Quando l’amore è olio …

di Pino de Luca

Un vecchio proverbio recita: “ci sparti ricchezza te rimane povertà” (Se dividi la ricchezza resta la povertà).
Famiglie contadine che possedevano un qualche fazzoletto di terra hanno sempre generato cospicua prole. Ai figli quella terra s’è divisa. Ciò che era abbastanza per tutti diventa, di colpo, insufficiente per ciascuno.
Per fortuna che i figli “si prendono le scuole”, si apre la via della professione e la campagna resta li, inutile e incolta. Testimone del passato, problema del presente e facile preda di razziatori futuri.
Ogni tanto a contrastare questa evoluzione (sic!) c’è di mezzo l’amore. Non quello bucolico, eroico o romantico. L’amore normale, quello che fa incontrare due persone che si trovano attraenti, si comprendono, condividono un progetto di vita e se la giocano insieme. L’amore normale che non ammette repliche, che ti incontri a luglio, ti frequenti qualche mese, ti piaci, ti capisci in ottobre e l’aprile successivo ti sposi.
Come a chiunque si ama dovrebbe esser permesso. Perché l’amore è la potenza più grande che l’umanità ha a sua disposizione per salvare se stessa da se stessa.
Grazia e Francesco hanno “le scuole”, un bel lavoro “cittadino”, una eccellente carriera di fronte che, per amore, diventa un luminoso futuro alle spalle.
Ci si può amare davvero vivendo in grandi città, in Italia ed in Svizzera, trattando “grandi clienti finanziari” o compagnie di comunicazione di “grandi clienti”?
Si, forse è possibile, magari lo fanno in tanti ma i Barba (cognome comune ad entrambi) piantano tutto. E scoprono che piantare è la loro passione. Piantare ulivi.
In verità ne hanno ereditati qualche decina di ettari e la scelta che si prospetta è: coltivarli per hobby o dedicarsi a loro.
Scelgono la seconda. Impavidi e/o incoscienti.
Una laurea in Scienze Bancarie e una in Economia e Commercio che prospettiva possono avere in agricoltura? Eccelsa.
Perché prima della Laurea conseguita nelle Università c’è una expertice imparata sul campo da ambedue. Una bella villa in contrada Saetta e, a qualche chilometro, queste stupende campagne immerse nella “conca aurea” posta tra Monteroni e Copertino: una distesa di terre fertilissime.
Alberi di Celina di Nardò, di Ogliarola e di Leccino curati fino alla paranoia, non una foglia di secco a pagarla a peso d’oro, una squadra di maestranze che conoscono quelle campagne e quegli alberi palmo a palmo.
Francesco ha una fissazione: la qualità delle olive. Nulla è lasciato al caso o trascurato, dalla potatura “a piani” eseguita ogni anno, alla raccolta con pettinatura distinta per cultivar e rispettando, ovviamente, i differenti tempi di maturazione.
E mentre passeggia tra gli alberi, alcuni giganti di sette-otto secoli, mostra con fierezza ed emozione il frutto del suo lavoro, delle terre che ha comprato e alle quali dedica ogni ora della sua felice esistenza.
Grazia invece “ci mette il naso”. A parte la comunicazione che era il suo mestiere, ha studiato da sommelier dell’olio e ha abbinato delle indubbie doti personali con l’amore per la campagna trasmesso dal padre, medico di fama che continua, imperterrito, a seguire la terra da sempre.
I Barba e gli ulivi sono una cosa sola, forse derivata dalla comune radice, una trisavola di entrambi, lontanissima nel tempo che si chiamava Oleria, assai probabilmente dal nome di una bellissima farfalla.
Ma a lei è intitolata l’azienda: Donna Oleria (non Olearia) di Monteroni. I prodotti (due monovarietali, celina e ogliarola, e una Dop Terra d’Otranto insignito delle Tre Foglie dal Gambero Rosso) sono orientati alla altissima qualità e sono il “segreto” di molti Chef nazionali le cui stelle rifulgono nel firmamento della cucina.
Grande prodotto dei campi dunque, raccolta pettinata e molitura immediata a … 25 Km di distanza. Vernole, cooperativa Sant’Anna.
Urge vedere, sentire, scrutare. Un opificio che trasforma olive un tempo si chiamava “trappeto”, noto comunemente come “frantoio” assai diffuso nel Salento soprattutto in forma ipogea. Un tempo, le mamme chiamavano “trappitari” i figlioli che tornavano a casa sporchi e inzaccherati, perché nel frantoio imperava il grasso, la cenere e, diciamolo, la sporcizia per le particolari modalità di lavorazione e di commistione fra uomini e animali che convivevano, spesso, per l’intera “campagna” sotto il comando di un capo, il “nagghiro”, versione dialettale del “nocchiero”.
Cooperativa Sant’Anna, tre linee di produzione completamente automatizzate, l’unico odore che si sente è quello delle olive appena frante, il rumore è abbastanza forte e gli operai, sotto l’abile guida del Sig. Gianni, moderno “nagghiro”, si muovono lesti e silenti: hanno abiti da lavoro eleganti, lindi e personalizzati. Anche guardando le fughe del pavimento non si trova una striscia di unto o di umido a pagarla in contanti.
Un signore con il volto segnato da rughe profonde che sanno d’antico, dalle mani forti di chi ha conosciuto ogni tipo di fatica ma ha ancora energia per conoscerne altrettanta, si presenta come Michele.
È l’ammiraglio di questa cooperativa che, in sette anni, ha virato profondamente affidandosi a energie giovani guidate saggiamente e con determinazione da un sessantacinquenne dagli occhi che trasudano cultura e coraggio.
Eccellenze che si uniscono e che, in pochi anni, cambiano l’età media dei produttori di olio e la qualità dell’olio medesimo.
Quanta cultura da presentare abbiamo e non dobbiamo nemmeno aspettare il 2019, se solo torneremo a coltivarlo, il futuro, ci darà frutti dolcissimi.
Dovrei dire di Jack e di mamma Giovanna, ma è la prima pagina sull’olio e mi sia concesso di pensare ad una spremitura di leccina e ad una giovanetta che mi piace immaginare come Miss Marianne di Sherwood che se la gode con il buonissimo pane del Salento.

Nome: Terra d’Otranto


Tipo: Olio Extra Vergine di Oliva DOP
Composizione: 60% Ogliarola, 30% Celina di Nardò, 10% Leccino

Note organolettiche:

Colore:  Giallo brillante con riflessi verdi.
Naso: vegetali freschi, erbaceo floreali (carciofo) e frutta appena colta
Gusto: richiama il naso e prosegue, lungo con una giusta nota di amaricante e pungente

Acidità:
0,3
Oleologo: Carmelo (Nino) Buttazzo

 

 
Nome:  Tra due mari

Tipo:  Olio Extra Vergine di Oliva
Composizione:  100% Celina di Nardò

Note organolettiche:

Colore:  Verde brillante con riflessi giallo oro
Naso:  Tipico della varietà, media intensità di frutta rossa e gialla appena matura.
Gusto:  Armonico al palato, richiama la frutta rossa e finale amaro e pungente tipico della varietà.

Acidità:
  0,3
Oleologo: Carmelo (Nino) Buttazzo

 

Nome:  Tra due mari

Tipo:  Olio Extra Vergine di Oliva
Composizione:  100% Ogliarola Salentina

Note organolettiche:

Colore:  Verde brillante con riflessi giallo oro
Naso:  Note erbacee, foglie di pomodoro e mandorla di media intensità,
Gusto:  Buona armonia, dolcezza e rotondità. Suadente e Armonico al palato, ha note gustolfattive dolci e profumate.

Acidità:
  0,3
Oleologo: Carmelo (Nino) Buttazzo

 

Olio e imbonitori …

Olio

di Pino de Luca

 

In un tronco di ulivo Ulisse intagliò il suo talamo nuziale, di legno d’ulivo è il manico dell’ascia bronzea che Calipso gli dona per costruire la sua zattera, sempre dall’ulivo viene l’arco con cui il re d’Itaca compie la Nemesi verso i Proci. Biòs è l’arco d’ulivo, strumento di morte, Bìos è la vita che si concepisce nel talamo nuziale … E un ramoscello d’ulivo porta la colomba a Noé per suggellare il patto dell’Arca, e l’unzione sovrintende confermazione, ordine sacro e l’atto estremo. D’ulivo sono le fronde che accolgono l’Emanuele a Gerusalemme e frantoio (Getsemani) è il luogo del tradimento e dell’estremo sacrificio. Quanti simboli in quell’albero, in quei frutti e nel succo che ne scaturisce. Prezioso per tutti, per i vivi e finanche per i defunti. Salubre e santo.
Non si può far verbo dell’olio senza parlar d’ulivi.
Di oli ne esistono tanti, ma l’olio che viene dalla premitura delle drupe dell’albero che impreziosisce da millenni le terre del Mediterraneo è altra cosa. L’ulivo è pace, morigeratezza nei costumi, gloria, giustizia, sapienza, rinascita a nuova vita. È l’albero che si torce per impedire che da esso si possa trarre il legno della croce e così resta, scultura perpetua e testimone per secoli di abbondanze e carestie.
ph Mauro Minutello
ph Mauro Minutello
Conviviamo da sempre con questi giganti buoni, alberi che la stupidità e l’avidità di pseudo-umani troppo spesso sacrificano a inutili forme di pseudo-modernità. Dai nostri ulivi secolari si estrae, appunto da secoli, l’olio, l’oro verde. L’esigenza di tutelarne il valore ha prodotto, forse troppo lentamente, normative stringenti capaci di rendere più difficili le frodi. La più recente riguarda la riconoscibilità di oli prodotti da olive “maltrattate”.
Non è questo il luogo per tassonomie e classificazioni, ma l’elemento chimico-fisico minimale per riconoscere un Olio Extra Vergine d’Oliva (OEVO) ci sia permesso: Acidità: 0,8%; Numero di perossidi: 20; Acidi saturi: 1,3; Steroidi: 1, Isomeri: 0,03; e all’esame spettrofotometrico: K232: 2,5; K270: 0,1, ?K: 0,001.
Ovvio che non basta, queste sono le condizioni minimali, di chimico-fisiche, ve ne sono tantissime altre, fra le ultime la quantità di sostanze che va sotto il nome di alchil-esteri e metil-esteri.
Poi si ragiona di olfatto, gusto, salubrità. Il nostro territorio è da sempre dominato da cultivar di celina di Nardò, ogliarola leccese e porzioni ampie di leccino e frantoio.
Non eravamo terra vocata alla produzione di oli alimentari, ma solo di oli lampanti, ovvero atti a fornire energia per i lampioni di grandi città come Milano e Parigi. Poi l’evoluzione e il petrolio, l’energia elettrica e i testimoni della storia a presidiare i campi, a onorare le mense che intelligenza e cultura secolare hanno arricchito con produzioni ad uso alimentare e dalle caratteristiche straordinarie.
Quale miglior “integratore alimentare” per i bambini convalescenti può sostituire un cucchiaino di “olio di affioramento”? Cosa c’è di più sano di una frisa con olio, pomodoro, sale e un pizzico di origano fresco? E le paparine ripassate con olio, olive nere e una punta di diavolicchio?
Potremmo andar avanti per secoli … e per secoli siamo andati avanti. Liberi dalla necessità di produrre per le torce, i produttori più avveduti hanno affinato tecniche di produzione, di raccolta e di molitura e oggi il Salento è patria di oli da sballo, dal Terra d’Otranto DOP a vari monocultivar dalla versatilità incredibile. Arrivano mail che raccontano di uso per far pasta frolla e salsa besciamel, gelato e creme, infusi e guarnizioni … Gli oli del Salento son capaci di “parlare”, di suggerire l’uso da farne.
Ma per questi oli bisogna raccogliere le olive al momento giusto: l’invaiatura (ovvero quando da verdi cominciano ad annerire) e, immediatamente, molirle a freddo. Le drupe sono frutti che assorbono moltissimo e degradano rapidamente. Meno le si tocca meglio é. Ci sono oli buoni crudi su alimenti crudi, crudi su cotti, cotti per cotti, cotti per crudi. Sapori decisi, a scalare.
Un monocultivar di Celina filerà su un carpaccio di triglia, un blending  delicato colorerà un piatto di legumi, un leggero soffritto di fruttato medio con acciuga e aglio insaporirà dei cavoli al vapore, e neutro deve esser l’olio con il quale si tosta il guanciale che arricchisce una crudaiola di fiaschetti … Se la frittura non é abitudine giornaliera, farlo sempre e solo d’olio vergine di oliva dal gusto neutro, chi perora la leggerezza di altre sostanze per la frittura mente sapendo di mentire.
La possibilità di scelta per gli oli è straordinaria, chi fa ristorazione collettiva abbia il tavolo degli Oli e non l’oliera di un olio anonimo, è un tocco di classe non da poco. L’Olio di Oliva è storia, cultura e fede. Non si tratti come un qualunque grasso vegetale.
Il costo? Singolare che quando si va a fare il tagliando per l’auto si scelga l’olio migliore e per nutrir sé stessi e i propri figli ci si ponga il problema del costo dell’olio …
Son passati esattamente sette anni da quando questo articolo fu scritto e pubblicato. Ed ora? Tutto questo dovremmo lasciarlo svanire per insipienza, codardia o semplice ignavia? Nemmeno per sogno: difendere gli ulivi è difendere la vita. E va fatto seriamente e senza “se” e senza “ma”. E senza “guaritori” o “sciamani” per i quali spero che ci sia qualcuno pronto all’applicazione dell’art. 661.

Olive Celline. Perchè questo nome?

Lu cilìnu

di Armando Polito

È una delle varietà di olivo più diffusa, e da tempi certamente non recenti, nel territorio di Nardò. La voce nel vocabolario del Rohlfs è registrata solo nel volume (terzo) che funge da supplemento all’opera, il che potrebbe far supporre che l’illustre studioso a suo tempo si concesse una pausa di riflessione perché aveva dei dubbi sulla sua etimologia o perché la voce stessa gli era in un primo momento sfuggita. Tuttavia, se si tratta del primo caso, va detto che ogni dubbio poi è svanito se leggo “ha preso il nome dal paese di Cellino”. A questo punto, direbbe l’amico Pier Paolo Tarsi, scatta la teoria di Occam. Ho già avuto occasione di contestarla e la voce di oggi mi fornisce un’ulteriore occasione per dimostrarne, quanto meno, la discutibilità. Insomma, siamo veramente sicuri che Cellino San Marco sia la patria del cilìnu? A questo punto mi si obietterà che è inutile negare l’evidenza, tanto più che proprio un albero di olivo compare nello stemma della città. È vero, ma qual è la testimonianza più antica di questo stemma? In attesa che qualche lettore cellinese cultore di queste cose si faccia vivo, io parto, al solito, da molto lontano.

Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.), De re rustica, VI: In agro crasso et caldo oleam conditivam, radium maiorem, Salentinam, orchitem, poseam, Sergianam, colminianam, albicerem. Quam earum in his locis optimam dicent esse, eam maxime serito. Hoc genus oleae in XXV aut in XXX pedes conserito. Ager oleto conserundo,qui in ventum favonium spectabit et soli ostentus erit, alius bonus nullus erit. Qui ager frigidior et macrior erit, ibi oleam Licinianam seri oportet. Sin in loco crasso aut caldo severis, hostus nequam erit et ferundo arbor peribit et muscus ruber molestus erit. (In terreno grasso e caldo [pianta] l’oliva da conservare, l’oliva lunga, la salentina, l’orchite, la sergiana, la colminiana, l’albicera. Pianterai soprattutto quella che dicono essere la più adatta al luogo. Pianta questo tipo di olivo a 25 o trenta piedi di distanza l’uno dall’altro. Sarà adatto all’impianto dell’oliveto il campo esposto al Favonio e al sole, nessun altro sarà adatto. laddove il terreno è piuttosto freddo e magro, lì conviene che sia piantato l’olivo liciniano. Se invece lo pianterai in un luogo grasso o caldo il raccolto sarà di cattiva qualità e il muschio rosso lo danneggerà).

Plinio, Naturalis historia, XV, 3: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano, eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta haec palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit. (L’italia in questo [nella produzione di olio] ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nell’agro di Venafro in quella parte di esso dove si produce l’olio liciniano: per questo enorme è la fama dell’oliva liciniana. Hanno dato questo pregio gli oli col loro odore gradevolissimo. Lo ha dato anche il gusto col suo sapore alquanto delizioso. Inoltre nessun uccello è ghiotto delle bacche dell’oliva licinia).

Non a caso qualche decennio prima Il geografo greco Strabone (circa 64 a. C.-19 d. C.), Geografia, V, 3 aveva notato: …Venafro, dove l’olivo è bellissimo.

E c’è da meravigliarsi se l’olivo di Venafro trova la sua celebrazione anche presso i poeti?

Orazio (I secolo a. C.), Carmina, II, 6, 13-16, manifestando all’amico Settimio il desiderio di trascorrere gli ultimi anni a Tivoli o a Taranto: Ille terrarum mihi praeter omnis/angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certat/baca Venafro (Quegli angoli della terra mi sorridono più di ogni altro, dove il miele non ha nulla da invidiare a quello dell’Imetto e la bacca gareggia col verde Venafro); Satire, II, 4, 68-69, descrivendo la composizione di una salsa raffinata:  insuper addes/pressa Venafranae quod baca remisit olivae…(aggiungici olio spremuto  dalla bacca di oliva di Venafro).

Columella (I secolo d. C.), De arboribus, 17: Optima est oleo Liciniana (La liciniana è ottima per la produzione di olio).

Giovenale (I-II secolo d. C.) , Satire, V, 80-82: ipse Venafrano piscem perfundit, at hic qui/pallidus adfertur misero tibi caulis olebit/lanternam…(…lui [Virrone, il padrone di casa] annega il pesce nell’olio di Venafro, ma questo pallido cavolo che a te viene servito puzza di olio di lanterna…).

Il lettore si starà da tempo chiedendo: “Ma questo, dove vuole arrivare?”.

Gli rispondo immediatamente con una gragnuola di domande: E se cilìnu fosse, per metatesi e abbreviazione, deformazione di liciniànu(m), cioè una varietà antica e non relativamente recente (domanda nella domanda: qual è la prima attestazione, necessariamente scritta, di cellìno?). È un caso che l’olivo liciniano (ancora oggi coltivato) e il suo frutto sono straordinariamente simili ai nostri? E le denominazioni cellina di Nardò e cellina barese1 sono veramente figlie di una varietà importata da Cellino? Come mai, in una tendenza alla geminazione delle consonanti, Cellino in dialetto fa Cilìnu?

E non è finita! In una pergamena barese del 10952 si legge, con inequivocabile riferimento ad una varietà di olivo, hocellina e in un’altra del 11593 tucellinus. Può darsi che quest’ultimo sia lettura (o scrittura?) errata del primo che potrebbe essere una forma aggettivale dal latino tardo aucèllus=uccello, con riferimento alla predilezione che l’animale mostrerebbe per il frutto, secondo un tipico condizionamento semantico delle forme aggettivali. Il che contrasterebbe con il dettaglio finale del passo di Plinio.

Se si trattasse di uva mi attenderei almeno una risposta da Albano; in questo caso me ne dovrei attendere almeno mezza da Massimo Cassano, ma credo che passerò invano molte notti insonni…

Per chiudere:  la foto di testa ed il dettaglio si riferiscono ad uno dei miei alberi di olivo che non possono certo competere con i “patriarchi” riprodotti in questi ultimi giorni sul sito per i motivi che, ormai, tutti conoscono; ma,  almeno finché vivrò io, vivranno anche loro, tutti…

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1  Estrapolando dai nomi correnti delle cultivar nazionali che contengono un riferimento sicuro al territorio di origine ottengo per le due varietà un tempo non lontano più diffuse nel territorio neretino (cilìna e ugghialòra) in esame questi risultati:

CELLINA   Cellina di Nardò, Cellina barese.

OGLIAROLA Ogliarola garganica, Ogliarola del Vulture, Ogliarola di Lecce, Ogliarola del Bradano, Ogliarola seggianese;.e per altre: Rapollese di Lavello, Oliva Cerignola, Bella di Cerignola, Cima di Bitonto, Cima di Mola, Cima di Melfi, Termite di Bitetto, Tonda di Strongoli, Dolce di Rossano, Grossa di Cassano, Grossa di Gerace, Pignola di Arnasco, Aurina di Venafro, Cerasa di Montenero, Olivastra di Montenero, Olivastra seggianese, Saligna di Larino, Nera di Gonnos, Nera di Oliena, Nocellara del Belice, Nocellara etnea, Nocellara messinese, Tonda iblea, Ascolana tenera, Nostrale di Rigali.

In tutti i nomi surriportati una parte si riferisce ad un dettaglio (colore, forma, etc.) del frutto, l’altra al luogo di origine o diffusione. Uniche eccezioni: Rapollese di Lavello e  la nostra Cellina di Nardò. È sufficiente accomunare le due reali o presunte eccezioni e concludere che le rispettive varietà vennero importate a Lavello da Rapolla e a Nardò da Cellino, considerando irrilevante la distanza minore nel primo caso (15 km.), maggiore (55 km.) nel secondo?

2 Codice diplomatico pugliese, V, 21, 18.

3 Codice diplomatico pugliese, V, 117, 23.

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