Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (II parte)

di Riccardo Carrozzini

 

Fig. 5 – Lo scheletro ricomposto, a Maglie (da Teresa Salomi, come le successive fino alla fig. 5e)

 

La vendita venne infine effettuata al Museo di Zoologia e di Anatomia comparata della Regia Università di Pisa, il cui direttore era il prof. Sebastiano Richiardi, che offrì un corrispettivo di lire mille più spese di trasporto a suo carico. La spedizione venne effettuata nel maggio 1903. In una lettera di quello stesso mese al Richiardi, il Presidente Garzia lo informa dell’avvenuta spedizione ed aggiunge: “Le accludo una relazione, di questo egregio giovane Sig. Salomi Liborio, appassionatissimo cultore di Scienze naturali, il quale, sotto la direzione dell’insegnante prof. Consiglio di questo Liceo ha curato la preparazione e l’imballaggio del cetaceo“. Brani di questo documento, trascritto integralmente più oltre, vengono citati nell’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi in precedenza citato. La scansione della relazione, di 8 pagine, mi è stata mandata il 22 maggio 2014 dal dott. Nicola Maio, dell’Università di Napoli, al quale è stata fornita da uno degli autori.

Fig. 5a – Particolare arto anteriore

 

Fig. 5b – Particolare parte posteriore del cranio

 

Fig. 5c – Particolare delle costole

 

Fig. 5d – Particolare delle prime vertebre

 

Fig. 5e – Particolare della mandibola

 

Da una lettera della Giunta provinciale amministrativa di Terra d’Otranto del 3 luglio 1903 (prot. 10775), che si esprime in ordine ad una deliberazione dell’Istituto Capece, risulta che il Salomi, “avendo questi col suo lavoro contribuito al maggior vantaggio dell’amministrazione”, ricevette come compenso per l’opera prestata la somma di £. 50,00.

Fig. 6 – La lettera in francese per la vendita dello scheletro (Fondaz. “Capece”)

 

Fig. 7a – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 1

 

Fig. 7b – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 2 (Fondaz. “Capece”)

 

Vi è poi una lettera del Prof. S. Richiardi, del Museo di Pisa, il quale aveva, evidentemente, anticipato di tasca sua le £. 1.025,00 pagate all’Istituto Capece per lo scheletro. Richiardi faceva rilevare che la quietanza di pagamento rilasciata dal Capece era sbagliata perché intestata a Salvatore e non a Sebastiano Richiardi, la qual cosa gli aveva impedito fino ad allora (10 maggio 1904) di essere rimborsato dall’Università di Pisa, e pregava il Presidente Garzia di inviargli una nuova quietanza correttamente redatta. Riferiva, nella stessa lettera, che “il Fisetere [9] è montato, mancano però l’ultima vertebra, una delle ossa del bacino, n. 8 denti, n. 3 ematoapofisi od ossa a V, n. 20 pezzi degli arti – dovrebbero essere 30+30”.

Fig. 8 – L’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi citato nel testo

 

Do’ anche conto delle spese sostenute dall’istituto Capece in occasione del recupero di questo scheletro: si trova, infatti, tra la documentazione, un rendiconto finale (denominato “Conto cetaceo”) delle spese sostenute, che ammontarono a lire 576,85; detratte queste dalle lire 1.025,00 avute come corrispettivo, risultò un guadagno netto, per l’Istituto Capece, di lire 448,15.

Fig. 9 – Il “Conto cetaceo” (Fondaz. “Capece”)

 

ig. 10 – Il compenso di 50 lire a Salomi (Fondaz. “Capece”)

 

Lo scheletro del capodoglio è ancora esistente presso la Certosa di Calci, dove l’Ateneo pisano ha il suo Museo di Storia naturale, dotato di una stupenda galleria che contiene gli scheletri di numerosi cetacei (si vedano le foto in calce alla presente).

È trascritta infine fedelmente, di seguito, la relazione di Salomi di cui si è fatto cenno più sopra, scritta su carta intestata del Liceo – Ginnasio Capece (una pagina di questa è l’ultima foto in calce), nella quale si autodefinisce “perduto amatore di Zoologia” e dalla quale si può chiaramente evincere, dai molti particolari e dalle descrizioni, chi era, quanto a conoscenze e competenze nel settore, Liborio Salomi già a 20 anni; questo documento è il più lungo testo con firma autografa che sono riuscito a trovare [10].

 

Relazione di Liborio Salomi

Ill.mo Signor Direttore,

Prima di ogni altro mi permetta presentarmele quale un appassionato di Storia Naturale. Ho venti anni e sono in procinto di conseguire la licenza liceale in questo Liceo, dopo di che vorrò dedicarmi completamente allo studio delle scienze biologiche che ho coltivato sin da ragazzo. Ero ancora tale quando cominciai a catturare insetti e a sezionare quanti mammiferi, uccelli ed altri animali mi capitassero fra le mani; e poi ho continuato sempre più a sentirmi attratto dalle tante bellezze di cui è ricca la natura, e possiedo una discreta raccolta di insetti indigeni, di resti fossili, di uccelli imbalsamati da me stesso, di animali in alcool, fra i quali un bellissimo aborto mostruoso di Ovis Aries etc.. Qui in Maglie mi conoscevano già tutti per appassionato di Scienze Naturali, allorché un caso speciale venne a mettermi in maggiore evidenza. Fu questo l’arrivo in Otranto di un Capodoglio. Nello scorso anno infatti, nel 18 gennaio 1902 i soldati del Semaforo, addetti al servizio di Otranto nella località così detta “Palascia”, avvisarono che in alto mare galleggiava uno scafo di bastimento capovolto. A tale avviso, i poveri marinai otrantini, sperando di trovare in esso dei tesori che valessero a sollevare alquanto la loro miseria, si misero in mare con sette barche, ma grande fu la loro delusione quando, giunti al voluto scafo, riconobbero in esso un immane pesce, a dir loro già morto da parecchi giorni. Assicuratolo con una forte gomena attorno la coda lo rimorchiarono nel porto, donde il Sindaco, per ragione d’igiene pubblica, lo fece trasportare non lungi da Otranto, nella località detta “Rinule” a circa tre chilometri dall’abitato. Ben presto la notizia dell’invenimento di questo grande cetaceo si sparse per quasi tutta la provincia e da ogni parte di essa si recarono ad Otranto delle persone per vederlo. Tra queste ci fui anche io ed altri compagni di scuola, accompagnati dal sig. Giuseppe Consiglio, professore di Fisica e Scienze Naturali in questo Liceo. Dapprima vedemmo il cetaceo da sugli scogli e poscia con delle barche potemmo osservarlo da vicino. La putrefazione era già cominciata nell’interno, e ad ogni cavallone un po’ forte e quindi ad ogni conseguente muoversi del cetaceo, veniva fuori dalla sua bocca un puzzo penetrante e insopportabile. Provvisto di una discreta macchina fotografica il prof. Consiglio ritrasse l’animale, e la fotografia sebbene non molto chiara è abbastanza sufficiente per mostrare come esso giacesse sul fianco sinistro e come, ad arguirlo dalla bava bianchiccia che vedesi intorno alla bocca, fosse inoltrata in esso la putrefazione. Essendo lo Stato padrone di tali mostri che si rinvengono sulle coste italiane, il sindaco di Otranto annunziò al governo la scoperta del Capodoglio, perché si pigliassero serii provvedimenti onde distruggerlo, potendo riuscire, con la sua putrefazione, di grave danno per gli abitanti delle spiagge vicine. Si attendeva invano ordine dal Ministero, allorché il preside di questo Liceo, il sig. Giuseppe Gabrieli [11], attualmente bibliotecario all’Accademia dei Lincei, pensò che fosse conveniente all’Istituto Capece l’acquistare lo scheletro di un Capodoglio, sì importante nello studio della Zoologia ed Anatomia comparata e così raro nello stesso tempo. Si telegrafò dapprima alla Capitaneria del porto di Taranto, e avendo questa risposto che il cetaceo era in potere del Ministero di P. Istruzione, il presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Capece, il sig. Cav. Raffaello Garzia, fece delle pratiche presso di esso, il quale rispose che il cetaceo era a disposizione del gabinetto di Storia naturale di Maglie. Fu così che io, alunno della 2a liceale, e perduto amatore di Zoologia, ebbi dalla Onorevole Commissione di questo Liceo il piacevolissimo incarico di andare ad Otranto per dirigere la scarnificazione del cetaceo e sorvegliare a che nessuna parte dello scheletro venisse menomamente lesa. L’operazione per denudare le ossa fu di somma difficoltà e dispendio, sia per la località che non mi permise di trarre a secco il cetaceo, sia per la poca praticità del personale addetto al lavoro, sia in ultimo per i tempi piovosi. Potei constatare subito trattarsi di un individuo di Physeter macrocephalus, di sesso femminile. La pelle era completamente intatta, ciò che esclude l’idea che l’animale fosse morto per ferita. Dei denti, in massima parte cariati, mancavano otto, ciò che, tenendo anche conto della coda completamente liscia, mi fece pensare trattarsi di un individuo assai inoltrato negli anni. La putrefazione avvenuta mi impedì assolutamente di fare qualsiasi osservazione anatomica sui tessuti molli, e mi tolse anche l’agio di constatare se nella vescica orinaria vi fossero dei calcoli, e delle incrostazioni di simil natura sulle pareti dell’intestino. Ciò che mi colpì grandemente furono i muscoli tutti invasi, nel loro spessore, da corpuscoli un po’ più piccoli dei granelli di pepe, di color bianco-giallognolo e che alla osservazione microscopica sembrano delle uova di Elminti [12]. Fosse la morte del Cetaceo stata causata dall’esistenza di qualche parassita? Mancando di libri da riscontro non ho potuto venire a conclusione alcuna, eppure potrebbe trattarsi di qualche specie nuova o poco studiata di Elminto. Circa lo scheletro fui dapprima sommamente meravigliato di trovar distaccate le ossa facciali del lato sinistro, ma ben presto potei attribuir ciò al peso della massa muscolare sopraincombente del lato destro. Ebbi massima cura di conservare le ossa del cinto pelvico tanto importanti nello studio dell’anatomia comparata. Dopo 13 giorni di continuo lavoro le singole ossa furono trasportate a Maglie ed infossate nella calce viva per farle spolpare e sgrasciare completamente. Circa un mese fa le ho tolte da essa per pulirle definitivamente ed ora sono in viaggio per Pisa. Anche l’imballaggio è costato lavoro e fastidio, ma per la scienza bisogna far tutto, ed io mi reputo fortunatissimo di aver lavorato, ancor sì giovane, per la preparazione dello scheletro di un Capodoglio che di ora in poi adornerà (me l’auguro) le ricche sale del Museo pisano, vanto e gloria del nostro chiarissimo Savi [13]. E voglio sperare che ella trovi lo scheletro in buono stato, in modo che il mio lavoro non sia andato completamente perduto, e che voglia attribuire qualche piccolo difetto alla mancanza dei mezzi necessarii per la preparazione di tali scheletri e alla mia poca pratica con essi. Prima di fare l’imballaggio ho situate le ossa alla meglio onde fare la fotografia dello scheletro intero, e fra giorni mi farò un pregio di mandargliela insieme a quella del cetaceo in mare ed altre ritraenti diverse ossa e regioni singole dello scheletro, ed una rappresentante un frammento di membrana endoteliale dello sfiatatoio [14]. Lo scheletro come le sarà facile constatare è lungo, così disarticolato, m. 10,30, ma con i dischi intervertebrali misurava m. 11, pur essendo lungo m. 12 rivestito dalle masse muscolari. Nell’imballarlo ho messo nel gabbione oltre al capo anche l’atlante l’epistrofeo saldato alle altre cinque vertebre cervicali ed al processo odontoide rudimentale, le vertebre dorsali, le lombo-caudali e le costole. Nel cassone ho messo lo sterno, il primo paio di costole, i denti, le ossa del cinto pelvico, alcune ossa del capo che trovai da esso distaccate, le clavicole, le scapole, gli omeri, le ossa, saldate verso la loro estremità, dell’antibraccio, le ossa carpali con le rispettive falangi (1) [15] ed alcune ossa articolate alla faccia inferiore delle vertebre lombo-caudali, e che non so invero cosa siano, pur avendo cercato di riscontrare varii testi di anatomia comparata. (Che anzi le sarei obbligatissimo se volesse indicarmi a quali dello scheletro umano corrispondano queste ossa e che ufficio compiano nei cetacei). Di queste ossa vi è una nel gabbione che per l’azione della calce ha l’estremità libera un po’ bruciata, ma credo che ciò non pregiudichi lo scheletro; ché nella relazione del Gasco [16] sulla Balena catturata a Taranto, ho letto come anche nello scheletro di essa alcune parti siano state sostituite da legno. È mai possibile evitare qualche piccola avaria in scheletri così colossali e nello stesso tempo risultanti da ossa spugnose e fragili in sommo grado? Avrei desiderio di scrivere una piccola monografia su questo Cetaceo, ma a causa della mancanza di materiale di studio, rimando tal lavoro al primo anno di studii universitarii, che veramente non mi son ancor deciso dove fare. Potrà darsi che venga a Pisa; è un centro di studii tanto rinomato! Giorni fa leggevo nella Mammologia [17] Italiana del Cornalia di uno scheletro di Physeter, arenato nel 1868 in Calabria e da lei egregiamente preparato per l’Università di Bologna. Credo, se non mi sbaglio, che manchi ancora in Italia un elenco completo dei cetacei giunti morti o dati a secco sulle sue spiagge; e sto curando, tanto per contributo a tale elenco, di raccogliere notizie precise su tutti i cetacei rinvenuti sulle coste della penisola salentina. Pochi anni or sono ad Ugento, sullo Ionio, dettero a secco contemporaneamente parecchi capodogli, ma per la putrefazione avvenuta, il governo, a richiesta delle autorità locali, mandò due navi per curarne il loro affondamento in alto mare.

Giorni fa fui chiamato da alcuni cavatori di pietra per vedere delle ossa che avevano trovato a nove metri di profondità: Recatomi sul luogo ebbi a constatare trattarsi dei resti di un Equus caballus mastodontico, quaternario. Ho quasi tutti i denti, che sono veramente bellissimi. Di resti di Equus ed altri animali quaternarii trovansi spesso nelle nostre cave ed io ho una discreta raccolta, ma mi mancano molti scheletri di animali odierni per farne gli studi comparativi. Se crede ella che tali resti fossili possano servirle a qualche cosa, non dovrà che avvisarmene, ed io sarò fortunatissimo di farglieli avere. E così dico pure di qualsiasi prodotto naturale della penisola salentina.

Mi permetta intanto di ossequiarla e professarmele suo dev.mo

Liborio Salomi di Angelo

Maglie il 12 maggio 1903

Fig. 11 – Lo scheletro del capodoglio alla certosa di Calci (Foto dal prof. Roberto Barbuti, Università di Pisa, come le successive fino alla fig. 14)

 

Fig. 12 – Sulla mandibola si può leggere “Otranto, gennaio 1902”

 

Fig. 13 – Un’altra vista dello scheletro

 

Fig. 14 – Una vista della Galleria cetacei con lo scheletro recuperato da Salomi in primo piano

 

Fig. 15 – Una pagina della lettera-relazione di Salomi

Note

[9] Sinonimo di capodoglio, derivata dal nome scientifico latino.

[10] Ringrazio il prof. Barbuti, già citato in precedenza, che si è messo in contatto col dott. Alessandro Corsi, direttore della Biblioteca di Scienze naturali dell’Università di Pisa; questi ha autorizzato la pubblicazione della relazione.

[11] Giuseppe Gabrieli, da Calimera (LE), padre di Francesco (quest’ultimo deceduto nel 1996, uomo di sconfinata cultura che fu uno dei più grandi orientalisti italiani e Presidente dell’Accademia dei Lincei), orientalista anch’egli, mentre era Preside del “Capece” vinse il concorso per bibliotecario dell’Accademia dei Lincei di Roma e lasciò la Presidenza del “Capece” per assumere il nuovo prestigioso incarico.

[12] Elminti: nome caduto in disuso, che non designa un gruppo zoologico definito, ma genericamente i vermi, in particolare quelli parassiti.

[13] Dall’Enciclopedia on line Treccani: Savi, Paolo. – Naturalista (Pisa 1798 – ivi 1871), figlio di Gaetano, prof. di storia naturale nell’Università di Pisa (dal 1823); socio corrispondente dei Lincei (1860). Autore di molti notevolissimi lavori sulla geologia della Toscana, in cui sostenne la teoria attualistica di Ch. Lyell, e di due importanti opere ornitologiche.

[14] Evidentemente presso l’Università di Pisa non vi è traccia di queste foto, visto che nell’articolo prima citato è stata pubblicata una foto fornita dalla dott. Elena Valsecchi, pronipote di Liborio Salomi. Forse le foto sono quelle pubblicate in questo volume, in possesso della figlia Teresa.

[15] Qui vi è la nota (1) nel manoscritto, e a piè di pagina è scritto: le ultime vertebre caudali.

[16] GASCO, Francesco Giuseppe: famoso naturalista (Mondovì 3 nov. 1842 – Roma 23 ott. 1894). Dal Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 52 (1999), di Maria B. D’Ambrosio: … Nel 1877 il G. vinse la cattedra di zoologia e anatomia comparata all’Università di Genova, e qui si occupò anche del Museo zoologico che arricchì di nuovi reperti fra cui lo scheletro di una balenottera arenatasi a Monterosso in Liguria; contemporaneamente pubblicò una relazione, iniziata a Napoli, su una balena arenatasi a Taranto nel febbraio del 1877 che identificò nella balena dei Baschi, Balaena Biscajensis (euglacialis). Nel 1878 le sue ricerche sulla osteologia dei Cetacei lo spinsero a visitare i più importanti musei europei fra cui quelli di Parigi, Londra, Copenaghen, Leida e Bruxelles, dove più ricche erano le collezioni cetologiche e molto quotati i cultori di questo ramo della zoologia. Invitato dal direttore del Museo di Copenaghen X. Reinhardt a studiare lo scheletro di un esemplare catturato nel 1854 a San Sebastiano sulle coste spagnole, giunse alla conclusione che si trattava della stessa specie della balena di Taranto. …

[17] La mammologia è la scienza che studia i mammiferi, classe di vertebrati con caratteristiche come ad esempio pellicce e un complesso sistema nervoso. La mammologia si dirama anche in altre discipline, quali la primatologia (studio dei primati) e la cetologia (studio dei cetacei).

 

Per la prima parte v. qui:

Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (I parte)

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (IV parte)

Faro di Punta Palascia, Capo D’Otranto, Lecce
(https://www.repubblica.it/viaggi/2018/08/30/news/tra_fari_e_lanterne_le_sentinelle_del_mare_piu_importanti_d_italia-205243146/)

 

di Cristina Manzo

Non è visibile dalla litoranea che da Otranto conduce a Porto Badisco, si trova in prossimità di una base militare. Si parcheggia l’auto in uno spiazzo sterrato e in dieci minuti, con una tranquilla camminata, ci si arriva lungo un sentiero che si fa strada in mezzo alla natura, tra rocce e vegetazione, avvolti dai profumi della macchia mediterranea e da un silenzio quasi surreale.

La vista è così suggestiva da togliere il fiato: il guardiano del mare si staglia sulla scogliera tra il blu del cielo e l’infinita distesa azzurra del mare. Non esistono parole sufficienti a spiegare la sensazione che si prova ammirando e respirando tutto questo incanto, sembra quasi di essere in capo al mondo. L’ho visitato in diversi periodi dell’anno e sempre, in ogni stagione, io sono rimasta incantata. L’ho visto al tramonto quando mi appostavo calandomi giù dalla scogliera per le nottate di pesca, l’ho visto al buio ammantato di stelle mentre la sua luce illuminava l’infinito, l’ho visto all’alba del mondo colorarsi di rosa, l’alba di tutte le albe che nasce dal mare, anzi dall’incontro di due mari, dove la sera il sole si rituffa scomparendo come una palla incandescente che sfrigola nell’acqua.

Per me resta sempre il faro dei fari, il più bello, il più speciale. Abbiamo condiviso i segreti di un grande amore custoditi per sempre tra il mio cuore e il suo silenzio. Una storia nata ai piedi di un altro faro, in verità, quello di San Cataldo, quindi sono stati ben due i guardiani del mare importanti, nella mia vita. San Cataldo, Capo d’Otranto, Porto Badisco, la Palascia, la stazione metereologica sono le parole chiave della mia giovinezza.

Negli anni novanta tantissimi giovani frequentavano quel luogo in estate, sulla piana della scogliera vi era anche un’area per i campeggiatori. Era un posto che ispirava libertà e magia. Dalla Palascia lo sguardo prendeva il volo, aprendo l’anima a un immaginario senza confini, disancorato dalle catene della vita.

La stazione meteorologica di Otranto-Punta Palascia è la stazione meteorologica di riferimento per il Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare e per l’Organizzazione Meteorologica Mondiale relativa alla località costiera di Punta Palascia presso Otranto. L’osservatorio, gestito dalla Regia Marina fino al termine della seconda guerra mondiale, è rimasto presidiato fino al 1978 presso il faro di Punta Palascia. In seguito, in conseguenza della dismissione dell’osservatorio meteorologico, è stata attivata nella medesima area di ubicazione una stazione meteorologica automatica di tipo DCP della rete del Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare[1].

Sembrerà difficile da credere ma il maggior afflusso di turisti il faro di Punta Palascìa lo registra la notte di San Silvestro. Il motivo? Ci troviamo a Capo d’Otranto, il punto più a Est della Penisola. Così la sua terrazza è il luogo d’Italia in cui, idealmente, salutare per primi il nuovo anno. D’estate, invece, il faro di Otranto è meta degli amanti delle escursioni, essendo posto alla fine di un sentiero circondato da natura e scogliere a picco sul mare. Ma è anche il punto d’accesso alla ‘Grotta dei Cervi’, insenatura naturale che custodisce testimonianze storiche del periodo neolitico. È uno dei due fari italiani – assieme a quello di Genova – tutelati dalla Commissione Europea, facente parte dei cinque fari del mar mediterraneo.[2].

Qui nasce e muore la romantica storia dell’ultimo guardiano del faro che abitò tra le sue mura prima di consegnare le chiavi alla Intendenza di finanza nel 1978 e, con la sua morte, se ne va anche un pezzo di storia del Salento. “È venuto a mancare all’età di 88 anni l’ultimo guardiano del faro di Punta Palascìa. Elio Vitiello era nato nel 1931, arrivò a Otranto nel 1956 dal faro del Molo di San Vincenzo a Napoli portando con sé la tradizione di famiglia, faristi sia il padre Agostino che il fratello Benedetto. A Otranto Elio trovò anche l’amore e si sposò e la sua luna di miele fu proprio al faro con la sua Rosina Greco, idruntina. Vent’anni di vita nel faro tra intemperie e giornate di sole, venti e isolamento. Era stato, così, l’ultimo guardiano del faro. Un mestiere da letteratura, a guardare il mare e scrutare l’orizzonte, un lavoro duro e solitario, per veri amanti dell’avventura, pronti a dare l’allarme se qualcuno era in difficoltà tra le onde”[3].

Elio si porta dietro un mondo magico che non esiste più, un mondo romantico ma duro, fatto per quelli che resistono alla solitudine, per quelli che riescono a isolarsi e a stare bene soli con il mare, occupandosi solo di un faro e della sua luce. Non sembra una storia vera, sembra la trama di un romanzo, ma non lo è. I due sposini vanno li, in quel luogo estremo. Venti anni di vita al faro, lui che non sospettava nemmeno, il primo giorno che entrò nel grande edificio dell’Ottocento, che sarebbe stato l’ultimo guardiano del faro. Nessuno più sarebbe rimasto le notti a scrutare il mare, a guardare anche il più minimo segnale per prestare soccorso.

Quando Elio cominciò il suo cammino di guardiano al faro della Palascia era un periodo difficile: ogni giorno, intorno a mezzogiorno, al limite delle acque territoriali, “a vista nei giorni di bel tempo” gli albanesi, per provocare, facevano le loro esercitazioni di tiro navale in mare”. Si sentivano le esplosioni, li, su quel faro tra la Cortina di ferro ed il mare. I suoi ricordi erano tanti: – « Pasqualino, il massaro della Masseria Caprara, ci portava il formaggio fresco e quasi sempre si fermava a pranzo, i pescatori di Otranto e Castro, i marinai della Metauro che rifornivano il faro di acqua, camminando sugli scogli in un equilibrio incredibile, sui sandali. E poi gli amici che, per tenerci compagnia, scendevano e si fermavano a condividere un pasto, prima del turno di servizio. E poi lui, il faro, quasi una creatura vivente, con i suoi tempi, i suoi bisogni: Funzionava a vapori di petrolio, una grossa lampada riscaldava il petrolio e questo evaporava bagnando la retina ed incendiandosi, né più né meno che come una grossa lampara. E poi il servizio, l’attenzione alla luce ed alla rotazione: aveva sette ore di autonomia ed era controllata da un orologio, ma ogni notte bisognava percorrere i 132 gradini che portano alla lampada e stare di vedetta, col mare in burrasca ed il vento che entrava da tutte le parti.

Solo nel 1966 arrivò l’elettrificazione» – . Dopo l’abbandono, la lente venne portata via da lì, il Faro di Palascia smise di ruotare. La lampada di Palascìa è a Messina, un’altra lampada, sempre dell’Ottocento è lì. Ma quella luce che girava lungo la costa era diversa. La vita al faro era condivisa con sei persone, loro due e la famiglia e del reggente Colaci. – «Aprivo le finestre ed i delfini saltavano sotto la riva, indimenticabile» – , raccontavano insieme, con gli occhi lucidi, lui e sua moglie Rosina. E poi, ancora, i ricordi di questo lavoro, duro e bellissimo, ma impossibile da fare senza passione. Il sistema di segnalazione lungo la costa idruntina comprendeva vari fari e fanali.

Il faro della Punta possedeva l’alloggio del fanalista (ancora oggi esistente, a pochi metri dallo stesso). Qui l’incaricato del servizio era costretto a controllarne il corretto funzionamento, ma non solo. Dalla sommità dello stesso faro, più volte ogni sera, doveva verificare se il fanale galleggiante posto presso la secca di Missipezze fosse acceso. Missipezze era un pericolo molto serio per la navigazione, almeno fino a che non entrò in funzione definitivamente il Faro di Sant’Andrea. Un mondo duro e semplice, affascinante e pericoloso, ma pieno anche di amore e romanticismo. Un ultimo saluto, dalla sua Palascìa, al vecchio guardiano che va via, questa volta per l’ultimo viaggio[4].

La bella notizia è che è partita proprio dal tacco d’Italia la riscossa dei fari, infatti quello di punta Palascia preso in carico dall’università del Salento e dal comune è diventato il primo faro-museo, sentinella della storia. In nessun’altra lanterna, prima, è stato realizzato un progetto simile e, così importante, e la torre ottocentesca che sorge in un vero paradiso naturale, può, ormai essere visitata da tutti, con la nascita di un osservatorio naturale su ecologia e salute degli ecosistemi mediterranei con una mostra sulle lagune e foci fluviali che si apre insieme alla seconda vita del faro. La nuova lanterna per la riaccensione è arrivata da La Spezia.

E così, sul sentiero ricavato tra gli scogli su cui, un tempo, il guardiano del faro passava con il suo asino per raggiungere il paese, ora arrivano studenti, turisti, studiosi dell’ecosistema marino che in questa zona sembra fatto di magia, con il vento che sibila da una parte, con i delfini e le alghe rare o i fiori selvatici che crescono profumando di salsedine dall’altra. Punta Palascìa è il luogo in cui il giorno comincia prima che nel resto dell’Italia: siamo sul lembo estremo più ad est dell’Italia (18°31’22” di longitudine) e il «nuovo corso» dei fari, che in Italia sono un po’ dimenticati, non poteva che cominciare qui. Il faro della Palascìa, costruito nel 1850 ha guidato non poche navigazioni in Adriatico. La sua storia è lunghissima. La casa a due piani sulla quale è poggiata la grande torre in carparo è stata da sempre la dimora dei faristi, due famiglie che hanno vissuto in questo eremo (collegato alla superstrada con una mulattiera) fino agli anni Sessanta. La figlia dell’ultimo guardiano del faro era una bambina quando ha lasciato questo luogo misterioso, e oggi guarda alle vecchie finestre con ammirazione. La ristrutturazione dell’edificio è stata lunga e non facile. Il luogo è bello ma certamente impervio. Grazie a fondi pubblici e ad accordi tra Comune di Otranto, Regione Puglia, Università di Lecce, Marina Militare, il faro torna alla gente. Gli ambientalisti, i cittadini hanno condotto lunghe battaglie per salvare questo angolo di Puglia: nel Capodanno del 2000 invece di festeggiare il nuovo Millennio in un ristorante, centinaia di persone furono a Palascìa a manifestare con le fiaccole contro la ventilata fine del faro. La vittoria è venuta quando il Comune di Otranto ha ottenuto in concessione il faro dall’Agenzia del Demanio, ricevendo i finanziamenti del Por 2000-2006 (600 milioni di vecchie lire) e poi i contributi di 100mila euro (programma Leader 2000-2006) oltre ai 300mila euro del «Pis 14»[5]. Quando di notte si guarda un faro, stando in mezzo al mare, non si distingue la torre bianca nell’oscurità, ma solo il fascio di luce che attraversa l’infinito, una cometa che ci guida verso il destino e la salvezza, un raggio sospeso nell’aria, lanciato da una sentinella messa lì solo per servire il prossimo. Un guardiano del mare e un guardiano del faro prigionieri del tempo e dello spazio con lo scopo di averla vinta sulla tempesta che impedì a Leandro di raggiungere Ero, senza quel fuoco che lo guidasse nel buio. Forse il primo caso di costruzioni realizzate dall’uomo per un così alto scopo altruistico. Le torri costiere sentinelle del mare. A me sarebbe piaciuto molto vivere in un faro, e a voi?

 

Note

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Capo_d%27Otranto

[2]https://www.repubblica.it/viaggi/2018/08/30/news/tra_fari_e_lanterne_le_sentinelle_del_mare_piu_importanti_d_italia-205243146/

[3] https://www.salentoflash.it/2020/06/05/palascia-addio-allultimo-guardiano-del-faro/

[4] https://www.quotidianodipuglia.it/lecce/faro_della_palascia_otranto_guardiano_del_faro-5268695.html di Elio Paiano

[5] https://www.quotidianodipuglia.it/lecce/faro_della_palascia_otranto_guardiano_del_faro-5268695.html.

Per la prima parte:

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (I parte)

Per la seconda parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/10/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-ii-parte/

Per la terza parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/21/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-iii-parte/

 

Da punta Palascia a Pisa, ovvero l’ultimo viaggio di un capodoglio.

di Armando Polito

 

Nel Museo di storia naturale e del territorio dell’Università di Pisa, sito nella Certosa di Calci, è custodito nella galleria dei cetacei lo scheletro di un capodoglio … salentino.

Ecco come si presenta nella foto d’epoca pubblicata il 14 giugno u. s.  in https://www.facebook.com/pages/Salento-Come-Eravamo/546048392120110, un sito che si avvia ad essere, a mio avviso, una preziosa banca dati di natura iconografica  del nostro territorio,  grazie al contributo spontaneo di chi, e fa bene, lo segue soprattutto collaborando con l’invio di materiale di gran lunga più importante (e non solo perché testimonianza del passato) di qualsiasi selfie, tanto per citare solo l’ultimo simbolo della dannata voglia di apparire (non essere …) a tutti i costi. In tal senso l’inflazione iconografica consentita dalla tecnologia abbasserà, paradossalmente, la percentuale di immagini che entreranno nella storia: se fino a pochi decenni fa se ne salvava una su mille, ora lo farà solo una su miliardi di miliardi.

La didascalia recita: Il Salentino Liborio Salomi nella foto, ricompose lo scheletro di un capodoglio di 20 metri arenatosi nei pressi di Otranto nel 1902 il mese di Gennaio. Poi acquistato dal museo zoologico di Pisa.

Cerchiamo (non è un nos maiestatis …) di saperne di più, non solo sul capodoglio …

Liborio Salomi (Capignano salentino, 1882- Lecce, 1952), nell’immagine che segue tratta da http://scienzasalento.unile.it/biografie/liborio_salomi.htm , laureatosi a Napoli in Scienze naturali, lavorò presso la Cattedra ambulante per le malattie dell’olivo di Lecce e, quando fu soppressa (alla luce del recente caso della xylella fastidiosa non sarebbe il caso di ripristinarla? …), succedette a Cosimo De Giorgi nell’insegnamento di storia naturale presso l’istituto tecnico O. G. Costa di Lecce, istituto nel quale continuò l’opera di realizzazione di un museo interno avviata dal suo predecessore, del quale provvide a pubblicare la Descrizione geologica e idrografica della Provincia di Lecce per i tipi di Spacciante a Lecce nel 1922.

E a proposito di questo museo non “ufficiale”  non posso perdere l’occasione di ricordare la lodevolissima recente iniziativa di alunni e docenti dell’istituto, il cui resoconto è in http://www.sagreinpuglia.it/puglia-news/news-lecce-e-provincia/39-lecce-news/4485-apertura-a-lume-di-candela-del-museo-di-cosimo-de-giorgi-e-liborio-salomi-lecce-le-25-01-2014.html.

Quando il capodoglio si arenò (così recita la didascalia ma, come vedremo, pare che le cose siano andate diversamente), dunque, il Salomi aveva circa vent’anni.

Per il resto lascio la parola alle immagini che ho tratto dal Catalogo dei cetacei attuali del Museo di storia naturale e del territorio dell’Università di Pisa, alla certosa di Calci, note osteometriche e ricerca storica, a cura di S. Braschi, L. Cagnolaro e P. Nicolosi, in Atti Società toscana di scienze naturali, Memorie,  Serie B, 144 (2007) pp. 1-22 (integralmente leggibile e scaricabile da http://www.stsn.it/images/pdf/serB114/01_braschi.pdf).

Il lettore avrà già notato, a parte il 1802 invece di 1902 nella didascalia, che si tratta dell’immagine speculare della foto precedente; è difficile dire quale sia l’originale, ma non cambia assolutamente nulla.

Nella didascalia si legge il nome scientifico del capodoglio: Physeter macrocephalus L.  (1758). Physeter è trascrizione latina del greco φυσητήρ (leggi fiusetèr)=sifone, sfiatatoio; la voce è da φυσάω=soffiare. Macrocephalus è voce del latino scientifico, dal greco μακρός/μακρά/μακρόν (leggi macròs/macrà/macròn)=grande + κεφαλή (leggi chefalè)=testa. Si direbbe che il profilo delle monoposto di formula 1 abbia tratto da qui ispirazione …

 

Ecco ora la scheda di catalogazione.

La scheda rinvia alla nota storica che di seguito riproduco.

Il Richiardi nominato nella scheda è Sebastiano Richiardi (1834-1904), professore di Anatomia comparata prima a Bologna e poi a Pisa, della cui Università fu rettore dal 1891 al 1893.  Nell’immagine che segue (tratta ed adattata da GoogleMaps) è visibile  tutto il tragitto dal punto di recupero a quello di partenza per Pisa. Debbo dire, infine, che trovo estremamente interessante la nota finale con il costo totale dell’operazione, spese di spedizione comprese, convertito, addirittura, in euro1.

 

Qualche lettore potrebbe dirmi: – Tutto ok, però come mai nel titolo il protagonista è l’animale e non l’uomo, anzi lo scienziato? -.

Risponderei:  – In tempi in cui, se non sei Belen o Balotelli, puoi anche scoprire la cura definitiva di una malattia gravissima e aspirare, tutt’al più, solo all’attenzione di chi ne è affetto e, se ci tengono a lui, dei familiari, il titolo può sembrare sparato, altra piaga del cosiddetto giornalismo di oggi, per avere qualche lettore in più. È vero, un capodoglio, bando alle ipocrisie!, suscita più interesse di Liborio Salomi, cioè della persona senza la quale il mare sarebbe stato per lui, come per tutte le creature che vi vivono, dopo la culla pure la bara. Tuttavia,  la mia scelta non è una forma di scarso rispetto  nei confronti dell’uomo e dello scienziato,  né l’ho fatto per sedurre te o altri ma perché sono certo che Liborio Salomi avrebbe condiviso la mia decisione. Se non ti ho convinto, non me ne faccio una pena, perché ora, come me, forse sai qualcosa in più su di lui avendo letto, era quello che in fondo volevo ma non in base ad un’applicazione privatistica, quella oggi tanto di moda, del machiavellico il fine giustifica i mezzi, queste quattro sgangherate righe. –

__________

1 Notizie leggermente discordanti sulla data e le modalità del ritrovamento e sul prezzo d’acquisto sono in Bollettino del Museo zoologico della regia Università di Genova,  1906, p. 145 (in basso, immagine tratta da http://www.forgottenbooks.org/readbook_text/Bollettino_del_Museo_Zoologico_Della_R_Universita_DI_Genova_1300007799/145).

 

 

Antonio-Maria, il pescatore-etimologo di Punta Palascìa

di Armando Polito

immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/fa/Otranto_faro_Punta_Palascia.jpg
immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/fa/Otranto_faro_Punta_Palascia.jpg

Tra gli uomini c’è chi diventa importante  per la sua posizione economica (e per questo qualcuno viene pure condannato ingiustamente …), tra i capi (quelli geografici; gli umani, tutti quelli che hanno presunto, presumono e presumeranno di esserlo, si sono rivelati, si rivelano e si riveleranno solo mezze cartucce) quello d’Otranto lo è da molto tempo (e non mi riferisco solo al geologico), per la sua posizione, questa volta, geografica. È, infatti, la parte d’Italia più ad est, record che non solo le è valso nelle convenzioni nautiche il ruolo (irrilevante o quasi  da un punto di vista giuridico, almeno finché l’Italia resterà unita …) di punto di separazione tra l’Adriatico e lo Ionio ma anche quello di offrire il privilegio a chi calca il suo suolo di poter contemplare l’alba prima degli altri abitanti della penisola. A chi ama poltrire, probabilmente, questo non interessa minimamente ma vallo a dire a chi trae beneficio, questa volta economico,  dalla tradizione invalsa,  che attira la notte di San Silvestro anche un numero non trascurabile di turisti, di assistere per primi al sorgere della prima alba del nuovo anno, il che, è superfluo aggiungerlo ma sono costretto a farlo (altrimenti come faccio a dire che è superfluo?), porterà fortuna per l’anno intero!

Capo d’Otranto è chiamato anche Punta Palascìa (nell’immagine di testa il faro sorto dopo che nel 1869 venne rasa al suolo l’omonima torre ormai ridotta ad un rudere). Un giorno, forse, sarà la location di un film, per ora deve accontentarsi di lapidarie apparizioni in questo o quel romanzo: Aveva davanti due ore vuote e non se la sentì di passarle in giro per città, inseguita da ricordi che le andavano di traverso. Così, senza che ci avesse pensato prima, prese un taxi e decise di andare a far visita al vecchio fattore, che ormai si era ritirato e viveva in una casetta poco fuori Otranto, verso Punta Palascia. (Pier Luigi Celli, Il cuore ha le sue ragioni, Piemme, Milano, 2011, pag. 59); La traversata di quel canale, appena 72 chilometri di mare dalle coste albanesi al luogo più orientale della penisola, Punta Palascia, collocato praticamente sulla longitudine di Budapest come ricordammo nella prima conversazione (lo so, ma se un professore non rompe un po’ l’anima ai propri studenti, che professore è?), è ancora più agevole da fare di quei 90 chilometri infestati dagli squali famelici che separano Cuba dalle Key West della Florida. (Vittorio Zucconi, Il caratteraccio. Come (non) si diventa italiani, Mondadori, 2010, s. p.

Va aggiunto che semplicemente Punta si chiama uno sperone rocciso che chiude l’insenatura portuale antistante Otranto. A questo punto è doverosa la citazione dal romanzo  L’ora di tutti di Maria Corti, uscito per la prima volta per i tipi di Feltrinelli a Milano nel 1962 e ristampato da vari editori (nell’immagine in basso l’edizione Tascabili Bompiani del 2011): Quelle giornate erano lunghe; giravo per casa, uscivo in cortile, rientravo in casa, uscivo sulla porta verso la strada. Un giorno vi trovai mastro Natale che puliva ricci. – Sono ricci della Palascia – disse, offrendomene uno. – Perché della Palascia’ – chiesi. – Sono diversi? -. – Non hanno sabbia come quelli della Punta – disse – e la carne è più rossa; li chiamano i ricci dell’arciprete e costano due soldi più degli altri alla dozzina, per la rarità -. Io non sapevo nulla di ricci della Palascia e di ricci della Punta, perché Antonio sprezzava la pesca di scoglio e si metteva in mare solo per andare al largo.

immagine tratta da http://www.micello.eu/wp-content/uploads/2012/01/ora-di-tutti-Corti.jpg
immagine tratta da http://www.micello.eu/wp-content/uploads/2012/01/ora-di-tutti-Corti.jpg

La citazione era doverosa non solo perché vi è la contrapposizione, tramite le parole del pescatore, tra Punta e Punta Palascìa ma anche per ricordare a chi non lo sapesse che Maria Corti è stata, oltre che autrice di romanzi, anche una filologa di prim’ordine. Tuttavia, a quanto ne so,  credo che mai si sia interessata dell’etimo di Palascìa. Eppure, appena ho letto quelle poche righe, ho sentito a pelle l’eco di una inconscia ricerca etimologica espressa poeticamente. Cercherò di amplificarla passando brutalmente a dire la mia sull’etimo; vi prego, però, di non dimenticarvi di Antonio …

La brutalità non sta bene, perciò rendo più indolore il passaggio alla farina del mio sacco proponendovi prima il fior fiore di quella del sacco (e che sacco!) del Rohlfs (Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, II volume, pag. 444): deformazione di Παναγία [leggi Panaghìa]=la Madonna?

Secondo il Rohlfs, dunque, la voce sarebbe (quanto mi piace quel punto interrogativo finale! …), per antonomasia, il nominativo femminile singolare dell’aggettivo greco a tre uscite πανάγιος/παναγία/πανάγιον (leggi panàghios/panaghìa/panàghion). L’aggettivo appena citato [composto dall’avverbio πᾶν (leggi pan)=completamente+ἁγία (leggi aghia), femminile dell’aggettivo ἅγιος/ἁγία/ἅγιον (leggi àghios/aghìa/àghion)=sacro] supporrebbe, dunque un’origine devozionale del toponimo.

Dal mio sacco tirerò ora, con la mano tremante di chi è consapevole che potrebbe, alla resa dei conti, aggiudicarsi, nonostante ogni probabile apparenza,  il campionato mondiale di ignoranza e stupidità, due conigli, pardon, due proposte:

1) da  πελαγία (leggi pelaghìa), femminile dell’aggettivo πελἀγιος/πελαγία/πελἀγιον (leggi pelàghios/pelaghìa/pelàghion)=marittima. Se quel marittima sembra banale e scontato per la nostra torre, ricollegandomi all’ipotesi devozionale, faccio presente che l’aggettivo in questione in greco è l’epiteto di Afrodite (Artemidoro II, 37; Pausania, II, 4, 6)  e degli dei in genere (Plutarco 13, 161c). Aggiungo che esso deriva da πέλαγος (leggi pèlagos)=mare aperto, alto mare, passato con lo stesso significato nel latino pèlagus.

2) da πελασγία (leggi pelasghìa), femminile dell’aggettivo πελάσγιος/ πελασγία/πελάσγιον (leggi pelàsghios/pelasghìa/pelàsghion)=dei Pelasgi, da Πελασγός=Pelasgo , mitico progenitore degli Enotri, anche se non è ben chiara l’estensione e la dislocazione della parte del meridione d’Italia  da loro occupata e neppure è certo da dove provenissero. Per questo qualsiasi ipotesi può suscitare altre suggestioni; ad esempio, se è vero, come ipotizzavano Gianna G. Buti e Giacomo Devoto (in Preistoria e storia delle regioni d’Italia, Sansoni, Firenze, 1974), che gli Enotri hanno un’origine balcanica proto-illirica, potrebbe, addirittura, non essere casuale il fatto che si chiami Punta Palascìa la parte d’Italia più orientale d’Italia).

Vi ricordate di Antonio e della sua contrapposizione tra i ricci sabbiosi (presumibilmente biondi) della Punta e quelli della Palascia, detti dell’arciprete, soprannome che la dice lunga su certi privilegi che ancora oggi stentano ad estinguersi?

E vi ricordate  la narratrice che in prima persona confessa di non intendersene di ricci e di non sapere perché Antonio sprezzava la pesca di scoglio e si metteva in mare solo per andare al largo? Antonio, l’esperto pescatore di ricci, forse, non conoscendo né il greco, né il latino e neppure l’italiano, non poteva sapere che Palascìa potrebbe essere connesso con il πέλαγος (l’alto mare, teoricamente più profondo di quello sotto costa), Maria Corti, forse ignorante di pesca, e non solo di ricci, ma grande filologa, non poteva non saperlo. Così, dall’incontro fra due ignoranze specifiche (o, se preferite tra due conoscenze parziali delle quali solo quella del pescatore si palesa), Antonio/Maria Corti, pur senza dirlo espressamente, magari senza neppure pensarci, ci ha lasciato l’etimo di Palascìa. A questo punto diventerei  veramente un monumento vivente alla stupidità se dicessi di non simpatizzare per la prima delle ipotesi espresse, tra l’altro, da me stesso…

Una conferma a questa etimologia sembra venire dalla Breve descrittione del Regno di Napoli di Ottavio Beltrano, opera uscita a Napoli per i tipi di Beltrano nel 1640, in cui a pag. 278 nell’elenco delle sei torri nel territorio della città d’Otranto compare al primo posto Torre d’Orto, seguita da Torre pelagia, Torre di S. Stefano, Torre S. Milano, Torre dell’Arteglio in territorio di Galatea e Torre di Buracco in territorio di Marugio. E cosa sarebbe quel pelagia se non l’italianizzazione di Palascìa?

 

Leuca luogo dell’anima e del ritorno. Leuca come le colonne d’Ercole

di Antonietta Fulvio

“E tornerà

 il bianco per un attimo a brillare

 della calce, regina arsa e concreta

in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa

 d’acque ai piedi d’un faro.

 È qui che i salentini dopo morti

 fanno ritorno col cappello in

testa”

(Finibusterrae, V. Bodini)

Il luogo dell’anima e del ritorno. Così descriveva Leuca il poeta Vittorio Bodini nella sua “Finibusterrae”. Dal greco leucos, che è bianco ma anche fantasmagorica visione, riprendendo una nota leggenda, secondo la quale se non ci si reca a Leuca da vivi, bisognerà tornarci da morti, prima di salire in cielo. Passaggio verso l’infinito. Una sorta di porta per il Paradiso.

E non può definirsi che paradisiaca la visione dell’alba a Leuca con il sole che si leva dall’Adriatico, così al tramonto quando il disco solare si inabissa lentamente nelle acque dello Jonio.

Qui dove la terrà è sospesa tra il cielo e l’antico Mare nostrum, verso il quale si protende questo lembo d’Italia, il panorama toglie il respiro, azzera il pensiero ed entra per sempre negli occhi…

Leuca è luce, la luce abbagliante che sembra aver ispiratola Metafisica a Giorgio De Chirico, è terra, pietra che corre verso il mare frastagliandosi in mille insenature che da millenni si lasciano scalfire dalle acque facendosi porto per naufraghi e pellegrini.

Ci sono luoghi che entrano dentro. Nell’anima. Che fanno vibrare il cuore come le corde di uno Stradivari e la musica è l’incantevole preludio di un sogno. Un sogno bianco come le scogliere di Leuca, della sua Marina tempestata di grotte misteriose e di atavici approdi.

Qui trovò riparo Enea, scrisse il poeta Virgilio, nel terzo libro dell’Eneide: “Dalla marina d’Oriente un seno/ curvasi in arco, e contro ai massi opposti / delle rupi, le salse onde spumose/ s’infrangono. Celato ad ogni vista/ si spazia il porto interior; di cui/ dall’un fianco e dall’altro un doppio muro/ si protende di scogli, e dentro terra/

Facciamo il punto sulla Punta

30/9/2011

Ultim’ora!

Grazie alla segnalazione degli amici del gruppo ForumAmbiente Salute apprendiamo che è stata vinta la causa pendente presso il TAR di Lecce contro l’ampliamento della base di PUNTA PALACIA, ad Otranto. Ieri il TAR di Lecce ha accolto il ricorso contro gli atti del Ministero della Difesa per l’ampliamento e ristrutturazione della base militare di Punta Palascìa. Il ricorso era stato presentato il 28/11/2007 dal Comitato Giù le mani da Punta Palascìa.

Per altre notizie:
http://www.sudnews.it/notizia/38850.html

da http://www.badisco.it/album/litoranea%20NORD/slides/391125(kk101).html

di Gianni Ferraris

Sono stato al TAR di Lecce. È la prima volta   che entro nelle ovattate sale di un tribunale amministrativo. Bello il palazzo. Era un convento di frati, mi si dice. Il palazzo di fronte, l’attuale municipio di Lecce, era invece un convento di suore. L’amico che me lo mostra mi dice anche di voci che si rincorrevano sulla continguità dei due edifici, su passaggi segreti che avrebbero, secondo la vulgata popolare, permesso convegni segreti e festaioli. Ah le malelingue.

Comunque sia, in quella lunghissima mattinata, ho aspettato con pazienza, assieme ad alcuni amici, che si discutesse il ricorso contro la cementificazione di Punta Palascia voluta dal ministero della guerra, ops, pardon, della difesa. Dalle 10,30 si è arrivati alle 13 circa. Per un’udienza durata una decina di minuti. 5 avvocati seduti con le loro belle toghe nere. 4 giudici, anche loro con toga. Parla l’avvocatessa del ministero, affiancata da un signore in divisa che, mi si dice, è un generale (mica noccioline). Il presidente contesta la mancata  produzione di alcuni documenti, per cui veda, la difesa, di procurarli. Udienza rinviata. Con buona pace del ministero che si vede bloccato per altri lunghi mesi il progetto scempio. Viva il processo lungo, in questo caso.  Uscendo, l’avvocatessa e il generale mi passano accanto, lei è palesemente adirata e dice sibillina “se vogliono gli atti li forniremo”. Al momento beccatevi questa e noi, finchè possiamo, ci godiamo un paesaggio ancora a disposizione del buon senso.

“C’è un punto di vista paesaggistico, dietro al nostro ricorso, ma anche culturale. La città di Otranto è stata riconosciuta dall’UNESCO  come “Messaggera di pace”. La cosa non coinvolge solo il centro storico della

Punta Palascia non è un luogo qualunque, è “IL” luogo

da http://www.badisco.it/album/

 

di Gianni Ferraris

“…Alloggi per il personale militare, un garage per automezzi, due torri di 11 metri di altezza in supporto alle antenne radar….  E il comitato “giù le mani da Punta Palascia” ha impugnato davanti al TAR tutti gli atti di formazione ed approvazione del progetto. Nei prossimi giorni si terrà l’udienza. Il delicato equilibrio della scogliera di Punta Palascia – inclusa a pieno titolo nel Parco Regionale Otranto S.M. di Leuca – va difeso ad oltranza non solo per la sua indiscussa bellezza ma anche per il suo valore simbolico: il dialogo, lo scambio e l’incontro dei popoli e delle culture del Mediterraneo…”

Questo scrive l’amico Mauro Marino su Paese Nuovo di mercoledi 19 gennaio. Punta Palascia non è un luogo qualunque, è “IL” luogo. E proprio lì, a sovrastare la meravigliosa costa che profuma di mare e di sole, i “proprietari” di quei terreni vogliono compiere, senza badare a vincoli di sorta, passando come bulldozer sulle sensibilità delle persone, calpestando la maggior industria del Salento, il turismo, uno degli scempi più ignobili del territorio. Perché le “ragioni della difesa” valgono più di ogni piano regolatore, di ogni normativa.

Ci sono ripassato qualche tempo addietro,   ed è sempre un’emozione. Quel giorno si vedeva la costa dell’Albania e la neve sulle alture. E so di amici che la notte di capodanno, dopo i brindisi e le feste, vanno lassù per vedere la prima alba, perché “porta fortuna”, perché è bella.

Permettere, in nome della “difesa”, un progetto che ha l’amarissimo sapore di speculazione edilizia, piuttosto che di protezione delle sacre coste da nemici invasori, senza opporsi con ogni mezzo lecito, è uno schiaffo non solo al Salento. La guerra fredda è finita da lunghissimo tempo,  ed abbiamo antenne e ripetitori in ogni luogo possibile e plausibile. Ci sono satelliti e strumenti a noi sconosciuti che ci mandano addosso ogni tipo di onde, neppure fossimo prigionieri di forni a microonde, ora ci vogliono scippare anche quel poco di natura che altri speculatori hanno, al momento, lasciato

Il faro di punta Palascia al comune di Otranto

 

Lo ricordiamo. Era Totò che stava vendendo la fontana di Trevi. Però era un film, divertente anche, e lui era un grande artista. Roba da ridere insomma. Mi è venuto in mente con l’apertura dei giornali di questa mattina. A futura memoria ricordiamo che oggi è il 28 giugno 2010. Il federalismo demaniale entra nel vivo. I comuni e le regioni potranno acquistare a prezzi di saldo alcuni scarti da magazzino. Qualche monte delle Dolomiti, l’ arcipelago della Maddalena, un pò di torrenti, fiumi, colline. Per quanto riguarda il Salento il comune di Otranto potrà entrare in possesso niente meno che del faro di punta Palascia. Ricordiamo che il faro è uno dei cinque del Mediterraneo tutelati dalla commissione europea. Gli altri sono quelli di Genova, Tunisi, Gibilterra e Alessandria d’Egitto.  Convenzionalmente il faro è il confine delle acque dello Ionio da quelle dell’Adriatico. Ed è anche il cuore del Parco Naturale Regionale Otranto-Leuca, il centro del Parco Marino, il fulcro di un’area IBA (Important Bird Area) tra le più importanti d’Europa.

Insomma, stiamo parlando di un patrimonio dell’umanità, anche tenendo conto che è l’estremo lembo d’Italia verso l’Albania.

Dobbiamo preoccuparci? Nell’immediato forse no, perchè è anche sede di un importante museo marino ed osservatorio. Però la storia insegna e ci mette in guardia. Non è lontano il 2006. Allora la Marina, presentò al comune di Otranto, senza richiedere pareri o autorizzazioni, un progetto di ampliamento della base militare già presente sulla scogliera. Cosa prevedeva il progetto? Costruzioni destinate ad alloggi per militari, due torri in cemento, la ristrutturazione di un edificio esistente. Il tutto a minacciare l’intera area. C’è, è vero, un comitato di cittadini intelligenti che si chiama “giù le mani da punta palascia.”  E ricordiamo anche alcuni tentativi di vendita della struttura a privati. Insomma, proprio tranquilli non possiamo stare.   Però ci sono luoghi, monumenti, che sono valori universali e non debbono essere ceduti per nessun motivo. A quando la vendita del Colosseo? E se un sindaco bizzarro un giorno decidesse di trasformare la Maddalena in Disneyland? E se, come già lamentano regioni, province e comuni, mancano i soldi per manutenere e valorizzare quei beni? Si cercheranno sponsor, ovviamente. Ma i privati che pagano vogliono qualcosa in cambio. Che so, un faro che proietta nel cielo un vasetto di marmellata, per esempio. No, veramente certi patrimoni sono di noi tutti. Attivarci per difenderli e farli rimanere tali è il minimo che la civiltà ci chiede.

da http://www.badisco.it/album/litoranea%20NORD/slides/391125(kk101).html

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