Nardò, il Pio Monte di San Biase e le tasse

di Armando Polito

Ogni tanto si leva una voce piuttosto isolata che pone il problema della necessità di sottoporre i beni immobili ecclesiastici posti al di fuori della Città del Vaticano alla variegata tassazione che angustia qualsiasi cittadino onesto contribuente, sia che possegga una stamberga, sia una villa hollywoodiana o possa disporre di un attico di 250 m2
I detrattori di papa Bergoglio lo accusano di dire solo banalità, contrapponendo la sua figura a quella del suo predecessore, quasi fosse un miserabile populista succeduto ad uno splendido leader. Quel che dice Bergoglio sarà pure un coacervo di cose banali, ma in questo mondo improntato alla superficialità ed all’abitudine vale forse la pena ribadire concetti ovvii riguardanti gli autentici valori persi di vista piuttosto che perdere tempo avventurandosi in sottili distinguo teologici che non coinvolgono certo il comune fedele (figurarsi chi tale non è …) e che ben pochi, comunque, capiscono o sono disposti a capire. Se poi alle parole seguissero i fatti, non è che io diventerei di colpo meno anticlericale di quanto non sia da tempo o altrettanto repentinamente rivedrei la mia posizione nei confronti delle religioni, tutte, nessuna esclusa: forse ingenue e pure solo nel momento della loro nascita, poi progressivamente strumento formidabile di potere che sfrutta la paura della morte, promettendo mirabilie paradisiache in una vita futura (forse non ci rimettono solo i gatti …) e facendo ben poco per lenire almeno una porzione di quella sofferenza infernale che coinvolge la maggior parte dell’umanità per colpa di una squallida minoranza di cui, con maggiore o minore responsabilità, faccio parte pure io.

E allora, se papa Francesco decidesse di fondere o di porre all’asta il Tesoro del Vaticano e di mettere il ricavato a disposizione dei Poveri della Terra, se con iniziativa propria si dichiarasse disponibile a trattare sull’esenzione fiscale di cui godono i beni ecclesiastici posti al di fuori dei confini della Città del Vaticano, mandando al diavolo, sia pur in parte, il Concordato a suo tempo stipulato con un tirannello, ma soprattutto la Convenzione finanziaria rimasta pressoché immutata nella revisione del 1984, se …
Indietro non si va (nonostante il fare un passo indietro sia diventato, sempre verbalmente, di moda) ma qualche volta sarebbe opportuno andare ancora più indietro. Per esempio: in esecuzione del Concordato del 1741 tra la S. Sede e la Corte di Napoli fu istituito il Tribunale misto, con componenti nominati da entrambe le corti, il quale aveva l’ufficio di ispezione su tutti i luoghi pii, laicali e misti. Aveva potere consultivo relativamente alle questioni che gli venivano sottoposte e potere amministrativo nella tutela degli interessi dei luoghi nominati. Le sue attribuzioni furono trasfuse dopo la sua abolizione nel Consiglio generale degli Ospizii. Durò fino al 1806.

Nel 1788 vennero pubblicati degli opuscoletti ognuno dei quali conteneva per ogni territorio un indice dei luoghi, cui seguiva una nota dettagliata del tributo dovuto da ciascuna istituzione ivi esistente. Di seguito il frontespizio dell’opuscolo che ci interessa da vicino (scaricabile integralmente da https://books.google.it/books?id=SVrYWJAfogYC&pg=PP1&lpg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&source=bl&ots=BLKisPxh1O&sig=WylhpBoQTjipjMe88nVlGiW6meA&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjw9Iu9z5_OAhUBFxQKHQ7EAHQQ6AEIMjAF#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false).1

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È interessante notare anzitutto la dicitura Provincia di Lecce in un opuscolo che include anche i centri della provincia di Brindisi e di quella di Taranto, per cui, a tutti gli effetti, qui (si tratta di un documento ufficiale) Provincia di Lecce sostituisce la vecchia dicitura Provincia di Terra d’Otranto. Manca in ciascun opuscolo della serie il nome dell’editore e quello del luogo di edizione e il fregio visibile in basso allude alla volontà del re ma non ci dà la certezza che gli opuscoli uscirono dalla Stamperia Reale di Napoli. Avrebbe richiesto troppo spazio riprodurre i dati relativi ad ogni luogo (sono 181), per cui riporterò solo quelli strettamente necessari.

Il tributo totale ammonta a 1216 ducati ed è così ripartito:provincia di Lecce ducati 811,50; provincia di Brindisi ducati 139,50; provincia di Taranto ducati 267.

Come si vede, la contribuzione dei centri della provincia di Lecce surclassa quella delle altre due (ed è certamente un sintomo di maggiore vivacità economica)  e nel suo ambito spiccano, dopo il capoluogo che deve versare 27 ducati, Nardò che ne deve versare 25. Ma, come in un gioco di scatole cinesi, qual è l’istituzione neretina che compare come il maggior contribuente? Vale la pena questa volta sfruttare più spazio e riporto, perciò, la scheda completa.

Su un totale di 25 ducati da corrispondere da parte di 8 istituzioni ben 15 sono a carico del Monte di San Biase. Quanto ad Opere di Misture credo che siano quelle che rientrano tanto nell’ambito laico quanto in quello religioso. Il lettore che lo vorrà troverà una breve ma documentata ed esauriente trattazione dell’amara storia connessa con questa istituzione in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/20/la-nobilissima-famiglia-sambiasi-e-lingente-lascito-perpetuo-a-favore-dei-cittadini-di-nardo/.
Comunque siano andate le cose, vi pare azzardato da parte di qualcuno che volesse scriverne una versione più romanzata di quanto non sia stata la rocambolesca realtà, adottare il titolo La triste fine di un istituto benefattore nonché contribuente?
Un’ultima nota: tutti i monti di pietà citati nell’opuscolo sono sottoposti ad un tributo di ducati 1,50, fatta eccezione per questo di Nardò e del Monte sotto il titolo della Pietà dei poveri di Taranto, assoggettato al pagamento di ducati 57.
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1 Per chi, salentino o no, fosse interessato agli altri territori:

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Matera … (https://books.google.it/books?id=rm0y6dmU8UQC&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiAm8W94p_OAhVFaxQKHX2aDrMQ6AEIHjAA#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Capitanata … (https://books.google.it/books?id=oWKx7lSubDQC&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIJTAB#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)
Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Principato citra …
(https://books.google.it/books?id=E-l-zyyrjJsC&pg=PA44&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIQTAH#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Principato ultra … (https://books.google.it/books?id=wPjG9o_0yD0C&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIKjAC#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia dell’Aquila … (https://books.google.it/books?id=Dk58umAR3a4C&pg=PP1&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEINDAE#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)
Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Chieti … (https://books.google.it/books?id=4QNsMynqt0sC&pg=PA11&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIODAF#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Napoli …
(https://books.google.it/books?id=ONK9K9Cqc-AC&pg=PA2&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIPTAG#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Teramo… (https://books.google.it/books?id=UqnosfqChfwC&pg=PA7&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEIRjAI#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Cosenza …
(https://books.google.it/books?id=QSB_Vqw8ELEC&pg=PA16&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiP6Piv3J_OAhWBPxQKHWzJCskQ6AEITDAJ#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Contado di Molise … (https://books.google.it/books?id=KytEfkRmQZ4C&pg=PA2&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiusqmi5Z_OAhWE8RQKHe4PAtg4ChDoAQgbMAA#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)
Nota de’ luoghi pii laicali, e misti della provincia di Terra di lavoro …
(https://books.google.it/books?id=INbuAQlD2CkC&pg=PA9&dq=Nota+de%27+luoghi+pii+laicali&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiusqmi5Z_OAhWE8RQKHe4PAtg4ChDoAQggMAE#v=onepage&q=Nota%20de’%20luoghi%20pii%20laicali&f=false)

3 febbraio. San Biagio, martire armeno, e il suo culto a Nardò e in Puglia

particolare della statua di san Biagio conservata nella chiesa di Santa Teresa a Nardò

 

di Marcello Gaballo

Ancora un santo armeno nella città di Nardò. Dopo il culto e il protettorato di san Gregorio l’Illuminatore, che si festeggerà il 20 febbraio, i neritini festeggiano oggi il santo medico e vescovo vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia (Asia Minore), con la tradizionale benedizione della gola nella chiesa di Santa Teresa da pochi giorni rimessa a nuovo. I sacerdoti infatti per tutta la giornata di oggi benedicono le gole dei fedeli, e dei bambini in particolare, accostando ad esse due candele, recitando: “Per intercessione di San Biagio, Vescovo e Martire, Dio ti liberi dal mal di gola e da ogni altro male. Nel nome del Padre e del Figlio + e dello Spirito Santo. Amen”.

Vetrata con S. Biagio a La Godivelle

Tra i quattordici santi ausiliatori, patrono degli otorinolaringoiatri, i fedeli si rivolgono al santo, che in vita fu medico, per la cura dei mali fisici e particolarmente per la guarigione dalle malattie della gola[1].

Il  martirio di san Biagio, avvenuto intorno al 316, è da ricollegare al rifiuto di abiurare la fede cristiana. La leggenda riporta che fu decapitato, dopo essere stato a lungo torturato con pettini di ferro che gli straziarono le carni. Lo strumento del martirio fu preso a simbolo del santo e poiché simile a quelli utilizzati dai cardatori di lana e dai tessitori, ecco che queste categorie lo vollero designare quale loro protettore.

Tra i diversi miracoli attribuiti il salvataggio di un bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce.

Il corpo del santo fu sepolto nella cattedrale di Sebaste. Nel 732 una parte dei suoi resti mortali furono imbarcati, per essere portati a Roma. Una tempesta bloccò il viaggio a Maratea (Potenza), dove i fedeli accolsero le reliquie, eleggendolo a protettore e conservandone i resti nella basilica sul monte San Biagio. Qui si conserva parte del torace, mentre a Carosino (Taranto), è custodito un pezzo della lingua, conservato in un’ampolla incastonata in una croce d’oro. A Ostuni si conserva un osso, venerato e posto sulla gola di ogni fedele che oggi si reca in pellegrinaggio al santuario dedicato al santo. Nella cattedrale di Ruvo di Puglia si venera una reliquia del braccio del Santo, esposta entro un reliquiario a forma di braccio benedicente, portato in processione dal Vescovo e esposto alla venerazione dopo la messa di oggi  in cattedrale.

san biagioIn provincia di Lecce, oltre al culto riservato a Nardò, è nota la devozione degli abitanti di Salve, nel cui territorio ricade la masseria e la cappella di Santu Lasi, termine dialettale con cui si designa il nostro santo. E’ del 1716 la chiesetta, riedificata sui resti di una costruzione altomedievale che ospita una coeva statua del santo. Nella masseria poco distante lo scorso anno si tenne una interessante mostra dal titolo “Santu Lasi / San Biagio: un santo, una cappella, una masseria” e si tenne la benedizione e la distribuzione dei pani di S. Biagio (provenienti da Ruvo e da Sant’Agata di Puglia, centri nei quali il san Biagio è patrono)[2].

Il motivo dell’antico patrocinio a Nardò non è da ricollegare, a mio parere, alla protezione per banali raffreddori o comuni tonsilliti, quanto per la grave malattia infettiva della difterite[3], di cui sono accertate epidemie nel XVII secolo in città, che procurarono non pochi lutti, specie tra i più piccoli, che morivano per l’asfissia determinata dalle “scrascie a ncanna” (rovi in gola)[4].

Ma ancora un motivo giustifica la particolare devozione dei neritini al santo, ricollegabile alla antichissima e nobile famiglia dei Sambiasi, il cui nome, fino al XVII secolo, era Sancto Blasio, per l’appunto San Biagio. Credo sia stata questa famiglia ad introdurne il culto, anche perché un ramo viveva accanto alla chiesa in cui tuttora si festeggia il santo armeno.

Hans Memling, S. Biagio, 1491, Sankt-Annen-Museum, Lubecca

Altri motivi mi portano a considerare veritiera l’ipotesi, dato che la stessa famiglia edificò ben due chiese in città dedicate al santo. La prima fu fatta costruire nel 1623 dal barone Giuseppe Sambiasi, nelle  vicinanze dell’antica chiesa di S. Nicola del Canneto, poi di S. Lorenzo, tra l’abitazione di Cesare Sambiasi da tre lati e la pubblica via dall’altro.

Figlio di Alessio Sambiasi, Cesare la istituì con atto notarile del 10 aprile, ad laudem et gloria di S. Biagio, sulla via pubblica in qua habet exitus ecclesia predicta, dotandola di 48 ducati di annuo censo. Nella visita pastorale del vicario Granafei (1637) il patronato era del sacerdote  Bernardino Sambiasi, figlio del fondatore. Nella visita del Sanfelice (1723) risultava cappellano Giuseppe Sambiasi ed il sacellum era posto iuxta domos M(agnifi)ci D(omi)ni Fabritio Sambiasi; in quella del Petruccelli (1764) il cappellano era Alessio di Guglielmo Sambiasi.

Il 9 novembre 1756 il barone Nicola Sambiasi vi fondò un beneficio omonimo di jus patronatus laicorum, col peso di sette Messe l’anno in perpetuo a beneficio della sua anima, per 160 ducati. Primo rettore e cappellano fu Vincenzo d’Elia, poi suo fratello Emanuele, apparentati entrambi col fondatore. Nel 1761 la chiesa era del barone di Melignano Giuseppe di Guglielmo Sambiasi, alle cui case era attaccata. Giuseppe nel suo testamento dispose che in essa in ogni domenica, quanto in ogn’altro giorno festivo dell’ anno, dovessero celebrare e far celebrare una Messa colla solita elemosina di un carlino, e ciò voglio che si osservi durante mundo ed in perpetuum e dette Messe le dovessero dire delle Messe del legato del barone Ruggiero Sambiasi

Della chiesa, aperta al culto fino alla metà del secolo XIX, ubicata sull’attuale via De Pandi, oggi non restano che i muri laterali e parte assai ridotta della volta. I fregi e i decori in pietra leccese sopravvissuti documentano quanto fosse graziosa e artisticamente valida.

L’altra chiesetta, comunemente detta di S. Biagio in Via Lata per distinguerla dalla precedente, fu edificata dalla medesima famiglia verso il 1700, nel vicolo omonimo di via Lata, dove risiedeva un altro ramo dei Sambiasi. Di media grandezza, con un solo altare, aveva un grazioso prospetto, reso tale da interessanti fregi e decori sulla porta, che fanno supporre una preesistente dimora cinquecentesca riadattata a sacro luogo. Non era dotata di beneficio ed il cappellano fu sempre della famiglia Sambiasi, cui spettava il diritto di patronato. Anche questa fu aperta al culto fino alla metà del XIX secolo, per essere poi adibita ad usi profani, quindi a civica abitazione. 

 
 
 
 
 

Due preziose testimonianze iconografiche su San Biagio a Nardò

La più celebre raffigurazione del nostro santo è certamente quella di Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, con le famose “braghe” di Daniele da Volterra e gli strumenti del martirio; molto bello anche il noto ritratto del Tiepolo, in cui appare come santo vescovo.

Michelangelo, S. Biagio nel Giudizio Universale
Giovan Battista Tiepolo, San Biagio

 

Pur se non frequentissima, l’iconografia a volte lo ritrae come santo guaritore e intercessore, altre ancora nel momento del martirio, più spesso come vescovo, con mitra, pastorale e libro, a mezzo busto o a figura intera.

Ecco che allora gli attributi variano, associandogli ora il pettine di ferro con cui fu torturato, talvolta con la palma del martirio, più spesso con uno o due ceri incrociati, in ricordo del miracolo della guarigione del bambino.
A Nardò ho trovato due belle raffigurazioni del santo armeno, entrambe in cartapesta policroma. Una certamente proviene da abitazione privata, anche se attualmente custodita nella chiesa di S. Giuseppe, forse donata dal proprietario; l’altra è oggetto di venerazione da parte dei fedeli nella chiesa di S. Teresa ed è stata portata in processione il 2 febbraio.

Il gruppo scultoreo, sotto campana di vetro, secondo la tradizione popolare salentina di fine Ottocento, poggia su una base ottagonale di legno dorato, con il margine modanato, poggiante su otto piedini “a cipollina”. Del tutto originale, forse unica, è la campana ellittica in vetro soffiato, terminante a cupola che protegge il manufatto.

Del piccolo capolavoro ne scrissi già nel 1998, in occasione della mostra “Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana”, organizzata dalla parrocchia del Sacro Cuore in Nardò, in occasione della quale fu stampato un succinto catalogo delle opere esposte, introdotto da Mons. Vittorio Fusco[5].

La composizione raffigura il santo in piedi, leggermente proteso verso la donna che, inginocchiata, offre al suo cospetto il figlioletto moribondo. Con la mano destra sollevata impartisce la benedizione, mentre  la sinistra, a ricordo del celebre miracolo, è posta vicino alla bocca dell’infante, evidentemente bloccando il tragico percorso della lisca di pesce conficcata in gola.

Il santo è raffigurato in età avanzata, calvo sulla sommità del capo, con barba grigia fluente che ricade in morbidi riccioli, aureolato. Veste un’ampia tunica azzurra, fermata in vita da un cingolo, con risvolti dorati e bordature rosse, come i numerosi bottoncini. Ai suoi piedi, sul terreno, è posta la mitra dalle fini decorazioni arabescate.

Molto accurato anche il panneggio delle vesti della donna, che indossa una tunica marrone ed un corto mantello azzurro.

La fine esecuzione dei lineamenti e le intense espressioni dei volti, oltre l’estrema accuratezza nell’esecuzione del restante, ne fanno un pezzo di gran pregio, opera di uno dei più validi cartapestai leccesi. La mancanza di firma e data rendono impossibile l’attribuzione.


Di grandezza naturale è invece l’altra eccellente  cartapesta policroma conservata nella settecentesca chiesa di S. Teresa, sempre a Nardò, un tempo annessa al monastero delle carmelitane, in una nicchia addossata a lato del presbiterio. Un’iscrizione sul basamento documenta che fu realizzata a spese dei fedeli neritini (Neritonensium pietas) nell’anno 1888.

Il santo, a figura intera, caratterizzato dalla folta barba grigia, indossa i paramenti vescovili orientali, con la caratteristica mitra sormontata dalla croce, il pastorale dalle estremità ricurve verso l’alto, il classico omoforion o lunga sciarpa ornata di croci.

La mano destra rivolta in alto e l’espressione estasiata del bambino indicano che il miracolo è già avvenuto e il santo, pur continuando a fissare il piccolo, sembra congedarsi, dopo aver ringraziato il Padre per l’evento miracoloso appena compiuto.

L’ampia casula rossa non camuffa le giuste proporzioni corporee e, nonostante il rigido drappeggio, si contrappone molto bene con l’appiombo del camice, per i cui bordi sono state riutilizzate parti di indumento indossato da qualche prelato di alto rango, vista la ricchezza del decoro a motivi eucaristici e la finezza dell’intaglio.

parte inferiore della statua (la parte riutilizzata di un vecchio camice è stata applicata al contrario)

 

La resa plastica, i particolari assai curati e i tratti somatici delle due figure, ma anche l’equilibrio fra le parti e la posa ieratica del santo, portano a considerare anche quest’opera tra le migliori dei più bravi cartapestai leccesi.

La data sul basamento potrebbe rimandare ai validissimi Antonio Maccagnani (1807-1892) o al più giovane Achille De Lucrezi (1827-1913), ma lasciamo agli esperti un’auspicabile attribuzione, trovandoci di fronte ad una delle più raffinate opere in cartapesta presenti in città, ancora a torto considerate “arte minore”.

San-Biagio, immaginetta devozionale C.Poellath, cromolitografia Bayern, fine secolo XIX
San-Biagio, immaginetta devozionale C.Poellath, cromolitografia Bayern, fine secolo XIX

 

[1] dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – I. Avvento – Natale – Quaresima – Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 784-785.

[2] http://www.salentoproloco.com/forum/viewtopic.php?f=26&t=71.

[3] La difterite è una causata dall’azione di una tossina (tossina difterica) prodotta da batteri che si trasmettono per via aerea. Solitamente la difterite inizia con mal di gola, febbre moderata, tumefazione del collo.
Molto spesso i batteri della difterite si moltiplicano nella gola (faringe) dove si viene a formare una membrana di colore grigiastro che può soffocare la persona colpita dalla malattia. A volte queste membrane si possono formare anche nel naso, sulla pelle o in altre parti del corpo.
La tossina difterica, diffondendosi tramite la circolazione sanguigna, può causare paralisi muscolari, lesioni a carico del muscolo cardiaco con insufficienza cardiaca, lesioni renali, fino a provocare la morte della persona colpita.

[4] In Italia, prima dell’avvento della vaccinazione di massa (al termine della seconda guerra mondiale) si registravano annualmente alcune decine di migliaia di casi di difterite con più di mille morti ogni anno.
I casi di malattia si sono ridotti, fino a scomparire quasi del tutto alla fine degli anni ’70, dopo che la vaccinazione antidifterica è stata praticata in forma estensiva in associazione con quella antitetanica (http://www.levaccinazioni.it/informagente/Vaccinazioni/difterite.htm.).

[5] Famulos tuos… Immagini della pietas popolare: Madonne e Santi sotto campana, a cura di M. Gaballo, Tipografia Bonuso – Nardò, pp.90, fuori commercio.

Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”

di Marcello Gaballo

Uno dei più bei complessi masserizi dell’agro di Copertino è la masseria comunemente nota come “la Torre”, sulla strada Nardò-Copertino, a poche centinaia di metri da quest’ultima, raggiungibile mediante più tratturi. Posta al centro di un territorio coltivato ad uliveto di antico impianto, confina a nord con la masseria Li Tumi, a ovest con proprietà Licastro, a sud con la ferrovia, ad est con altra proprietà Licastro.

La singolarità e la peculiarità della sua forma, pur nella varietà delle tipologie masserizie della Puglia, è data nel nostro caso dall’imponenza del torrione, che rinvia al mastio e alle torri angolari del cinquecentesco castello copertinese e particolarmente allo stile delle torri costiere a pianta quadrata della “serie di Nardò”. Se queste ultime avevano prevalentemente funzione di avvistamento, la nostra masseria possiede più i connotati di una residenza signorile, fortificata per la difesa patrimoniale del bestiame, dei prodotti agricoli e delle suppellettili. Attorno ad essa si sono man mano aggiunti, e sino a pochi decenni addietro, locali di lavoro e di deposito, inevitabile segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, che hanno alterato la struttura originaria, che tuttavia non ha risentito delle grandi trasformazioni agrarie tra Otto e Novecento.

Una prima testimonianza architettonica della masseria, anch’essa singolare ma più tarda, è a meno di 200 metri. Si tratta di una vera e propria dimora in tufi, aperta su tutti i quattro lati, con due archi laterali per parte ed uno, più alto, avanti e dietro. Al centro ospita il pozzo, il cui boccale è delimitato da blocchi di pietra piuttosto voluminosi.

Il prospetto della masseria è rivolto a mezzogiorno, verso Copertino, e su di esso spiccano l’unica caditoia, localizzata al centro della facciata, a sbalzo su mensoloni lobati, in corrispondenza dell’ingresso originario (ancora raggiungibile con scala in muratura), il cordolo marcapiano, la cornice a beccatelli, la base quadrata con leggera scarpa, che ricordano ancora i tempi in cui i pirati degli stati barbareschi rendevano insicure le nostre terre.

Evidente come essa sia stata concepita quale difesa passiva, vista la possente muratura, e come difesa piombante, basata sul lancio dalla terrazza di pietre o liquidi contro gli assalitori. Sulla restante cortina muraria, anche questa in blocchi squadrati di pietra locale a faccia vista e di buona fattura, nel corso dei secoli sono state arbitrariamente aperte diverse finestre, più grandi a pianterreno, ed un secondo ingresso, resosi necessario per essersi in essa stabilito un ulteriore proprietario. Tale divisione ha comportato anche all’interno della struttura molte variazioni architettoniche, certamente utili e funzionali per l’attività lavorativa, purtroppo deturpanti nella maggior parte dei casi, come è dato dal voluminoso corpo aggiunto adibito a forno.

Dell’impianto originario interno, anche questo caratterizzato da una architettura essenziale e priva di ogni ornamento, sopravvive il collegamento tra i locali superiori e gli inferiori, un tempo consentito dalla rimovibile scala in cordame. Il recinto, ottenuto con antichissime pietre pazientemente incastrate “a secco”, delimita l’ampio cortile col suo frantoio ipogeo, stalle e granai, cui si sono aggiunti nel corso dei secoli locali voltati usati ad abitazione e depositi, immaginando di aver potuto ospitare almeno trenta-quaranta persone. La distanza dalla strada carrozzabile, ma non dalla ferrovia che passa vicinissima, ha permesso all’ambiente circostante di conservarsi nella sua fisionomia e ancora oggi agli uliveti si alterna l’incolto, dove un tempo erano prevalenti la coltura granaria e l’allevamento del bestiame.

L’antichissimo feudo in cui il complesso è ubicato è quello denominato Cambrò o Specchia dei Normanni, compreso tra quelli di Castro, Puggiano, S. Barbara e Mollone, che nel 1316 possedeva Nicola de Buggiaco, per eredità del padre Roberto . Nel corso dei secoli la distinzione tra il feudo e la masseria fu sempre meno netta, tanto che nei documenti spesso veniva citato l’uno per l’altro, perché coincidevano i proprietari: nel 1550 i terreni e l’abitato sono del barone Carlo Balsamo e nel 1564 è detta la “masseria del defunto Antonio Bove” . Nel 1567 il nome è variato, ritrovandosi come “la massaria de li Troyali”, derivata dal nome del nuovo proprietario di Copertino, Giorgio Troyali alias Arenito , che nel 1570 l’ha ceduta, con l’annessa chiesa di S. Martino, al concittadino Organtino Verdesca, da cui ad Angelo Lombardo nello stesso anno.

Il feudo invece nel 1568 appartiene al nobile Lucantonio Sambiasi di Copertino che vende, per poi ricomprare nel 1583, diversi appezzamenti di terreno al barone neritino e suo congiunto Lupantonio Sambiasi per 1300 ducati . L’omonimia fu ancor più evidente negli ultimi anni del secolo XVI e nei primi del successivo quando del feudo non si fa più menzione negli atti notarili, né tantomeno nei secenteschi Cedolari di Terra d’Otranto, forse perchè integrato col confinante feudo di Castro, che detenevano i baroni Personè.

Intanto la masseria ha cambiato denominazione per la nuova proprietà passata ai nobili Lombardi e infatti nel 1577 è dei fratelli Cesare e Giacomo Lombardi, figli di Angelo. Gli stessi vendono, a beneficio dello spagnolo Giovanni de Sisegna, alla ragione del 10% per un capitale di 200 ducati, un vigneto di 10 orte ed un uliveto con casa lamiata, pila e palmento, in loco vulgariter dicto la massaria dè Lombardi, con atto del notaio Russo Antonio di Copertino del 6/5/1577. Successivamente i fratelli vendono gli stessi beni al neritino Alessio Sambiasi, il quale si impegna a versare i predetti 200 ducati al Sisegna . A distanza di una ventina d’anni la fortuna dei due fratelli dovette man mano scemare, visto che si registrano diversi loro atti di vendita dei beni ubicati nel feudo: nel 1581 vendono un uliveto di 300 alberi al monastero di S. Chiara di Copertino per 100 ducati ; diversi appezzamenti li vendono nel 1592 al barone Cesare Sambiasi di Nardò, figlio del predetto Lupantonio.

In altro atto del notaio neritino Fontò del 1588 il predetto Cesare figura signore del feudo “Specle de Normandia” e forse anche della nostra masseria, visto che da cinque anni continua ad acquisire altri appezzamenti circostanti per accorparli in una più efficiente unità poderale; alcuni dei terreni li acquista ancora da Giorgio e Domenico Troyalo , altri da Giovan Battista Imbeni e suo figlio Guglielmo . Notevoli dovettero essere i capitali investiti dal barone in questa proprietà, che nel 1598 continua ad acquisire gli ultimi appezzamenti rimasti in altrui possesso: nel 1598 Cesare Lombardi gli cede i terreni in loco la Carcara, confinanti coi beni di Cesare Imbeni e le terre dotali di Francesco Lubelli , e Giacomo Liuzzi un oliveto con 800 alberi. Questi sono gli anni in cui si affermava progressivamente il sistema di masserie in tutta la Terra d’Otranto e così cospicua proprietà, come per molte altre del territorio, da una lato assicurava la regolarità dei rifornimenti alimentari, dall’altro rappresentava una eloquente testimonianza del benessere e del comprovato status delle famiglie più ricche della provincia, tra cui anche i Sambiasi.

Numerosi atti notarili di questo decennio documentano il fitto scambio di derrate alimentari e, particolarmente, l’esportazione via mare del commerciabile e prezioso olio dall’opulenta terra salentina in ogni parte del Regno di Napoli.

Dopo un intricato sistema di vendite e ricompra dei terreni circostanti, finalmente nel 1613 la nostra masseria, chiusa di pariti di pietre, in loco Specchia Lombardia, feudo Castri, risulta di Giuseppe Sambiasi, figlio di Alessio, a sua volta erede del predetto Cesare. Tra gli altri beni essa comprende un curaturo lini, uno palmento et pilaccio dentro, puzzo seu cisterna e curtali, e numerosi appezzamenti con terre scapole, dei quali uno con arbori di olive 1000 incirca, et altri arbori communi venduto ai Sambiasi da Cesare Lombardi e dai suoi figli Angelo e Lucio per la considerevole somma di 1950 ducati.

La torre-masseria risulta finalmente realizzata nel 1625, quando, in altro rogito, il complesso viene descritto tra le proprietà del chierico Giuseppe Sambiasi, titolare anche del feudo Specle de Normandia, e consiste in terriis factitiis et machosis, olivetis, turri, capannis et ovilibus et aliis membris suis . Lo esplicita un altro atto dell’anno seguente, quando è comproprietario Bernardino, fratello del predetto chierico: vi è la torre, detta li Lombardi, ubicata nel feudo inhabitato vulg. nuncupato Specchia di Anormandia, vicina ad altri beni di Giuseppe .

L’ingente investimento da parte del facoltoso Alessio Sambiasi fu senz’altro dovuto alla disponibilità pecuniaria pervenutagli dalla dote della seconda moglie, la galatonese Vittoria de Ferraris, che gli aveva procurato ben 3200 ducati, che si aggiungevano ai beni di famiglia e a quelli ottenuti dalle prime nozze con Isabella, figlia del barone neritino De Pantaleonibus. Visto che la ratifica del secondo matrimonio avvenne nel 1618, è da pensare che la costruzione della torre possa essere iniziata dopo il 1618, per essere ultimata nel 1625. Certo è difficile sapere se si trattasse di un ampliamento ed innalzamento della domus lamiata del 1603, a sua volta magari costruita su un’antichissima sopraelevazione del suolo che dava il nome al feudo.

Si può anche ipotizzare che a metterla su furono gli Spalletta, mastro Angelo o più probabilmente suo figlio Vincenzo, che qualche anno prima aveva ultimato la costruzione della torre costiera del Fiume, oggi nota come Quattro Colonne, e che in più occasioni aveva lavorato per i Sambiasi di Nardò. Vincenzo, come il padre, era partitario Regie fabrice nuncupata de Fiume e nel 1609 riceve per quest’opera un ulteriore acconto o saldo definitivo dal cassiere dell’università neritina Donato Antonio Massa.

I proprietari della masseria però dovettero avere qualche problema finanziario e a causa di censi non pagati il complesso viene venduto all’asta e liberato da Melchiorre de Filippo di Racale, con atto del not. Palemonio del 9/10/1636. Da Melchiorre viene donata al fratello chierico Antonio, ma il pieno suo possesso risulta bloccato dalla Curia Vescovile di Nardò, in quanto la masseria era stata già venduta su istanza del monastero dell’Annunziata di Copertino che doveva esigere i predetti censi.

Rimessa all’asta la masseria viene acquistata da Bartolomeo de Magistris di Gallipoli, ma residente a Copertino, per 260 ducati, con atto not. Giacomo Panarello di Lecce del 1/8/1636. Il de Magistris la cede al citato monastero con istrumento del notaio copertinese Pietro Fulino del 3/12/1637.

Nel 1662 comunque conserva la dizione di massaria de’ Lombardi e si trova in Specchia di Normandia , di cui è feudatario il gallipolino Diego Sansonetti . Il figlio di Alessio Sambiasi, Giuseppe, nel frattempo ha saldato la quota restante dei 200 ducati dovuti a Giovanni Sisegna da suo padre nelle mani di Maddalena, per conto di sua sorella Isabella Isalas, a sua volta rappresentata dal procuratore Pietro Alvarez, hispano .

Per quasi un altro secolo la masseria passa da padre in figlio tra i Sambiasi, per ritrovarla proprietà del leccese Francesco Maremonti, come si evince dal Catasto Onciario di Copertino del 1746, cui è pervenuta per dote della moglie Maddalena Sambiasi, una degli ultimi rampolli del facoltoso ramo copertinese, figlia di Tommaso e Maria Sambiasi, eredi di Vitantonio. Il Maremonti dovette poi vendere il complesso ai baroni Personè, già titolari dei vicini feudi di Castro e Ogliastro, dei quali Giuseppe possiede la masseria “la Torre” nel 1774 .

Dai Personè probabilmente fu venduta per una parte ai Licastro di S. Cesario di Lecce, in persona di Francesco (deceduto a S. Cesario il 29/12/1937), possessore anche delle vicine masserie Cambrò e Marulli, che la cede al figlio Raffaele, da cui ai figli Roberto e Giovan Francesco Licastro-Scardino, residenti in Lecce. Questi, con atto per not. Astuto di Lecce del 3/4/1970 la vendono ai coniugi Giovanni Mele e Lucia Marinaci di Copertino, da cui al figlio Salvatore che la possiede tuttora. Tale quota è al foglio 51, part. 45, ha superficie abitativa di 350 mq. ed un terreno circostante di 55.000 mq. di cui 10.000 piantumati con ulivi e 45.000 di seminativo e alberi da frutto La restante parte, di ettari 38, are 19 e centiare 24, era di Luigi Vaglio, che la trasmise ai figli Teresa e Giuseppe. I figli di quest’ultimo, che avevano avuto anche la parte degli zii Teresa, Bartolo, Felicetta, Pasquale, Maria e Giuseppina, nel 1964 vendono la parte alla “Cassa per la Formazione della Piccola Proprietà” , che successivamente viene acquistata da Rolli, dei quali oggi Giuseppe possiede la restante parte.

Nonostante la bellezza e la vetustà del complesso, purtroppo si constata il lento dissolversi del modello originale e molti punti stanno miseramente franando per mancanza di manutenzione. Per svariati motivi il suo sistema produttivo non è più proponibile e spontaneamente nasce l’idea di una sua utilizzazione a fini turistici, sempre che le vertenze giudiziarie trovino presto risoluzione.

Sarebbe un altro esempio della civiltà contadina salentina che troverebbe giusto recupero, come timidamente si osserva in qualche altro sito della opulenta e bella provincia, che fatica a trovare il suo rilancio sul mercato internazionale del turismo, dimostrandosi incapace di valorizzare le sue risorse e, come in questo caso, il suo caratteristico paesaggio, che la benefica natura ha voluto favorire colmandola dei doni di Bacco, Cerere e Minerva.

La nobilissima famiglia Sambiasi e l’ingente lascito perpetuo a favore dei cittadini di Nardò

 

di Marcello Gaballo 

La stirpe dei Sambiasi, attestata come Sancto Blasio sin dal sec. XIII, fu tra le più antiche, nobili e benemerite di Nardò. Eccelse per la costruzione di chiese, la fondazione di benefici ecclesiastici, opere pie e caritative, tra cui spicca quella di Pippa Sambiasi, che il 4 ottobre 1433 donò alla chiesa di Nardò i grandi feudi di Fango e Paduli.

Gli ultimi rappresentanti vissero in città fino alla metà del secolo XVIII, per poi estinguersi, sopravvivendo il ramo leccese.

Utile, ai fini di questa occasione che vorrebbe la soppressione dell’ospedale neritino, soffermarsi sulle volontà testamentarie di due fratelli, Fabrizio e Giuseppe Oronzo, dei quali il primo coniugato con la nobile Glorizia de Prezzo ed il secondo chierico.

Il 6 maggio 1741, dopo mature considerazioni, i tre benemeriti testarono di fronte al notaio Nicola Bona di Nardò, lasciando precise disposizioni da rendersi pubbliche dopo la morte  del primo di essi. Nel 1742 e nel 1743 morirono Fabrizio e sua moglie, restando Giuseppe Oronzo, che pur avendo soddisfatto le parti essenziali del testamento, il 12 maggio 1744 lo fece aprire dal notaio Felice Massa. Vi si nominava erede universale il vescovo pro tempore di Nardò che, fatto redigere da un notaio l’inventario di tutti i

Nardò. Il tesoro scomparso della nobile famiglia Sambiasi

 

di Giuseppe Tarantino

Il tesoro scomparso della nobile famiglia Sambiasi: un patrimonio di milioni di euro che potrebbe aver giocato un ruolo determinante nelle decisioni assunte riguardo il futuro dell’ospedale di Nardò.

Nella conferenza pubblica “La morte annunciata dell’ospedale di Nardò”, organizzata dal Comitato civico “Spes Civium” in difesa del “San Giuseppe – Sambiasi” , che si è tenuta nei giorni scorsi nel Chiostro di Sant’Antonio, si tirano fuori carte e documenti notarili e nasce il “giallo”: che fine ha fatto il “tesoro” che avrebbe salvato l’ospedale di Nardò?

Antiche carte conservate nell’archivio storico del Comune e dell’Ospedale civico, vengono alla luce grazie all’analisi storica condotta da Marcello Gaballo, medico e storico locale, il quale nel corso del convegno rivela l’esistenza di un vero e proprio “mistero” sulle sorti dell’ingente “lascito perpetuo” che la nobile famiglia neritina dei Sambiasi donò, nel 1741, ad un “Pio Monte” con il preciso scopo di finanziare lo sviluppo dell’Ospedale di Nardò.

Un patrimonio ingentissimo che, tra l’altro, comprendeva la masseria “Ingegna”, la chiusura in contrada “Fabrizio” (1680 alberi di ulivo), le masserie “Taverna”, “Cravascio”, “Bella Nova” e “Corsari”, un palazzo su via Lata, un giardino al “Ponte”, sei case nel “vicinio” della “Misericordia”, una bottega nei pressi di San Domenico, alcuni magazzini in Gallipoli, capitali dati in enfiteusi a varie persone, canoni e censi gravanti su case e terreni. “Le regole del Pio Monte furono confermate con Regio Assenso di Ferdinando IV l’8 agosto 1783, -scrive Marcello Gaballo- fu amministrato dalla Commissione Comunale di beneficenza, poi dalla Congregazione di Carità. Il patrimonio dell’istituzione nel 1927 ammontava a Lire 638.888,60”.

Le volontà testamentarie dei donatori furono rispettate sino agli anni ‘70 dello scorso secolo, quando la riorganizzazione sanitaria italiana rivide tutto

Il palazzo ducale dei D’Amato a Seclì (Lecce)

Seclì, palazzo ducale

di Marcello Gaballo

Qualche anno addietro l’ Amministrazione Comunale di Seclì ha concluso una lunga trattativa per l’ acquisizione di uno dei più bei complessi esistenti in questo Comune, indissolubilmente legato alla sua storia ed alle sue vicende feudali: il palazzo dei duchi D’ Amato, poi dei Severino, quindi dei Papaleo, che hanno favorevolmente concluso la trattativa.

E’ lungimirante il gesto compiuto dagli Amministratori, che certamente avrebbero potuto investire in nuovi faraonici progetti, magari conclusi dopo decenni e senza il sapore dell’ antico e del vissuto, trascurando dunque le proprie radici e le motivazioni profonde che hanno portato all’ attuale.

L’ occasione è motivo di riflessione per tutti, cittadini e non del piccolo centro, per meditare sui beni culturali, specie in questi momenti di risveglio che sembrano attuarsi nel letargico Salento.

Il godimento e l’ uso responsabile di un bene come il palazzo d’ Amato, che dovrà essere adibito a sede municipale e centro polivalente, è un monito per molti altri centri, considerati assai più all’ avanguardia e poco sensibili al fascino dei propri centri storici.

Non è per niente copiosa la bibliografia di Seclì e le poche notizie storiche che la riguardano e sinora pubblicate sono spesso incerte e dubbie. Occorreranno appassionati cultori delle proprie memorie storiche andare alla ricerca delle fonti, per capire finalmente che non si tratta poi di un borgo così insignificante, come spesso si lascia intendere.

Posseduta per più secoli dai baroni Sambiasi di Nardò, Seclì nel 1399 era stata tolta al filofrancese Mello Sambiasi per essere ceduta a Nicola Pezzullo di Lacedonia, dal quale fu ricomprata dalla stessa famiglia e quindi venduta per 1000 ducati, nel 1567, a Sigismondo, capostipite salentino di una facoltosa schiatta napoletana, i d’ Amato, giunti in Terra d’ Otranto per motivi di parentela e feudatarii.

Da Sigismondo il possesso passa al figlio primogenito Guidone (detto anche Guiduccio o Guido), che in un atto dello stesso periodo si dichiara utili domino et patrono terre Secli, residente anch’ esso, come il padre ed il fratello Cesare, a Nardò nel vicinio di S. Maria della Misericordia.

Fu quest’ ultimo ad iniziare i lavori di costruzione del palazzo di famiglia, probabilmente servendosi delle celebri ed assai valide maestranze neritine, senza escludere possibili interventi dell’ ormai noto Giovanni Maria Tarantino.

Se il palazzo fosse sorto sulle rovine di un preesistente fortellitio è difficile da appurare, ma è possibile ipotizzarlo, vista la sua ubicazione nel centro di Seclì, nelle immediate vicinanze della chiesa matrice dedicata a S. Maria delle Grazie, che lo stesso Guidone fece ampliare. Per volontà della moglie Giulia Spinelli fu invece eretto nel 1592 il monastero di S. Maria degli Angeli, extra moenia, officiato dai frati Minori Osservanti [1], sebbene la coppia, residente a Nardò, già cinque anni prima avesse donato ai frati Domenicani della stessa città 100 ducati per la costruzione e ornamento di una cappella dedicata sempre a S. Maria degli Angeli.

A Guidone successe nel titolo di baroni di Seclì il figlio Ottavio, da cui il primogenito Francesco, che col suo strategico matrimonio celebrato nel 1612 con Caterina d’Acugno dei signori della Foresta di Gallipoli, accresce il prestigio della sua famiglia e, forte degli appoggi a livello centrale, riesce ad ottenere il titolo ducale su Seclì.

Dai due nacquero Antonio, primogenito, Blasco, Livia, Anna, clarissa, Adriana e Isabella, anche questa clarissa a Nardò, più nota come suor Chiara d’ Amato di S. Caterina da Siena dei duchi di Seclì, morta nel 1693 in concetto di Santità.

Già di Francesco nel 1639, Antonio d’Amato nel 1659 riceve conferma del titolo ducale con Real Privilegio ed a lui succede il fratello Blasco, da cui passò alla nipote ex sorore Porzia, duchessa di Seclì nel 1693.

Forse per il matrimonio di quest’ ultima con un esponente della nobile famiglia Severino o per vendita, il titolo passò a questi ultimi, che lo tennero sino al 1796, quando il feudo diventò dei Rossi, signori della terra di Caprarica, la cui ultima discendente, Angiola Rossi, lo trasmise al consorte Giacomo Papaleo da Bagnolo.

Le stringate vicende storiche sono occasione per meglio comprendere il palazzo di nostro interesse, prossima sede municipale, che risulta tra i più interessanti del territorio per l’ originale e bella soluzione angolare esterna, ubicata sul piano superiore, e fortunatamente sopravvissuta con ben poco altro.

particolare del palazzo con lo stemma di famiglia (ph M. Gaballo)

“Ardito montaggio di due arcate marcatamente ogivali -scrive l’ arch. Mario Cazzato- che dovevano contenere altrettante aperture balaustrate; in prossimità dello spigolo dell’ edificio l’ arcata relativa poggia su una cornice sostenuta da colonne ravvicinate impostate su un unico piedistallo. Questa soluzione gira sull’ altro lato dello spigolo realizzando una specie di edicola composta da un’ apertura quadrata, ora murata, inquadrata da due colonne per lato analoghe anche per le cornici e i piedistalli alle precedenti”.

Nell’ interno del palazzo, alla singolare soluzione corrispondeva una loggia tardo-cinquecentesca, le cui aperture, nonostante le varie modifiche apportate in più riprese, sono ancora identificabili e sottolineate da un fregio coevo scolpito che attraversa anche tutta la volta.

Sovrasta la cornice angolare esterna un importante stemma elmato, quindi nobiliare, purtroppo mutilo per un terzo, sul quale campeggiano due leoni controrampanti, di buona fattura.

Quasi certamente esso fu aggiunto in successivi lavori di ristrutturazione del palazzo, non coincidendo con l’ arme della famiglia ducale dei D’ Amato, dipinta in inquarto su una delle volte lunettate ed affrescate nell’ interno.

Qui, in ambiente completamente stravolto dai rimaneggiamenti di epoche diverse, fino a poche mesi fa era conservata un’ interessante tela raffigurante S. Oronzo, restando invece i soffitti di due delle stanze, affrescati, anche se ormai scoloriti e bisognevoli di importante restauro. Uno dei soffitti riporta lo stemma anzidetto, policromo ed inquartato, inserito centralmente tra decorazioni classiche ed arabeschi; l’ altro, lunettato, riporta i ritratti dei duchi d’ Amato e di numerosi imperatori dell’ antica Roma e di Spagna, inseriti in medaglioni tra figure allegoriche e putti, sempre dipinti.

mangiatoie recuperate di recente a pianterreno del palazzo

Piuttosto integri sono rimasti il bellissimo basolato dell’ atrio interno e gli ampi locali voltati a botte, sempre a pianterreno, di recente recuperati, un tempo adibiti a frantoio, palmento e deposito, nei quali potrebbero trovare posto uffici o esercizi di vario genere, magari collegati con l’ esteso giardino retrostante. Tra questi vani merita particolare studio quello situato, sempre a pianterreno, a lato della scala in muratura, che al suo interno lascia intravedere parte di un affresco policromo, ricoperto da incrostazioni e pitturazioni successive, raffigurante la Vergine col Bambino e con alcune iscrizioni da interpretare.

Seclì, recenti restauri del palazzo ducale e rinvenimenti nel pavimento del salone a pianterreno

Degna di menzione infine è pure la cappella privata al primo piano, di cui in vero resta ben poco dell’ originario, fatta eccezione per delle colonne con capitelli delimitanti l’ altare, pitturate di verde e probabilmente traslate da altre parti del palazzo. Su di esse risaltano enigmatici volti semivegetali, uno per parte, già visti per tre volte all’ esterno, ed in particolare sulla facciata del S. Domenico di Nardò.

L’ inevitabile richiamo alle similari decorazioni in carparo del più noto edificio neritino, sollecitano ipotesi su cui occorrerà certamente lavorare ed indagare, per meglio definire l’ attività del magister Jo: Maria Tarentino de Nardo, che, come accennato sopra, potrebbe avervi prestato la sua maestranza.

Sempre in questa cappella si conserva una imponente e piuttosto recente statua in cartapesta policroma raffigurante la Madonna degli Angeli, che, come ricorda l’ epigrafe marmorea collocata a destra entrando dai Papaleo, sarebbe apparsa alla predetta suor Chiara.


[1] gli anni passati era guardiano del monastero padre frà Giuseppe da Seclì. Il convento possedeva in Galatone una casa in loco detto Spirito Santo, che poi vendette a Pietro Marini (atti not. De Magistris di Galatone (39/2) 1647, c.95). Nell’ atto si legge che il convento, extra moenia, è dell’ Ordine di S. Francesco d’ Assisi degli Zoccolanti.

[2] Cedolari di Terra d’ Otranto , vol.21, f.32.

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