Intervista ad Antonio Prete, letterato, critico, traduttore

a cura di Renato De Capua

 

Antonio Prete ha insegnato Letterature comparate all’Università di Siena e ha tenuto corsi e seminari presso istituzioni internazionali, tra cui il Collège de France e la Harvard University.

Autore di saggi, narrazioni e poesie pubblicate in diverse lingue, ha tradotto in italiano Baudelaire (I fiori del male), Mallarmé, Rilke, Valéry, Jabès, Bonnefoy: le sue traduzioni poetiche sono raccolte in L’ospitalità della lingua (2014).

Tra i saggi, Il pensiero poetante (1980 e successive edizioni), Nostalgia (1992, ed. ampliata 2018), Prosodia della natura (1993). Le raccolte di poesia: Menhir (2007, Premio Metauro), Se la pietra fiorisce (2012), Tutto è sempre ora (2019, Premio Bodini).

Le prose narrative: L’imperfezione della luna (2000), Trenta gradi all’ombra (2004), L’ordine animale delle cose (2008). Presso Bollati Boringhieri sono usciti: Trattato della lontananza (2008), All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione (2011), Compassione. Storia di un sentimento (2013), Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (2016, Premio Mondello), La poesia del vivente. Leopardi con noi (2019).

Abbiamo avuto il privilegio d’incontrarlo e di dialogare insieme sul rapporto tra la letteratura e la vita; sul mestiere di critico e di traduttore; sulla lontananza e il legame con la propria terra natale. I suoi lavori di scrittura sono stati il punto di partenza del nostro viaggio, nonché il punto di arrivo verso nuove splendide attese.

 

1) Quali sono stati i suoi maestri?

Se pensiamo ai maestri in senso accademico, devo dire che Mario Apollonio, con il quale sostenni la tesi di laurea in letteratura italiana e la tesi di perfezionamento in filologia moderna, è stato un forte punto di riferimento negli anni della formazione: soprattutto per la sua idea di critica come esegesi, cioè come ascolto del testo, della sua parola, in rapporto al proprio interrogare e cercare, al proprio cammino interiore, ma anche per lo sguardo sulla tradizione letteraria italiana che muoveva da punti di osservazione non nazionali, ma europei e mediterranei, e per l’idea che la letteratura è in dialogo costante con le diverse forme artistiche, tra queste il teatro e le arti figurative, compreso il cinema. Ma poi maestri più prossimi, per dir così,  negli anni in cui l’attività dello scrivere era diventata per me essenziale, sono stati poeti e scrittori che ho avuto modo via via di incontrare e che mi hanno fatto dono della loro amicizia: penso a Edmond Jabès, i cui libri ho tradotto in italiano, a Mario Luzi, con il quale ho intrattenuto un dialogo costante sulla poesia, a Yves Bonnefoy, che ho incontrato più volte, e ho tradotto, e del quale ho sempre ammirato l’esercizio di una scrittura poetica non separato dall’esplorazione dei saperi. Ritengo comunque che le relazioni  – di lettura e di incontro reale – con amici poeti e scrittori siano momento rilevantissimo di una formazione.

 

2) Quando è iniziato il suo interesse per Leopardi e Baudelaire? Che cosa lega questi due grandi autori?

Leopardi già nell’adolescenza mi conquistava: mandavo a memoria alcuni Canti, provavo a scrivere versi, approssimativi,  seguendo la sua musica, guardavo la luna salentina alta sopra gli ulivi pensando alla sua luna appenninica, evocando i suoi versi. Alla maturità (liceo classico Palmieri, a Lecce) ebbi  un tema sulla poesia di Leopardi, un tema di impostazione crociana nella traccia, che svolsi, azzardando, in forma narrativa, per una larga parte, ma dicendo comunque della poesia. Il professore d’italiano della commissione, all’orale, mi disse che aveva apprezzato questo ardimento e m’invitò a dedicarmi soltanto, decisamente, alla scrittura. Ma mi scrissi a Lettere, Milano Cattolica (lì c’erano borse di studio), perché volevo insegnare: per vocazione, diciamo, ma anche per necessità di un lavoro immediato (lavoro che svolsi, in forme varie, anche negli anni dell’Università: correzione di bozze, ripetizioni). Comunque subito dopo la tesi la scrittura, nelle sue varie forme, è stata occupazione assidua (collaborazioni a riviste, in particolare).

Il primo studio su Leopardi fu un saggio pubblicato sulla rivista “Per la critica”, nel 1973, dedicato alla Ginestra, intitolato Leopardi e il sapere della morte.  Sulla stessa rivista alcuni mesi prima, nel primo numero, avevo scritto il mio primo saggio su Baudelaire critico, Salon Baudelaire. “Per la critica” era una rivista di teoria che facevamo nei primi anni Settanta con un gruppo di amici giovani, un gruppo  animato da un intellettuale come Gianni Scalia, che veniva da altre esperienze di riviste novecentesche, come “Officina” (con Pasolini, Fortini, Leonetti e altri). Nell’ambiente della rivista, in un incontro bolognese intitolato Eros, eversione, merce, incontrai Pasolini. Partecipavo attivamente, tra Milano e Bologna, alla redazione della rivista (anche portando le bozze in tipografia).

Quanto a Leopardi e Baudelaire, sono due classici che non ho più abbandonato. Mi hanno sempre fatto compagnia, e in forme diverse sono sempre tornato ai loro versi, al loro interrogare. Ho rinviato a lungo un saggio che li metta insieme: non so se mai lo scriverò, quel saggio. Ma molto hanno in comune, i due grandi classici. Il fiore e il male – il nesso tra il fiore e il male – è quel che,  per usare una sorta di emblema,  li avvicina. Pur di generazioni diverse, con linguaggi e orizzonti diversi hanno dialogato tra di loro intorno a grandi temi come la bellezza, il fuggitivo,  il dolore, la pietà, la poesia e il tragico nella modernità…

 

3) In “Sottovento – critica e scrittura” (Manni, 2001) si legge: “la parola, in un libro, ha nascosto la sua voce, per disporsi, inerte sequenza di grafemi, negli spazi e nei tempi della pagina, tra i vuoti e i silenzi che l’assediano”. Quali sono gli strumenti che un critico letterario deve saper adoperare?

Anzitutto l’ascolto, il porsi in stato di ascolto dinanzi al testo, alla sua lingua, ai suoi silenzi. Poi, non separare mai, nell’attenzione e nell’ascolto, il suono dal senso, la lingua dal discorso, il ritmo dall’idea, insomma la forma dal significato. Inoltre si tratta di stare dinanzi a un testo cercando di porre domande e di lasciarsi interpellare dalle domande del testo, in una sorta di colloquio mai passivo. L’atto critico non è che il passaggio dall’ascolto alla scrittura. Un atto nel quale è necessario essere se stessi, cioè avere un proprio modo, un proprio stile. La critica come racconto dell’esperienza propria di lettore. Se la critica è scrittura, vuol dire che comprende la forma, le forme, del dire e la singolarità, lo stile, di colui che dice. Il critico non come uno che classifica, giudica, ordina secondo schemi da storiografia letteraria, colloca in alto o in basso, cataloga secondo valori, ma come uno che sa stare nel bianco della pagina, nel margine del testo che legge, e da lì muove, attraverso l’ascolto, verso la propria scrittura.

 

4) È corretto affermare che “l’arte della traduzione è un’operazione di scrittura”? Che cosa si cela “all’ombra dell’altra lingua”?

Sì, la traduzione ha tutte le implicazioni della scrittura, colui che traduce è di volta in volta un poeta se traduce poesia, un narratore se traduce narrazioni, un saggista se traduce saggi. Questo, al di là se lo sia come suo principale mestiere: nel momento in cui traduce lo è, perché fa esperienza piena del linguaggio, e del movimento che trasmuta un testo in un nuovo testo, insieme specchio o riedificazione o resurrezione del primo e altro dal primo. Trasmutazione nella propria lingua. E una lingua è tradizione, invenzione, stile, identità. Certo, si traduce stando sempre  “all’ombra” dell’altra lingua, all’ombra dell’altra scrittura, ma quell’altro testo rinasce, prende nuova vita, nella propria lingua. Questo è il filo che tesse le pagine che ho dedicato alla traduzione e che ho intitolato appunto All’ombra dell’altra lingua. Sottotitolo: per una poetica della traduzione. Ho sempre ritenuto importante sottolineare la responsabilità di colui che traduce nei confronti della lingua da cui traduce, e contemporaneamente nei confronti della propria lingua: si tratta di ospitare nella propria lingua un’altra esperienza, con un suo timbro, un suo tono, una sua vita. E l’ospitalità è degna se l’accoglienza è appropriata, se la propria casa è resa accogliente: con l’esercizio, lo studio, l’esperienza propria di scrittura.

 

5) Nella sua poesia “Verso la parola” (tratta da “Tutto è sempre ora”, Einaudi 2019) si legge: “quel punto dove il silenzio si sporge/oltre il tacere, forse è il nido/delle parole […]”. Che cosa può la letteratura nei riguardi dell’uomo?

Quei versi dicono del silenzio, della necessità che il silenzio sia il tappeto vero della poesia, la sua anima. Il silenzio inteso non come negazione della parola, sosta, interruzione – “tacere” – ma come movimento che andando verso la parola la sostiene, la abita: contro il rumore del mondo, contro l’usura e l’abuso della parola stessa. Scrivere versi per me è stare nell’esercizio del meditare, dell’interrogare, in attesa che la parola si allei con la musica, si faccia musica senza abolire il senso, cioè l’interrogazione su di sé e sul proprio tempo.

Quanto alla letteratura, essa non salva, ma dà punti di osservazione, di comprensione, e assiste l’immaginazione, i sensi, tiene vivi i sentimenti, e aiuta a entrare in relazione con l’altro – l’altro che è poi principio della nostra identità, del nostro conoscerci e riconoscerci –  ma anche con l’altrove, di un altrove che è respiro del qui, e dell’ora.

 

6) In Carte d’amore (Bollati Boringhieri, 2022) lei ha raccolto molti esempi e figure dell’amore attraverso varie forme di rappresentazione artistica. Quali le sono particolarmente cari?

Sì, il libro si svolge nella prima parte per figure, che sono come dei luoghi intorno ai quali si raccoglie e definisce la lingua dell’amore: dall’apparizione alla confidenza, dalla fascinazione alla gelosia, dalla tenerezza alla lettera d’amore, e così via. Dopo l’intermezzo, che racconta il Simposio di Platone, c’è una seconda parte che cerca di esplorare il paesaggio dell’amore – il giardino, la selva, il mare, la stanza ecc. – non come cornice ma come presenza che partecipa alla lingua dell’amore, al suo definirsi. Quali figure ho sentito di più? Diciamo che ci sono alcune figure alle quali avrei dato più spazio, ma avrei rotto l’equilibrio di un saggio. Sono la tenerezza, per esempio, o l’ agape. La tenerezza come lingua mite della passione d’amore, insieme cura dell’altro e dolcezza, relazione di prossimità  che sa piegarsi sull’altro; e l’agape come passaggio dall’altro come individuo all’altro come comunità, senza che questo passaggio sminuisca l’amore.

 

7) Un’ altra tematica esistenziale sulla quale ha riflettuto è stata la lontananza. Perché proprio ciò che è lontano è stato da sempre suggestione tensiva, anelito verso la scrittura e il racconto, in molti autori della storia letteraria?

La lontananza è un campo di indagine intorno al quale ho lavorato, tenendo per alcuni anni corsi universitari relativi a temi come l’addio, la nostalgia, la rappresentazione dei cieli nella poesia ecc. Il lontano, nella forma greca – tele – va a comporre i termini che dicono i mezzi della comunicazione contemporanea, dal telefono alla televisione. Ebbene, quel lontano la letteratura lo tiene aperto, lo fa attraversare con la collaborazione immaginativa del lettore, mentre la tecnica del nostro tempo, appunto telematica, tecnica del lontano, lo riduce nella prossimità visiva del monitor, riducendo spesso la collaborazione immaginativa e attiva dello spettatore. Si tratta di partecipare attivamente a tenere vivo lo spessore della lontananza, la sua presenza, cioè il rapporto interiore con l’altrove, con l’assente, con l’orizzonte: di questo si alimenta il linguaggio della letteratura e delle arti. Dopo la traduzione spagnola del Trattato della lontananza, alcuni lettori spagnoli hanno aperto un blog, tratado de la lejania, dove si susseguono immagini della lontananza, raffigurazioni che invitano l’immaginazione a misurarsi con l’oltre.

 

8) Lei è originario del Salento, ma ha poi vissuto e insegnato a Siena. Quanto è profondo il legame con la sua terra d’origine e come si riverbera all’interno del proprio sentire?

Il Salento è terra d’origine e di frequenti ritorni. È presente nei miei versi, nelle narrazioni, perché è il paesaggio fisico e umano che mi ha formato, e che è diventato non solo deposito di ricordi, ma linea di confronto, richiamo di alcune presenze che agiscono nella scrittura: la luce, la terra, le architetture, i paesi con i loro colori e le loro storie, la lingua e le lingue, la memoria popolare, la musica popolare, il lavoro sulla terra, le migrazioni, la povertà,  la campagna. E, soprattutto,  il mare. Ma anche gli aspetti dolorosi di una terra di privazioni e di un paesaggio che di recente è stato trasformato dalla Xylella: dramma che non è diventato una questione nazionale, come avrebbe dovuto essere, da subito. Quanto alla presenza del Salento, della sua luce, delle sue forme, nella mia scrittura, i libri di poesie, in particolare l’ultimo, Tutto è sempre ora, uscito presso Einaudi, cercano di raccoglierne riverberi. Come è accaduto anche con le prose del libro L’imperfezione della luna, di Feltrinelli, 2000. E al Salento ho dedicato qualche anno fa esplicitamente un libro per dir così descrittivo, e di memoria, insieme: un viaggio  nelle sue terre, nelle sue coste, nelle sue tradizioni, Torre saracena, per le edizioni Manni. Cito questi libri per dire quanto sia forte il legame con il Salento e come alimenti alcune stazioni del mio lavoro di scrittura.

Usque ad limen suspexit: la poesia di Eugenio Giustizieri

calliope

di  Giuseppe Magnolo

Sulla natura e gli esiti imprevedibili della poesia si potrebbe discettare a lungo. In Kubla Khan, stupendo frammento poetico scritto nel 1797 da S.T. Coleridge, l’idea della pulsione poetica è resa  metaforicamente mediante l’immagine dell’acqua che scorre passando per stadi diversi: dapprima sorgente spontanea, poi torrente a cielo aperto, quindi fiume sotterraneo inarrestabile che travolge rocce e scava in profondità, fino a riemergere come enorme corso d’acqua che va a sfociare e si confonde con l’immensità dell’oceano. Lo stato d’animo che genera il sentire poetico ha molto di imponderabile. Possiamo semplicemente dire che esiste (quando realmente esiste), e talvolta ha la fortuna di associarsi a mezzi espressivi che riescono a dargli voce in modo più o meno comprensibile e condiviso. Anche le modalità di tale condivisione sono eterogenee: volute ma anche imposte, a volte ricercate dall’autore ma non altrettanto dal pubblico, o al contrario eluse dal primo e desiderate dai lettori. In tempi come quelli attuali, in cui qualcuno arriva a negare l’importanza della cultura e dell’arte, non è superfluo ricordare che forse nulla quanto la poesia riesce ad esprimere compiutamente le idee e i sentimenti più sublimi che l’animo umano possa concepire.

La poesia di Eugenio Giustizieri[1] costituisce una voce di assoluto rilievo nella realtà culturale salentina. In qualche modo essa può configurarsi come un vero e proprio caso letterario che richiama precedenti illustri, come la raccolta dei sonetti di Shakespeare, che non ha pari in lingua inglese anche se fu da lui distribuita in copie manoscritte soltanto tra pochi amici intimi, oppure le poesie di Emily Dickinson, unanimemente ritenuta una delle più alte voci della poesia americana dell’800, la quale in vita pubblicò solo qualcuno dei suoi numerosi componimenti inviandolo a riviste letterarie a diffusione alquanto limitata. Sostanzialmente analoga è stata la vicenda poetica di E. Giustizieri, che dopo aver esordito con la raccolta giovanile Fogli di Vetro (1978) ha sempre continuato ad avvertire il fascino irresistibile della poesia, astenendosi però dal dare veste editoriale ai suoi componimenti, tranne che in forma di sporadici contributi in riviste letterarie disposte ad accoglierli, oppure inviandone qualcuno in modo assai riservato a pochi amici e conoscenti considerati ‘addetti ai lavori’. Complessivamente egli ci ha lasciato un corpus di ben 127 componimenti (presumibilmente in gran parte inediti), che provvidenzialmente poco prima della sua scomparsa egli ha fatto pervenire in copia informatizzata al direttore di questa rivista, a cui devo sia la conoscenza dell’opera completa che l’esortazione a scriverne su queste colonne.

L’itinerario poetico di Giustizieri si configura come parte di una più ampia ricerca estetica ed esistenziale che abbraccia varie forme espressive, specie in ambito figurativo (pittura, scultura, architettura), che egli affrontava sia sotto l’aspetto creativo che come critico finemente percettivo. Ma è la duplice natura della poesia, da un lato emozionale e dall’altro logico-concettuale, che in qualche modo lo ha indotto a mettere pienamente a nudo la sua vena intimista, nostalgica e tristemente ripiegata su sé stessa, che lo conduceva ad un ineludibile fatalismo, ad una visione sconsolata della vita derivante essenzialmente da un contrasto lacerante tra l’aspirazione classica al bello e al vero in funzione etico-contemplativa e la consapevolezza romantica dei limiti imposti sia alla ricerca individuale di assoluto che alla sua valenza in senso spazio-temporale.

In uno dei suoi scritti di critica estetica così egli si esprimeva a proposito delle finalità dell’arte: ”L’anelito alla poesia della forma non può restare vuoto, deve racchiudere un codice interpretativo, deve rappresentare un esempio di morale con tutto il bagaglio di tormenti e di ferite, dovute alla profondità dei temi trattati”. Se proviamo ad invertire i termini iniziali leggendo “forma della poesia” possiamo trovare in questa affermazione il suo stesso credo poetico, che essenzialmente include tre elementi fondamentali: una concezione dell’esperienza poetica come aspirazione alla perfezione formale secondo una prospettiva estetizzante che conduce al culto della bellezza sublimando il vissuto individuale e collettivo; la precondizione di un fondamento etico che sorregge la ricerca poetica, da intendersi non come banale moralismo bensì come profondità ed autenticità assoluta di sentimenti che possono conferire valore universale all’espressione artistica; infine l’accettazione di un inevitabile bagaglio di sofferenza a cui il destino del poeta sembra fatalmente legato. Fortunatamente questa conclusione pessimistica non preclude esiti finali di pacata arrendevolezza di fronte ai propri limiti, per giungere ad una volontà di rassegnazione, forse anche ad una possibilità di fiduciosa speranza.

I motivi tematici presenti nella sua produzione poetica sono inscindibili da una costante proiezione in senso intimista, che lo portava alla riflessione e all’ascolto interiore, generando una necessità impellente di isolarsi temporaneamente dal mondo per guardarsi dentro. Dialogando con sé stesso egli ha potuto cogliere sentimenti ed emozioni connessi allo scorrere del tempo e delle stagioni (Attesa, Né qui né altrove, Due nomi, Voglio essere voce, La spiaggia, Aspettando l’alba), e ai rimpianti generati dalla memoria (Nostalgia del fuoco, Stagione, Come prima, Profilo, Mutazioni, Ricordami, Tessere, Messaggio).

Assai intenso risulta anche il legame con la terra-madre attraverso l’eco che ne dilata i confini (Parole strette, Labili confini, Dopo l’allegria, A Sud di Lecce, Paesaggio, Il mio paese, Quadri di fumo, L’ulivo, Appunti, Adesso, La mia terra). Questo rapporto tuttavia a volte diventa complesso e problematico, come nella lirica  Non porgo più la mano, in cui esso è percepito come intollerabile e asfittica segregazione (La luna danza aspra / nella luce che taglia / con lame di fiele / questo paese senza mura).

In molte poesie emergono le pulsioni affettive dell’anima, e tuttavia l’eros propende non tanto verso il richiamo dei sensi, quanto invece verso un recupero sommesso dei momenti magici che hanno scandito il rapporto amoroso. Lo si constata in poesie assai intense come I nostri anni, Viene, Rimani così, Parlo di te, Filo di rosario, Fuochi, Ritratto, Sino a ieri, Da stella a stella, Legàmi. Su questo tema può essere esemplificativo Petalo di rosa, un componimento che riesce a rendere con grazia e lievità estrema un empito di passionalità scandito dal ritmo di un breve fraseggio, condensando il suo messaggio nel secondo verso che risulta un endecasillabo perfetto:

Graziosa, piccola, fragile

tu allarghi gli orizzonti del mio mare.

Liberi vuoti di una vita,

mescoli sfumature alle viole,

anche solo parole

fra l’ansia e il tuo amore.

Altrove l’amore assume valenza universale, diventa agàpe, desiderio di umana simpatia, bisogno di fratellanza, afflato solidale alla condivisione come unica àncora che può in qualche modo attenuare l’incombere di una sorte avversa (Diamoci la mano, Diario del silenzio, Turchese, Dalla terra). Né manca in alcuni componimenti un profondo anelito religioso, che spesso rimane in bilico tra speranza e smarrimento (Scorrere, Il silenzio, Passo d’addio, Il cancello del cielo, Ad occhi aperti, Lo specchio dei colori), ma talvolta fa affiorare echi della pietas virgiliana nel suo docile inchinarsi ai segni del destino (Verrà il tempo, Minima, Frammenti d’anima, Azimut, So di amarti) .

Mentre sotto l’aspetto esistenziale e gnoseologico il sentire di Giustizieri richiama per molti versi la visione di Leopardi, sul piano stilistico e formale la sua poesia evidenzia una attenta messa a frutto della lezione ermetica non solo nel preferire una assai contenuta articolazione espressiva, ma anche e soprattutto nel rivelare una concezione suggestivo-evocativa della parola rispetto ad un uso discorsivo o descrittivo del linguaggio poetico. Ogni componimento obbedisce ad una sapiente architettura (sic!), a cominciare dal titolo, sempre concepito in funzione dinamico-propulsiva o persino contrastiva rispetto al testo, ma anche per quanto concerne la versificazione, gli effetti timbrico-fonetici, l’uso delle assonanze, alcune correlazioni di natura ossimorica (e.g. parole strette, destino deserto, tela di pietra, assordante vuoto, gioia arrugginita, bianco dolore), la punteggiatura, fino alla chiusa che anziché definire e completare il margine semantico dell’evento poetico, tende invece a creare come degli spazi vuoti, dando spesso al lettore la sensazione di esser proiettato sul ciglio di un dirupo oltre il quale non si può discernere.

Chi è il destinatario di questa poesia? La domanda non è oziosa, non soltanto in considerazione di quanto già rilevato sulla mancata pubblicazione della raccolta, ma anche per un motivo più sostanziale costituito dal fatto che chi scrive ha spesso in mente sia un interlocutore (reale o fittizio) che rappresenta quasi una controparte in ogni singolo componimento, come anche un potenziale lettore che può diventare compartecipe dell’esperienza del poeta. Le dramatis personae idealmente presenti nella raccolta sono varie: l’alter ego del poeta, la realtà naturale, la donna amata, l’uomo-fratello, l’assoluto universale, Dio-padre. In primis è a loro che la voce del poeta è diretta, ma egli è anche fiducioso che vi siano delle anime gemelle che possono ascoltare, comprendere, forse anche condividere i suoi sentimenti.

Le componenti sul piano metaforico del discorso poetico di Giustizieri sono congruenti con il tessuto concettuale ed emotivo su cui vengono ad innestarsi, talvolta in funzione di pura analogia, ma non di rado caricate anche di una valenza simbolica che ne giustifica anche la reiterazione con significative varianti contestuali. Si tratta in prevalenza di elementi naturali, floreali, oppure paesaggistici. Ad esempio il petalo di rosa nella poesia omonima simboleggia il volto dell’amore, il gelsomino allude alla linfa vitale (Da una stanza all’altra), come il geranio all’energia (Sull’acqua), il vento diventa simbolo della forza propulsiva della natura, la nuvola  è metafora della libertà nella solitudine, la luce sprigiona il senso del divino, la stella  è l’emblema della speranza. E’ proprio grazie a questi referenti che si possono comprendere fasi e mutazioni del divenire esistenziale dell’autore. Si pensi alla metafora cangiante della stella che tenta di scendere sulla terra, ma subito risale smarrita e preferisce tornare nel firmamento (Solo), immagine che altrove diventa due stelle ‘perdute nella tristezza’ ad indicare la visione spenta che si presenta ai suoi occhi (Scritto sull’acqua), mentre nell’ultimo componimento troviamo un “campo di stelle” che punteggia la volta celeste prefigurando l’essenza del divino.

Come era inevitabile, l’evoluzione finale dell’itinerario poetico del Giustizieri ha risentito della prova terribile a cui egli è stato sottoposto sul piano fisico, psicologico ed esistenziale. Negli ultimi componimenti si constata quanto profondamente i colpi della sorte avversa si riverberino sul suo modo d’essere, condizionando anche il processo creativo che conduce alla poesia. Infatti si può affermare che la vena di tristezza che è presente sin dall’inizio della raccolta non è generalmente tale da precludere al poeta la possibilità di assaporare la vita nei momenti di abbandono e stoica rassegnazione,  mantenendo in qualche modo un canale aperto di empatia ed interlocuzione con un potenziale lettore. Tuttavia avvicinandosi alle poesie più tardive si avverte un fatale incupirsi degli orizzonti dell’autore, sicché la poesia stessa ad un certo punto diventa documento personale del proprio calvario, quasi negazione di sé stessa, dato che non esiste appiglio di sorta che salvi dalla disperazione (Non Tendo più la mano, Non ho eredità, Non aspetto nessuno). E così l’assurdità del vivere invade il pensiero cosciente, rendendo il linguaggio teso e talvolta impenetrabile a qualsiasi tentativo di analisi razionale. Soltanto gli ultimi componimenti (Eco d’amore, Luce, Ti riconosco) rivelano un riconquistato equilibrio comunicativo, come effetto di un progressivo distacco dalla realtà per raggiungere uno stato di sospensione che prelude alla trascendenza. A queste differenti condizioni psicologiche corrisponde una sempre più accentuata essenzializzazione del linguaggio, come è evidente in Campo di stelle che chiude la raccolta:

Ogni mattina

il cuore batte

dietro un campo

di stelle.

La parola poetica si fa disadorna, quasi priva di determinanti ed aggettivazione, sino a diventare phanopoeia, segno intelligibile che tende ad un effetto di evocazione-astrazione usque ad limen, fino ed oltre il confine della realtà sensibile, verso una condizione puramente visionaria. Vi sono nella raccolta di Giustizieri alcuni momenti di rilievo assoluto, in cui la facoltà creativa della poesia riesce veramente ad assumere valenza universale, dando al lettore la magica sensazione di trovare nella voce del poeta l’espressione di sentimenti che appartengono a tutti, ma solo pochi sanno esternare e comunicare in modo indelebile. Uno di tali momenti si può certamente trovare nella lirica Poesia, che nella sua icastica brevità quasi rappresenta il testamento artistico dell’autore, e che ha dato spunto per il titolo del presente saggio:

Ti sentirò fuoco

fino al sole

e  per gioco

consumerò la vita

già domani,

trovando parole

cadute

sul tuo confine,

dove più m’arrendo

e mi perdo

irraggiungibile.

 

(G.M., novembre 2010)

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 


[1] Eugenio Giustizieri, nato a Sannicola (LE) nel 1957, è venuto tristemente a mancare a maggio del 2010 a soli 53 anni, a causa di un male che in breve tempo non gli ha dato scampo. Era architetto libero professionista, docente di storia dell’Arte, critico, specialista dell’arte italiana del ‘900. Per scelta è vissuto sempre nella sua terra d’origine. Sia in ambito artistico che letterario egli ha ottenuto significativi riconoscimenti in Italia e all’estero. Sue opere figurano in collezioni pubbliche e private in Europa e in America.

Il topos dell’uccello nella poesia d’amore

di Armando Polito

immagine tratta da  http://it.wikipedia.org/wiki/File:Hirundo_rustica_1_(Martin_Mecnarowski).jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Hirundo_rustica_1_(Martin_Mecnarowski).jpg

Il lettore ricorderà che nel recente pregevolissimo post Gli ambasciatori dell’amore di Emilio Rubino (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/21/gli-ambasciatori-dellamore/) tra i tanti messaggeri d’amore c’era pure una lindineddha1 (rondinella). Ripropongo il testo non tanto per qualche revisione nella scrittura sembratami opportuna quanto per tentare di mettere in grado il lettore non salentino, che ne avesse interesse, di gustarlo, forse, meglio e, tentazione cui non so resistere, consentirmi le solite divagazioni …

2

 

Quello della rondine portatrice di messaggi (al pari del piccione viaggiatore e, come vedremo, pure dell’aquila) è un topos5 della letteratura soprattutto dialettale di ogni regione. Mi limiterò a riportare altri esempi solo salentini traendoli dal secondo volume di Canti popolari delle provincie meridionali raccolti da Antonio Casetti e Vittorio Imbriani (che, a sua volta, fa parte del secondo volume della collana Canti e racconti del popolo italiano, a cura di D. Comparetti e A. D’Ancona, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1871). Anche per loro la traduzione in italiano e le note che ho aggiunto hanno le stesse finalità. Sarò grato a chiunque segnalerà dalla nostra o dalle due altre provincie di Terra d’Otranto qualche altro componimento sul tema di cui sia a conoscenza.

Qui l’originalità è data dalla seconda quartina che costituisce la citazione fedele del testo della lettera.

Compare qui l’immagine del sangue, topos nel topos perché abbastanza ricorrente in componimenti popolari di altri territori.8

Si chiude qui il mio intervento sulla rondinella. Spero di aver deluso solo chi dal titolo si aspettava chissà che cosa …

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1 Diminutivo di un inusitato *lìndine (da non confondere con l’omofono lìndine, in italiano lèndine, cioè l’uovo del pidocchio) che, come l’italiano rondine, deriva dal latino hirùndine(m); però, mentre la voce italiana presenta solo aferesi [hirùndine(m)>*rùndine>rondine)], quella dialettale presenta  la seguente trafila: hirùndine(m)>*rùndine>*lùndine>*lìndine.

2 Nel dialetto neretino il verbo spaccare è usato anche nel significato di attraversare, soprattutto nel nesso spaccare la chiazza=attraversare la piazza; può sembrare un verbo appena appena adatto per la rondinella anche se non fende le onde ma l’aria, troppo forte per la piazza. Credo che spaccare la chiazza corrisponda, anzi corrispondesse, al moderno bucare lo schermo, perché un passaggio femminile in piazza era un evento piuttosto inconsueto; non solo, ma il verbo spaccare ancora oggi è usato nel senso di compiere il percorso più breve (corrispondente, questa volta, al moderno tagliare le curve) che era l’imperativo categorico per una donna che fosse obbligata ad attraversare la piazza, naturalmente ad occhi bassi …

3 Corrisponde all’italiano aulico alma, dal latino ànima(m) con dissimilazione (forse per influsso della radice di àlere=nutrire o, più probabilmente, di halàre=spirare) e sincope di –i-. Nell’attuale dialetto neretino la voce sopravvive solo nelle locuzioni  pi ll’arma tua! (=ti prego!; alla lettera per l’anima tua!) e dare all’arma detto di bevanda che, accoppiata con cibi o altre bevande particolari, può creare disturbi di natura digestiva. Negli altri casi oggi si usa la voce italiana anima.

4 Stessa etimologia della voce italiana: dall’aggettivo latino capitàle(m)=che riguarda il capo, la vita, da caput=testa. Dal neutro sostantivato (capitale) è derivato tal quale la ben nota voce finanziaria e da caput è derivato, sempre in latino, capital (ma non è inglese? …) che, guarda caso, significa delitto capitale (cioè punibile con la morte… sono un pacifista ma chissà perché mi viene da pensare a certa finanza …) oltre che benda di sacerdotessa (IOR docet? …). Da caput è derivato capitium=cappuccio (dal cui plurale capitia è nato l’italiano capezza o cavezza), che, a sua volta, attraverso la forma aggettivale *capitiàle(m) ha dato vita all’italiano capezzale. Credo che siano pochi i vocaboli che a furia di traslazioni si siano allontanati tanto dall’idea di partenza (testa) fino a giungere a quella di ricchezza (capitale) o di morte più o meno imminente (capezzale). Meno male che il dialettale capitale è semplicemente sinonimo di cuscino!

5 La voce in greco significa luogo ma in retorica viene usata per indicare un luogo comune, cioè un tema ricorrente. L’aggettivo derivato in italiano è topico (momento topico=momento decisivo) usato pure in forma sostantivata nel significato di medicamento ad uso locale. La parola è piuttosto pericolosa come ben sa quella signora che nel bel mezzo di una affollata conferenza uscì precipitosamente dall’aula per la paura, ma anche per telefonare subito dopo ad un’impresa di derattizzazione, non appena l’oratore proferì le fatidiche parole: -Signori, siamo giunti al momento topico del nostro incontro-; o come quell’altra che al medico che premurosamente dopo la prescrizione le diceva: –Signora, si tratta di un farmaco ad uso topico- ebbe a ribattere: -Dottore, che schifo!-. Se non avesse pensato al topo ma alla moglie dello stesso probabilmente avrebbe detto –Dottore, come si permette!-.

6 Mi sembrava un delitto rendere con un infame e infelice solchi il cielo col tuo tipico volo. D’altra parte, se la poesia è, come deve essere, democratica, anche il popolo ha il diritto di inventarsi all’occorrenza delle voci. Così rendineddha ci rièndini lu mare mi pare senza dubbio alcuno all’altezza del bodiniano e la vita cocumola tra le pentole, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/10/ti-mando-a-cocumola. A chi dovesse farmi presente che il verbo rondinare è già presente in Giuseppe Cesare Abba (Le rive della Bormida nel 1794)  : … Dio non aveva concesso che in tempi di pericolo il lupo stesse a rondinare intorno all’ovile ribatto che il racconto dell’Abba è del 1875, cioè posteriore di quattro anni alla pubblicazione della raccolta di Casetti-Imbriani. E, anche se fosse stato anteriore, ciò non avrebbe di certo escluso la derivazione popolare del neologismo. Se poi vogliamo trovare la paternità dell’immagine, anche se non riferita al tema dell’amore, dobbiamo rifarci al greco in cui rondine fa  χελιδών (leggi chelidòn) e già 2500 anni fa era nato pure il verbo derivato χελιδονίζειν (leggi chelidonìzein) usato da Teognide (VI-V) e del quale cui abbiamo notizia grazie alla testimonianza di Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.) che ne I deipnosofisti, VIII, 60 così scrive: Καὶ χελιδονίζειν δὲ καλεῖται παρὰ Ῥοδίοις ἀγερμός τις ἄλλοςπερὶ οὗ φησι Θέογνις ἐν β᾽ περὶ τῶν ἐν  Ῥόδῳ θυσιῶν γράφων οὕτως·εἶδος δέ τι τοῦ ἀγείρειν χελιδονίζειν Ῥόδιοι καλοῦσιν γίνεται τῷ Βοηδρομιῶνι μηνίχελιδονίζειν δὲ λέγεται διὰ τὸ εἰωθὸς ἐπιφωνεῖσθαι· ἦλθ᾽, ἦλθε χελιδὼν/καλὰς ὧρας ἄγουσα,/καὶ καλοὺς ἐνιαυτούς…

(E cantare la canzone delle rondini [così traduco, anche più avanti, χελιδονίζειν] è detto presso gli abitanti di Rodi un altro tipo di questua sul quale Teognide scrivendo nel secondo libro de Le feste sacre a  Rodi così dice: gli abitanti di Rodi chiamano cantare la canzone delle rondini un tipo di questua che si svolge nel mese di marzo. Si chiama cantare la canzone delle rondini per il solito gridare: È giunta, è giunta la rondine che porta la bella stagione e anni belli … ). Insomma, lasciando da parte la questua religiosa e l’amore, usando il linguaggio matematico possiamo dire: rondinare:rondine=χελιδονίζειν:χελιδών.

7 Cucchiare, corrispondente all’italiano (ac)coppiare, dunque avvicinare, qui usato in senso riflessivo, è da cocchia che indica le due parti che costituiscono la frisella. Per saperne di più sulla frisella ma anche su cocchia vai a  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

8 Due esempi per tutti, tratti sempre dalla raccolta del Casetti: Napoli: Aquila che d’argiento porte l’ale,/ferma quanno io te dico ‘na parola:/ – Damme ‘na penna de ‘sta tua ala;/quanno faccio ‘na lettera a lu mmio ammore,/tutta de sangue la voglio abbagnare,/po’ pe’ suggello nce metto ‘sto core./Quanno la letterqa è fenita de fare,/aquila, portancella a lu mmio ammore-.  Spinoso (Pz): O rondinella, ca vaj’ pe’ lu mare,/fermati, quant’e dico doje parole./I’ ti vojj’ tirar ‘na penna da l’ale/pr’ scrivere ‘na lettera a lo mio amore;/tutta de sangue la voglio stampare/e pi’ siggillo ci metto lu core.

9 Da notare la finezza tecnica dell’aferesi in funzione metrica: se si fosse usato luntani il verso sarebbe stato l’unico dodecasillabo tra tutti endecasillabi.

Quando s’incontrano foto e poesia. Stefano Crety e Agostino Casciaro

 

VIAGGIO SALENTINO

di Agostino Casciaro*

 

Dagli anfratti ascellari
di un’antica mappa muschiata,
acri sapori diffusi
si elargirono,
fino ad eclissarne
le ombre felpate dei passi lenti
intrisi di etniche danze…

 

Sul crocevia delle regioni proibite
fermai il tempo,
quand’egli, ormai nutrito
nelle lande dell’ attesa,
definitivamente si spogliò
degli ultimi suoi, futili grovigli;
ed or dinanzi al ventre di licheni,
l’acqua sorgiva del miraggio
setacciava un teso terso tepore statico,
e tra ammalianti dirupi,
finalmente parve tangibile
dissetare un desiderio mai smorto…

 

 

Agostino Casciaro nato a Vignacastrisi (Lecce), vive e lavora nella propria “Officina d’Arte” di via S. Francesco “dove si occupa di cartapesta e terracotta artistica, di vagabonderia poetica e altre meraviglie.
Nel 1975 dopo un accurato viaggio di ricerca tra la gente del proprio territorio scrive “Delitti del Salento” , autoprodotto. Nel 1976 scrive “ La Passione di Vignacastrisi “, testo teatrale tratto dagli Evangeli che mette in scena fino al 1978, dov’egli interpreta la figura del Nazareno. Nel 1980 fonda e dirige fino al 1987 “La Lira” gruppo di teatro sperimentale. Nel 1995 fonda e dirige il gruppo culturale “Arti e Mestieri “. Nel 1996 fonda e dirige il premio poesia “La Saga dei Curli “, cura il testo dello stesso premio, Gino Bleve Editore, 1997. Nel 1998 fonda e dirige la piccola casa editrice “Officina d’Arte di Via S.Francesco – Centro Promozione Cultura”. Nello stesso anno e fino a giugno 2000 fonda, dirige ed edita “ Il Cocchiere dei Sogni”, rivista mensile di narrativa.
Nel 2000 scrive “Pioggia non fermarti mai”, raccolta di scritti poetici, prefazione di Luigi Chiriatti a cura di Maurizio Nocera , Gino Bleve Editore (da http://www.musicaos.it/)

 

Quando s’incontrano foto e poesia. Stefano Crety e Agostino Casciaro

 

VIAGGIO SALENTINO

di Agostino Casciaro*

 

Dagli anfratti ascellari


di un’antica mappa muschiata,


acri sapori diffusi


si elargirono,


fino ad eclissarne


le ombre felpate dei passi lenti


intrisi di etniche danze…

 

Sul crocevia delle regioni proibite


fermai il tempo,


quand’egli, ormai nutrito


nelle lande dell’ attesa,


definitivamente si spogliò


degli ultimi suoi, futili grovigli;


ed or dinanzi al ventre di licheni,


l’acqua sorgiva del miraggio


setacciava un teso terso tepore statico,


e tra ammalianti dirupi,


finalmente parve tangibile


dissetare un desiderio mai smorto…

 

 

Agostino Casciaro nato a Vignacastrisi (Lecce), vive e lavora nella propria “Officina d’Arte” di via S. Francesco “dove si occupa di cartapesta e terracotta artistica, di vagabonderia poetica e altre meraviglie.
Nel 1975 dopo un accurato viaggio di ricerca tra la gente del proprio territorio scrive “Delitti del Salento” , autoprodotto. Nel 1976 scrive “ La Passione di Vignacastrisi “, testo teatrale tratto dagli Evangeli che mette in scena fino al 1978, dov’egli interpreta la figura del Nazareno. Nel 1980 fonda e dirige fino al 1987 “La Lira” gruppo di teatro sperimentale. Nel 1995 fonda e dirige il gruppo culturale “Arti e Mestieri “. Nel 1996 fonda e dirige il premio poesia “La Saga dei Curli “, cura il testo dello stesso premio, Gino Bleve Editore, 1997. Nel 1998 fonda e dirige la piccola casa editrice “Officina d’Arte di Via S.Francesco – Centro Promozione Cultura”. Nello stesso anno e fino a giugno 2000 fonda, dirige ed edita “ Il Cocchiere dei Sogni”, rivista mensile di narrativa.
Nel 2000 scrive “Pioggia non fermarti mai”, raccolta di scritti poetici, prefazione di Luigi Chiriatti a cura di Maurizio Nocera , Gino Bleve Editore (da http://www.musicaos.it/)

 

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