e Tina De Leo, è la  responsabile Eventi del Castello Carlo V. Ci sono sette sale al primo piano, tre al piano terra, tra cui il laboratorio di restauro della cartapesta. Complessivamente la struttura raccoglie 80 opere, tutte d’ispirazione cristiana, realizzate da grandi maestri cartapestai leccesi intorno al 1700. www.quisalento.it

 

Per la prima parte: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/09/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-prima-parte/

Per la seconda parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/12/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-seconda-parte/

Per la terza parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/15/giuseppe-manzo-terza-parte/

Per la quarta parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/18/giuseppe-manzo/

 

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (quarta parte)

di Cristina Manzo

 

Tra i cartapestai leccesi della seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento Giuseppe Manzo fu il meno predisposto all’industrializzazione dell’arte appresa nella bottega del De Lucrezi.

Il successo riscosso dalle sue statue in tutte le esposizioni  nazionali e internazionali dal 1885 alla vigilia della prima guerra mondiale, in concorso con le statue dei cartapestai suoi giovani discepoli e coetanei, premiò la sua fedeltà all’ideale artistico-artigianale che più tardi decadde violentato dalla istituzione di stabilimenti, in cui si modellò la cartapesta quasi alla maniera del cartone romano o del carton pierre francese.

Significativa è la medaglia d’oro che gli fu assegnata nel 1898 alla esposizione internazionale di Torino. Nella stessa esposizione, le statue del De Lucrezi, suo maestro,  furono premiate con l’unica medaglia d’argento di prima classe messa a disposizione della Giuria dal Ministero della Pubblica Istruzione. Questo un brano della relazione che il barone Sebastiano Apostolico tenne a chiusura della Esposizione di Torino del 1898, quale presidente effettivo del comitato provinciale leccese.[1]

Giuseppe Manzo “I nostri bravi operai hanno creato un’arte di cui ormai la fama varca i due mondi. Pregevoli riescono generalmente i loro prodotti, e tanto più destano ammirazione a noi che conosciamo che nessuna preparazione di scuola si è loro apprestata; tutto essi producono col loro ingegno volenteroso, col loro innato senso artistico. La sola medaglia d’oro destinata dalla Giuria per tal genere di lavori la ottenne il nostro bravo Giuseppe Manzo. Gli altri espositori di lavori di cartapesta furono anch’essi premiati e cioè: il signor Achille De Lucrezi, con l’unica medaglia di argento di prima classe messa a disposizione della Giuria dal Ministero della pubblica istruzione; il signor Raffaele Carena ebbe la medaglia di argento; e medaglia di bronzo i signori Fratelli Caprioli, Domenico Pisanelli, Isacco-Longo De Pascalis, e “l’istituto di arti plastiche”. Questa [arte] della cartapesta, conosciuta in  tutto il mondo, non è organizzata coi sistemi di “réclame” che usan tutti; non ha largo stock di esemplari, pronti a soddisfare le richieste, non vi sono depositi nelle città di consumo, ma si aspetta che vengan fatte le commissioni prima di intraprendere il lavoro. Organizzando questa arte originale, impartendo una istruzione tecnica agli operai che vi si dedicano, potrebbe, anzi dovrebbe, addivenire una grande industria da dar lavoro rimuneratore magari a migliaia di operai. Ecco la strada che bisogna battere.[2]

 

Ed ancora:

 

Il barone Sebastiano Apostolico di Lecce è uno dei maggiori trionfatori dell’esposizione per aver fatto principalmente concentrare gli sguardi di tutta la nazione convenuta a Torino, sulla simpatica e verace terra di Puglia. Avviene così di rado il miracolo della immediata rivelazione delle virtù d’una regione, che quando avviene, si resta lieti e lusingati. E lieti debbono esserne i pugliesi. Diciamolo subito: Giuseppe Manzo di Lecce, premiato all’Arte Sacra con l’unica medaglia d’oro concessa all’ industria della cartapesta religiosa, fra dieci espositori, tra cui uno importante di Roma, il Rosa, con i suoi lavori ha attratto i visitatori a migliaia, incantandoli, più di quello che abbiano saputo fare alcuni veri artisti. Che volete! Il Manzo fa dell’industria, ma egli è artista nell’anima. Senza ciò non si può spiegare il mistico rapimento operato sulla folla, colta e incolta, intendente e non intendente d’arte e d’arte applicata. Il Manzo, valentissimo e misurato artefice della gentile città di Puglia, della terra, dalla quale, come dice il Boito, le grandi città, Roma sopra tutte, dovrebbero imparare l’arte industriale delle suppellettili sacre, è stato il prediletto espositore che destò il più grande interessamento nei critici, negli artisti, nei fedeli, nei sacerdoti, nei Sovrani, nel pubblico tutto. La Regina d’Italia, la Principessa Letizia, la Duchessa d’Aosta, diligenti ammiratrici del bello, più volte si son fermate davanti ai bei lavori della nobilissima arte industriale leccese, una vera gloria meridionale, per rivedere e lodare i lavori geniali e semplici del sig. Manzo che, in quei momenti di trionfo, per lui inconsapevole, lavorava nella sua bottega, dalla  quale partono per viaggiare fino in America, in Inghilterra e perfino sulle cime delle nostre Alpi nevose, vergini, santi, angeli, ecc. La medaglia d’oro ottenuta dal Manzo per i suoi bei lavori, tanto ammirati, e concessa da una competentissima giuria composta di artisti e d’industriali, l’unica per tale arte applicata, ricrea lo spirito di quanti hanno buone speranze in Italia per il risorgimento prossimo dell’arte industriale, una delle nostre glorie passate.[3]

 

una delle opere di Giuseppe Manzo
una delle opere di Giuseppe Manzo

Le sue pale per altari ed i suoi gruppi statuari sono caratterizzati da una certa austerità e da un verismo impeccabile. I suoi altorilievi e bassorilievi  sono impareggiabili nella perfezione. Non si potrà  riuscire a rintracciare tutte le sue opere, in special modo quelle che appartengono a collezioni private, o che sono sparse per il mondo, ma ve ne sono di grande bellezza e prestigio sparse nelle chiese di tutta la puglia, noi parleremo di alcune di queste:

– nella chiesa di S. Vito a Surbo fu commissionata al maestro Manzo, la statua della Madonna del Carmine, realizzata nel 1899.

– Nello stesso anno, la chiesa madre di Mesagne commissionò una bellissima statua del sacro Cuore di Gesù. La statua raffigura Gesù ritto sulle nuvole, scalzo e coperto da una tunica rossa sostenuta alla vita da una cintura, ed un mantello blu con decori dorati. La mano sinistra, aperta, è tesa all’ingiù, come per evidenziare la piaga del crocifissione. La mano destra indica il cuore che, coronato di spine e sormontato da una croce, campeggia sul petto. I capelli, lunghi e ondulati, scendono sulle spalle e sul petto. Le pieghe della tunica fanno intuire in modo realistico il corpo e danno all’insieme un aspetto armonioso e gradevole. La statua ordinata dall’Arcivescovo Salvatore Greco, costò 243 lire.  Per la stessa chiesa in quegli anni, egli realizzò anche gli Angeli osannanti con apparato decorativo, nonché un Crocifisso (cartapesta policroma cm 48 x 37 x 8.5).

– A Ruvo di Puglia, nell’Ottocento, si dirottò il culto della Vergine dalla pala d’altare alla statuaria con la presenza nella chiesa di un simulacro vestito, prima, e di una statua in cartapesta leccese poi.

ruvo

Nel 1897 venne acquistato dal Manzo, il nuovo gruppo statuario, realizzato seguendo il quadro della Madonna del Rosario di Pompei. Ancora a Ruvo di Puglia, gli fu commissionato l’attuale gruppo statuario della Pietà, che rappresenta la Madonna con gli abiti del lutto ai piedi della croce nuda e con in grembo il corpo senza vita del figlio. L’opera, in cartapesta, porta la data del 1901. Le chiese di Ruvo di Puglia, commissionarono molti lavori al maestro salentino. Per la realizzazione di S. Anna,  per esempio, un parroco interessò la nobile famiglia Spada, che finanziò la realizzazione da parte del leccese Manzo, autore anche della statua di S. Giuseppe, del Redentore e di altri simulacri, in altre chiese ruvesi.

dal blog sulla settimana santa a Ruvo
dal blog sulla settimana santa a Ruvo

-Nella cappella del Santissimo, a Cavallino di Lecce, sopra l’altare maggiore c’è un elegante ciborio e, al posto dell’antica tela, alta e luminosa si staglia la bella statua in cartapesta del Sacro Cuore di Gesù, suo pregevole lavoro. Nella stessa chiesa, l’altare odierno è dedicato alla Vergine Maria del Monte ed è stato rifatto nel 1921: tra due colonne a sezione quadra, ornate con un elegante tralcio, è collocato il plastico in cartapesta che rappresenta il ritrovamento del dipinto su pietra sotterrato della nostra Madonna del Monte. Qui, il  maestro, realizzò ad altorilievo la Vergine con il Bambino, che si staglia nel cielo celeste festeggiata dai Cherubini; giù, l’ignaro contadino strattona uno dei buoi che è intento a scovare… una icona celata nella grotta. Lo sguardo dell’osservatore è pure piacevolmente attratto dallo scorcio del paesello di Cavallino riprodotto sullo sfondo con il suo tipico campanile svettante in prospettiva.

-A Lecce, il  terzo altare di Santa Teresa del Bambin Gesù nella chiesa del Carmine ospita una sua statua in cartapesta.

– A Manduria, nella chiesa della santissima Trinità, vi è la bellissima statua della Madonna dei Fiori, realizzata dal Manzo nel 1898. La scultura raffigura la Madonna che regge sul braccio sinistro il Bambin Gesù, coperto solo da un panno bianco dai bordi dorati, nell’atto di porgerle la manina. L’affettuoso gesto è ricambiato dalla Vergine che, in posizione eretta, ha il capo appena inclinato e contornato da dodici stelle, simbolo del popolo di Dio. Lo sguardo è rivolto in basso e i piedi posano su un semi globo terrestre. Indossa una tunica beige con bordura dorata e un mantello azzurro, simbolo di verità celeste, che l’avvolge quasi per intero e anche questo riccamente decorato ai bordi. A sinistra, due sorridenti angioletti sospesi, le rivolgono lo sguardo; così un terzo in basso a destra. La buona fattura del simulacro, costato allora 150 lire, comprova ancora una volta la perizia del consumato artefice. Il cartapestaio infatti, nonostante replicasse, per ovvi motivi commerciali, i simulacri maggiormente in voga, comunque realizzava opere che, per impianto compositivo, plasticità e ricercate decorazioni, si differenziavano l’una dall’altra.[4] Questa circostanza, suffragata peraltro dalla pubblicistica di quegli anni, gli consentì di accrescere sempre più la  fama, acquisita sin dall’adolescenza nei laboratori degli artisti di grande calibro dove aveva appreso l’arte. Il brevetto assegnatogli da Umberto I nel 1890, con la facoltà di inserire lo stemma reale nell’insegna del suo laboratorio di sculture in cartapesta e i numerosi premi e riconoscimenti in Italia e all’Estero, testimoniano la predilezione per questa forma d’arte e, soprattutto, la passione per l’arte sacra. Giuseppe Manzo non usava le  forme, per le sue state, e quelle poche volte che gli accadeva di farlo (peraltro si trattava sempre di forme che realizzava egli stesso con la creta), distruggeva subito ogni cosa. Cercava sempre il nuovo, il perfetto, e osservava, scrutava, studiava con ogni attenzione possibile le opere classiche dell’arte sacra; aveva, sia nel laboratorio che in casa, le riproduzioni di quasi tutti i capolavori dei maggiori pittori e scultori italiani e stranieri; acquistava testi anche costosissimi, studiava le forme e i colori. Possedeva persino alcuni testi di medicina che gli permettevano di approfondire la conoscenza dell’anatomia umana. Per i Gesù da raffigurare nei diversi episodi della via crucis (come vedremo nelle meravigliose e inimitabili tre statue dei misteri di Taranto che egli realizzerà nel 1901) tutto ciò era assolutamente indispensabile. Un corpo piegato in avanti, un altro pendente da una croce, un altro carponi, i volti segnati dalla sofferenza e dal dolore,  muscoli contratti, tutto doveva essere realizzato alla perfezione e, per farlo bisognava conoscere i segreti dell’arte plastica figurativa. Se si aggiunge poi che il Manzo “sentiva” sempre il soggetto attorno al quale lavorava, si può anche spiegare la naturalezza con la quale dirigeva le sue mani e l’esatta, rigorosa forma che riusciva a dare ai contorni, ai manti, alle pieghe, alle chiome.[5]  Anche il già ricordato Oronzo Solombrino, nelle sue memorie, racconta del maestro come di un artista che, pur seguendo personalmente nel suo laboratorio i vari stadi di realizzazione di un’opera, riservava a sé il compito di modellare le parti anatomiche.

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“Una volta lo trovai che guardava una statua del Sacro Cuore, quasi terminata, ne fissava gli occhi, la cui collocazione evidentemente non era perfetta. chiese allora una sedia, essendo la statua ancora sul cavalletto, per giungere all’altezza della testa e con delle stecche rimosse gli occhi dalla sede e li ricollocò come riteneva più giusto.[…] Un altro pomeriggio, nell’esaminare una statua della Vergine del Rosario, notò che il drappeggio del manto non andava bene; nonostante che la statua fosse ultimata, volle da me un foglio di carta straccia, preparata a più strati e la modellò sul manto, eliminando così l’imperfezione notata”.[6]

cartapesta

-Nella chiesa della  beata Vergine a  Casarano, le opere in cartapesta sono quasi tutte del maestro.

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– A S. Pietro Vernotico, nella diocesi di Lecce, uno dei paesi più estremi del sud brindisino, sorge in pieno centro storico la settecentesca chiesa Matrice al cui interno si possono ammirare, tra le altre, le statue in cartapesta dell’Immacolata del 1900, e del Cristo  Risorto datata 1906, sempre sue celebri opere. Inoltre è presente a S. Pietro Vernotico con due statue rappresentanti S. Rita di Cascia, eseguite quasi contemporaneamente ed esposte nella chiesa di S. Pietro apostolo (1941), e in quella della Madonna di Sanarica (1940).

-A giugno del 2008, nel museo «Sigismondo Castromediano» di Lecce, si inaugurò una mostra: «La scultura in cartapesta: Sansovino, Bernini e i maestri leccesi tra tecnica e artificio», curata dal dott. Raffaele Casciaro. È in questo suggestivo contesto, posta in posizione d’onore, ai piedi della bellissima Addolorata di Antonio Maccagnani, che si inserisce la statua in cartapesta raffigurante il Cristo Morto, proveniente dalla chiesa del Purgatorio di Ostuni. Il simulacro, realizzato dai maestri leccesi Andrea De Pascalis  e Giuseppe Manzo, fu commissionato dal priore della confraternita delle Anime Sante del Purgatorio don Giuseppe Trinchera nel 1888 e consegnato nel 1889. Notevolissimo esempio della perizia raggiunta dai maestri cartapestai leccesi, la statua sfila, sotto gli occhi ammirati dei fedeli, per le vie di Ostuni, durante la commovente processione del Venerdì Santo. La statua del Cristo Morto ha accenti di grande realismo; osservandola, ci si sente quasi trasportati in una dimensione trascendentale e spirituale. Essa misura m. 1.77 circa di lunghezza, è a grandezza naturale e rappresenta con dovizia di particolari Gesù sul suo letto di morte. Il corpo è in posizione distesa, leggermente roteato sul lato destro; in esso è percepibile la sofferenza che Nostro Signore ha vissuto negli ultimi attimi della sua vita. L’addome incavato e il capo reclinato danno quasi l’idea dell’istante in cui l’ultimo alito di vita ha abbandonato il Corpo Divino dopo una lunga e sofferta agonia; lo stesso può dirsi volgendo lo sguardo alle piaghe, simbolo della sua Passione, rappresentate con molta attenzione sulle mani, sui piedi e sul costato. Molto naturalistico è l’incarnato, dalla tonalità fredda e marmorea, che rappresenta la morte in modo fedele al reale. Desta grande emozione l’espressione del volto del Signore, incorniciato dai morbidi riccioli di capelli castani; se ne può quasi percepire la consistenza tattile che esprime al tempo stesso tristezza e serenità tramite la bocca semiaperta e lo sguardo intenso, allegoria del viaggio di un’anima che ha appena lasciato le sue spoglie mortali e sta per ricongiungersi con il Padre Celeste. Se, dopo centoventi anni, è possibile ammirare in perfetto stato di conservazione questo capolavoro, lo si deve alla cura e all’attenzione che la confraternita ostunese da sempre dedica al proprio patrimonio artistico.[7]

 

(continua)


[1]   Gli artisti della cartapesta leccese nella pubblicistica salentina, Provincia di Lecce, Mediateca, Progetto Ediesse (Emeroteca Digitale Salentina) a cura di Imago, Lecce.

[2] La relazione del barone Apostolico fu stampata e pubblicata in opuscolo dalla Tipografia Cooperativa, in Lecce, via Giuseppe Palmieri.

[3] La statua artistica in cartapesta, raffigurante S. Antonio Abate,  è conservata nella chiesa parrocchiale di Avetrana, ne è autore Giuseppe Manzo che la realizzò nel 1944. Ha subìto un restauro nel 1988 ad opera del maestro cartapestaio cav. Pietro Indino di Lecce. Un ultimo restauro conservativo è stato operato nel 2006 dall’artista leccese S. Merico. Essa fu realizzata in sostituzione di un’altra statua del santo andata distrutta da un violento temporale nel corso della processione dedicata al medesimo.

[4] www.sstrinita.manduria.org/index.php?menu=arte-menu&pagina

[5] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p.99

[6] O. SOLOMBRINO, op.cit., pp. 32-33

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (terza parte)

di Cristina Manzo

Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)
Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)

… Nel suo laboratorio l’orario di lavoro era dalle otto alle quattordici; non si lavorava mai di pomeriggio o  di sera. Ai clienti che entrando nel negozio lo salutavano era solito rispondere “viva Gesù, e viva Maria”. Dalla sua bocca non è mai uscita un’imprecazione; l’unica cosa che ogni tanto era solito dire era “pe’llu sangu de Giuda”. Il rapporto fra tutto il personale era improntato sulla correttezza e l’onestà. Il sabato era il giorno dei poveri e il maestro incaricava gli operai più vicini alla porta d’ingresso di distribuire, un po’ di spiccioli (da due a quattro soldi).

Il martedì, giorno di S. Antonio, c’era la distribuzione dei buoni per il ritiro del pane, uno o due chili, dal forno detto sciascià, delle sorelle Pinto, che poi il maestro passava a pagare. Il sabato era anche giorno di pagamento degli operai. Lui compilava l’elenco indicando accanto a ogni nominativo l’importo spettante, che io pensavo a consegnare. Attilio dell’Anna e io eravamo i più piccoli d’età e percepivamo una lira al giorno. Però c’era un’altra entrata per noi, per ogni cassa di prodotto spedito tramite ferrovia, egli metteva da parte in un cassetto cinque lire. Ogni quattro mesi, in occasione delle solenni festività di Natale, Pasqua e S. Oronzo, patrono della nostra città, ci divideva l’importo accantonato…[1].

 

Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

 

Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Pagina del registro di pagamento degli operai del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

Nello statuario nulla era legato all’improvvisazione e alla convenienza. Lui tenne fede alla cartapesta anche quando, per svariate vicissitudini storiche ed attacchi istituzionali, si verificò un forte indebolimento nelle commissioni, al punto da determinare licenziamenti e la chiusura di vari laboratori. Celebri negli anni Trenta restano gli attacchi a livello nazionale e locale di Giovanni Papini e del vescovo di Otranto frà Cornelio Sebastiano Cuccarollo.[2] Pare infatti che in tale periodo, proprio mentre era nel pieno della sua fioritura artistica, la cartapesta si trovò al centro di un’accesa polemica e di pesanti persecuzioni. I cartapestai venivano accusati di sacrilegio perché usavano per le loro poltiglie carta “scomunicata”: i fogli di giornali, come l’Avanti, l’Unità, e persino le carte da gioco.[3]

Uso che non era solito appartenere al nostro Manzo:

“Nelle statue del Manzo nulla di manierato, nulla di esagerato, ma una precisione perfetta in tutto; dalla modellatura, alla linea, all’atteggiamento, ma più che tutto all’espressione che sintetizza e manifesta il carattere e la vita.- Egli lavorò con le più pure tecniche della cartapesta e mai usò la carta dei giornali, perché, diceva[4], – i santi non si vestono con le notizie[5]”.

“Bruceremo i santi di carta?”

“Un’arte senza domani vive la sua agonia: la statuaria leccese[6]”.

Questi, due dei titoli apparsi sui giornali salentini, circa trent’anni dopo una violenta campagna denigratoria nei confronti della cartapesta, iniziata nel 1933, dall’arcivescovo di Otranto, cadorino, che vietò l’uso della cartapesta per il culto, imponendo l’uso del legno nella statuaria sacra. Monsignor Francesco Cornelio Sebastiano Cuccarollo[7], inizialmente ammiratore delle statue di cartapesta, avendo ricevuto una sollecitazione di pagamento di due crocifissi da parte di Giuseppe Manzo, cominciò (pare da quel momento) a osteggiare con tenacia la produzione statuaria leccese, in nome di una difesa della “dignità e decoro” dell’arte destinata al culto.

Per le botteghe leccesi fu il dramma, senza risparmio per alcuna di esse, dalle più umili alle più famose.

In risposta alla polemica che dilagava, dopo la lettera denigratoria di monsignor Cuccarollo, in occasione della “seconda settimana per l’arte sacra per il clero”, a Roma, lo stesso vescovo di Lecce, Alberto Costa, spenderà delle parole in difesa di quest’arte: “Non si parli di ostracismo alla cartapesta, si cerchi piuttosto di conoscerla per non confonderla, […] e ammirarne i capolavori che sfidano i secoli”.

Anche la Pontificia Commissione interviene in difesa dell’ arte leccese, ma sarà solo nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, che si spegnerà l’aspra polemica sulla cartapesta, travolta nella crisi generale che investe ogni settore economico[8].

una delle opere di Giuseppe Manzo
una delle opere di Giuseppe Manzo

Il figlio Antonio, per diversi anni, dopo la morte del padre Giuseppe cercò di mantenere in piedi il reale laboratorio, continuando a tenere in bottega i suoi lavoranti. Alla morte di Antonio, lo stesso provò a fare il nipote Dino, attaccatissimo al nonno Pippi e alla sua meravigliosa arte, infine si dovette rassegnare a chiudere battenti, agli inizi degli anni Sessanta.

Portò via molto materiale, tra cui cassette che contenevano registri, fatture, corrispondenza, note di ordini fatti da tutto il mondo per le sue statue, biglietti di encomio e di ringraziamenti, materiale pubblicitario, (poiché anche le antiche botteghe di cartapesta, ad un certo punto usarono farsi pubblicità) listini dei prezzi delle opere in base alle misure di realizzazione, foto, opere rimaste in laboratorio, e persino le lastre fotografiche delle statue modellate, poiché il maestro aveva la buona abitudine di fotografarle sempre, prima di ogni consegna. Ed è proprio da questo prezioso archivio, che abbiamo potuto visionare alcuni antichi documenti, del reale laboratorio appartenuto al Manzo, grazie alla gentile concessione del nipote Dino.

Biglietto da visita del maestro  Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I
Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I
Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

 

Listino dei prezzi delle opere del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Listino dei prezzi delle opere del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

 

Morì il 7 gennaio 1942, a Lecce, dove ancora è sepolto, nella tomba di famiglia del cimitero monumentale, all’età di 93 anni.

Nel suo necrologio fu scritto:

“Chi ha conosciuto la modestia di questo “Maestro” non può non ricordare la sua schietta semplicità, le sue abitudini modeste, l’affabilità del suo tratto. Fu spesse volte, dalla stima degli ammiratori e degli operai, chiamato a coprire cariche amministrative nel Consiglio Comunale e nella Società Operaia[9]. Era un “buono” che nella sua vita non ebbe nemici, un onesto che riscosse fiducia illimitata, un “credente” senza infingimenti nella sua fede”.[10]

 

Alte e significative furono le onorificenze conseguite da Giuseppe Manzo pei suoi lavori pregiati.[11]

È del 25 maggio 1890 il «Brevetto Reale » n. 729, registrato a corte n. 296, in cui si legge: “S. M. il Re Umberto I° volendo dare al Signor Giuseppe Manzo, modellatore in cartapesta nella città di Lecce, uno speciale e pubblico contrassegno della sua benevola protezione, ci ha ordinato di concedergli, a titolo di incoraggiamento, la facoltà di innalzare lo Stemma Reale sull’insegna del suo laboratorio.”

L’insegna è rimasta sino al dicembre 1959, circa 70 anni, mese in cui la «bottega» sulla via Paladini (sotto il palazzo Romano) chiuse per sempre i battenti.

Nel 1889, in occasione della venuta a Lecce di Umberto I°, il cartapestaio aveva fatto omaggio alla Regina d’una statua in cartapesta di Santa Margherita, ricevendone in dono un artistico orologio d’oro con brillanti e catena.[12]

Il maestro orgoglioso dell’onore ricevuto, di poter esibire l’insegna reale, in quello che diventerà il suo reale laboratorio, farà uso dell’effige anche sulla sua carta da corrispondenza, pregiandosi di questo alto onore. In seguito a questo episodio rimarrà per sempre una rispettosa e sentita amicizia, tra il Manzo e il sovrano Umberto I, nonché una costante corrispondenza, con la casa reale, come dimostra una delle tante lettere ritrovate nei documenti che il maestro conservava nel suo laboratorio.

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Lettera scritta dalla segreteria reale del re Umberto I a Giuseppe Manzo

Un’altra prestigiosa onorificenza, che gli fu concessa fu quella di Cavaliere, “Pro Ecclesia et Pontifice”[13].

Al Manzo la prima medaglia d’oro fu assegnata il 3 giugno 1877, in occasione del Giubileo Episcopale di Pio IX. Successivamente partecipò alla Esposizione di Palermo, per due anni consecutivi, conseguendo la medaglia d’argento nel 1891 e quella d’oro nel 1892. Altre medaglie d’oro gli furono assegnate: nel 1899 all’Esposizione Internazionale di Torino, all’Esposizione Campionaria mondiale di Roma e all’Esposizione industriale e commerciale di Poitiers; nel 1900 alle sposizioni internazionali di Londra, Parigi e Bordeaux; nel 1901 ancora all’Esposizione campionaria mondiale di Roma, dove si riaffermò nuovamente nel 1911 conseguendo un’altra medaglia d’oro.

A queste vanno aggiunte altre medaglie d’oro, quali, per esempio: quella che gli fu conferita dall’Accademia di Parigi degli «inventeurs industriels et expositeurs» e quella ricevuta dalle Missioni Opere Cattoliche di Torino nel 1898.

Tutto questo oltre le medaglie di bronzo e d’argento, le coppe, i numerosi «Diplomi » e le croci al merito, la più prestigiosa delle quali è forse quella conferitagli dall’Accademia di Belle Arti di Parigi.

 


[1]  O. SOLOMBRINO, Serrano Microstorie Ricordi sentimenti, Congedo, Galatina 2005, pp.30,32,33

[2] Gianluigi Lazzari, in Anxa, anno X, n. 56, maggio-giugno 2012 , Associazione culturale Onlus, Gallipoli (Le) pp. 11,12

[3] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p.142

[4] Mario De Marco, La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997, p. 33

[5] Il convento dei P.P. di Novoli possiede una cospicua produzione statuaria del Manzo. Cfr., M. De Marco, Catalogo delle opere sacre in cartapesta conservate presso la chiesa e il convento dei padri passionisti , in “ I Passionisti a Novoli. 1887-1997”, Manduria, 1987, pp. 105

[6] E. Rossi, Un’arte senza domani vive la sua agonia: la statuaria leccese, in “ La tribuna del Salento” anno I, n. 27, p.2 Lecce, 1959 / E. Rossi, Bruceremo i santi di carta, in “ La tribuna del Salento ” anno 2, n. 32, 33, 34, 35, 36, 37, p. 4, Lecce, 1960

[7] Nato nel 1870 a Casoni di Mussolente, alle falde del monte Grappa, da famiglia di contadini, direttore per 10 anni del Bollettino del Terz’Ordine  Francescano a Padova, nel 1931 si insedia  nell’arcidiocesi di Otranto, divenendo così Primate del Salento. Solo nel 1952 si trasferirà altrove.

[8] Bianca Tragni, Artigiani di Puglia(con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986, pp.295-301

[11] LEONE VALGENTINA, La cartapesta leccese e i suoi cultori, in « Il Lavoro Nazionale », Anno I, n. 2-3, pag. 28, Bari, Marzo-aprile 1915.

12 L’orologio in dono fu inviato a Giuseppe Manzo da Umberto I a mezzo della sua «Segreteria Particolare», accompagnato da una lettera datata, Monza 22 ottobre 1889, col numero di protocollo 4684. Questo, il testo della lettera: «Sua Maestà il Re compiacevasi  accogliere assai benevolmente l’omaggio di una statuetta rappresentante Santa Margherita di Savoia rassegnatoGli da V. S. durante il recente soggiorno della Maestà Sua in codesta Città. Compio quindi ora ad un grazioso incarico Sovrano porgendo a V. S. l’unito orologio con catena ed esprimendo alla S. V. il gradimento e i ringraziamenti Reali per la cortese offerta che attesta la affettuosa di Lei devozione alla Dinastia dei Savoia. Mi si offre propizia la circostanza per porgerle, Preg.mo Signore, gli atti di mia distinta stima».

13  La Croce pro Ecclesia et Pontifice (ovvero “per la Chiesa e per il Papa”) è una onorificenza della Santa Sede. È un distintivo d’onore. La medaglia è stata introdotta da Leone XIII il 17 luglio 1888 con la lettera apostolica “Quod singulari Dei concessu”, per commemorare il suo cinquantesimo anniversario di sacerdozio e, inizialmente, venne conferita a quelle donne e quegli uomini che avevano aiutato e promosso il giubileo o vi avevano collaborato attraverso altri mezzi. Oggi invece viene conferita, sia ai laici (uomini e donne) che agli ecclesiastici, che si sono distinti per il loro servizio verso la Chiesa.

 

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (seconda parte)

di Cristina Manzo

 

Giuseppe ManzoDal principio Giuseppe mise su bottega in società col De Pascalis ( esattamente l’anno dopo il suo incarico di insegnamento) poi questi lo abbandonò dopo appena cinque anni di lavoro in comune per mettere su bottega da solo, poiché era profondamente convinto che “la vera opera d’arte dev’essere espressione di un solo pensiero e di una sola volontà” [2].

 

Quando ciò avvenne fu il De Pascalis a trasferire la sua attività, mentre il Manzo rimase nei locali originari.

Il laboratorio era incorporato nel palazzo del conte Romano, che sorge nell’omonima piazzetta adiacente all’ingresso posteriore del Duomo. Aveva due ingressi: il principale dalla piazzetta e il secondario da via degli Ammirati; attualmente è il negozio di abbigliamento della ditta Andretta.

Il grande locale era diviso in tre settori: modellatura delle teste, armatura e vestitura della statua […] il laboratorio era un cenacolo d’arte frequentato da amici e da clienti del maestro Manzo […] fervente religioso, il maestro prima di iniziare il lavoro si segnava con la croce.[3]

Se per l’artista De Pascalis, che ebbe vita breve ( morì a soli trentatré anni), si deve parlare di un’attività artistica limitata nel tempo,  non fu così per il maestro Manzo che morì all’età di 93 anni. “Trascorse la sua lunga vita, – si legge in una cronologia del tempo – nell’adempimento dei suoi doveri religiosi, nei santi affetti della famiglia, nell’estasi dell’arte di cui fu sommo maestro.”[4]

 

Foto di Giuseppe Manzo davanti al suo reale  laboratorio, in piazzetta Romano, con tutti i suoi amici e discepoli,  scattata nel 1898 (collezione privata. riproduzione vietata)
Foto di Giuseppe Manzo davanti al suo reale laboratorio, in piazzetta Romano, con tutti i suoi amici e discepoli, scattata nel 1898 (collezione privata. riproduzione vietata)

 

Nel 1890, un po’ avanti nell’età, a 41 anni sposò l’omonima ma non parente Giuseppina Manzo. Da quest’unione nacquero quattro figli, Bartolo e Francesco che morirono in tenera età, e Anna e Antonio, che sarà il padre di Dino. Quando la moglie del maestro, Giuseppina, morì in giovane età, le sorelle di lei Rosaria e Chiara, che restarono nubili, aiutarono Giuseppe a crescere i  due figli.

Oronzo, fratello di Giuseppina, aveva una merceria in piazza S. Oronzo, che poi lascerà in eredità al nipote Antonio, che a sua volta la lascerà al figlio Dino, nipote di Giuseppe, che oggi gentilmente ci concede parte dei suoi ricordi per meglio conoscere la vita del nonno.

Giuseppe Manzo a Lecce veniva chiamato da tutti don Pippi.

“Don Pippi – si legge in una bella pubblicazione  dei padri passionisti di Novoli- era di media statura, tarchiato ed era solito lavarsi il viso con acqua e aceto. Era un uomo buono, semplice e disponibile. Per due anni fu presidente della leccese Società Operaia di Mutuo Soccorso (1902.1903).[5]

Le responsabilità familiari e civili non lo distoglieranno però dalla sua arte, anzi costituiranno per essa stimolo e ricerca, giacché l’arte, a nostro parere non dovrebbe mai esser disgiunta da un impegno sociale e umano.  E Giuseppe Manzo incarna anche la figura ideale di artista che traduce in azione politica e culturale l’operosità del suo genio.

Inizia così la sua intensa attività, che per circa un cinquantennio lo vedrà produrre opere commissionate alla sua bottega da enti pubblici e privati, ecclesiastici per lo più, dalle più svariate parti del mondo.

Sue sculture sono infatti documentate e presenti a Londra, Parigi, Tokio, il Cairo, New York, Rio De Janeiro, Melbourne, oltre che in tutt’Italia, e naturalmente nel Salento. Nella sua bottega presero forma opere meravigliose, e non solo a carattere religioso, e qui la cartapesta diventerà emozione e arte, impareggiabile per maestosità, teatralità, bellezza e sentimento.

“Quando dava l’espressione ai volti si appartava ed entrava quasi in estasi. Ciò faceva non perché era geloso dell’arte, ma poiché aveva bisogno di isolarsi, di entrare in sintonia con il soggetto, con lo spirito che il tema e il simulacro dovevano manifestare.”[6]

 

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[2]  P. Marti, La modellatura in carta, Lecce 1984,  p. 40.

[3] Ivi, pp. 29-30.

[4]   Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 6.

[5] Idem, pp.19,21.

[6] I Padri Passionisti a Novoli, 1887-1987, (Lecce) 1894, p. 128.

 

Per la prima parte: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/09/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-prima-parte/

Per la terza parte: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/15/giuseppe-manzo-terza-parte/

Per la quarta parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/18/giuseppe-manzo/ 

Per la quinta parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/24/manzo-ultima-parte/

 

Per una storia della cartapesta leccese. Come nasce la cartapesta

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di Cristina Manzo

 

Lecce, in su l’estrema punta d’Italia, è una piccola città molto interessante: belle chiese si ammirano di stile barocco, negozi eleganti risplendono come in una capitale e, quello che è più strano, vi suona una parlata che non è pugliese: pare toscana, ma senza aspirazioni. Che strano negozio è questo? Era la bottega di uno statuario. Per chi lo ignorasse, come io lo ignoravo, le statue delle immagini sacre sono una specialità di Lecce, che data da qualche secolo. Esse vanno per tutte le parti del mondo, Italia, Francia, Spagna, America. Così mi diceva con un certo orgoglio lo statuario. Altrove hanno provato a farle, e non sono riusciti. Sono quelle statue alla grandezza quasi naturale, ben drappeggiate, colorite splendidamente, ben fiorite. Sono quelle che noi vediamo sugli altari, specie delle chiese campestri. Questi santi e sante, immersi nella contemplazione del cielo, evidentemente ignorano i progressi dell’arte. Forse altri pensa, come io pensavo, che fossero di gesso. Macché! Sono di carta, e perciò molto commerciabili per la loro leggerezza, e nel tempo stesso resistentissime per anni ed anni. Nulla di più resistente della cartapesta, diceva lo statuario.”[…] Dunque santi di carta! E lo statuario mi indicava risme di carta grigiastra come quelle dei pacchi, che poi si mutano in statue dei santi. Con speciale processo questa carta diventa pastosa come creta; e si plasmano manti, chiome, come si vuole. Ho visto santi e sante in perfetto nudismo grigio, che poi vengono accuratamente vestiti e coloriti come in un istituto di bellezza.”[1]

 

Così si esprimeva Alfredo Panzini a proposito dell’arte della cartapesta leccese, un’arte le cui origini restano incerte e si perdono nella notte dei tempi.[2]

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Di fatto, come sostiene Panzini, non possiamo stabilire con estrema precisione quando, e chi,  iniziò a produrre la cartapesta nel Salento, anche se  parrebbe che alcune statue di cartapesta esistessero in Terra d’Otranto già attorno al quindicesimo secolo. Si potrebbe parlare quindi della prima metà del seicento. Infatti Sigismondo Castromediano, così ci tramanda:[3]

Se dovessi credere a certa tradizione caballinese, la quale asserisce che la madonna che ancora conservo in questo mio avito palazzo, venne ordinata da una mia avola, donna Beatrice Acquaviva, moglie del duca, Francesco de’ Castromediano Sanseverino Marchese di Caballino, direi che già esistesse fin dal secolo diciassettesimo, giacché la nobildonna morì nel 1647.”[4]

La giovane e gentile signora marchesa “donna Bice” aveva portato nel cuore da Napoli a Cavallino un particolare fervore devozionale per S. Domenico di Guzmàn, e facilmente convinse il marito a includere nei progetti edilizi anche la fondazione di un convento per ospitarvi i monaci Domenicani. Subito fu iniziata la costruzione del chiostro con licenza del padre rrovinciale dei Padri Predicatori, con consenso del Rev. Capitolo di Cavallino, con beneplacito di S. E. mons. Scipione Spina vescovo di Lecce. La chiesa del convento fu eretta sullo stesso sito della vecchia cappella di S. Nicolò; contiguo fu costruito il chiostro sul luogo di un vecchio palazzo e al posto di alcune casupole e nell’area di un cortile, di una stalla e di un pozzo. La facciata è piuttosto semplice, decorata da un gruppo scultoreo, ai lati del portale, raffigurante S. Omobono e S. Francesco di Paola, attribuibile all’artista salentino Mauro Manieri da Lecce. L’interno è a croce latina con una sola navata voltata a crociera. Accanto all’altare principale il marchese Francesco Castromediano, feudatario di Cavallino, nonché duca di Morciano e Cavaliere dell’Ordine di Calatrava, fece erigere nel 1637 una cappella di famiglia in origine dedicata a S. Benedetto. Al suo interno è ancora visibile il monumento sepolcrale del marchese e di sua moglie Beatrice Acquaviva d’Aragona. La leggenda narra che alla morte di Beatrice, Francesco decise di seppellirla nella cappella dei Castromediano all’interno della chiesa parrocchiale. In segreto, tuttavia, e d’accordo, con il parroco, ordinò che le fosse estratto il cuore per conservarlo in una grossa urna d’argento fino alla propria morte, quando i loro cuori sarebbero stati racchiusi in un’unica urna.[5] Ora, proprio questa piccola parentesi storica, legata al Salento, di cui siamo a conoscenza, parrebbe suffragare maggiormente, l’ipotesi secondo cui  Lecce acquisì la  preziosa e sublime tradizione  della cartapesta proprio da Napoli, tra il ‘600 e soprattutto il ‘700. Mentre a fondamento della veridicità del periodo, riscontriamo la stessa notizia che riguarda la statua posseduta da donna Bice, anche in uno scritto a cura di Franco Galli, “L’inizio della lavorazione della cartapesta leccese potrebbe risalire al secolo diciassettesimo, infatti, Castromediano riferisce che intorno al 1646, donna Bice Acquaviva possedeva una Madonna in cartapesta.”[6].

Una delle attrattive maggiori di questo nuovo materiale, era rappresentata dal fatto che la cartapesta riusciva ad apparire esteriormente alla stregua di materiali pregevoli, rari e costosi., ma al tempo stesso era facilmente maneggevole e plasmabile, cioè si modellava con estrema facilità, ed aveva un peso specifico a lavoro ultimato, molto inferiore agli altri materiali conosciuti ed usati sino ad allora, come la pietra, il marmo e il legno.

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A Napoli, dove era in uso già da tempo, veniva impiegata anche per le maschere, durante le recite teatrali, ed è  sempre qui che  nascono le numerose figure sacre di Santi, che ancora oggi si possono ammirare all’interno delle chiese o durante le processioni. Inoltre Napoli risulta essere stata la patria per eccellenza dei presepi in cartapesta. Il figuraro e il madonnaro nel diciassettesimo secolo erano diventati lavoratori specializzati incoraggiati dallo stesso re di Borbone, Carlo III, mentre la regina Amalia di Sassonia faceva lei stessa gli abiti per le statue.[7]

Ma sul rapporto con Napoli torneremo.

Tuttavia ci si potrebbe chiedere, per quale motivo i leccesi avvertirono l’esigenza di interessarsi a quest’arte? “La cartapesta – sosteneva Vittorio Bodini – è figlia della noia leccese. Basta solo vedere dove è nata, nelle botteghe dei barbieri…A Lecce il più glorioso capitolo scritto dai barbieri è la cartapesta.”[8]

Non possiamo negare che ciò corrisponda in parte a verità, perché furono davvero i barbieri a lavorarla tra i primi. I figari salentini ne fecero ben presto il passatempo preferito.

Ma è anche credibile quello che si domanda  il Ròiss, quando scrive “ Verso il 1841 la classe dei barbieri aveva preso a imitare e a copiare i lavori dei cartapestai, interessata ai guadagni  che essi procuravano?”[9]

In effetti uno dei motivi fu sicuramente questo; le richieste aumentavano, i guadagni non mancavano, i pagamenti erano in contanti e alla consegna, così molti furono i barbieri che diedero una svolta alla loro arte, cambiando attrezzi e mestiere. Era il periodo aureo della cartapesta, quello che il Ròiss chiama “dell’artigianato artistico, il più lungo, che va dalle origini sino al 1915.[10]

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Da alcune fonti storiche sembrerebbe che la cartapesta sia stata impiegata per la realizzazione degli archi eretti in onore della consorte di Ferrante Gonzaga, quando nel 1549 arrivò a Lecce, così come sembrerebbe essere stata impiegata ripetutamente per l’allestimento di addobbi e strutture apposite durante tutte le feste e le cerimonie  che popolavano anticamente la nostra Lecce Barocca.

Ma, anche in questi casi non si ha ancora una tecnica autonoma. Possiamo tuttavia affermare che a livello di domanda sociale c’erano invece tutte le condizioni affinché una tecnica del genere si sviluppasse: tra le fine del sedicesimo e per tutto il diciassettesimo secolo; infatti, la città diventa, dopo Napoli, il centro del Mezzogiorno più ricco di insediamenti religiosi.[11]

La definizione più esatta, di questa materia plastica, come la chiamano alcuni, continua ad essere quella più antica rinvenuta in un dizionario enciclopedico edito a Venezia nel 1830, “carta macerata in acqua e ridotta liquida o in pasta”[12].

In tutti i  dizionari linguistici: inglesi, francesi e tedeschi essa viene definita con un unico termine, uguale per ogni idioma: papier maché.

La cartapesta è nata come espressione di arte povera, essa infatti utilizzava solo materiali di scarto che non potevano influire in nessun modo sull’economia già povera degli umili artigiani che la lavoravano. I materiali erano la vecchia carta, il filo di ferro, la segatura, la paglia, stracci, colla fatta in casa e gesso.

La colla si otteneva mescolando in un pentolino acqua e farina, e cuocendo il miscuglio a fuoco lento fino ad ottenere un liquido trasparente. Una volta costruita l’anima del pupo e avergli dato forma con gli strati di carta pressata e la colla, si poteva decidere o di fiammeggiarne l’esterno, lasciando così l’opera al naturale, che assumeva una colorazione tra il verdastro e il marrone, oppure di colorarla con più colori.

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I coloranti erano ricavati da sostanze naturali, soprattutto di origine vegetale e animale che si trovavano e si trovano tutt’ora in natura, ma i costi erano molto elevati e la preparazione lunga e laboriosa, così come l’applicazione. Uno dei più costosi era  il colore blu. I pigmenti blu erano due: l’oltremare, che veniva ottenuto dai lapislazzuli, quindi molto prezioso, e l’azzurrite. Esso veniva usato maggiormente in quadri religiosi per rappresentare il cielo e la Madonna o le sante, e  la chiesa, a causa dei costi proibitivi era davvero l’unica a potersi permettere una tale spesa.

Le tonalità della  terra: ocre, marroni, giallini e un po’ di rossi, si  potevano creare con pochi elementi naturali facilmente reperibili e quindi erano nell’uso della tinteggiatura quelli più diffusi.

Per ottenere la brillantezza del colore si ricorreva a  piccoli frammenti di conchiglie, che venivano polverizzate e mischiate al pigmento colorato.

Con tali semplici e umili ingredienti artistici, quest’arte, oramai importantissima, è riuscita ad  acquisire un prestigio autorevole riconosciuto ormai in tutto il mondo. Abbiamo già detto che le chiese sono state per lungo tempo le maggiori istituzioni committenti delle opere di cartapesta. Uno dei motivi è sicuramente la leggerezza del composto, che diminuiva di molto il peso delle statue rispetto a quelle realizzate in legno, in ferro o in bronzo, e sicuramente anche la dolcezza delle espressioni dei volti e delle fattezze, che si potevano ottenere con un materiale così morbido da lavorare, così plasmabile. Gli artigiani, dunque, facendo di necessità virtù, cominciarono a specializzarsi, e ad affinarsi nella loro sottile maestria, per la realizzazione di statue di santi.

Negli animi dell’epoca, l’arte del sacro in cartapesta nasce come impegno religioso, come contributo personale al fiorire di un sentimento  che trova nelle nuove chiese cristiane il luogo privilegiato di espressione.

La realizzazione di numerosi lavori sacri in cartapesta ebbe la funzione di richiamo al culto dei fedeli attratti da vere e proprie opere nelle quali si riflettevano i tratti caratteristici della religiosità salentina.

Sin dai tempi più remoti l’uomo ha avvertito il bisogno di esternare il proprio credo  attraverso i riti e la realizzazione di simulacri con effigi di divinità alle quali veniva spesso attribuito un aspetto antropomorfo.

Con l’’iconoclastia  (dal greco εἰκόν – eikón, “immagine” e κλάζω – klázo, “distruggo”) che è stato un movimento di carattere politico-religioso sviluppatosi nell’impero bizantino intorno alla prima metà del secolo VIII, la cui base dottrinale era l’affermazione che la venerazione delle icone spesso sfociasse in una forma di idolatria, detta “iconolatria”[13], ci fu la convinzione di dover necessariamente distruggere tutto il  materiale iconografico. Solo in tempi più recenti, la chiesa cattolica ha fatto sì che arte e religione, bellezza e fede fossero  interdipendenti, e possiamo  ipotizzare che in occidente difficilmente avremmo avuto uno sviluppo dell’arte, una storia dell’ arte, una disciplina chiamata estetica, se il secondo concilio di Nicea[14] nel 787 non avesse approvato il culto delle immagini. Le immagini sacre non sono destinate, però, ad essere venerate come degli idoli, ma servono per richiamare alla memoria e per venerare il santo rappresentato. Bisogna pensare che una statua sacra, qualsiasi santo essa rappresenti, non possiede in sé la sacralità; è il rapporto tra essa e il credente che fa sì che l’oggetto, il simbolo, realizzato in un qualsiasi materiale acquisti contenuto spirituale. Non è, perciò, una questione di materia, o di struttura, ma di relazione tra il credente e la statua, tra l’uomo e l’oggetto che, senza la presenza del primo, non avrebbe alcun significato. Il simulacro in questo modo diventa l’oggetto che media, che si fa carico delle sofferenze e delle attese di quell’ umanità che ripone la speranza in esso, per un riscatto terreno e per una sopravvivenza eterna.

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La statua considerata così come confine di varco, come limes, diventa finestra tra visibile e invisibile, appartenendo a  due mondi: l’aldiquà e l’aldilà, è posta tra il tempo e l’ eternità.

Naturalmente, la maestria dell’artista sta nel far sì che l’immagine da lui plasmata riesca a rendere, espressivamente, il più possibile quei sentimenti idealizzati dal credente. Le effigi religiose perciò costituiscono oggetto di studio nel quale si intersecano aspetti e contenuti diversi.

Così la cartapesta, materia povera, si affermò come alternativa economica alle costose statue in legno o in pietra e, nelle mani degli artisti dell’Ottocento e del Novecento, assunse grandi possibilità plastiche e consentì la realizzazione di grandi opere ancora visibili in moltissime chiese della zona.

Molte furono le botteghe artigiane aperte nel capoluogo salentino a seguito del diffondersi della fama di quest’arte, e molte furono le zone dove gli artigiani del posto furono chiamati a fare dimostrazione della loro abilità.

All’inizio, parlando di territori al di fuori dell’Italia, fu l’Inghilterra il paese dove questo materiale riscosse maggiore successo, a partire dalla seconda metà del Settecento. Infatti, da quel momento, la cartapesta venne impiegata al posto dello stucco nelle decorazioni di soffitti e muri. Intorno al 1760, per i lavori di costruzione e rifinitura della chiesa di West Wycombe vennero chiamati operai italiani e questo evento fu una delle saldature fra la tradizione italiana più antica e le nuove diramazioni che l’attività sviluppò in Inghilterra successivamente[15].

Tornando  nel Salento, i primi tangibili riconoscimenti di quest’arte  si hanno alla fine del Seicento, quando in città viene realizzato in cartapesta il controsoffitto della chiesa di Santa Chiara, ad imitazione di quello in legno, più pesante e oneroso. Il soffitto di Santa Chiara fu realizzato in vari pezzi che vennero poi montati sul posto, nel 1738. Diverse fonti attribuiscono questo soffitto a Mauro Manieri che in quegli anni operava per conto del vescovo di Lecce in Piazza Duomo.

Abbiamo poi un’opera antica del  1782, firmata Pietro Surgente (1742-1827), detto mesciu Pietru te li Cristi, un nomignolo  che gli fu attribuito proprio per la sua attività: è un S. Lorenzo ubicato a Lizzanello nell’antica chiesa dedicata al Santo. Gli storici seriori, tra i quali Nicola Vacca (Appunti storici sulla cartapesta leccese, 1934), non riuscendo a collocare la cartapesta in contesti più generali, hanno cercato di nobilitare la materia rintracciandone gli incunaboli[16], ora in questa, ora in quest’altra opera seicentesca. Furono sforzi destinati al fallimento, minati alla base, non tanto da un inconcludenza metodica, quanto da errori valutativi veri e propri, perché, a scorrere gli inventari delle istituzioni ecclesiastiche o quelli post mortem dei salentini del diciassettesimo secolo, non si trova il minimo accenno a statue in cartapesta.[17]

Anche Pietro Marti avanzò l’ipotesi secondo la quale le origini della cartapesta leccese possono esser fatte risalire ai primordi del secolo diciassettesimo, quando il moltiplicarsi dei templi e delle fraterie e la universalità della Compagnia di Gesù, volendo dare sviluppo al culto esterno, domandarono alle arti una miriade di lavori, dovunque e comunque concepiti[18].

 


[1] Cit. da  Costumi, cartoline, cartapesta, a cura di A. Sabato, Lecce, 1993, pp177-18

[2] Mario De Marco, La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997, pp.5,6

[3] Idem, p.9

[4] Cit. da Sigismondo Castromediano, L’arte della cartapesta in Lecce, in “Corriere Meridionale”, IV, n 17, Lecce, 1893, p.2 ( la Madonna in cartapesta di donna Bice Acquaviva, di delicatissima fattura, è tutt’ora conservata nel palazzo ducale di Cavallino).

[5]  Don Francesco (1598-1663), segnò l’epoca più splendida del casato de’ Castromediano del ramo cavallinese, progredito con lo sfruttamento delle vaste proprietà terriere e dei residenti vassalli d’ogni ceto. Egli sin da giovane si esercitò con passione nell’equitazione competitiva e nell’uso delle armi.,dimostrò la sua abilità e perizia dapprima nel corso del servizio militare prestato con il grado di Capitano nell’esercito di re Filippo IV di Spagna, e poi nei tornei e nelle giostre che si organizzavano a Lecce, a Nardò, a Gallipoli, a Conversano, a Bari; alcune volte si recò sino a Napoli per cimentarsi a singolar tenzone con altri cavalieri in spettacolari incruenti duelli; e alla presenza di nobiluomini boriosi, di dame vanitose, di donzelle ammirate, il prode baroncino cavallinese si esaltava e riusciva molto spesso vincente. Era un giovane aitante e altero don Francesco, orgoglioso delle prerogative feudatarie, geloso dei privilegi della casata, fiero delle benemerenze degli avi, superbo della propria discendenza paterna e ora pure di quella materna, tanto che volle prendere per sé i due cognomi Castromediano e Sanseverino, e anche nello stemma di sua famiglia volle inquartare gli emblemi delle due casate. L’anno 1627 i residenti cavallinesi assistettero impressionati e compiaciuti a un avvenimento memorabile. Le settimane precedenti, guidati dai fattori del marchese, avevano ripulito le strade e le piazzuole del casale e incalcinato le facciate delle case; diretti da un architetto, avevano appeso ghirlande di fiori per le vie e innalzato archi di trionfo. Tutti vestiti a festa poterono vedere arrivare tutta la nobiltà di Terra d’Otranto: principi, conti, duchi, marchesi, baroni, cavalieri, con le rispettive consorti, che venivano a Cavallino per partecipare alle feste organizzate in occasione delle nozze di don Francesco Castromediano Sanseverino con la nobile damigella Beatrice, figlia diciottenne di don Giovanni Acquaviva d’Aragona dei Conti di Conversano e Duchi di Nardò. Notizie storiche tratte dal sito “ www.antoniogarrisiopere.it/28_c22_I—-Castr—–.html”

[6] L’ultima cartapesta, divagazioni su Lecce settecentesca ed una poesia di Vittorio Bodini, “Quaderni della Banca del Salento”, n. 1, a cura di Franco Galli, 1975.

[7] Natale, storia, racconti, tradizioni, Ed. Paoline,  2005, p. 105.

[8] Cit. da R. Barletta, Appunti e immagini su cartapesta, terracotta, tessitura a telaio, Fasano, 1981, p. 4

[9] Ròiss (Franco Rossi) Cartapesta e cartapestai, Maestà di Urbisaglia, Macerata 1983, cit. p.117

[10] Idem, cit. p. 84

[11] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta leccese. La storia, i protagonisti, la tecnica, il restauro, A cura di Mario Cazzato, Congedo editore,1993, pp.6,7

[12] A. Bazzarini, Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Francesco Andreola, Venezia 1830-1837.

[13] Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

[14] Il secondo concilio di Nicea fu convocato nel 787, su richiesta di papa Adriano I, dall’ imperatrice d Oriente Irene, per deliberare sul culto delle immagini, proibito nel 726 da un editto imperiale di Leone III l’Isaurico e dal concilio tenutosi a Costantinopoli nel 754, nonostante l’ opposizione di papa Gregorio III, che fu costretto a recarsi a Bisanzio e ritrattare. Il concilio negò l’ ecumenicità del concilio del 754 e dichiarò la liceità del culto delle immagini.

[15] L. VALGENTINA, Muse, De Agostini, Novara 1965, vol. III, p. 120.

[16] Con il termine incunabolo (o incunabulo) si definisce convenzionalmente un documento stampato con la tecnologia dei caratteri mobili e realizzato tra la metà del XV secolo e l’anno 1500 incluso. A volte è detto anche quattrocentina.

[17] Caterina Ragusa, Guida alla cartapesta…, cit., pp.5,6

[18] P. MARTI,  La modellatura in carta, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1894. (opuscolo)

Un pregevole presepio di Malecore a Nardò

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Tra fede e tradizione

L’artistico presepe in cartapesta di Malecore

nella chiesa del Sacro Cuore a Nardò

di Marcello Gaballo

Ben volentieri richiamo l’attenzione sul grande livello qualitativo di un gruppo statuario che è presente nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò. Ogni anno, ormai da oltre otto lustri, la comunità esibisce il complesso figurativo in originali e mai ripetitivi presepi, seguendo le volontà del sacerdote che volle commissionare le opere, don Salvatore Leonardo (1939-1997), primo parroco, il cui ricordo e la cui sensibilità restano ancora vivi tra quanti lo ebbero pastore.

Questi ebbe grande cura della comunità e dell’edificio sacro a lui affidato, preoccupandosi di dotarlo di ottimi arredi, tra i quali le statue presepiali di cui si scrive in questa nota.

Attento cultore dell’arte popolare e particolarmente devoto al grande evento della Natività di Cristo, francescanamente innamorato del presepe di Greccio, don Salvatore volle dotare il suo gregge di quanto meglio potesse rievocare la lieta Novella.

Si rivolse dunque al più valido artefice della cartapesta leccese vivente, il maestro per eccellenza, Antonio Malecore,[1] ultimo esponente della celebre bottega ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica, impiantata dallo zio Giuseppe nel 1898.[2]

ancora un presepe tradizionale realizzato negli scorsi anni dalla comunità dela parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò. Le statue, come nelle altre foto d’insieme, sono quelle del maestro Antonio Malecore

Il sacerdote aveva notato la finezza e la valenza artistica del Malecore in numerosi lavori sparsi nelle diverse chiese salentine, cogliendone la cura meticolosa dell’esecuzione, il sorprendente realismo dei personaggi e la perizia tecnica esercitata in ogni particolare delle statue. Era soprattutto attratto dalla dolcezza dei volti del maestro, dall’anatomia, dal panneggio e dalla delicata cromìa, mai esagerata, non translucida, ben accostata.

Ne commissionò ben sei, con costi non indifferenti per quel periodo (1979) e per le limitate risorse degli offerenti, sempre ripromettendosi di ampliare la scena con successive committenze, come effettivamente avvenne nei decenni successivi da parte del suo successore e dei parrocchiani.

Maria, Giuseppe, il Bambino con la mangiatoia, il pastore in ginocchio, l’umile contadina con il cesto di mandarini, il pifferaio. Meravigliose opere gelosamente custodite nel corso dell’anno, tolte dal luogo “proibito” solo alla vigilia, per essere collocate nel presepe allestito, ultimo atto da compiersi poco prima della Veglia della Santa Notte.

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Nel 1998 alcuni fedeli, desiderosi di incrementare il patrimonio scultoreo, commissionarono al medesimo maestro, ormai al termine della carriera, i tre Magi, l’angelo e un terzo pastore.

La diversa cronologia delle opere non si ravvisa in modo netto, è evidente per lo più nella crescita artistica del Malecore: è il caso ad esempio degli alteri Magi, particolarmente interessanti rispetto alle restanti statue per la capacità manuale che senz’altro supera il limite dell’artigiano.

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Non è da meno il bel pastore genuflesso sull’arto destro, figura che si volge delicatamente verso destra, con un atteggiamento devoto che nulla ha da invidiare ai simili dipinti nelle più belle opere del Seicento. La raffinata resa delle mani, i lineamenti del volto, l’andamento della barba e la garbata posa forse potrebbero designarlo come il miglior pezzo della collezione.

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Non esiste tuttavia competizione tra le figure, rispettando ognuno il suo ruolo ed esercitando un fascino che solo Malecore poteva attribuire loro. E quanta dolcezza nel volto di quel giovin suonatore di piffero, le cui mani stringono con incredibile eleganza l’umile strumento che sembra davvero diffondere un melodioso suono nell’angusta stalla.

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Lo stile del gruppo statuario senz’altro richiama ai leccesi altari zimbaleschi, infinite volte ammirati dal maestro nella chiesa del Rosario in particolare,  la sua “maniera” tuttavia si distingue dallo stile accartocciato barocco, prediligendo una composizione più sobria e più vicina al gusto del contemporaneo. L’angelo del presepio neritino, per esempio, nulla ha a che fare con gli angioletti paffuti e giocosi degli altari di S. Irene o di Santa Croce e di tanti altri altari barocchi salentini, offrendosi allo spettatore in posa severa, consapevole dell’evento che si celebra, fiero di esibire quel cartiglio che esorta alla Gloria al Padre per tutti gli uomini nel più alto dei Cieli, in eterno.

E quella che potrebbe apparire come la statua più semplice, raffigurando un contadinello con la legna nella saccoccia, ancora una volta conferma l’abile modellazione plastica del Malecore, evidente nella realizzazione di caratteri somatici sempre differenti, marcati, tipici della gente del Sud, con uno standard che non tradisce mai la sua inconfondibile arte scultorea.

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La semplice carta, ridotta in poltiglia secondo tecniche centenarie, diventa pregevole materia capace di competere con i più nobili materiali, alla ricerca della perfezione e della bellezza classica che indossa le vesti del popolo salentino. Ma anche quando deve trattare “reali” personaggi, come i tre Magi, l’artista riesce a conservare la dolcezza dei loro volti, l’umile posa, rendendoli esuberanti solo per le vesti degne del loro status, impreziosite dall’abile collocazione  di gemme e minuterie in metallo dorato.

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Il risultato è dato dall’insieme di undici figure a tutto tondo, di grandezza proporzionatamente ridotta (la più alta è di circa 120 cm), colorate a pennello, dal peso alleggerito grazie alla struttura impagliata.[3] Il contesto presepiale in cui vengono annualmente inserite – anche questo mai ripetitivo – conforme al mondo contadino di fine Ottocento, esalta la bellezza dei manufatti, esprimendo egregiamente il bimillenario racconto della Natività nell’angusta stalla.

Non ci vuole molto a capire che il maestro Antonio Malecore qui, come per altri presepi sparsi nelle sedi più prestigiose del mondo, è andato ben oltre la tradizione leccese, con risultati che lo inseriscono di diritto nella storia della cartapesta. Un catalogo delle sue opere, a mio parere, è più che mai auspicabile, a dispetto degli scettici che si ostinano a ritenere quella della cartapesta un’arte di livello inferiore.

Il gruppo statuario neritino, per la sua singolarità e il gusto realistico, meriterebbe una collocazione stabile nel sacro edificio, magari in un’apposita cappellina laterale. Questo eviterebbe gli immancabili guasti delle opere, in più punti già riscontrabili con le cadute di colore e la frattura di alcune parti più deboli, come purtroppo ho potuto constatare.

Plaudo comunque alle sagge scelte della fervente comunità, che ha saputo ben scegliere, investendo attentamente sulla cultura dell’arte popolare a Nardò e nel Salento.

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