La Cartoguida turistica di Martano: dettagli da scoprire

di Eleonora Marrocco

Il 9 giugno 2018, alle ore 19.30 presso la Sala Congressi “K. Wojtyla” in Piazza Caduti a Martano, si terrà l’evento di presentazione dal titolo “La Cartoguida turistica di Martano: dettagli da scoprire”.

Utile strumento per chiunque voglia approcciarsi alla conoscenza e alla visita del Comune, la “Cartoguida turistica di Martano” è stata ideata da Sandro Montinaro che ne ha curato sia la ricerca storica che la grafica, e realizzata dalla Pro Loco di Martano in collaborazione con il Comune di Martano nell’ambito del POR Puglia FESR FSE 2014-2020 – Asse VI – Tutela dell’ambiente e promozione delle risorse naturali e culturali – Azione 6.8 – Interventi per il riposizionamento competitivo delle destinazioni turistiche sparsi sull’intero territorio.

Scopo della Cartoguida è quello di narrare, in versione smart, un territorio che profuma di storia, cultura e tradizioni, in cui il tempo si ferma, e l’uomo annoda i fili di percorsi che riportano la mente a momenti passati.

A noi, moderni cittadini, spetta il compito di conoscere, scoprire e raccontare, istanti di vita trascorsa, al fine di mettere in evidenza le ricche particolarità delle proprie tradizioni, delle storie e della cultura della propria comunità con tutti i suoi luoghi, i beni culturali, dell’edilizia religiosa e civile, quelli noti e quelli nascosti, o sconosciuti ai più.

Particolare è stata l’attenzione e la cura nella redazione della Cartoguida, frutto di tanto studio e ricerca storica che hanno dato vita ad un prodotto semplice e lineare, ma, al tempo stesso, ricco e puntuale. Le indicazioni presenti spaziano dalle informazioni di carattere storico, culturale e paesaggistico a quelle prettamente turistiche del territorio.

È importante ricordare che il turismo, volano di sviluppo e di crescita culturale, è un settore in estremo fermento. Permette di raggiungere traguardi soddisfacenti e, al contempo, pone sfide sempre più impegnative. Spostando sempre più in là le aspettative del viaggiatore, richiede costantemente nuovi e qualificati strumenti che possano favorire la conoscenza del territorio. Ed è proprio in quest’ottica che si inquadra la “Cartoguida di Martano”: una piccola guida accurata, sempre a portata di mano grazie al formato tascabile, che accompagna il turista attraverso un viaggio tra cultura e storia del territorio, ma allo stesso tempo, incoraggia il residente a riscoprire i luoghi del suo vivere e le sue origini.

La Cartoguida ci proietta, con un tuffo, nel passato delle nostre comunità, per conoscerle e per conoscersi, per aprirsi e raccontarsi al mondo e ai viandanti che affollano le stradine dei nostri piccoli centri, perlopiù, nelle calde sere d’estate.

La promozione e la valorizzazione dei nostri territori deve, però, mantenere il passo coi tempi. La Cartoguida è, a tal proposito, una soluzione innovativa. Distribuita gratuitamente, è redatta in Italiano, in Inglese e, inoltre, reca alcune informazioni in Greco. Grazie alle moderne tecnologie è consultabile anche dai telefonini di ultima generazione, dai tablet e da qualsiasi dispositivo che permetta la lettura dei codici Qr.

Nei pressi dei principali siti di interesse del Comune di Martano sono infatti riportati i QR CODE, mediante la lettura dei quali, si può accedere ai contenuti della Cartoguida e ricevere le informazioni necessarie a scoprire il luogo nel quale ci si è immersi.

La Cartoguida, nel suo format, si presenta dunque come uno strumento utile e indispensabile per accompagnare lungo un viaggio di scoperta e riscoperta, chiunque voglia perdersi nei luoghi e viverne a pieno l’esperienze. Incoraggia la conoscenza della storia e della propria storia. Incuriosisce e sprona la ricerca delle proprie radici, fondamenta solide per la crescita di un territorio che voglia puntare sulla promozione e sulla valorizzazione della propria comunità per aprirsi e accogliere sapientemente il viaggiatore.

 

 

La “Nuova cartoguida di Carpignano e Serrano”

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«Promuovere il territorio attraverso un prodotto editoriale ad ampia distribuzione, puntando sul turismo culturale e sulla valorizzazione della ricco patrimonio storico, culturale e paesaggistico. Sono lieta di presentare la Nuova Cartoguida Turistica – dichiara l’Assessore alla Cultura e Turismo del comune di Carpignano, Lucia Antonazzo – che vuole offrire un’occasione unica di scoperta e di emozione, per turisti ma anche per i residenti, di uno dei territori più importanti e suggestivi di Terra d’Otranto. L’augurio è che questa pubblicazione possa portare i cittadini, i turisti e tutti gli appassionati di cicloturismo a conoscere e ad apprezzare Carpignano Salentino e Serrano, due centri che presentano una ricchezza particolare da un punto di vista storico, culturale e paesaggistico».

La “Nuova Cartoguida di Carpignano e Serrano”, pratica e maneggevole nel suo formato tascabile, è stata pensata per il turista che soggiorna nel territorio ma anche per il residente che vuole scoprire aspetti meno noti della realtà che lo circonda.

È stata realizzata nell’ambito del Progetto WBB Wander by Bicycle finanziato dal Programma di iniziativa comunitaria Interreg Italia-Grecia 2007-2013, promosso dal Comune di Martano in collaborazione con i comuni di Sternatia, Zollino, Carpignano Salentino e il COTUP Consorzio degli Operatori Turistici Pugliesi per l’Italia e Patras municipal enterprise for planning & development s.a., Achaia s.a. – developing company of local authorities e Region of Western Greece per la Grecia.

Scopo della Cartoguida è quello di scoprire e valorizzare un territorio caratterizzato da affascinanti ambienti naturali, ricco di storia, cultura e tradizioni, in cui il tempo e l’uomo hanno lasciato tracce significative che aspettano solo di essere conosciute, lette e interpretate.

È un invito al viaggio. Una passeggiata a ritroso nella memoria, scandita dai sapori, dai profumi e dai colori del paesaggio, lenta e ritmata dalle tradizioni che mirabilmente custodiscono schegge di ricordi del passato. Un viaggio che, puntando al recupero e alla riscoperta dei caratteri più salienti dell’identità mediterranea di questi luoghi, consente al viaggiatore di trascorrere una passeggiata per nutrire profondamente corpo e spirito attraverso la conoscenza di alcuni aspetti pregnanti della cultura locale.

Realizzata da Sandro Montinaro, redatta sia in italiano che in inglese, la cartoguida è distribuita gratuitamente ed è consultabile anche dai telefonini di ultima generazione grazie al QR code appositamente elaborato che, letto da qualsiasi telefono cellulare o smartphone munito di fotocamera e di un apposito programma di lettura, permette, grazie a internet, l’accesso immediato a tutti i contenuti presenti nella versione cartacea della cartoguida sia in italiano che in inglese.

I QR code sono sistemati nei pressi dei principali luoghi di interesse storico-artistico di entrambi i centri sfruttando la segnaletica esistente e consultabili presso tutti i luoghi pubblici, negozi e strutture ricettive del territorio.

Infatti, è stata intenzione del comune di Carpignano Salentino distribuire gli adesivi con il QR code a tutte le attività commerciali al fine di dotarle di uno strumento utile per la promozione e valorizzazione del territorio.

Oltre all’excursus storico dei due centri, sulle due cartoguide è possibile trovare tutta una serie di informazioni: i Beni culturali di particolare interesse storico, artistico e naturalistico (chiese e cappelle, palazzi, colombaie, menhir, sepolture neolitiche, frantoi ipogei, monumenti, costruzioni in pietra a secco, ulivi secolari e così via); un ricco corredo fotografico utile per stimolare la fantasia del visitatore e trovare spunti per partire alla scoperta del territorio; le informazioni (turistiche, geografiche, i numeri utili, e le festività civili e religiose) utili sia ai turisti che ai residenti. Infine, sono localizzate le strutture turistico ricettive presenti nel territorio (Bar, Ristoranti, Hotel, Agriturismi e B&B).

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Carpignano Salentino. Il Santuario della Madonna della Grotta

Carpignano Salentino (Le), Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), veduta d’insieme del fianco sud-ovest rivolto verso il paese – (ph Sandro Montinaro)

Carpignano Salentino, 2 luglio 1568. Il Santuario della Madonna della Grotta, un prezioso scrigno di fede e di arte del Salento

 

di Sandro Montinaro

Se i primi di luglio vi capita di passare per Carpignano Salentino non perdete l’occasione per rendere omaggio alla Madonna della Grotta e visitare l’omonimo santuario, eretto nel XVI secolo, appena fuori paese, in contrada Cacorzo, sulla strada che porta a Borgagne.

La tradizione orale, trasmessa fino ai nostri giorni, vuole che il 2 luglio del 1568 al vecchio Frangisco Vincenti, detto Lo Pace – effettivamente vissuto – rifugiatosi per un temporale in una delle grotte presso Cacorzo, apparve in sogno una bella signora con un bambino in braccio che gli disse:

 Io sono la Madre di Dio e questo è il mio figlio diletto.

Qui in questa grotta, io voglio tempio ed altare, ove sia invocato il nome mio: prometto protezione.

Il giorno seguente fra le macerie della grotta, nei pressi fu ritrovata una raffigurazione bizantina della Vergine.

Il contesto in cui si inserisce il nostro santuario, pur se tipicamente salentino, è impreziosito dalla quattrocentesca torre colombaia e dalla presenza di numerose grotte, alcune delle quali trasformate nel corso del tempo nelle utilissime ma desuete neviere.

Sulla cripta, già dedicata a San Giovanni Battista, fu realizzato il nostro santuario per volontà di Annibale Di Capua († 2-IX-1595), allora abate, che una promettente carriera ecclesiastica avrebbe poi portato alla nomina di arcivescovo di Napoli (1579), quindi nunzio a Praga (1576), a Venezia (1577-1578) e in Polonia (1586).

Annibale era figlio di Vincenzo Di Capua, terzo duca di Termoli, e di Maria De Capua, sua nipote, figlia di Ferrante Di Capua e Antonicca Del Balzo (da questi ultimi due era nata anche Isabella, che dopo un matrimonio non consumato con Trainano Caracciolo sposò Ferrante Gonzaga figlio di Francesco II).

Annibale fu dunque amministratore e primo abate, come attesta la bolla di nomina del 1570 tuttora custodita nell’archivio diocesano di Otranto, rilasciata dallo zio Pietro Antonio Di Capua, arcivescovo di Otranto (1536-1578).

Il prelato fece realizzare la costruzione che ancora si vede e la ultimò nel 1575, come si legge sul fregio terminale della facciata principale, in stile rinascimentale, rivolta a nord-ovest. Ma i lavori non furono completati, perché un’altra data, questa volta sul bordo inferiore dell’architrave del portale, riporta 1585, quando finalmente il sacro edificio era stato concluso. Nel frattempo l’abate era diventato arcivescovo napoletano e il presule lo rammentò con l’iscrizione tuttora leggibile incisa sul portale verso sud-ovest:

[H]ANIBAL DE CAP(U)A ARCHIEP(ISCOPUS) NEAPOL(ITANUS) / SUB PON(TIFICE) GREG(ORIO) XIII1579”.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Facciata sud-ovest con il portale barocco del 1579 – (ph Sandro Montinaro)

 

Sull’architrave del portale appose lo stemma personale con le insegne della potente famiglia Di Capua Del Balzo da cui discendeva, ornandolo con una nappa per lato e con il cappello prelatizio, come si addice allo stemma di uno del suo livello. La presenza, dunque, di entrambi gli stemmi è da ascrivere al fatto che il nonno materno, in seguito a questioni ereditarie, aveva ottenuto da Carlo V l’autorizzazione per sè e la discendenza a chiamarsi Di Capua Del Balzo.

Non è chiaro se le maestranze furono le stesse della fabbrica originaria, ma il risultato fu comunque soddisfacente e in stile con i gusti dell’epoca.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Facciata nord-ovest (1575) con il portale del 1585 – (ph Sandro Montinaro)

 

La chiesa a croce latina, dalle linee severe ma eleganti, presenta tre entrate. Insolita la soluzione accanto all’austera facciata principale, con l’accesso al cortile interno sul quale si affacciano il lato della chiesa rivolto a nord-est, il portale d’accesso dalla strada per Borgagne con lo stemma Di Capua e il prospetto dell’abbazia, con un elegante loggiato del secondo ordine che risulterebbe assai vicino a quello dell’architetto leccese Gabriele Riccardi.

La facciata verso sud-ovest, ovvero quella di fronte alla colombaia e rivolta verso il paese, si presenta con particolari architettonici che spiccano dalla lineare e calda facciata: un rosone finemente decorato e un elegante portale barocco con due coppie di colonne sostenenti un architrave.

Nella lunetta superiore è dipinto un affresco ormai sbiadito raffigurante la Vergine con il Bambino.

L’interno non delude. Entrando dalla porta principale le statue in cartapesta di San Francesco d’Assisi e di San Luigi, conservate all’interno di due nicchie, ci accompagnano alla scoperta di questo solitario e prezioso scrigno d’arte che contiene opere di un certo rilievo.

Ai lati della navata, dove prima c’erano gli altari, possiamo ammirare le tele raffiguranti episodi della vita della Madonna, realizzate dal pittore Giuseppe De Donno di Maglie in occasione dei lavori di restauro eseguiti nel 1938; a sinistra: l’Annunciazione, la Visitazione, la Nascita della Vergine e la Presentazione di Gesù al tempio; a destra: l’Incoronazione della Vergine, l’Assunzione della Vergine, la Discesa dello Spirito Santo e Gesù tra i Dottori della Chiesa.

Santuario Madonna della Grotta (XVI sec.), cortile interno, stemma dei Di Capua – (ph Sandro Montinaro)

Degni di nota sono i cinque stemmi riprodotti nelle formelle poste sulle chiavi di volta del santuario.

Dalla porta maggiore il primo a comparire è lo stemma cittadino raffigurante un pino sradicato sormontato da una corona marchesale e affiancato dalle lettere C. P. (probabile abbreviazione di Carpiniani Populus). Non è più leggibile, perché abraso, il secondo stemma, verso il transetto; al centro, tra la volta del transetto e quella della navata principale, appare in bella mostra lo stemma dell’arcivescovo.  Infine, sul lato destro del transetto, vi è l’emblema della casa d’Aragona maldestramente ridipinto, mentre sul lato sinistro quello di Geronimo Bardaxy, governatore della Terra di Carpignano tra il 1560 e il 1570.

Nel transetto si trovano gli elementi più antichi della chiesa, la maggior parte dei quali fatti realizzare nel XVI secolo, come attestano gli stemmi del barone Giovanni Camillo Personè e della sua terza moglie Donata Antonia Paladini, genitori del celebre Diego che tanto risaltò nelle arti cavalleresche, nella poesia, filosofia e musica.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), braccio destro del transetto, affresco di Santa Caterina (XVII sec.) – (ph Sandro Montinaro)

 

Nel braccio destro del transetto due piccole absidi sono affrescate con le figure di Santa Caterina di Alessandria e delle Sante Apollonia e Irene, mentre quelle diametralmente opposte, raffigurano Santa Giustina, Sant’Orsola e compagne. A sinistra si vede l’altare dell’Incoronazione di Maria Vergine sulle cui pareti laterali restano solo due affreschi di santi eremiti, dei quali uno individuabile come Sant’Onofrio. Più completa è la decorazione pittorica dell’altare opposto, con l’apparizione della Madonna Incoronata con il Bambino a San Giacinto di Polonia, verso i lati Sant’Antonio di Padova e San Diego d’Alcalà.

Rilevante, per fattura e dimensioni, è la tela posta sul fondo del coro, dipinta nel 1601 da Ippolito Borghese, esponente di spicco del manierismo napoletano. La tela raffigurala Madonna tra i Santi Francesco d’Assisi e Francesco di Paola e nella parte inferiore contiene un inserto con il Battesimo di Gesù nel Giordano, forse collegabile con l’originario culto di Giovanni Battista.

Ancora nel transetto due ingressi conducono alla cripta, ubicata sotto il presbiterio, e nei pressi di quello di sinistra una teca lignea (1937) contiene la statua in cartapesta della Madonna della Grotta (1917), che nella prima metà del Novecento i duchi Ghezzi qui trasferirono dal palazzo ducale.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), tela con i santi Pietro e Paolo (XVII sec.) – (ph Sandro Montinaro)

 

Merita attenzione anche la tela secentesca dei Santi Pietro e Paolo, facilmente riconoscibili per gli elementi iconografici abituali che li accompagnano, oltre che per le quattro scene della vita e del martirio dei santi ritratte nella parte inferiore.

Nella cripta un grande architrave è sostenuto da quattro coppie di colonne doriche e al centro di esso, tra nubi e putti, si staglia ad altorilievo il Padre Eterno, a mezzo busto, con barba fluente, in atto di sostenere il globo terracqueo. Un piccolo altare, riccamente decorato, è anteposto alla miracolosa immagine della Madonna, affrescata su una stele di pietra e protetta da un grata, venerata dal popolo di Carpignano, ormai da 443 anni.

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), Cripta, Madonna con il Bambino – (ph Sandro Montinaro)

 

Suggestivo è l’incontro in piazza Duca d’Aosta delle statue di Sant’Antonio da Padova e della Madonna della Grotta, durante il quale avviene, in segno di devozione da parte di tutta la cittadinanza, la simbolica consegna delle “chiavi” del paese da parte del Sindaco. Il giorno dopo le cerimonie religiose del 2 luglio, ecco che Carpignano tiene i festeggiamenti civili con pittoresche luminarie e concerti bandistici.

 

Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), statua in cartapesta della Madonna della Grotta, autore ignoto, (1917) – (Santino devozionale)

 

 

Bibliografia

E. BANDIERA – V. PELUSO, Guida di Carpignano e Serrano. Testimonianze del passato nella Grecia salentina, Galatina (Le), Mario Congedo Editore, collana “Guide verdi”, 2008.

C. CALÒ – S. MONTINARO, L’uomo: tomoli di terra, pietre di memoria. Paesaggio agrario e società a Carpignano Salentino e a Martano nel ‘700, presentazione di Anna Trono [Biblioteca di Cultura Pugliese, serie seconda, 163], Martina Franca (Ta), Mario Congedo Editore 2006.

L. COSI [a cura di], Diego Personè, La musica, la poesia, la spada, Lecce, Conte Editore, 1997.

E. BANDIERA, Carpignano Salentino. Centro, frazione, casali, Cavallino (Le), Capone Editore, 1980.

A. LAPORTA, Carpignano Salentino, in Paesi e figure del vecchio Salento, vol. II, Galatina (Le), Banca Popolare di Parabita, Mario Congedo Editore, 1980.

Cinque francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della civitas Neritonensis

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Il 7 novembre 2013 cinque preziosi affreschi riportati  nella serie dedicata all’Ecclesia Mater dalle Poste Vaticane sottolineano la fede, la storia e l’arte del vetusto monumento pugliese

 

di Marcello Gaballo

Per la prima volta nella storia la filatelia dello Stato della Città del Vaticano si occupa del massimo monumento religioso della diocesi di Nardò (ora Nardò-Gallipoli) e lo fa il 7 novembre 2013 tramite l’emissione filatelica di ben cinque valori, utili a ricordare il sesto centenario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425), e contestualmente dell’elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

L’anniversario è stato solennemente celebrato l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa  la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi e dal quale è stato tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” riportato sui valori bollati.

I francobolli nascono dalla proposta di Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, che oltre due anni fa presentò al direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi don Giulano Santantonio e al Vescovo Mons. Domenico Caliandro (oggi Arcivescovo di Brindisi), quindi alla Commissione di Arte Sacra della Diocesi, la proposta, poi felicemente accolta e fatta propria dall’Ufficio filatelico della Città del Vaticano.

I bozzetti furono realizzati da Sandro Montinaro, su foto di Raffaele Puce. In pochi centimetri il grafico di Carpignano Salentino, autore anche del logo ufficiale, ha riassunto le preziose testimonianze di arte, storia e fede dell’edificio religioso, limitate a cinque particolari di preziosi affreschi del XIII-XV secolo, tra i più  antichi, significativi e leggibili che decorano le pareti e le colonne del massimo tempio cittadino.

Grazie alla professionalità e alla cortesia del Dott. Olivieri e della Dott.ssa Marica Fabris, dell’Ufficio Filatelico e Numismatico del Vaticano, finalmente la Diocesi col suo pastore Mons. Fernando Filograna potrà annoverare tra le sue importanti iniziative anche questa singolare e preziosa occasione, utile per trarre dalla memoria storica elementi sicuri per un rilancio del desiderio di futuro, sia sul piano sociale che su quello pastorale.

Copia di francobollo 0,05

Il valore di 0,05 € riporta un particolare dell’affresco di Sant’Agostino (m. 2,50×0,88), nella navata destra, sul secondo pilastro.

Il santo indossa mitra, guanti e un prezioso mantello, finemente decorato con motivi geometrici, fermato da una fibbia rotonda sul petto e sovrapposto alla tunica monastica, della quale si vedono il cappuccio e la parte superiore. Con la mano destra il Santo indica un cartiglio, ormai illeggibile, retto dall’ altra mano che stringe il pastorale. L’ iscrizione, AGUSTIN con l’US finale nascosto dal pastorale, posta ai lati del capo, attesta il Santo.

Copia di francobollo 10

Il valore di 0,10 € riporta un particolare dell’affresco di Santa Maria delle Grazie o Madonna della Sanità (m. 1,80×0,80), nella quarta cappella della navata destra.

L’ immagine è posta tra due angeli musicanti di stile quattrocentesco ma dipinti alla fine del secolo scorso, in occasione dei restauri della Cattedrale, da Pietro Loli Piccolomini da Siena, assistente di Cesare Maccari.

La Vergine, dai lineamenti dolcissimi e con mesta pensosità, aureolata, con veste bianca e mantello blu orlato d’ oro, è seduta su un elegante baldacchino e regge sulle ginocchia il Figlio, che con la mano destra sorregge un pomo e benedice con la sinistra. Il Piccolo, con il nimbo crociato, veste un abito bianco con delicata tunica rosa. In basso a sinistra si intravede un devoto genuflesso.

L’ imago Beatissimae Virginis Sanitatis, in origine ubicata in fondo alla navata sinistra, nel 1573, da mons. Salvio fu traslocata dove oggi c’è la sede vescovile “per dar più onorato luogo alla sacra immagine…, e per mirarla di continuo avendola sempre all’incontro, e perchè stesse più esposta e alla vista della venerazione de’ popoli”. Da Mons. Girolamo De Franchis (1617-1634) fu di là trasferita nel sito attuale.

Copia di francobollo 15

Il valore di 0,15 € riporta un particolare dell’affresco della Madonna del giglio (m. 2,50×0,88), sul quarto pilastro della navata destra, da ricondurre al momento angioino dell’edificio.

La Vergine, seduta su trono con schienale curvo e raggiungibile tramite tre gradini, è dipinta col volto lievemente rivolto verso il Figlio. Indossa ampia tunica rosa e manto azzurro ed ha il capo coronato avvolto da un nimbo giallo orlato di perle; con la mano sinistra regge un bianco giglio angioino e con la destra sostiene il Bambino, il cui volto è circondato da un nimbo crociato ed orlato. Indossa una tunica rossa con cingolo bianco e indica con la sinistra il giglio.

Sullo sfondo azzurro spiccano le abbreviazioni greche delle due figure, inserite sotto un arco trilobo a tutto sesto.

Copia di francobollo 25

 Il valore di 0,25 € riporta un particolare dell’affresco di San Nicola di Myra (m. 2,48×0,80), sul secondo pilastro della navata sinistra.Il santo benedicente alla maniera greca, secondo lo schema bizantino, è ritratto frontalmente e a figura intera, veste tunica bianca, mantello rosso, omoforion bianco nerocrociato e tiene nella mano sinistra un Vangelo decorato con gemme. In alto, a sinistra, la Madre di Dio porge il pallio, mentre all’ opposto il Cristo, anch’ esso a figura intera, porge il Vangelo. Le iniziali latine sono scritte in caratteri gotici e inquadra il tutto una cornice di color corallo, complementare all’azzurro dello sfondo.

 

Copia di francobollo 45

Il valore di 0,45 € riporta un particolare dell’affresco del Cristo Pantocrator (m. 2,50×0,90), sul terzo pilastro della navata destra.

Seduto su un trono, in posizione frontale e benedicente alla greca, Cristo regge con la mano sinistra un Vangelo aperto su cui si legge Ego sum lux mundi qui sequitur me non ambulat in tenebris (Io sono la luce del mondo: chi segue me non cammina nelle tenebre (Vangelo di Giovanni, I, 5).Indossa una veste rossa orlata di oro e un manto olivastro; il viso incorniciato da barba corta e scura ha un nimbo crociato orlato di perle. Interessante la forma del trono, rappresentato da uno schienale tondo abbastanza alto, che è “elemento diffuso nelle scuole artistiche bizantine della seconda metà del XIII secolo, collegato molto probabilmente al tema del <trono della Sapienza>, della Sofia <sapienza divina>, in cui Cristo è raffigurato in trono”.

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Nella parte inferiore dei valori a sinistra è riportato il logo del Vaticano, a destra quello delle celebrazioni neritine, in cui domina la croce patriarcale, che ricalca quella antichissima scolpita sulla facciata della Cattedrale, alla cui base sono opportunamente innestate le due lettere NC, compendiando la valenza nello stesso tempo laica e religiosa dell’evento, essendo abbreviazione N di Neritonensis e C di Cathedralis e di Civitas. Nell’ambito della seconda lettera trovano allocazione le due date 1413 e 2013.

Tra i due loghi è compreso il titolo dell’emissione: VI Centenario della Cattedrale di Nardò.

 

 

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Caratteristiche tecniche dell’emissione:

Titolo: VI Centenario della Cattedrale di Nardò

data emissione: 7 novembre 2013

serie composta da 5 valori da € 0,05 – € 0,10- € 0,15 – € 0,25 – € 0,45

Tiratura: 150.000 serie complete

Tecnica Stampa: Offset a  quattro colori

Dentellatura 13 ¼ x 13

formato dei francobolli: 32,13 x 38

Stamperia Cartor (Francia)

Paesaggio agrario e società a Carpignano Salentino e a Martano nel ‘700

di Marcello Gaballo

Molto arduo recensire un testo, specie quando viene presentato con dotte note e con chiare premesse da parte degli stessi Autori, due giovani studiosi salentini, Carla Calò e Sandro Montinaro, entrambi laureati in Conservazione dei Beni Culturali e perfezionati in Storia regionale pugliese.

Introdotto dalla docente dell’università del Salento Anna Trono, che esaurientemente chiarisce gli intenti prefissati nell’analisi delle componenti geografiche e, particolarmente, del paesaggio sociale ed umano in un determinato periodo storico. Lo studio riguarda i territori di Carpignano Salentino, Serrano e Martano, luoghi molto interessanti ma poco esplorati della Grecia Salentina.

II volume si divide in due parti: la prima, di Sandro Montinaro, tratta della Terra di Carpignano e di Serrano; la seconda, di Carla Calò, della Terra di Martano.

Entrambi si articolano in vari capitoli, frutto di ricerche che vengono qui pubblicate per la prima volta. Un’opera fruibile e di facile lettura da parte di una vasta platea di lettori, non solo per i cultori della materia e per i cittadini residenti nei comuni trattati.
Utile anche come pista per quanti volessero scrivere dei Catasti Onciari (da “oncia”, antica moneta di calcolo non reale) di Terra d’Otranto, ordinati da Carlo III di Borbone (1716-1788) con dispaccio del 4 ottobre 1740, fornendo indicazioni e modelli per poter estendere l’interessante ricerca sul prelievo fiscale in tutto il regno, stremato dal malgoverno spagnolo, che fino ad allora era dominato prevalentemente dalla feudalità ecclesiastica e laica.
Il tempo per la preparazione dei Catasti andò oltre quello prestabilito e i comuni studiati nel 1742 disponevano con appositi bandi (“atti preliminari”) i lavori preparatori, annunciati con il bando regio dell’anno precedente. Seguirono dunque le autodenunce (“rivele”) dei cittadini e delle loro famiglie, poi messe a confronto con gli apprezzi su tutte le proprietà urbane ed agricolo-forestali ricadenti nel territorio delle tre università esaminate, fatti da estimatori nominati dal parlamento cittadino. Per ogni bene descritto veniva quindi calcolata la rendita in ducati con i sottomultipli decima, centesima e millesima parte dello stesso, corrispondenti rispettivamente a carlino, grana e cavallo.
Come per molti centri del Regno anche nelle nostre università si tentava di resistere al nuovo sistema fiscale, preferendo il vecchio sistema. Dopo dieci anni i Catasti non erano ancora stati approntati e nel 1753 il re emanò una nuova ordinanza, che prevedeva l’invio di un Commissario per la redazione dei Catasti nelle università inadempienti, tra le quali Serrano.

II testo, stimolante per i puntuali riferimenti storici e archivistici, è senza dubbio un fedele inventario della realtà delle comunità esistenti nella metà del XVIII secolo, rilevante per la ricostruzione della storia dei tre centri salentini, del loro paesaggio agricolo, delle zone urbane, delle strade e dei quartieri. Dopo il nome del capofuoco (capo famiglia), con indicazione dell’attività da esso esercitata e dell’età, seguono i nomi dei componenti del nucleo familiare, con annotazioni della loro età, della relazione di parentela e dell’attività precipua. A queste notizie preliminari segue l’elenco dei beni, a cominciare della casa di abitazioni e della sua localizzazione.

Apprezzabilissime le vicende feudali e la comparazione con la realtà attuale della nota veduta seicentesca di Carpignano pubblicata dal Pacichelli. Altrettanto accurata la schedatura delle 38 masserie censite e le esaurienti note di onomastica e di toponomastica intra ed extra moenia, alcune risalenti anche al Medio Evo, assolutamente originali e meritevoli di degna considerazione, anche perché desunte dalla scrupolosa ricerca che gli Autori hanno condotto per molti anni sui manoscritti catastali settecenteschi e sugli Status animarum parrocchiali.
Un numero cospicuo di foto b/n, tavole e dettagliati grafici, aiutano il lettore ad una immediata consapevolezza dello studio richiesto, orientando anche i non addetti ai lavori a comprendere le complesse dinamiche dei centri presi in esame.

Concludono la pubblicazione un utile siglario e la ricca bibliografia degli Autori che testimonia ancora una volta l’affetto viscerale per la terra natìa, quell’amore che spinge lo storico a lunghi sacrifici ed estenuanti ricerche che alla fine sono, quasi sempre, ripagati.

 

CARLA CALÒ – SANDRO MONTINARO, L’uomo: tomoli di terra, pietre di memoria. Paesaggio agrario e società a Carpignano Salentino e a Martano nel ‘700, presentazione di Anna Trono [Biblioteca di Cultura Pugliese, serie seconda, 163], Mario Congedo Editore, Martina Franca 2006, pagg. 359.

Padre cielo, madre terra

Carpignano Sal. (Le), Contrada Cacorzo – Santuario della Madonna della Grotta (XVI sec.), loggiato nel cortile interno, (ph S. Montinaro)

 

di Sandro Montinaro

 

Il Salento è una grande famiglia patriarcale.

In modo silente, severo e semplice al tempo stesso, esprime e trasmette la sacralità della terra, secolari esperienze di vita, pane, lavoro e innumerevoli sacrifici.

La traiettoria ardita di una maestosa libellula, sospesa e riverente, libera i miei pensieri invitandomi al volo. La inseguo. Nel frattempo ascolto, rifletto e mi chiedo: era così anche per gli antichi abitanti di Terra d’Otranto?

L’accettazione fatalistica dell’inevitabile dolore insito nella condizione umana filtra dall’educazione, permea le menti rendendole forti dal punto di vista psicologico e resistenti di fronte alla durezza del vivere… Nel passato i giovani erano di certo meno liberi, ma senza dubbio meno fragili rispetto a noi.

Terra, pane, lavoro, resistenza alla fatica.

Valori propulsivi che per secoli hanno modellato menti e comportamenti giungendo, una generazione dopo l’altra attraverso la mediazione della famiglia, fino a oggi. Alcuni nel frattempo si sono rafforzati, altri indeboliti, per il susseguirsi delle stagioni dell’anno e della vita che scorrendo cambiano luoghi, uomini e cose.

Carpignano Sal. (Le), centro storico (ph S. Montinaro)

Oggi un valore è inalterato e vivo più che mai, anche se con sfumature nuove rispetto al passato: l’importanza della terra come generatrice di frutti e bene da valorizzare e difendere.

Residuo di questo ancestrale attaccamento alla terra, quasi una sorta di “terrestre” religiosità, è penetrata finanche nel mondo cristiano. Lo testimoniano le chiesette, le cappelle, l’edicole votive di cui sono disseminate le contrade e le campagne salentine.

Un esempio meraviglioso è dato dal sito di Cacorzo, nei pressi di Carpignano Salentino, dove sorge uno splendido santuario dedicato alla Madonna della Grotta, quasi che la devozione popolare abbia voluto porre sotto il mantello della bella santa, una Terra che gli uomini da soli non sarebbero bastati a difendere e preservare. Quante volte la statua della Madonna sarà stata portata in processione lungo strade e sentieri che correvano tra gli ulivi, a ridosso delle neviere e della colombaia, sotto un cielo tanto bello da sembrare forse l’immagine stessa del Paradiso. Di queste e di altre analoghe, intense esperienze religiose si nutrivano le famiglie che della religione facevano il pilastro della loro esistenza, come nel lavoro ne ponevano le basi.

Carpignano Sal. (Le), Palazzo ducale Ghezzi – Processione della Madonna della Grotta (ph primi del Novecento)

Tutto rientrava nel quadro dell’ordine e della tradizione con al centro la famiglia, mediatrice per eccellenza tra l’individuo e la società per la conservazione di valori sentiti e vissuti come irrinunciabili. È commovente oggi pensare a queste famiglie, all’infinita tenerezza dei membri per i quali la fatica di una realtà quotidiana a volte amara e la condizione di un’intera vita all’insegna del lavoro e del sacrificio, trovavano in un certo senso giustificazione in una visione ultraterrena che le rendeva accettabili. E se a volte l’amarezza era un calice impossibile da vuotare, specialmente per i giovani a causa dell’età e delle attese, allora – a domare l’irrefrenabile impulso alla ribellione – interveniva il sentimento dell’autorità anch’esso molto forte e radicato nella cultura contadina. Non doveva essere facile, per dei giovani nati e cresciuti in quel contesto, superare la zona impervia e difficile della giovinezza e approdare alla terra della realtà e della condizione adulta. Difficile, se non impossibile, il guado di questa terra di nessuno, senza l’apporto dei genitori, dei nonni, della famiglia in generale, senza il calore e la sicurezza che all’individuo viene da quei legami ideali forti, da quei sentimenti che nella famiglia stessa hanno la loro sede naturale. A questa prima “base psichica” che rende possibile, oggi come in passato, l’accettazione dell’autorità se ne unisce una seconda, che secondo il sociologo Vilfredo Pareto[1] risiede nei sentimenti di soggezione, di affetto, di riverenza. Nel passato, il rapporto dei giovani con la famiglia era gravato da un forte senso dell’autorità, e ciò faceva probabilmente sì che la loro psiche con i delicati meccanismi, anziché essere guardata con rispetto e trattata con delicatezza, fosse considerata un semplice mezzo per governare i comportamenti. E queste dinamiche si potevano determinare, come purtroppo avviene ancor oggi, a livello consapevole o a livello inconscio sia per chi subiva sia per chi dominava. D’altro canto provare quei sentimenti di soggezione mista ad affetto è stata, in tutti i tempi e in quasi tutte le società umane, la condizione indispensabile per la costruzione delle società umane.

Inoltre è stata sempre la famiglia a svolgere una funzione e un ruolo di primo piano per la preparazione psichica, «la conservazione e la riproduzione dell’autorità»[2]. Spesso tutto ciò non appariva né agli occhi degli adulti né a quelli dei giovani, offuscati da un alone di romanticismo che ancor oggi la famiglia dei tempi trascorsi si porta dietro nell’immaginario di anziani ma anche di una parte della popolazione più giovane. Se si vuole, tuttavia, fare un confronto tra la condizione giovanile di un tempo e quella dei giovani che vivono l’odierna realtà, bisogna scrollarsi di dosso le incrostazioni romantiche e sentimentali, che spesso nascondono realtà ben più crude. Rispetto a noi, giovani di oggi, quelli del passato, a fronte di una forte riduzione della libertà, godevano se non altro di maggiori sicurezze affettive e psicologiche. I ragazzi che oggi si incontrano in quelle stesse contrade, sono forse apparentemente più liberi, ma non sempre altrettanto sicuri. Siamo, dunque, come i nostri coetanei del passato, inclini a cedere ai ricatti psicologici, potenti quanto subdoli, della famiglia e dell’autorità, che ancora, in un certo senso anche se in modo diverso, da essa pretende di promanare.

Quello che forse di veramente bello e profondo aveva la società salentina in altri tempi era il ritmo lento della vita, che permetteva una comunicazione tra le generazioni, mentre oggi la rapidità che contraddistingue i contatti e le relazioni umane rischia di far perdere di vista l’antico valore della lentezza, quello che dava più voce ai deboli della società, anziani e bambini. Oggi sbiadendo, questo valore rischia di far tacere le voci delle generazioni estreme, ma ciò potrebbe scavare un solco più profondo anche nelle relazioni tra giovani e adulti.


[1] Vilfredo Pareto (1848-1923), ingegnere, economista e sociologo italiano, i cui concetti presenti nel Trattato di Sociologia Generale ripresi da H. Marcuse sono illuminanti per comprendere meglio le complesse dinamiche psicologiche che intervengono nel rapporto: io-autorità-famiglia. Cfr. V. PARETO, Trattato di Sociologia Generale, cit. da H. MARCUSE, L’autorità e la famiglia, Torino, Einaudi, 1970.

[2] F. FERRAROTTI, Lineamenti del pensiero sociologico, Roma, Universale Donzelli, 2002, p. 362.

Sal(ent)ino connubio dei sensi

di Sandro Montinaro

È un dato incontestabile che col passare del tempo i luoghi cambino, e cambi inoltre la stessa percezione dei luoghi; cambiano gli uomini e i paesaggi: in una parola cambia e si modifica la geografia di un determinato territorio.

Nel caso però del Salento il paesaggio fa eccezione, al punto da conquistarsi un posto di rilievo nel cuore degli abitanti e dei forestieri.

Qui, infatti, è proprio la centralità del paesaggio il dato più interessante. Quel paesaggio, che nel passato doveva apparire meraviglioso agli occhi forse inconsapevoli dei suoi stessi abitanti, oggi potrebbe sembrare, per la lontananza nel tempo, non meno affascinante ai contemporanei. Eppure quello stesso paesaggio esiste ancora e mantiene talvolta miracolosamente intatti molti di quegli elementi e di quelle caratteristiche che lo connotavano. Ma di questa felice e fortunata contingenza chissà quanto sono consapevoli gli attuali abitanti!

Il Salento ha da sempre un fascino ambiguo e misterioso, selvatico e solitario, un salino connubio di sensi. Fortunatamente quell’impronta meravigliosa è rimasta, proprio come le forti radici degli ulivi secolari che respirano ancora nella terra la stessa linfa di un tempo a testimonianza di una continuità con il passato tutt’altro che estinto.

La cosa più bella e che rende più caro e prezioso il paesaggio salentino ai suoi abitanti e ammirato dai forestieri è che esso, faticosamente costruito e addomesticato da dure fatiche, è il risultato del lavoro: muretti a secco, furni, pajari, aire, tratturi, oliveti, mandorleti, ficheti …

È quindi un paesaggio sociale, culturale non solo, ma umano nel senso più pieno del termine.

Serrano – ulivo secolare nei pressi di Santa Marina di Stigliano

 

Un paesaggio unico e particolare nei confronti del quale gli abitanti nutrivano un forte valore di sacralità, valore ancestrale, radicato sin dal tempo in cui, tra gli antichi culti portati in Italia dai Greci attraverso i lidi meridionali, vi giunse anche quello di Demetra, dea della terra, generatrice di frutti: la Cerere dei Latini.

Dal valore della sacralità della terra a quello della bellezza di un paesaggio magnifico, ricevuto in dono dalla stessa dea e madre Terra, il passo era breve. Tuttavia, uomini e donne, vecchi e bambini che, per volere del destino, abitavano la Terra d’Otranto, godevano ben poco di questa bellezza, poiché essi erano legati a un duro e faticoso lavoro che non concedeva spazio allo svago e al godimento. Di conseguenza, più che essere inteso nel senso della bellezza da contemplare, il valore della terra era percepito come bene concreto dal quale sarebbe scaturito, a prezzo di pesanti fatiche, il sostentamento e forse anche il benessere.

Dire terra era dire lavoro e dura fatica.

Carpignano Salentino – tratto della via Traiana-Costantiniana

 

Questo valore, come d’altronde tanti altri, si è nel tempo rafforzato ed è per certi aspetti mutato – per legge naturale della vita che scorrendo cambia uomini e cose – restando tuttavia vivo più che mai.

Oggi la sua importanza, riconosciuta anche da coloro che col lavoro agricolo non hanno dimestichezza o addirittura ne sono lontanissimi, è intesa secondo un’accezione più ampia e con sfumature di significato nuove rispetto al passato.

Mai la presenza umana si è fatta sentire come nella cura gelosa che ha portato alberi così lenti e duri a crescere a diventare i nodosi e forti secolari ulivi, destinati una volta piantati a gratificare le generazioni successive. Ed è proprio in questa dedizione degli uomini alla terra, ma anche ai figli e ai nipoti non ancora nati, che prende corpo e si comprende profondamente tutto il senso pregnante dell’identità salentina.

È vero che oggi – in una situazione e in un processo che si potrebbero definire inversamente proporzionali rispetto al passato della Terra d’Otranto – molta ‘natura’ è stata fagocitata dall’insediamento abitativo. Ma è altrettanto vero che resiste tuttora un paesaggio agrario assai vitale che conserva inalterate le stesse funzionalità che aveva in passato.

Per quanto tempo ancora?

Per quanto tempo la società locale manterrà fede a un lascito che è insieme un bene economico e un patrimonio naturalistico e culturale come pochi sul territorio nazionale?

A Else Lasker-Schüler

di Sandro Montinaro

 

 

“[…] Sempre devo fare come vuole la tempesta,

Sono un mare senza riva.

Ma poiché tu cerchi le mie conchiglie,

Mi si illumina il cuore […]”.

 


(Else Lasker-Schüler, Solo te)

 

 

Il dipinto è un acquerello di Sandro Montinaro realizzato appositamente per questo brano.

Ancora una tela cinquecentesca torna a vivere

Carpignano Salentino, 4 luglio 2010

Il restauro conservativo della tela della Madonna di Costantinopoli tra Santa Caterina e San Francesco

 

di Sandro Montinaro

 

Dopo circa 6 mesi di lavoro, si è concluso il restauro della tela della Madonna di Costantinopoli nella chiesa parrocchiale di Carpignano Salentino. Si tratta di un’operazione di restauro conservativo portata a conclusione dalla dott. ssa Francesca Romana Melodia e dal suo staff e fermamente voluta dal gruppo di ricerca Olim ecclesia Carpiniani nell’ambito delle celebrazioni dei Trecento anni della Chiesa Parrocchiale di Carpignano Sal. (1709-2009).

Da circa un anno, infatti, il Gruppo è in prima linea per sensibilizzare i cittadini e coinvolgerli nella tutela del proprio patrimonio storico-artistico, nonché nella raccolta fondi per il restauro del fonte battesimale del 1594 e il coevo altare con la tela raffigurante la Madonna di Costantinopoli con la chiesa in fiamme tra Santa Caterina e San Francesco, risalente alla fine del XVI secolo.

Carpignano, grazie al suo patrimonio culturale, storico, artistico e architettonico, rappresenta una delle mete turistiche più attraenti del Salento e recuperare e preservare dalle insidie del tempo questo grande patrimonio è un obiettivo nobile, perché significa lasciare a beneficio di tutti qualcosa di unico.

Il gruppo Olim Ecclesia Carpiniani, che si identifica nel nome e nella storia del paese, ha quindi aderito con piacere a questo importante progetto di restauro e vi invita a partecipare, domenica 4 luglio 2010 alle ore 20.00, presso la Chiesa Matrice Assunzione di Maria Vergine, alla presentazione del restauro.

Nel corso dell’incontro, dopo l’inaugurazione della tela, sarà presentato il lavoro di restauro realizzato da Francesca Romana Melodia.

La manifestazione porta il patrocinio del comune di Carpignano Salentino, dell’Arcidiocesi di Otranto, della Parrocchia Assunzione di Maria Vergine di Carpignano Salentino e il sostegno di diverse aziende locali.

Tra le autorità presenti Roberto Isola, sindaco del comune di Carpignano Salentino, mons. Giuseppe Colavero parroco della parrocchia Assunzione di Maria Vergine di Carpignano Salentino e mons. Quintino Gianfreda, direttore dell’ufficio diocesano per l’arte Sacra e i beni culturali.

La chiesa di Santa Marina di Stigliano

di Sandro Montinaro

 

Percorrendo da Lecce la SS 16 in direzione Maglie, uscita Soleto subito dopo Martano, sulla strada provinciale per Otranto, incontriamo due graziosi centri abitati: Carpignano Salentino e Serrano.

A circa 3 chilometri da Serrano, in aperta campagna, sui resti dell’antico feudo di Stigliano, sorge la piccola chiesetta dedicata a Santa Marina costruita nel 1762 per volontà del barone Domenico Salzedo insieme all’adiacente complesso architettonico.

La chiesetta sorge come d’incanto in un bel paesaggio tra il verde dei secolari ulivi, racchiuso ad Oriente da un ameno boschetto e dall’azzurra linea dell’Adriatico.

Gli uliveti prolungano il loro intenso verde striato d’argento quasi fino al mare, a un passo dal quale le paludi della zona lacustre di Arimane (l’odierna Alimini) che, ancora fino agli inizi del XX secolo, emanavano malarici miasmi.

La chiesa, a croce greca, presenta tre altari. Quello maggiore conserva nella nicchia tonda l’immagine bizantina della titolare.

Al di sotto della costruzione del Salzedo è situata una cripta rupestre con una serie di affreschi, alcuni dei quali difficilmente recuperabili, oggi ormai completamente invasa dai rovi.

La tradizione orale narra che Stigliano era un paese sorto nel periodo bizantino. Quando sia stato distrutto il casale eventualmente esistito non lo sappiamo, può anche darsi che il centro sia stato abbattuto durante una delle varie scorrerie saracene. Proprio per sfuggire ai continui pericoli gli stiglianesi avrebbero riparato sulla collina fondando Serrano.

A favore dell’ipotesi di una continuità storica tra Stigliano e Serrano ci sono vari elementi: ad esempio nella Serrano del passato troviamo il culto di Santi già presenti a Stigliano; inoltre bisogna ricordare che gli abitanti di Serrano, ieri come oggi, hanno sempre considerato Stigliano come una “cosa” loro.

Verso la fine del XIV secolo, il feudo di Stigliano per un periodo abbastanza lungo appartenne ai Lubelli. Successivamente andò ai Tolomei i quali poi nel 1575 lo vendettero al barone Nicolò Personè di Carpignano; nel 1580 insieme con Castrignano dei Greci il feudo fu di Filippo Prato. Nel 1643 essendo i Prato in debito con la famiglia Marchese furono costretti a vendergli la loro proprietà. Stigliano con il casale di Castrignano passò in seguito ai Maresgallo, ai Prototico e ai Gualtieri. Da questi ultimi infine, intorno al 1749, il barone Salzedo di Otranto comprò il feudo ormai disabitato.

La zona circostante la chiesa di Santa Maria di Stigliano è costellata da numerose masserie, disseminate, del resto, nell’intero territorio: Masseria Calavaggi, Masseria Torre Pinta, Masseria Culaozza, Masseria Ciomma, Masseria Mancinella. Presso quest’ultima troviamo le tajate ossia le cave da cui si estraeva la pietra tufacea per usi edilizi.

Santa Marina di Stigliano, dunque, rappresenta uno dei tanti luoghi presenti su tutto il territorio salentino. Semplici e misteriosi rappresentano quegli ancestrali luoghi di culto eretti quasi a celebrare un incontro con il Dio che è in ogni luogo ma che è soprattutto lì dove la natura, nel trionfo di bellezza e di dolcezza, apre l’anima all’incontro con il soprannaturale. A siffatte gioie spirituali l’anima è preparata dalla frequentazione delle bellezze insite nei luoghi che circondano le chiese rupestri: una campagna serena sotto un cielo che è l’immagine stessa del Paradiso, una distesa di terra immersa nel severo silenzio degli ulivi, dove di tanto in tanto sale dalle sommesse voci degli esseri viventi, animali o piante, il “cantico delle creature”.

 

Bibliografia di riferimento:

EMILIO BANDIERA – VINCENZO PELUSO, Guida di Carpignano e Serrano. Testimonianze del passato nella Grecia salentina, Mario Congedo Editore, collana “Guide verdi”, 2008.

CARLA CALÒ – SANDRO MONTINARO, L’uomo: tomoli di terra, pietre di memoria. Paesaggio agrario e società a Carpignano Salentino e a Martano nel ‘700, presentazione di Anna Trono [Biblioteca di Cultura Pugliese, serie seconda, 163], Martina Franca (Ta), Mario Congedo Editore, 2006.

EMILO BANDIERA, Carpigano Salentino. Centro, frazione, casali, Capone Editore, Cavallino 1980.

COSIMO DE GIORGI, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Mario Congedo Editore, Galatina 1975.

Le pennellate mistiche di Maria Lucia Alemanno

di Sandro Montinaro

«O Divino Maestro,

fervido artefice di tutto il creato

illumina lo sguardo del tuo servitore,

custodisci il suo cuore

reggi e governa la sua mano

affinché degnamente e con perfezione

possa rappresentare la Tua immagine

per la Gloria e la Bellezza della tua Santa Chiesa

Amen».

Anonimo, Preghiera dell’iconografo

 

Una piccola finestra, al centro di un muro bianco come la calce, mi introduce in un mondo di profonda pace, invisibile. In uno spazio piccolo e perfetto prende forma un cielo carico di azzurri, solcato di bianche striature che risaltano per il loro candido biancore; trasparenze che rimandano a ricordi nascosti, celate al pensiero e alla vista quotidiana.

“Salvatore tra le potenze” icona di M. L. Alemanno (ph. Frisenda)

Uno spazio etereo e irreale prende forma da uno sguardo, da un gesto, da un mattutino fascio di luce sublime, accecante e prezioso come l’oro.

Non è un sogno ma l’emozione che si prova nell’ammirare le icone di Maria Lucia Alemanno. è la tenera carezza che l’artista regala all’ignaro fruitore per mezzo del colore, attraverso le immagini, le storie, il rapimento estatico degli sguardi fra la Vergine e il Bambino, l’eleganza delle vesti, il caldo riflesso degli ori.

Maria Lucia Alemanno (Lecce, 12 Gennaio 1977) vive ed opera a Veglie (Lecce). È nel suo grazioso studiolo, a due passi dal borgo antico, che regna, facendo rivivere nella propria mano una dimensione magica, mistica e trascendente, un sapere pressoché perduto.

Nell’eterno abbraccio tra passato e presente la sua opera cerca di raffigurare il trascendente, la sacralità dell’immagine; tramanda e conserva la cultura di un popolo, di una terra e dell’anima, una cultura capace di infondere in noi la bellezza e la meraviglia.

Da sempre impegnata nel campo dell’arte, nel 1995 inizia l’attività artistica specializzandosi nella decorazione su tessuto. Attratta dall’iconografia bizantina, comincia il suo percorso di ricerca, studio e approfondimento spirituale con impegno e devozione, sostenuta da don Luigi Manca[1], con il quale approfondisce gli aspetti teologici, storici ed estetici dell’icona. Nel 2002 frequenta i corsi di iconografia tenuti dal maestro greco Kostantinos Xenopoulos, docente all’Accademia Ecclesiastica del Monte Athos, e nel 2003 quello tenuto ad Assisi dal maestro Giovanni Raffa.

Le icone realizzate dall’Alemanno non nascono nel suo laboratorio, bensì nella profondità del suo cuore, in quello spazio individuale, intimo e devoto, sconosciuto ai più.

Dal sapore trascendentale, le sue opere mistiche, con sapiente originalità e incessante sperimentazione, creano una continuità ideale con l’antica tradizione bizantina, nel rispetto delle tecniche di esecuzione e degli schemi formali e cromatici dei soggetti raffigurati.

Le icone – dal termine greco eikon = immagine – «sono la raffigurazione sacra delle chiese ortodosse bizantine ed anche dei cattolici che seguono la tradizione costantinopolitana»[2].

Gioielli di rara bellezza elevano le menti dalle cose terrene a quelle celesti. Intrise di profumi, colori e sensazioni atemporali,

“S. Michele Arcangelo” icona di M. L. Alemanno (ph. Frisenda)

rappresentano l’immagine dell’invisibile, l’espressione vera e palpabile del messaggio cristiano del Vangelo, lo splendore di Dio fatto uomo e racchiudono, nel linguaggio e nei canoni dettati dalla Chiesa, tutta la teologia cristiana[3].

La pittura delle icone non è soltanto una forma d’arte, ma un aiuto per avvicinarsi alla santità, per vivere la fede e per identificarsi con i soggetti dipinti: Cristo, la Vergine e i Santi[4].

Le figure sono raffigurate con un antinaturalismo che nella teologia delle icone rappresenta la dimensione spirituale dei misteri, degli eventi e dei personaggi sacri.

Nell’icona l’arte è secondaria, marginale: importante è Dio e il mistero di Dio; per comprenderla appieno è necessario tenere sempre presenti la dimensione storico-scientifica, la dimensione artistica e la dimensione teologico-spirituale.

La tecnica usata è quella antichissima dei monaci greci, che l’Alemanno segue alla lettera utilizzando materiali tradizionali di origine naturale: legno, gesso, colla di coniglio, terre colorate, oro zecchino. Come tutti gli iconografi scrive le icone, non le dipinge, presta le sue mani rispondendo a una vocazione, all’eterno mistero di Dio[5]. L’icona è una preghiera disegnata, dipinta; non è un quadro ma un luogo, un “tempio”, in cui il mistero rappresentato si fa presente in un perfetto equilibrio di lavoro e armonia.

«Dipingendo, l’iconografo parla. Imprime alla materia un significato, la trasforma in parola esplicita»[6]; per questa ragione le icone sono dipinte sul legno. Il processo del divenire immagine di Dio si rivela anche dalla scelta del supporto che, a differenza ad esempio della carta o della tela, non scompare sotto i colori e l’oro. Il legno della tavola – di solito noce o tiglio ma anche faggio, cedro, betulla, abete, quercia – deve essere compatto, senza nodi e ben stagionato. Per evitare che la tavola diventi concava viene dipinto il lato che era rivolto verso il centro dell’albero, sul quale come rinforzo sono sistemate, nel senso contrario all’andamento delle fibre, delle traverse in legno.

Alcune tavole inoltre presentano un incavo di alcuni millimetri, il kovceg, che simboleggia l’intimità della figura rappresentata con Dio.

Completa la preparazione della tavola la tela di lino, imbevuta di colla, che, oltre ad avere la funzione di rendere resistente la base, rimanda alla prima vera icona, quella del volto di Gesù impresso nel lino. Prima di iniziare il disegno, l’iconografo pronuncia con intensità una breve preghiera che, ancora oggi dopo secoli di tradizione, nella sua semplicità ha mantenuto intatto il fascino intimo della contemplazione, meditazione e fede profonda.

Dopo la preghiera e il disegno ha inizio la pittura vera e propria realizzata utilizzando la tempera all’uovo, un’antichissima tecnica usata a Bisanzio e poi diffusa in tutta l’Europa a partire dal XV secolo.

Infine, dopo aver steso e fatto asciugare i colori, si passa alla lumeggiatura, con la quale si crea il senso del volume e l’effetto di una luce interna che fuoriesce, e alla scrittura di sottili linee d’oro dette assist, per evidenziare le pieghe delle vesti[7].

Abbiamo visto come nella scrittura dell’icona nulla è dato al caso ma per risplendere pienamente nei secoli un’icona ha bisogno della benedizione. Solo con la benedizione abbiamo la trasformazione da semplice dipinto su tavola in sacramentale e può essere esposto alla venerazione dei fedeli.

Realizzate con estrema abilità pittorica, le icone dell’Alemanno sono dunque qualcosa di più di immagini devozionali. Sono opere al servizio di un messaggio, di una teologia della bellezza che diventa catechesi, prima per l’artista poi per i fedeli. Sono messaggi figurati che, oltre ad avere un posto ben preciso nel culto liturgico e nella devozione privata, rappresentano un mezzo efficace per elevare l’uomo a Dio, alla Madre di Dio e ai Santi.

Le opere dell’Alemanno, grazie alla profonda esperienza maturata nel suo pur acerbo percorso artistico, al talento eccellente e alla sua innata sensibilità nell’interpretazione delle arcane immagini sacre, mirano all’inafferrabile e accendono nei nostri cuori «un insopprimibile desiderio di pace e di luce»[8].

Anche se i soggetti sono diversi, tutte le icone sono ascrivibili all’immagine di Cristo, poiché raffigurano uomini che nella vita si sono conformati a Cristo divenendone Sue immagini.

L’operosità dell’Alemanno emerge nell’excursus visivo, nell’accurata selezione personale, particolare ed esemplificativa, che presenta in ogni sua esposizione.

Sempre uguali e sempre diverse, sono opere che ammaliano e accompagnano il visitatore in un evocativo percorso di ricerca: le giovani figure androgine alate degli Arcangeli Gabriele e Raffaele; il Cristo Pantocratore sovrano di tutte le cose; così come la commovente Crocifissione; la pacata figura della Madre di Dio Oliva Speciosa, essenza misericordiosa; l’immensa energia emanata dal Salvatore tra le potenze e dal Cristo in trono; la profonda spiritualità della Santissima Trinità.

Tra le numerose icone che l’Alemanno ha realizzato nel corso del suo cammino, una in particolare desta una sconfinata emozione: la Madre di Dio . Secondo la tradizione l’iconografia mariana trae origine dall’evangelista Luca che per primo rappresentò tre icone della Vergine Maria: Eleoúsa, Hodighìtria, Aghiosoritissa[9].

“Madre di Dio della tenerezza” icona di M. L. Alemanno (ph. Frisenda)

della Tenerezza

Il canone della Tenerezza sta appunto a indicare la rivelazione della Passione e Morte di Cristo. Si spiega così la dolce espressione di Maria che, assorta mentre si china verso Gesù, esprime un affetto profondo e di dolce intimità appena velato dal pensiero della futura passione. La Vergine Maria è effigiata come la Madre per eccellenza colta in un momento di preghiera. Sul suo viso si congiungono il celeste e l’umano. Il mistero della Vergine Maria è svelato dallo sguardo che non si posa sul Figlio, ma è rivolto lontano e nello stesso tempo in una visione interiore a contatto con il devoto che la invoca, al peccatore che chiede la sua benevola intercessione. Il Bambino, che abbraccia la Madre, è anche il Consolatore, il Salvatore che rivolge la sua misericordia verso ogni essere del creato. Le scritte di colore rosso leggibili sul fondo dorato vicino alle due Sante figure sono le iniziali dei loro nomi: Madre di Dio e Gesù Cristo.

Le vesti della Madre di Dio sono quelle canoniche: il manto blu, segno di umanità e maternità divina, con un delicato bordo oro. Tre stelle, sulla fronte e su ciascuna spalla della Madre, impreziosiscono il manto e rappresentano un antichissimo simbolo sia della Trinità che della verginità della Madonna prima, durante e dopo il parto. Sotto l’elegante maphorion si intravede la cuffia pieghettata che, utilizzata per trattenere i capelli, era tipica delle donne siriane sposate. L’oro del fondo, delle aureole e di alcuni particolari rivelano la santità della Madre e del Bambino, sostenuti sempre dalla presenza di Dio.

Frutto di orazione e contemplazione, ogni icona custodisce sensazioni e messaggi che ci accompagnano nell’ideale percorso di fede e ci permettono di evocare una dimensione universale del sacro viva e latente nel cuore del cuore di ognuno di noi.


[1]Don Luigi Manca è nato a Trepuzzi (Lecce) il 21 giugno 1950. Dal 25 ottobre 1973 è sacerdote della diocesi di Lecce. È stato arciprete parroco della parrocchia matrice “Santa Maria delle Grazie” di Campi Salentina (Le). Attualmente è direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce, docente di patrologia presso lo stesso Istituto e presso la Facoltà Teologica Pugliese. Fra i suoi interessi emergono le ricerche su Sant’Agostino, San Massimo il Confessore e, più recentemente, su San Girolamo.

[2] G. Gianfreda, Iconografia di Otranto tra Oriente e Occidente, Lecce 1994, 15.

[3] Cfr. K. Onash, Ikonen, Berlino 1961.

[4] Cfr. M. G. Muzj, Trasfigurazione. Introduzione alla contemplazione delle icone, Roma 1988.

[5] Cfr. E. Zolla (a cura di), P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano 1977.

[6] T. Spidlik, Teologia dell’iconografia mariana, in «La madre del Signore», 6 (1982), 246.

[7] Cfr. M. L. Alemanno, Nozioni di tecnica iconografica greco-bizantina, in D. Levante (a cura di), Sant’Antonio Abate e il fuoco della santità, Atti del Convegno di Studi (Novoli, 12-13 gennaio 2007), Novoli (Le) 2008, 107-116.

[8] L. Manca, L’icona: aspetto teologico-spirituale, in M. L. Alemanno – A. De Benedictis, Icone. Pennellate di luce, Novoli (Le) 2004.

[9] L’Eleoúsa, anche detta Madre di Dio della Tenerezza, è caratteristica per la tenerezza dei volti sia della Madonna che del Bambino; l’Hodighìtria è il tipo mariano più diffuso, è la classica madonna che con una mano tiene in braccio il bambino e con l’altra lo indica; infine, l’Aghiosoritissa dove la Madonna a mani giunte è girata di tre quarti.

A proposito dell’iconografia mariana attribuita a San Luca, cfr. M. Bacci, Il pennello dell’evangelista. Storia delle immagini sacre attribuite a San Luca, Pisa 1998.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

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