Scianne: un toponimo neritino/sospeso tra olio e vino?

di Armando Polito

 

Non sorprenda la barra (slash per chi sa parla meglio di me), che serve a separare due decasillabi (nella mia presunzione perfetti). Il titolo in versi è l’ultimo espediente per attirare l’attenzione e già mi sto tormentando (!) ad immaginare cosa sarò costretto ad escogitare la prossima volta. Probabilmente mi impegnerò a versare ad ogni comprovato lettore la somma di sessanta (l’inflazione non va trascurata …) euro o, a scelta, il pagamento delle ultime bollette del gas e della luce (sono le più pericolose e bisogna evitare che qualcuno per farla finita si attacchi, rispettivamente, alla canna o alla presa, il che obbliga a tenerle in considerazione entrambe. Oltretutto, se dovessi essere denunziato, il mio avvocato avrebbe la possibilità di dimostrare che non sono un corruttore ma un benefattore e sicuramente troverebbe qualche giudice disposto ad accettare la sua tesi …

Bando alle divagazioni! Siccome siamo animali abitudinari, nello studiare un qualsiasi fenomeno bisogna tener conto dell’esperienza pregressa e delle regole, per quanto, come tutte, non definitive, che ne sono state tratte. Anche se a dar vita ad un toponimo possono essere i motivi più disparatI (da un caratteristica fisica del sito ad una specie vegetale che vi è o vi è stata particolarmente diffusa), per quelli riguardanti le masserie l’etimo è da ricercare anzitutto tra il nome di uno dei proprietari succedutisi nel tempo (non è detto, poi, che quello del primo sia privilegiato) o in qualche dettaglio di natura economica. Può succedere, poi, che entrambe le ipotesi siano plausibili, in assenza di prove incontrovertibili a favore dell’una o dell’altra. Scianne, a tal proposito, costituisce un esempio emblematico.

PRIMA IPOTESI

In Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 1999 una nota (n. 67 a p. 390) del curatore si legge: “… probabilmente prese il nome da una famiglia Scianno, di cui  si ha notizia in un atto notarile del 1572 del notaio Tollemeto (c. 24v), in cui si legge: in loco dicto lo Verneo, iuxta bona Georgii Sciannu“. Sul piano strettamente teorico e metodologico, per quanto detto in premessa, l’ipotesi i appare inizialmente plausibile, ma poi non molto attendibile per ragioni storiche legate al patriarcato, per cui mi riesce difficile immaginare una trasmissione di proprietà, soprattutto di natura ereditaria, coniugata al femminile.

 

SECONDA IPOTESI

Scianne, potrebbe (anche qui il condizionale è d’obbligo ad accompagnare l’aleatorietà espressa dal verbo in sé) essere plurale di scianna (varianti: ciuvanna, giuanna, sciuanna, sciuvanna), designante il recipiente di lamiera usato un tempo nei trappeti per travasare l’olio (l’immagine è tratta da Gerard Rohlfs, Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, v. I, p, 155).

 

La voce è deformazione di Gianna (variante di Giovanna), nome di donna utilizzato scherzosamente per dar vita a damigiana, che è notorio essere dal francese dame-jeanne (alla lettera signora Giovanna). Nonostante la damigiana faccia pensare al vino (non era è non è consigliabile conservarvi l’olio perché, essendo quest’ultimo, oggi come allora, di maggior valore economico, in caso di rottura del contenitore il danno sarebbe maggiore) l’allusione del toponimo alla olivicoltura (e non alla viticoltura) appare confermata da scianni (questa volta deformazione di Giovanni), che nel Tarantino (Manduria) scianni è il recipiente, sempre di latta, usato, sempre nei trappeti, sempre per l’olio, non per travasarlo ma per trasportarlo. Il cambio di genere del suo etimo rispetto a quello di scianna è inequivocabilmente legato alle sue maggiori dimensioni, conformemente a quanto succede, per esempio, nel caso di limba (bacile) rispetto a limbu (grande catino). Sul piano strettamente fonetico, poi, il passaggio gia->scia– è da manuale nel dialetto salentino basta citare sciardinu (giardino), sciamu (italiano letterario giamo) e, per restare nell’ambito delle masserie neritine, Sciogli, plurale del nome della famiglia Giulio, a conferma filologica della notizia storica  data al riguardo, ancora una volta, da Marcello Gaballo in  Un palazzo, un monastero: i baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, congedo, Galatina, 2018, p. 70.

Ricordo poi, a proposito del trasformismo di Giovanni, che appare in buona compagnia in giampàulu (brocca di creta a bocca larga per versare il vino, che il Rohlfs registra pure per Nardò, voce che ignoravo, mentre attendo lumi da chi è in grado di dirmi qualcosa in più sull’identità dei Gianna, Giovanni e Giampaolo coinvolti nella faccenda;  e a tal proposito del vezzo tutto francese di dare, non a caso viste le forme rotonde, un nome di donna ad un contenitore del tipo in questione,  in dizionari dei secoli scorsi jacqueline e christine designano due bottiglie in grès grandi e panciute.

L’ultima pubblicazione su Santa Maria al Bagno

Paolo Pisacane – Marcello Gaballo, Santa Maria al Bagno e l’accoglienza ai profughi ebrei, con contributi di Salvatore Inguscio, Emanuela Rossi e Alfredo Sanasi, ediz. Mario Congedo, Galatina 2021.

 

 

dalla prefazione di Giancarlo Vallone

Questo volume su Santa Maria può essere letto a diversi livelli di profondità, ma già nel suo impianto, ch’è quello d’una redazione collettiva, esprime l’esigenza d’un rispetto pieno delle ben diverse competenze necessarie a raggiungere il fine, e la diversità di queste competenze espone a sua volta la complessità della storia di questa importante località.

È, anzi, indiscutibile la sua antichità come nucleo abitativo, perché il contributo iniziale di Salvatore Inguscio ed Emanuela Rossi, ripercorre  appunto la vicenda degli scavi  e dei reperti di epoca neolitica, e successive, della Grotta del Fico,  esaminata nel 1961 da Arturo Palma di Cesnola (1928-2019) e da altri collaboratori, ed in seguito oggetto di studi ripetuti, durante i quali, come ben giustamente si ricorda, un operaio avvertì l’équipe dell’esistenza di altre grotte abitate  in epoche remote nella baia di Torre Uluzzu,  fornendo così la possibilità di provare il passato preistorico all’area costiera neretina.

Spetta ad Alfredo Sanasi il compito più arduo, quello di legare Santa Maria alla tradizione quanto meno romana di Nardò, ed è in questo buona guida uno degli ultimi scritti di Francesco Ribezzo (ed. 1952)…

 

… il progresso dei tempi, e in particolare la lunga stagione medievale, consente sguardi più approfonditi perché le testimonianze e i documenti si moltiplicano, grazie soprattutto al fatto che in Santa Maria l’importante Ordine Teutonico possedeva un’abbazia, poi col tempo trasformata in masseria (la masseria ‘del Fiume’ già ‘del bagno’); e se pure di essa sopravvive soltanto, immersa nell’abitato, una torre (cinquecentesca) d’avvistamento, la documentazione superstite è invece apprezzabile, ed è stata oggetto, per vari profili ed epoche, di più studi, dal Coco a Benedetto Vetere allo stesso Marcello Gaballo che ora ne fa chiara sintesi in un capitolo di questo volume, mettendo a frutto anche gli studi di H. Houben nel frattempo venuti alla luce…

… Si devono a Paolo Pisacane gli ultimi capitoli del volume, ed è in questi capitoli che muta notevolmente il modello di informazione e di comunicazione proposto ai lettori. Intanto Pisacane narra le vicende di Santa Maria in concreto dalla fine dell’Ottocento in poi, cioè dal momento in cui Santa Maria, dove qualche stabilimento balneare c’era stato anche in antico, rinasce nella forma di centro di villeggiatura secondo la mentalità borghese, perché la ‘villeggiatura’, l’affrontare ‘in villa’ la calura estiva, esprime una mentalità ed è un’invenzione di tipica matrice borghese…

… La memoria che ci offre Paolo Pisacane nei primi suoi capitoli è anzitutto quella che gli ha trasmesso la sua famiglia, che dalla fine dell’Ottocento risiede stabilmente a Santa Maria, ed i ricordi che ci vengono incontro sono legione: l’edificazione delle ville ed i palazzi signorili sulla piazza, gli stanziamenti di famiglie di pescatori (i primi residenti), gli spacci ed attività commerciali della prima ora…

 

C’è tuttavia un capitolo molto importante tra quelli proposti da Pisacane ed è quello che narra la vicenda, dalla fine del 1943 al 1947, dei molti ebrei, liberati dai campi di concentramento, ma anche di slavi evacuati dai loro territori: tutti internati nel campo-profughi nr. 34 che, appunto, faceva centro in Santa Maria, con gli aggregati di Santa Caterina, delle Cenate e Mondo nuovo (altri campi erano a Leuca, a Santa Cesarea, a Tricase marittima). La presenza di case e ville abitate solo d’estate, semplificava i problemi di insediamento di tutta questa gente priva di qualunque proprio sostegno, ma a volte anche violenta.

Si tratta di una storia della cui importanza ci si è accorti ad iniziare dalla metà degli anni Ottanta dell’altro secolo ed è una storia che senza la vigile curiosità e l’attenzione di Paolo Pisacane non si sarebbe potuta scrivere, o non si sarebbe potuta scrivere con la complessità di temi che oggi conosciamo…

Nardò. Torre Tèrmide, la masseria degli olivi selvatici

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La masseria Termide vista da ovest (ph. F. Suppressa)

 

di Fabrizio Suppressa

 

La masseria fortificata Torre Tèrmide o Termite è situata a pochi chilometri a nord-ovest dal centro abitato di Nardò[1], nell’agro denominato Arneo, il vasto e fertile territorio posto lungo l’insenatura jonica della penisola salentina. Secondo il Costantini, la costruzione appartiene alla tipologia delle “Torri a base scarpata con scala esterna”, conformazione questa tipica dell’area di “affittimento neretina”, in cui la stessa è inserita[2].

L’impianto agricolo, dalla conformazione quadrangolare del suo recinto, ha fondamento su una lieve asperità rocciosa del terreno. Al centro del complesso vi è l’elemento fortificato, il nucleo originario del complesso, databile alla prima metà del XVI secolo[3] e caratterizzato dall’aspetto severo della mole bruno-scura dei suoi conci tufacei. La torre è dotata di due accessi, quello inferiore è costituito da una piccolo passaggio, probabilmente successivo, posto nel basamento del fronte nord. Quello superiore, sempre sul medesimo prospetto, è garantito da una ripida e stretta scala in muratura al cui termine vi è un pianerottolo d’arrivo sostenuto da una volta a botte. Questo originariamente era formato da un ponte levatoio in legno movimentato manualmente in caso di necessità. Il sistema difensivo era inoltre dotato di quattro caditoie poste in asse con le principali aperture e di cinque feritoie adatte all’uso di artiglieria di piccolo calibro, come moschetti e archibugi. Dall’ampio terrazzo, la torre comunicava a vista con le limitrofe masserie fortificate di Abbate Cola, Corsari, Agnano e con la torre costiera di S. Isidoro.

La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)
La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)

 

Piuttosto scarne sono le fonti storiche relative al piccolo insediamento agricolo. Dalle pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò emerge come la masseria nel giorno del 6 dicembre 1619 sia soggetta ad un nuovo proprietario. Alessandro Vernaleone di Nardò vende infatti a Lupo Antonio Coriolano e ai suoi figli Lucio, Orazio, Cesare e Gerolamo, per 1000 ducati il complesso agricolo[4]. Dagli stessi documenti emerge anche il nome del primo proprietario di cui si hanno notizie: un tal Ottavio figlio di Giovanni Pietro de Vito di Nardò, da cui Alessandro Vernaleone aveva acquistato anni prima la masseria per lo stesso prezzo di 1000 ducati[5].

Gli affari non sembrano andare bene ai nuovi proprietari; pochi anni dopo, il 12 gennaio 1622, un nuovo soggetto entra in società con i Coriolano. Vengono venduti all’Abate Domizio, procuratore del Capitolo di Nardò, al prezzo di 220 ducati, 19 ducati sulle prime rendite annuali della masseria e altri beni stabili “a scelta del Capitolo[6].

Nella prima metà del XVII secolo la masseria passa alla nobile famiglia neretina dei Sambiasi-Massa (per il matrimonio di Ottavio di Pietro Massa con Veronica Sambiasi) come emerge dallo stemma nobiliare posto sul fronte nord della torre[7].

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Stemma della famiglia Sambiasi Massa (ph. F. Suppressa)

Altrettanto interessanti risultano le cartografie storiche che inquadrano l’area in esame. Un primo documento di estrema rilevanza è certamente l’atlante del 1806 detto del Rizzi Zannoni[8], qui infatti la masseria Termide appare rappresentata immersa in un territorio prevalentemente impervio ed incolto, tra le folte macchie dette di Villanova e di Carignano, a non poca distanza dalla via di comunicazione che parallela alla costa da Taranto conduce a Gallipoli.

 

Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni
Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni

 

Un territorio dalle caratteristiche estremamente differenti da quelle attuali, che giustifica il toponimo “Tèrmide”. Tale vocabolo indica infatti nel dialetto locale l’olivastro, pianta tipica della macchia mediterranea impiegata anticamente per le proprietà di resistenza al clima e alle patologie come portainnesto per gli ulivi da coltivazione; una vera e propria risorsa per la florida olivicoltura di Terra d’Otranto.

Macchie che venivano impiegate anche per il pascolo allo stato brado di ovini e caprini, attività specifica delle masserie dette da “da pecore”, come la nostra in esame, nei cui capienti ricoveri, ingranditi nel corso dei secoli, poteva senz’altro ospitare numerosi capi di bestiame. Anche la cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova, protettore degli animali domestici, adiacente al complesso ne è una forte testimonianza di questa importante attività agropastorale.

 

Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)
Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)

 

Attorno al 1870 la torre della masseria Tèrmide diviene vertice trigonometrico di seconda categoria, per la nascente rete cartografica nazionale redatta dall’Istituto Topografico Militare, viene per questo motivo costruito sul terrazzo, all’angolo di nord-est della torre, un pilastrino in muratura con un centrino in acciaio atto ad ospitare la strumentazione topografica.

Verso la fine dell’Ottocento la masseria risulta accatastata[9], compare l’impianto originario, in cui sono ben individuabili i vari corpi facenti parte dell’insediamento agricolo, i vani accessori, un’aia, una cappella e un cisternone per la raccolta delle acque piovane.

Alla fine della II Guerra Mondiale proprietario del complesso risulta essere il botanico napoletano Gioacchino Ruffo, Principe di Sant’Antimo e Duca di Bagnara e Baranello. Alla morte di costui nel 1947, la proprietà transita alla figlia Maria Lucia, e tale rimane fino al 6 settembre del 1952, quando per decreto dell’allora Presidente della Repubblica[10] Luigi Einaudi, le proprietà (assieme ad altre masserie del Salento, quali Ascanio, Pittuini, Rauccio, Scorpo e li Ronzi) vengono espropriate per 8.347.889,30 di Lire e affidate al neonato Ente per la Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise. Il vasto latifondo[11] dai circa 630 ettari (uno dei più estesi della provincia), viene dapprima dissodato e bonificato, ed inseguito frazionato in “poderi” e “quote” venduti ai contadini assegnatari con patto di riservato dominio.

l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma
l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma

La masseria divenne invece un centro di servizio per il patrimonio zootecnico[12] e per questo motivo alcune parti furono demolite per far spazio a nuovi fabbricati e a case coloniche di tipo “Arneo”. Con il fallimento della Riforma Fondiaria, tutto il complesso è entrato in un lento ed inesorabile declino; attualmente di proprietà demaniale, la masseria è saltuariamente occupata da coloni. Lo stato di conservazione è pessimo.

La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento
La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento

[1] La masseria è rintracciabile su Google maps al seguente link: http://goo.gl/maps/kHwTX

[2] A. COSTANTINI, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Adriatica, Lecce 1984, p. 30

[3] Ibidem, p. 272

[4] M. PASTORE, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro Studi Salentini, Lecce 1964, p. 28.

[5] Ibidem

[6] Ibidem, p. 30.

[7] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra, Lecce 1996, p. 65.

[8] G.A. RIZZI ZANNONI, Atlante geografico del Regno di Napoli delineato per ordine di Ferdinando IV Re delle Due Sicilie, Stamperia Reale, Napoli 1789-1808, Foglio 22.

[9] Comune di Nardò, Foglio XLVII, Particella 9 – ringrazio Francesco e Tonino Politano per il prezioso aiuto e per il reperimento delle cartografie catastali

[10] D.P.R. n. 1369 del 6 settembre 1952 e G.U. n. 260 del 10-11-1952

[11] I confini sono così descritti: “A nord, con il limite dei fogli nn. 33 e 34, ad Est, con strada comunale Masseria Console, ad Ovest, con strada vicinale Sant’Isidoro e strada vicinale La Lucia. Sono intersecati nel senso nord-ovest, sud-est dalla strada provinciale Manduria-Nardò e dalla strada comunale Tarantina” G.U. n. 260 del 10-11-1952

[12] A. COSTANTINI 1984, op. cit., p. 102.

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (III ed ultima parte)

L’ ABBAZIA DI S. MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA

di Marcello Gaballo

… Tra i beni ceduti vi era anche l’ edificio abbaziale di S. Maria de Balneo che, nell’ annotazione degli annui censi che ogni anno, nella festa dell’ Assunta, si devono versare alla Mensa Episcopale di Nardò, registrati nella visita pastorale del Vescovo Bovio del 1578[67], risulta essere ormai diventata masseria vulgariter dicta lo Bagno olim Abbatiae S. Leonardi de la Matina, sita in loco dicto lo Vagno, in territorio Neritoni, iuxta bona Abbatiae S. Maria de Alto et Abbatiae S. Nicolai de Scundo[68], ora del Mag. Gio: Francesco Della Porta e di cui era stato ultimo commendatario il Cardinale di Sermoneta. La masseria versava annualmente due libbre di cera et alias libras duas incensi. Dictus census debebat ab antiquo ipsi mense pro dicta Abbatia S. Leonardi.

Santa Maria al Bagno (Nardò-Lecce), masseria Fiume che ingloba, nella parte inferiore, l’abbazia di Santa Maria de Balneo

L’ acquisto dell’ edificio e del terreno circostante da parte del barone di Serrano Della Porta probabilmente comportò una sua modifica strutturale, avendo riutilizzato la maggior parte della costruzione precedente con i grossi muri esterni, aggiungendovi un corpo superiore per ottenenere così una torre con le caratteristiche di cui si è già detto e con elementi in comune con le numerose masserie fortificate del neritino e con le torri costiere che nello stesso periodo venivano erette lungo la costa a scopo difensivo.

Il notevole spessore murario del piano terra dell’edificio

Da Francesco di Antonio Della Porta la masseria con i terreni circostanti, come tutti gli altri beni della famiglia,  passò al figlio Giorgio Antonio, da cui alla figlia Eleonora[69]. Questa, sposa di Mario Paladini da Lecce, VII barone di Lizzanello e Melendugno, il 9 giugno 1589 vendette la masseria nuncupata de lo Bagno al magnificus Marco Antonio de Guarrerio per 1000 ducati, con un censo annuo di 90 carlini di argento[70].

Dal De Guarrerio il bene fu rivenduto per 1000 ducati ad un altro neritino, Antonio de Monte, con istrumento per notar Pietro Torricchio del 15/7/1590[71].

In un atto del 1597 ne sono proprietari Antonio e suo figlio Scipione de Monte[72].

l’accesso alla masseria visto dal cortile interno, prima degli ultimi restauri

Nel 1600 la masseria è denominata lo Bagno… cum turre, curtibus et omnibus territoriis, iuxta massariam abbatie sub titulo S.ti Nicolai de Scundo, iuxta bona benefitialia benefitii sub titulo S.ti Laurentii ac bona benefitialia sub titulo S. Caterina de Modio, iuxta litus maris ed appartiene al giudice Antonio

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (II parte)

Santa Maria al Bagno - Nardò (Lecce), masseria Fiume, ingresso principale

L’ ABBAZIA DI S. MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA (seconda parte. La vendita di tutti i beni pugliesi dell’ordine)

 

di Marcello Gaballo

… Per restare nello specifico della nostra abbazia di S. Maria e nel tentativo di ordinare cronologicamente le sue vicende attraverso i documenti pervenutici, l’ Ordine, rappresentato dal procuratore Giovanni Helfenbeck di Norimberga, dovette sostenere una lite con la diocesi neritina, rappresentata dal vescovo Stefano Agricola De Pendinellis (1436-1451), per il possesso pleno jure dell’ abbazia di S. Maria de Balneo; lite poi risolta da papa Eugenio IV, che confermò al monastero di S. Leonardo di Siponto il possesso  dell’ abbazia[42].

Il primo documento sulla questione è stato riportato dal Camobreco nel suo “Regesto”[43]. Datato 13 aprile 1440 e rilasciato a Barletta, vede tra i testimoni pure Marinus de Falconibus et Perrus eius frater, Lodovicus de Noya, Petrus de Fonte Francisco, artium et medecine doctores, fr. Cicchus abbas S. Marie de Alto, fr. Benedictus abbas S. Angeli de Salute, Cobellus Cafaro vicarius Episcopi in spiritualibus, abbas Nicolaus Grande episcopi vicarius in temporalibus, fr. Victori Gayetanus propositus maioris eccl. Neritonensis, not. Antonius Natalis, not. Loysius Securo et not. Loysius de Vito, tutti di Nardò.

 

Un altro documento datato 20 giugno 1444, rilasciato in Manfredonia[44], tra l’ altro riporta: …locumtenentem cum aliis fratibus dicentes ab antiquo possedisse ecclesiam S. Marie de Balneo… et ipsam ecclesiam Stefanus episc.

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (I parte)

 

L’ ABBAZIA DI SANCTA MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA

 

di Marcello Gaballo

A meno di 300 metri dal rudere delle Quattro Colonne, a sud del piccolo abitato costiero di Santa Maria al Bagno, sulle ultime propaggini delle Serre Salentine, a circa 35 metri dal livello del mare, seminascosta dalle abitazioni sorte senza rispetto del paesaggio e fuori da ogni regola urbanistica, si intravede la torre di quella che un tempo fu la masseria Fiume, oggi radicalmente ristrutturata in moderna e confortevole abitazione.

L’ ingresso alla masseria si raggiunge da una traversa, sulla provinciale S. Maria al Bagno-Galatone, prima di via Edrisi, per la quale si giunge alle Quattro Colonne e che un tempo era contigua all’ importante ed antica via di comunicazione che da Galatone portava al mare.

La denominazione della masseria si spiega, probabilmente, col fatto che la costruzione fiancheggiava un corso torrentizio in cui si raccoglievano le acque reflue da tutto il territorio a monte, per mescolarsi poi con quelle della sorgente delle Quattro Colonne[1]. Il complesso, nel modo con cui si colloca, corona una prospettiva che sale regolarmente dal litorale verso l’ entroterra.

Le numerose modifiche delle costruzioni adiacenti e la suddivisione successiva impediscono di delineare l’aspetto originario della masseria, restando comunque evidenti l’ androne di ingresso alla corte e, soprattutto, la torre, che rappresenta ancora oggi il nucleo centrale e l’ elemento più sorprendente.

Essa, formata in epoche successive, si sviluppa su due piani, di cui quello a piano terra molto ampio, con volta a botte e spessa muraglia; il secondo è il piano diventato utile, in cui risiedeva il proprietario, con volta a botte lunettata, tre finestre, il camino (poi trasformato in “cucina economica”), una muraglia dello spessore di circa 80 cm.

Santa Maria al Bagno – Nardò (Lecce), masseria Fiume, ingresso principale

Opere in muratura successive dividono questo piano in più ambienti, evidenziandosi comunque un corpo aggiunto sul lato orientale, che ha trasformato la pianta della torre da quadrata in rettangolare. Tale modifica ha previsto anche l’ aggiunta di una scala esterna a due rampe che collega i due piani, in sostituzione di quella più antica che si sviluppava nello spessore delle

La marzotica della masseria Bellimento in agro di Nardò

ph Franco Cazzella

di Massimo Vaglio

Sulla litoranea che da Sant’Isidoro porta a Santa Caterina, nei pressi dell’ormai famosa Palude del Capitano ultima appendice, ma non per importanza, dello stupendo Parco Regionale Porto Selvaggio-Palude del Capitano, sorge la masseria Bellimento, una masseria edificata alla fine dell’800 su terreni macchiosi e paludosi che sino ad allora erano stati destinati ad usi civici, ovvero, erano terreni ove gli abitanti di Nardò meno abbienti potevano esercitare liberamente il prelievo di legna da ardere, di erbe e di qualunque altra risorsa vi nascesse.

Il bianco caseggiato, ora fiancheggiato da alberi, sino a qualche decennio addietro si ergeva con minimalista semplicità in una steppa a dir poco brulla, senza un albero che occultasse la sagoma vagamente arabeggiante, un gregge misto di pecore di razza Moscia e di rustiche capre autoctone, insieme a qualche bovino di “razza” Prete costituivano la dote di questa masseria condotta al tempo da patrunu Mario, padre degli attuali proprietari, indimenticabile figura di uomo saggio, di amico e di padrone di casa. Tutte le attività che vi si svolgevano erano condotte con estrema semplicità o come diremmo oggi a basso impatto ambientale, gli animali si alimentavano solo con quello che l’ambiente circostante offriva: frasche della macchia ed erbe sferzate dai salsi dai venti marini. Il caccamo della merce, ossia la caldaia del latte, era alimentato esclusivamente con sterpi di Cisto di Montpellier secchi e di altre essenze neglette, raccolti quotidianamente nella gariga circostante. I semplici, quanto buoni formaggi che venivano prodotti, stagionavano nello stesso ambiente su tavole imbiancate da decenni d’essudazioni saline, ove spesso acquisivano involontariamente pure una blanda affumicatura. Anche qui, l’attrezzatura era a dir poco primordiale, una caldaia di rame stagnato, un tavolo, un ruotolo d’alaterno, un po’ di fiscelle di giunco, una schiumarola e un telaietto con un paio di stamigne. Niente termometri o altre diavolerie tecnologiche, pochi semplici gesti e il coinvolgimento di tutti i cinque sensi nello svolgimento di routinarie quanto semplici operazioni. Il cambio del suono del càccamo, battuto con il ruotolo, avvisava che la ricotta stava per flocculare candida come fiocchi di neve, e che bisognava allontanava il

Giudice Giorgio, regina delle masserie del neritino

di Marcello Gaballo

Il territorio del comune di Nardò è straordinariamente ricco di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.

Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra Torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’ interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.

Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte Sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.

Il cuore del territorio neritino è rappresentato dall’Arneo, che fino a qualche decennio addietro ha rappresentato la zona più importante dal punto di vista economico-agricolo, caratterizzata dal latifondo e dal bracciantato, il quale, nel primo e secondo dopoguerra, ha occupato buona parte di quelle fertili terre, con scontri sociali che hanno scritto le pagine più accorate della storia contemporanea del Salento.

L’ amenità dei luoghi e la fertilità dei terreni, un tempo occupati da foresta e macchia mediterranea, ha spinto i diversi proprietari a realizzarvi, nel corso dei secoli, insediamenti produttivi come le masserie, spesso fortificate per frequenza delle incursioni piratesche dalla costa.
Molte masserie dell’Arneo si impongono per la bellezza architettonica, la varietà delle tipologie, l’imponenza delle dimensioni, l’alto livello degli elementi fortificativi, il raccordo con le vie di comunicazione e la compiutezza delle espressioni collegate all’attività produttiva agricola e pastorale.
Fra tutte ritengo che una in particolare meriti il titolo di regina, la masseria Giudice Giorgio, una delle masserie strategicamente più importanti, sulla strada statale 164, Nardò-Avetrana (da secoli denominata strada tarantina, a circa 10 km dal centro abitato di Nardò.

la torre cinquecentesca

Caratterizzata dall’imponente torre cinquecentesca a pianta quadrata, a tre piani, dei quali l’inferiore, cui si accede attraverso un artistico portale bugnato, leggermente scarpato, fu adibito un tempo al deposito e alla lavorazione delle olive. È collegata a vista con le masserie Bovilli e Roto Galeta, che tuttavia non possono competere con essa in altezza e particolarità architettoniche.

Il pianterreno, voltato a botte ed assai più antico rispetto al resto, era collegato al primo piano da una scala a pioli  che portava alla scala in muratura impostata a circa

Arneotrek. Cronaca di un’escursione guidata

ph Mino Presicce – ripr. vietata

 Camminando per il Salento: il territorio dell’Arneo

di Mino Presicce

L’Arneo: vasto territorio posizionato nel cuore della penisola salentina, in passato scenario di sanguinose lotte contadine.

L’Arneo: terra di latifondi, distese immense di pascoli, uliveti, macchia mediterranea; territorio aspro, crudo, arido, rifugio di briganti.

L’Arneo: terra rossiccia, terra deserta, terra assetata.

Per chi ha la fortuna di esplorarlo, oggigiorno,  l’Arneo conserva ancora le cicatrici di un indelebile e triste passato. Quella fortuna noi l’abbiamo avuta e grazie all’abilità nonchè all’esperienza di Roberto (la nostra guida) in un caldo pomeriggio di luglio, abbiamo girovagato per una quindicina di chilometri, lungo i tortuosi sentieri dell’Arneo. Abbiamo visitato masserie, ville gentilizie, dimore signorili e incontrato, lungo il cammino, ruderi di antiche abitazioni, furnieddhi [1], vecchi pozzi per la raccolta dell’acqua piovana, torri colombaie, abbeveratoi per animali, ecc.

ph Mino Presicce – ripr. vietata

La nostra spedizione è partita da masseria Carignano Grande, in territorio di Nardò. Lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è quello di un paesaggio in via d’estinzione: un impianto masserizio cinquecentesco con masseria fortificata (ben visibili ancora oggi le numerose caditoie lungo il perimetro della costruzione), ampio giardino con cisterne, chiesetta con campanile a vela e, poco distante, la torre colombaia. Già il primo impatto è

Li Cursàri, un toponimo che potrebbe indurre a pensar male…

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Le torri, quale in buona salute, quale meno, quale ridotta ad un rudere, visibili lungo le nostre coste sono la testimonianza dell’appetito che la nostre terre hanno sempre suscitato in genti straniere; solo che quelle fabbriche sono un indizio della paura nutrita contro un pericolo ben più grave della colonizzazione che questo lembo d’Italia ha conosciuto, pur tra vicende inevitabilmente sanguinose, per millenni; esse erano, com’è noto, il primario strumento di difesa (l’avvistamento) contro le scorrerie dei Turchi. E la torre, avente la stessa funzione, era il componente essenziale delle cosiddette masserie fortificate.

Spesso le parole pirata e corsaro vengono utilizzate come sinonimi, ma non è così. Il pirata è a tutti gli effetti un criminale che esercita la sua attività predatoria contro chiunque gli capiti a tiro; il corsaro è una sorta di predatore legalizzato, nel senso che può esercitare la sua attività col beneplacito, cioè la complicità e la connivenza (per gli interessati autorizzazione) di un governo nazionale solo a danno dei nemici, anche di sola fede.

Impropriamente, perciò, si parla di pirati barbareschi con riferimento agli incursori (nel nostro caso turchi) che nel XVI° secolo terrorizzarono le nostre coste: più correttamente si dovrebbe parlare di corsari barbareschi.

Come non pensare d’acchito a loro di fronte al toponimo Li  Cursàri, indicante, oltre la zona, una masseria? Le cose, invece, come ben sanno gli addetti ai lavori, stanno diversamente e bisogna andare a ritroso nel tempo, precisamente un secolo prima.

La prima attestazione del toponimo risale al 20 luglio 14431:

massariam unam, dictam de li Cursari…possidetur ad presens per supradictum Antonium Cursarum…(…una masseria detta dei Corsari … attualmente è in possesso del prima nominato2 Antonio Corsaro) …item clausorium unum, nominatum la Longa, iuxta clausorium dictum de li Cursari…(…parimenti un luogo recintato chiamato la Longa, presso il luogo recintato detto dei Corsari…)…usque ad locum qui vocatur Salparea et vadit per massariam Sancti Ysideri, inclusive, usque ad turrim Sancti Ysideri, que est fundata  et constructa super territorio dicti pheudi, et deinde currit per viam que dicitur Carbasio, usque ad clausorium olivarum Carbasii, inclusive, et massariam Nicolai Cursari, que fuit Iohannis de Thoma de Neritono…(…fino al luogo che si chiama Sarparea e procede attraverso la masseria di Sant’Isidoro, comprendendola, fino alla torre di Sant’Isidoro che è costruita sul territorio di detto feudo3, e  poi  corre attraverso  la  via chiamata Carbasio, fino all’oliveto di Carbasio, comprendendolo, e alla masseria di Nicola Cursaro, che fu di Giovanni Toma di Nardò…).

Il secondo documento comprovante la persistenza di interessi della famiglia nella stessa zona è del 1500 [C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 208]:

…et dicto limite curre per diricto verso lo ieroccho per la via per la quale se va da Nerito alla Spondorata, quale via e per la via de le olive de Munti di sanbiasi nominato Curano et al presente lo possede Filippo de Castello et de lo dicto lemitune de ierocco, ad ponente colla cum le terre de Sancto Luigi de li Filieri nominato la Perrusa et curreno fim ad Monte Milo et de Monte Milo curreno fino alle chesure de Cola Cursaro, al presente le possede Beatrice Cursara, et de lo cantene de dicte chesure curreno de la via chi vene de santo isidero ad Nerito…

Insomma, l’onomastico ha dato vita al toponimo (in linea con altri appartenenti a masserie) e, una volta tanto, gli avventurieri, con o senza coperture, non hanno nessuna colpa…

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1 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pgg. 117, 118, 120 e 121, passim.

2 Come proprietario della masseria Fortucchi.

3 Si tratta del feudo di Ignano citato in una parte precedente a quella del documento riportata.

Li Càfari: un’etimologia apparentemente complicata

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Siamo alle prese con un altro toponimo neretino. Preliminarmente diremo che quelli riferentisi al territorio extraurbano (o ex extraurbano) in alcuni casi (la maggior parte) sono legati al nome del proprietario, in altri a dettar legge è la specie vegetale più diffusa  e in altri ancora una caratteristica fisica del territorio.

I documenti più antichi su quello oggi in esame sono piuttosto scarni e non contengono indicazioni utili a collegare oltre ogni ragionevole dubbio l’attuale territorio con quello oggetto del passato possesso1. Un Bartholomeus Cafarus compare come testimone in un atto del 12 maggio 13632; Petrus Cafarus compare come già deceduto in un atto del 31 dicembre 14273; ancora più lapidarie (compaiono solo come testimoni) le presenze di Iohannes Cafarus in un atto del 19 febbraio 14034 e di Ioannes Cafarus in un atto del 1 febbraio 15185 col titolo di artium et medicine doctor, mentre Antonellus Caffarus nel 1500 risulta proprietario di una casa nel vicinio della chiesa di S. Barbara nel pittaggio di San Paolo6 e  Iohannes Cafarus compare come testimone in un atto del 23 maggio 15007.

Prezioso, invece, perché fa riferimento alla fabbrica e, comunque, con riferimenti topografici inequivocabili coincidenti con l’attuale ubicazione, è un atto del 15818 in cui i figli di Bartolomeo Cafaro vendono la masseria per 220 ducati al barone Francesco Antonio Carignani. Essa consiste in sei curti, una casa lamiata, terre fattizze e macchiose et uno paro altro de curti et una chesurella vicino S.to Stefano cum servitute carolenorum octodui cisterne alli Larghi di Carignano et aliis membris suisiuxta bona beneficialia ecclesie S.ti Stefani, iuxta terras dotales Jacobi Ingusci, iuxta terras dotales Jo: Antonii Nicolai de lo Abbate, iuxta olivas Ven.li monasterii S. Clarae, iuxta maxariam nuncupatam delli Nucci et alios.

Quanto fin qui detto consente di datare il fabbricato nella sua conformazione più antica che si conosca  almeno alla metà del secolo XVI°, di collegare il toponimo al nome del proprietario e di escludere, di conseguenza,  che esso abbia un’origine legata alla presenza significativa (fra l’altro non è detto che essa continui ai nostri tempi) di un’essenza. Avrebbe potuto indurlo a pensare  il nesso tumu càfaru usato a Muro Leccese per designare una specie di timo nano9; quanto alla sua etimologia (il Rohlfs non si pronuncia) tra mille dubbi (e forse suggestionati dal calabrese càfaru=friabile) penseremmo ad un adattamento latino del greco karfalèos10=arido; e questo, a complicare la situazione, avrebbe messo in ballo pure la terza possibilità teorica (caratteristica fisica del territorio).

Ma, come abbiamo visto, conta la parola, anzi lo scritto del notaio…

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1 In rete si legge che l’attuale masseria, trasformata in struttura ricettiva (foto di testa), risale al XVIII° secolo.

2 Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di S. Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981 pg. 32.

3 Angela Frascadore, op. cit., pg. 83: …iuxta vin(eam) heredum domini Petri Cafari (presso la vigna degli eredi di don Pietro Cafaro).

4 Angela Frascadore, op. cit. pag. 77.

5 Angela Frascadore, op. cit. pag. 176.

6 C. G. Centonze, A. De Lorenzis, N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina, 1988, pag. 174: …intus dicta civitate Neritoni…in dicto loco in vicinio ecclesie Sancte Barbare…est domus una…iuxta domum donni Antonelli Caffari…(nella detta città di Nardò nel luogo già detto [pittagio di San Paolo] nel vicinio della chiesa di S. Barbara…c’è una casa…presso la casa di don Antonello Caffaro).

7 Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1984, pag. 88.

8 ASL, Atti del notaio Cornelio Tollemeto di Nardò, 66/2 1581, cc. 164-166v.

9 Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, v.III, pag. 902. Cafari era una contrada, oggi quartiere, di Cutrofiano.

10 Probabile trafila: karfàleos>càrfalus>càfalus[(la caduta di –r– può essere stata indotta dalla successiva liquida (-l-)]>càfaru.

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