Il Pittore Dominicus Carella

a cura di Angelo Sgura

 

Sac. Giuseppe Grassi, da Tapas, anno IV – 1929

Non possiamo affermare con certezza assoluta ove e quando precisamente nacque il pittore Domenico Antonio Carella. Lo si ritiene, comunemente, nato in Martina Franca, ma, in realtà, il suo nome non appare ne’ libri battesimali di questa insigne collegiata; le mie ricerche in proposito, come quelle dell’illustre amico Amilcare Foscarini, conclusero a egual risultato negativo.

Certo è che si sposò in Francavilla Fontana con Vincenza Maria L’Abbate. Ma anche delle sue nozze va corretta la data propostaci da Pietro Palumbo. Secondo il Palumbo si sarebbe sposato il 16 luglio 1757, ed anche io, in altra mia pubblicazione, affermai lo stesso, indotto in errore da una carta volante, che si conserva nell’Archivio Parrocchiale di Francavilla, e che mi fu mostrata. Ma, venuto più tardi in legittimo sospetto dell’autenticità di quella carta, tornai a Francavilla, e rinnovai la ricerca. Rinvenni allora il vero atto di matrimonio del Carella. Eccolo, qual si legge in un registro che novera i matrimoni dal 2 agosto 1744 a tutto il 1763, a pag. 30, retro:

« Die 8aMaii 1746 – Dominicus Antonius Josephi Carella et Vincentia Maria Michaelis L ‘Abbate Matrimonium iter se legittime contraxerunt in facie Ecclesiae per verba de parti mutuo consensu exceprimentia in dicta Collegiata Insigni Ecclesia inter Missarum solemnia modo et forma in S.C.I. factis eosque coniunxit D. Caietanus Arsenio substitutus de ordine et mandato Ill,mi D.Ni Archiep. Prasentibus pro testibus Nicodemo di Quarto Nicola Francischillo ed Angelo Gianfrate>>.

Di qui appare che il Carella non nacque verso il 1738, come vorrebbe il Palumbo perché allora sarebbe passato a nozze nell’età press’a poco di otto anni. Probabilmente, come ne inferì il Foscarini, nacque verso il 1721 al tempo della morte infatti contava <circa 90 anni», come si legge nell’Archivio Parrocchiale di Martina, e più precisamente < 92 anni », com’è notato nell’Archivio Comunale.

I primi lavori del Carella rimontano al 1750. In Martina i germani signori Carmelo e Domenico Fanelli posseggono una tela, Il cieco Belisario, che porta scritto: « Francesco Ribbera – Carella imitavit – 1750».

Sincroni sono sia il Gesù in casa di Pilato, – su cui si legge: « Conversano, 22 giugno 1750 » – sia i due bozzetti in rame L’Assunta e S. Rocco: tutt’e tre, insieme con non pochi altri ritratti, conservati in Francavilla da parenti, si disse, del pittore, ma che io non riuscii a vedere.
Ben osservai invece le tele che sono in quella Parrocchiale, e mentre il De Giorgi e il Foscarini ne noverano sei, io ne contai otto.

La prima, in ordine di tempo, fu quella che m’indusse a ritener nato in Francavilla, anzi che a Martina, il nostro pittore. È la Madonna del Rosario, che una volta dominava l’altare maggiore, e oggi è collocata in una stanzetta tra il coro e la sacrestia. La Vergine, col S. Bambino tra le braccia, presenta la mistica corona a S.. Domenico, che è in ginocchio, e a S. Rosa, mentre schiere d’angeli le volitano tutt’intorno. Vi si legge: <Dom.cus Carella e Francavilla. 1750. E che il pittore abbia sortito i natali in quella città angioina, che della Franca Martina è gemella, ci è confermato dall’architetto Sante Simone.

Parlando de’ lavori di restauro o di rimodernamento fatti eseguire nel Duomo di Conversano dal vescovo Mons. Fabio Palumbo, all’anno 1775 egli dice così: Il pittore Domenico Carelli di Francavilla Fontana eseguì per ducati quindici (!) la pittura dèll’abside centrale dietro l’altare maggiore». La quale pittura aggiungiamo – rappresentava l’incoronazionc della Vergine, e fu preda delle fiamme nell’ incendio che distrusse la storica cattedrale conversanese nel luglio del 1910.

Prova definitiva dovrebbero darci i libri parrocchiali della stessa Francavilla. Ma io li riscontrai diligentemente, e non vi rinvenni il desiderato atto di battesimo, come non lo aveva rinvenuto Pietro Palumbo che cita artisti settecenteschi della sua città natale, ma affermò essere il Carella nato a Martina. Non ancor soddisfatto, ultimamente pregai quel parroco,. don Giuseppe Formosi, a ritentar l’indagine per conto suo, ed egli così mi riscrisse: «ho riscontrato i libri de’ battezzati dal 1705 al 1735, e non ho trovato registrato il battesimo di Domenico Antonio Carella ».

 

Ma torniamo alle tele carelliane di quella chiesa.

Due ve ne stanno su altari: una, sul terzo a destra, rappresenta S. Giovanni con S. Lorenzo,  S. Stefano e S. Francesco, e reca la firma dell’artista con la data 1761; la seconda, di fronte, sul terzo altare a sinistra, rappresenta L‘Addolorata, anch’essa firmata, ma datata il 1769.

 

 

Due grandi tele sono su’ laterali del Coro, dietro l’Altare Maggiore: a destra La conversione di S. Paolo, a sinistra La tradizione delle somme  chiavi a S.Pietro. Per esse il pittore ricevette sessantacinque ducati, mentre per la Madonna del Rosario ne aveva ricevuto cinquantacinque.

 

 

 

Ancora due tele si trovano in fondo al lato destro del tempio, nella cappella speciale dedicata alla Madonna della Fontana, cui si accede anche dal presbiterio. La prima rappresenta il Rinvenimento del quadro della Tutelare; ha la firma e la data del 1777.

Il dipinto che, come su vi notò l’artista, fu eseguito a spese di Tommaso Salerno e de’ suoi figli Giuseppe e Nicola – riproduce la leggenda religiosa dell’antico quadro bizantino, avvenuta il settembre del 1310 nel luogo stesso ove Filippo d’Angiò, principe di Taranto,  avrebbe fatto costruire la cappella primitiva della Madonna della Fontana.

Bel risalto vi ha la figura di mastro Elia Marrese, quegli che, balestrata la freccia contro del cervo, se la vede ritornare contro se stesso. La seconda tela riproduce il miracolo del Rinverdimento degli olivi; porta anch’essa la firma, con la data del 1779.
In fondo al lato sinistro della chiesa, e anche con un secondo accesso del presbiterio, – s’apre il Cappellone del SS. Sacramento; qui troviamo l’ottava tela del Carella, La Cena, così lontana da quel grado di perfezione, che l’artista doveva più tardi raggiungere, trattando l’identico soggetto per la collegiata di Martina Franca.

 


Lavori del Carella si rinvengono a Mesagne, – nella- chiesa annessa al convento dei’ Frati Conventuali, detto di S. Maria di Soleto. È la chiesa che, eretta nel 1425 e restaurata nel 1653, venne ultimamente rifatta e ingrandita, e sempre sotto il titolo dell’Immacolata fu consacrata dall’arcivescovo di Brindisi Mons. Luigi Maria Aguilar, 10 ottobre 1880. Nel suo terzo altare a sinistra c’è la tela di S. Antonio che riceve tra le traccia il Bambino Gesù firmata e datata il 1759. Di fronte, sul terzo altare a destra, c’è S. Francesco d’Assisi, con la data del 1757, e non già del 1767, quale la ri-produssero il De Giorgi e il Profilo.

Quattro altre tele si trovano a Massafra, nella chiesa delle Benedettine: sul primo altare a destra, La Presentazione di Gesù al Tempio, firmata e datata il 1764; sul secondo La Galilea, con egual firma e data; sul terzo la bellissima Deposizione di Gesù dalla croce, che i Francesi volevan portar via a’ princìpii del secolo XIX, e che conserva tuttoggi il sigillo in ceralacca da essi apposto; sul secondo altare a sinistra, Il battesimo di Gesù. Probabilmente è della stessa mano La Madonna col S. Bambino, che troneggia dietro l’altare maggiore, nell’abside.

Nella cattedrale di Castellaneta sono cinque tele. Tre stanno nella cappella del SS. Sacramento: Gesù tra gli Apostoli nel Cenacolo del 1796, Cristo che comunica S.Pietro del 1797, e le Nozze di Canaan del 1801 Le altre due ornano i muri del presbiterio, e sono migliori David che balla dinanzi all’Arca e La restituzione dell’Arca da’ filistei agli Ebrei, del 1802.

Luigi De Simone, dopo aver chiamato il Carella « mediocrissimo e manierissinio solimenesco » aggiunse che «in qualcuno di questi quadri trovi due o tre belle teste, qualche persona bene trattata e panneggiata, ma niun partito tolto dalle masse, da’ colori, dagli effetti di luce, dal paese, da glorie, da interni, ecc. »  Giustamente il De Giorni in quel giudizio del collega De Simone notò «molta severità» e chiamò invece quelle pitture « larghe composizioni, un po’ manierate, ma con una discreta intonazione di Colori ».

In Taranto il Carella dipinse un’Immacolata per la chiesa di S. Pasquale, ultimo altare a sinistra. Nell’angolo inferiore destro è riprodotto lo scudo di casa Cantore, ed è scritto: « Tutatricis Mariae Immaculatae conception Ludovica De Cantore ex Taren-tinorum patriciis F.F. »; in quello sinistro: «Dom° Carella 1794 ».

Affrescò pure alcune sale della villa di Monsignor Capecelatro su la baia di S. Lucia, del cui incanto scrissero tanti viaggiatori e, ultimamente, Vito Forleo, il valoroso bibliotecario dell’Acclaviana di Taranto. Il nome del pittore e quello di suo figlio Francesco, che lavorava con lui, furono ricordati in una lapide oggi trasferita nell’Ospedale di Marina:

Martina Franca, la città che D. A. Carella predilesse al punto da chiamarsi e farsi chiamare Martinese, è la più ricca di lavori carelliani.

Non v’è cultore appassionato, o anche semplice dilettante di arte regionale, che non conosca gli affreschi del Palazzo. Ducale di Martina, o che, per lo meno, non ne abbia inteso parlare.

È risaputo che su le rovine d’un Castello qui eretto, a Porta S.Stefano, dal principe Raimondello del Balzo Orsini nel 1388, il duca Petracone V Caracciolo fece sorgere nel 1688 un superbo Palazzo Ducale, che fu e rimane sempre uno de’ più maestosi e de’ più imponenti di tutta la Puglia, e che dal dicembre 1928 è divenuto il Palazzo di Città.

A decorarne le sale ampie e luminose, Francesco III Caracciolo, marito di Stefania Pignatelli e successo al padre Petracone VI nel ducato di Martina il 1771, invitò Domenico Antonio Carella, la cui fama varcava ormai i confini della provincia. Il Carella vi si accinse con ardore, e ultimò gli immani lavori nel 1776.

Nel piano nobile, le due migliori sale del quartiere di mezzogiorno egli decorò alla pompeiana, con figurine rosse su fondo bianco o bianche su fondo nero. « Questi freschi -riconobbe il De Giorgi – sono toccati con molto gusto ed eleganza, e con una certa lindura che ci rivela la mano d’un artista geniale. »

Nella vastissima galleria sporgente a ovest, su Piazza del Popolo, riprodusse costumi del tempo e, se dobbiamo credere alla tradizione locale, personaggi realmente esistiti. Perciò, il Prof. Pietro Marti, dopo aver riconosciuto che il Carella <<fu fecondo nell’ inventiva, ebbe largo e sicuro il disegno, ma mancò di vigore nella tavolozza, difetto, del resto, comune anche a’ grandissimi della sua epoca», aggiunse: « uno de’ pregi caratteristici di questo nobile pittore fu quello di ritrarre carattere e il costume del suo secolo.

Sul muro di destra vi è una Scuola di ballo in aperta campagna; su quello di sinistra La scuola di canto, La Poesia estemporanea, Scene d’amore; su la volta Le Arti belle: larghi affreschi, tutti intramezzati da pomposi fregi e, da medaglioni vari.

Nella sala attigua alla galleria, vi è una scena omerica sul muro di destra, Anchise salvato da Enea; una scena mitologica su quello di sinistra, Il ratto di Proserpina; sul muro d’oriente Atalanta che raccoglie i pomi di  oro gittati da Ippomene in corsa, e una scena campestre; su quello d’occidente La corona al vincitore del drago; finalmente un brutto Carro del sole, che s’avanza tra nuvole di fumo color rossastro, ne copre la volta.

Nell’altra sala che segue, sono scene di storia biblica. Su’ muri Tobia sanato dalla cecità, Mosè salvato dalle acque, Giuditta che mostra il capo reciso di Oloferne, ecc. e, su la volta, La cacciata dal Cielo.

L’esame di tali dipinture faceva così conchiudere al De Giorgi: «Il disegno di questo artista non è sempre molto corretto, ma vi è però del genio nelle sue composizioni. Sulla sua tavolozza egli faceva un grande sciupio di terra d’ambra, ma il chiaroscuro lo toccava molto abilmente ».

Ma particolarmente degna di rilievo pare una sala dell’appartamento interno al cortile, cui si accede per una scalinata riservata. Tutte e quattro pareti han quadretti di scene famigliari. Tra queste, una, dipinta in bistro, rappresenta una signora seduta, con su le gambe e stretta al seno una bimba dalla fronte fasciata con una benda; una fanciulla con un pupattolo tra le mani scherza d’accanto, e assistono altre donne. In alto, a’ quattro angoli della volta, son dipinti i medaglioni de’ quattro Poeti massimi d’Italia. Nel centro della volta, dentro una riquadratura, è dipinta una rappresentazione non decifrabile, e, tutto intorno, il cielo della volta è seminato di farfalle, uccelli, grilli, nottole, draghi volanti policromi. Ne’ soprafregi vi sono sirene alate, che recano nelle mani profumieri fumanti. Su. le pareti son dipinti nastri svolazzanti tra lunghe volute di ramoscelli, da’ quali pendono medaglioni di Santi, e tra gli altri quello di S.Martino. Altri uccelletti svolazzano su’ ramoscelli, e fra i tirsi incrociati sostenenti drappeggiature a festoni si vedono conigli, arpie, altri animali fantastici. Medaglioni di soggetto mitologico pendono da’ tirsi satiri che giocano con animali; un Ercole che solleva in alto un cervo; una pastorella, elegantemente vestita, con cappello a larghe falde, che guida una pecoruzza. Nel decorar questa camera, che probabilmente fu il santuario in cui vissero le famiglie de’ Duchi, l’artista si sbizzarrì a suo beneplacito per le figure, e per colori preferì il rosso e il verde su fondi giallognoli, opalini e perlacei.

Altri affreschi sono in varie sale dell’ammezzato e anche in alcune stanze a pianterreno.

Troviamo affreschi del Carella anche in edifici privari di Martina.

Il palazzo in via Mazzini, che appartenne a una delle più belle e distinte dame del tempo, a D. Romana Montemurro, e che nel 1846 fu comprato dal medico e botanico Martino Marinosci, ha le pareti della galleria affrescate in istile pompeiano e con decorazioni barocche simili a quelle del Palazzo Ducale, Il De Giorgi vi notò che « l’impasto delle tinte è un po’ grossolano e il disegno più libero, ma è trattato con molto gusto». Un ignoto restauratore che tentò ravvivarne i fondi troppo oscuri, li deturpò con brutti colori.

Nel palazzo Fanelli, in via Cavour, sono affrescate due sale con gentilissimi motivi ornamentali.

Il palazzo Motolese, in via Roma, ha affrescata la cappella e la sala maggiore.

La galleria del palazzo, già Recupero, in via Grillo, ha Le quattro Parti delmondo, con esempi della flora e della fauna rispettiva ne’ fregi e ne’ sottofregi.

E di soggetti sacri il Carella disseminò le chiese di Martina. In S. Domenico c’è la tela della Madonna del Rosario, firmata e datata il 1776. In S. Maria della Purità c’è la Madonna della Salute tra S. Tommaso Villanova e S. Nicola, del 1777. In S.Francesco di Paola c’è a tela di S.Antonio da Padova, ormai sciupatissima, ma che lascia scorgere ancor chiara la firma e la data del 1778. Nella cappella suburbana di S.Michele sono due affreschi, La Madonna della luce e S. Michele Arcangelo, e due altri sono nella vicina cappella di S.Maria di Loreto, rappresentanti L’entrata di Gesù a Gerusalemme e La lavanda de’  piedi.

Nella chiesa parrocchiale di S.Martino, il cappellone del Santissimo ha i ventagli del cupolino affrescati con I quattro Evangelisti; vi si legge a lettere cubitali « Dominicus Carella pinxit 1785», e, come scrissi altrove, (2) sono tra i più be’ lavori carelliani, ma furono mal restaurati nel 1844, e oggi son minati dall’umidità. La chiesuola della Masseria Cappella, proprietà del signor Domenico Fanelli, ha una tela della Deposizione di Gesù con firma e data del 1801.

Ma – a voler tacere d’ innumeri altre tele in possesso di privati, e su l’autenticità delle quali non sempre si può giurare – due sono i quadri in cui il Carella mostrò a qual punto di perfezione fosse giunta l’arte sua dopo mezzo secolo e più di attività fecondissima.

Il primo, posseduto da’ su dètti signori Fanelli, fu dipinto nel 1803, e rappresenta Gesù  invitante S..Tommaso a mettergli la mano sul costato. Vive e dolci a un tempo ne sono le tinte; ben espresse la tenerezza del volto del Salvatore e la timida titubanza dell’Apostolo incredulo.

L’altra tela è la Cena, che domina l’altare del Sacramento nell’or ricordata Parrocchia. Le tinte calde e ben intonate, l’esattezza del disegno, gli svolazzi delle pieghe, gli scorci degli angeli nella parte superiore, il contrasto tra la luce che si diffonde su Gesù e su’ Discepoli, e l’ombra che avvolge l’Iscariota traditore, c’ inducono a ritener questa Cena come il lavoro in cui il Carella superò se stesso, dandoci un vero capolavoro dell’arte settecentesca. « Tela – sentenziò il Foscarini – ben concepita e ben eseguita per raggruppamento di personaggi, giustezza di proporzioni, freschezza di colorito ». Porta scritto «Domenicus Carella senior fecit, 1804», e il perché di quel « senior » spiegheremo più innanzi.

La tradizione locale vuole che insieme con la Cena c’era un’altra tela, ben degna di starle accanto, ma che i Francesi la portaron via dopo i torbidi del 1799.

Domenico Antonio Carella morì in Martina il 23 settembre del 1813, come risulta sia da’ registri della Parrocchia, sia da quelli del Comune; oltre il nome del padre, Giuseppe, questi ultimi ci fanno conoscere anche il nome della madre, Laura Agrusta.

La moglie, Vincenza, era premorta il 23 gennaio 1807, all’età di 8o anni.

Il mio Natale a Martina Franca

 

 

di Dora Liuzzi

Era mia nonna che, subito dopo la festa dell’Immacolata, cominciava a creare, in casa, l’atmosfera natalizia che noi ragazzi sognavamo per un intero anno; tutto aveva inizio con il suo invito caloroso:  “piccini, cominciate a raccogliere il materiale per il presepe”.

I miei fratelli allora avevano campo libero: c’era un falegname che aveva la sua bottega di fianco al portone di casa di mia madre (io vivevo a casa di nonna dove si svolgeva la vita di noi tutti); il suo nome era Antonuccio “pizzaridd”; da lui essi prendevano pezzi di legno di varia lunghezza e di diverso spessore; rientravano carichi e cominciavano a depositarli nel “maiazzl”, un’ampia stanza-deposito per le provviste che, pcr1’occasione, si trasformava in laboratorio.

Seguiva la raccolta dei giornali c poiché allora non c’era tanta carta in giro come oggi, per metterne insieme un bel po’, bisognava penare diversi giorni; si facevano ricerche nel retrobottega di nonno, dal cartolaio-libraio Mimi Carrieri, amico di famiglia e sempre tanto generoso (da lui mamma comprava i libri di scuola per noi quattro, “a rate” interminabili perché quelle di un anno si incrociavano con quelle dell’anno successivo) e talvolta anche qualche Famiglia cristiana, a cui mamma era abbonata, serviva allo scopo.

Tempi difficili quelli, di guerra e dell’immediato dopo-guerra, ma il presepe in casa non doveva mancare (come in casa Cupiello); mia zia, che sovrintendeva alle masserizie, brontolava sempre quando doveva mettere fuori la farina che serviva per preparare la colla: in un vecchio barattolo Nino e Pietro impastavano acqua e farina e non dovevano essere molto bravi, a detta di zia, se consumavano tanta, tanta farina; io allora vedevo colla dappertutto, sul pavimento, sui loro vestiti, sulle pareti e mi estasiavo, ma non “davo una mano” perché quello era lavoro esclusivo dei “maschi”.

Preparata la struttura del presepe, con montagne impervie, valli nascoste, qualche raro sentiero e una minuscola grotta, si passava alla seconda fase, la coloratura: con polvere verde e marrone il paesaggio veniva delineato meglio, anche se, a rivederlo oggi con gli occhi della memoria, mi rendo conto che quello era un paesaggio inesistente in quanto né in Palestina, né in

Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari

Libri/ Rossella Barletta, Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari, Capone Editore

 

Pietra su pietra

di Maurizio Nocera

Perché interessarsi ancora (e sempre) dell’architettura rurale pugliese? Perché attraverso lo studio ed il recupero di questa realtà noi possiamo conoscere le origini, i costumi, le tradizioni di chi ci ha preceduto, di chi ha segnato questo territorio con il lavoro e con la speranza di lasciare testimonianze vive e utili alle generazioni che sarebbero venute. Ma anche per tentare, dopo decenni e decenni di abbandono, di progettare per dette aree un loro riutilizzo attraverso una riqualificazione ambientale, e così poter ritornare a rivivere e ad essere utili per i nuovi orizzonti turistico-culturali. Per fare tutto ciò, però, occorre avviare progetti e studi che identifichino e descrivano dettagliatamente le aree rurali, per le quali occorre poi tracciare le necessarie linee di intervento per la riqualificazione ed il loro recupero funzionale.

È importante quindi avere come obiettivo immediato il recupero dei trulli dell’area della Murgia brindisina, barese e tarantina, il recupero delle “pajare” e delle “caseddhe” del Salento, di quelle del foggiano e della Bat, infine occorre recuperare il vasto patrimonio dei muretti a secco che, per migliaia di chilometri, insistono in tutta la regione. Studiare le aree rurali pugliesi significa narrare la loro secolare storia; significa descrivere le loro caratteristiche costruttive; significa conoscere la differenza tra trullo primordiale e trullo evoluto, tra trullo e “pajara” o “furneddhu”, e tra questi e le “caseddhe”. Ciò è per noi importante per capire l’evoluzione della caratteristica struttura abitativa rurale dei pugliesi.

 

Lo “studio” di Giovanni Santini

Oggi però non iniziamo da zero. Nel passato ci sono stati studiosi che hanno dedicato non poche attenzioni al paesaggio rurale. Si pensi, ad esempio, a Luigi Maggiulli, Sigismondo Castromediano, Filippo Bacile di Castiglione, altri ancora. E non molto tempo fa, alla cultura e alle architetture del paesaggio rurale la Società di Storia Patria per la Puglia dedicò due convegni di importanza nazionale. Il primo, su iniziativa della stessa e in collaborazione col “Centro studi sui territori rurali” di Pavullo nel Frignano (Modena), intitolato “Storia e problemi della Montagna Italiana”, ebbe luogo a Pavullo il 21 e 23 maggio 1971; il secondo invece, organizzato sempre dalla Società di Storia Patria per la Puglia e dalla sua Sezione Dauna, con l’adesione della regione Puglia ed ancora del “Centro studi di Pavullo”, intitolato “Distretti rurali e città minori”, ebbe luogo a Lucera (col coinvolgimento anche dei sindaci e delle amministrazioni comunali di Troia e Monte Sant’Angelo) il 17-19 marzo 1974.

Cito questi due eventi perché in essi alcuni studiosi della materia tennero delle relazioni importanti per il loro carattere metodologici come, ad esempio, furono gli interventi di Giovanni Santini, all’epoca ordinario dell’Università di Bari il quale, nella relazione “Ipotesi di lavoro e ricerche interdisciplinari”, riferendosi al paesaggio “civile” italiano, individuò tre aree di “civiltà” storicamente vissute. La maggiore, che è quella dei grandi centri urbani come sono i capoluoghi di provincia. L’intermedia, che è quella caratterizzata dai centri urbani agglomerati del tipo Gallipoli, Ostuni, Martina Franca, Barletta, Manfredonia, ma anche territori rurali con una rilevanza storico-culturale del tipo Parchi letterari (ad esempio, quello intitolato al meridionalista Tommaso Fiore nell’area altamurana); infine, e siamo al dunque, le aree minori o “minime”, quelle cioè in cui Santini, sulla scia del March Bloch de “I caratteri originari della storia rurale francese” (Torino 1973) e del Fernand Braudel degli “Scritti sulla storia” (Milano 1973), individua come aree delimitate da confini ben precisi come, ad esempio, sono le corti, le pievi, i castelli e quant’altro sta nelle loro più immediate vicinanze. Per noi il concetto di aree “minime” vale per le zone rurali che hanno o hanno avuto un’omogeneità colturale e architettonica.

Lo studio del Santini aveva come obiettivo quello dell’integrazione delle aree “minime” con le intermedie e queste ultime, a loro volta, con i grandi centri urbanizzati. «Solo così – egli scrive nella sua relazione – con un grandioso sforzo collettivo di presa di coscienza del passato, potremo programmare il futuro dei territori rurali italiani nel rispetto delle loro tradizioni e della loro personalità storica, oltreché, naturalmente, delle esigenze del presente […]. In tal modo [… sarà possibile] veramente, una rinascita del mondo rurale, rendendolo protagonista del suo rinnovamento» (cfr. Atti del II Convegno “Distretti rurali e città minori”, SSPP, Bari 1977, p. 210). Lo studioso auspicava allora che, per procedere su questa strada, occorreva avviare una fase conoscitiva e scientifica e solo, dopo di essa, sarebbe stato possibile mettere in atto politiche e proposte fattibili capaci di rinnovare il territorio “minimo” raccordandolo e integrandolo col resto del paesaggio urbano e rurale. Sappiamo che da decenni, per non dire da qualche secolo, ciò non è stato fatto, un po’ per un’assurda visione dell’Italia unitaria e post-unitaria, nella quale doveva crescere economicamente solo il Nord, mentre il Sud doveva solo consumare la ricchezza prodotta; un po’ anche per l’incuria e la debolezza dello stesso personale politico-amministrativo dello stesso Meridione, per il quale era sufficiente vivere solo il presente senza preoccuparsi di quello che sarebbe stato il futuro, soprattutto quello delle generazioni che si sarebbero succedute, cioè i nostri figli.

Il recupero delle aree “minime”

Oggi occorre quanto prima tentare di colmare le lacune del passato cercando, sulla scia delle considerazioni del Santini ma anche su quelle di altri studiosi, di contribuire ad un progetto di recupero delle aree “minime”, con l’obiettivo della loro integrazione e raccordo con le aree urbanizzate e culturalmente più attrezzate della regione. Da subito va avviato il recupero dei muretti a secco e dell’architettura dei trulli, delle “pajare” e delle “caseddhe” con l’obiettivo immediato di intervenire per verificare il loro stato di conservazione, e là dove v’è urgenza di un intervento, metterlo in atto restaurando oppure consolidando le strutture dei manufatti. In questo ampio progetto di rivitalizzazione delle aree “minime” rurali pugliesi occorre coinvolgere tutti coloro che vivono in rapporto con la terra, e il riferimento va ai vecchi e nuovi lavoratori agricoli, ai piccoli e medi contadini, agli extra-comunitari e ai giovani italiani in cerca di lavoro, dando loro ovviamente dignità di retribuzione.

Il trullo

Importante è sapere com’è fatta la struttura del trullo, consistente nel “pinnacolo” (l’ultimo esile concio in verticale che si innalza al centro del tetto); la “carrazzola”, altrimenti detta anche “serraglia” (chianca o lastra di pietra circolare che chiude la copertura conica); le “chiancarelle” (mattoncini piatti che ricoprono il tetto costruito in forma di cono con inclinazione di circa 45 gradi); la “intercapedine” (spazio tra le chiancarelle esterne e la linea di pietre a secco che costituiscono la parete interna del trullo, in dialetto salentino chiamata anche “muraja”); la “cannella” (volta costruita ad anelli circolari con diametro decrescente verso l’alto); il “compluvio” (sistema di immissione della acque piovane nella cisterna); l’ “ingresso” (unica porta che permette l’entrata e l’uscita dal trullo); gli “settaturi” (sedili in pietra a ridosso dell’ingresso); il “soppalco” (utilizzato come deposito o posto letto); la “alcova” (parte della stanza contenente il letto e solitamente adibita a dormitorio); la “cisterna” (può essere interna scavata al di sotto delle fondamenta del trullo oppure scavata esternamente e affiancata ad esso). Quando il trullo è in forma trapezoidale (più rara) gli angoli sporgenti vengono costruiti con i cosiddetti “peducci”, che sono pietre più grosse rispetto alle altre usate per le pareti normali. Non poche volte, in Puglia, si incontrano trulli o “pajare” o “caseddhe” circondate da grandi mura perimetrali (“paritoni”) che delimitavano lo spazio dell’aia o degli animali da cortile.

“Pajare” e “caseddhe”

Il tipo di struttura del trullo vale anche per le “pajare” o “furneddhi”, più presenti nel basso Salento, il cui aspetto è in forma tronco-conica o tronco-piramidale (“tholos”) con pareti a secco spesso non intonacate. Nel libro “Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento” (Progeca, Tricase 2007), Francesco Calò scrive che «Le costruzioni trulliformi utilizzate come veri e propri ripari di campagna, sono particolarmente diffuse a sud, nel basso Salento, lungo le fasce costiere. Sono ripari stagionali costruiti interamente a secco» (p. 15), precisando che «un’evoluzione dei ripari trulliformi sono le “caseddhe” e le “liàme”, costruzioni in pietra a secco e a pianta quadrangolare, sempre rustiche, ma più stabili e più comode sul campo. Le prime, poco diffuse, hanno una copertura risolta a due spioventi di tegole di terracotta» (p. 38).

Calò nei primi capitoli del suo libro fa opportuni riferimenti storici sull’estensione europea del fenomeno dei ripari costruiti con pietre a secco, ed interessante è l’approfondimento che egli fa sulle origini della struttura architettonica rurale. Nel capitolo “Etimologia dei termini”, egli definisce e chiarisce specificamente termini come “pagliaro” o “pagghiara” e “pagghiarune”; “trullo” (sinonimo di “tholos”), o “truddhu” o “chipuru”, o “furnu” e “furneddhu”; “casella” o “caseddha” o “liàma” o “lamia”. Interessante è pure il capitolo “Procedimento costruttivo e struttura”, nel quale descrive come viene costruito un riparo con pietre a secco. Scrive: «i ripari trulliformi in pietra a secco sono generalmente costruzioni con struttura interna monocellulare, cioè dotate di un solo ambiente, e sono costruite in pietra a secco secondo il più volte citato principio delle “mensole aggettanti”, che permette di realizzare una varietà di pseudo-cupole, specialmente le tholos più classiche. Questo sistema per risolvere la copertura, apparentemente complesso, è in realtà molto semplice, poiché deriva dal sistema del triangolo di scarico, così come la cupola e la volta a botte sono derivate dall’arco a tutto sesto. Il contadino o l’esperto costruttore, dopo aver terminato l’approvvigionamento delle pietre, inizia il procedimento costruttivo scegliendo prima il sito. Successivamente, disegna la planimetria del riparo direttamente sul terreno, che può assumere due forme, quella circolare, più primordiale, o quardrangolare, più recente, differenziando, così, la parte inferiore del volume del riparo. La copertura è risolta solitamente a “tholos”, più raramente, a “piramide” o a “barca” rovesciata» (p. 55).

Il maestro costruttore Donato Pinzetta

Occorre quanto prima prendere coscienza dell’importanza delle architetture rurali pugliesi, soprattutto per un loro riutilizzo in funzione produttiva ed anche in quella turistico-culturale. E in primo luogo occorre attrezzarsi di una legislazione regionale tale che impedisca inutili sconvolgimenti dell’assetto territoriale agricolo, evitando episodi già accaduti che hanno visto distruggere o spostare tali architetture dai siti in cui da secoli e pure da millenni stavano, per trasportarle in ville o in luoghi che non hanno nulla a che vedere con la loro storia di pietre. Occorre seguire le indicazioni di chi sulla terra e tra le pietre di questa terra ci vive con amore e passione come, ad esempio, il maestro costruttore di muretti a secco Donato Pinzetta, di Tricase, e il geometra Antonello Palma, di Montesano, i quali, in un’illuminante intervista condotta da Paolo Palomba, pubblicata su «il Paese nuovo» (8 luglio 2009), hanno difeso con competenza le architetture a secco del Salento. Alla domanda posta dal giornalista Palomba [«Geometra Palma, quali strategie tecniche si sente di suggerire all’opinione pubblica, al fine di preservare tali opere architettoniche, viste come espressione importante della civiltà contadina?»], Palma ha risposto così: «è importante e doveroso che soprattutto il tecnico (geometra, ingegnere, architetto) sensibilizzi e stimoli l’opinione pubblica a prevenire qualsiasi alterazione delle costruzioni rurali; spesso, purtroppo, questi reperti del passato vengono modificati impropriamente, con materiali diversi da quelli originari. Più che il tufo o il cemento armato, deve essere garantita la struttura nativa di siffatto patrimonio dell’umanità, nonché espressione architettonico-culturale del Salento. Si tratta di “guardare il vecchio per fare il nuovo”, suggerendo la presenza di codici e regolamenti che tengano conto della memoria storica, in vista dell’emanazione di nuovi ed efficaci piani regolatori territoriali».

L’umanesimo della pietra

Comunque, sul terreno della difesa delle strutture architettoniche rurali, qualcosa è cominciato a muoversi. Nel 2000 fu Nico Blasi, studioso a quel tempo attivo nell’associazione martinese “Umanesimo della Pietra”, che si interessò dell’importanza delle costruzioni trulliforme rilasciando una intervista a «Quotidiano di Lecce» (14 luglio 2000), raccolta da Anita Preti. In essa, Blasi afferma che «Si può fare di tutto con i trulli. L’importante sarebbe conservare il tempo per amarli e rispettarli». E sull’appello del Blasi, non pochi studiosi e molti pugliesi innamorati del nostro paesaggio stanno oggi lavorando per ridare dignità alle antiche architetture rurali. Come di recente ha fatto Rossella Barletta, con la pubblicazione di un suo libro intitolato “Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari” (Capone Editore, Cavallino 2009, pp. 96, euro 8), che si presenta con due stupende immagini (entrambe scatti dell’archivio della Casa editrice) di copertina (in prima un “pajarone” e in ultima un muretto a secco dalle caratteristiche pietre ad incastro verticale-orizzontale-obliquo).

Il libro di Rossella Barletta

Di immagini bellissime è colmo l’intero libro, che è introdotto dalla Presidente dell’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce, Maria Rosaria De Lumè, che scrive: «L’architettura rurale […] è il frutto di una molteplicità di relazioni che hanno strutturato nel tempo un determinato luogo, esito visibile di numerosi fattori culturali […]. C’è un altro modo per definire l’architettura rurale: muretti a secco, “pajare”, “pagghiare”, “furneddhi”, fanno parte di quella che viene indicata ‘architettura vernacolare, con cui si intende quel tipo di costruzioni realizzate in sede locale da popolazioni che lavorano senza servirsi di professionisti, ma facendo ricorso esclusivamente a quanto appreso per tradizione orale e tecnica. È, per questo, un’architettura consolidata che non presenta segni rilevanti di sviluppo nel tempo, resa sicura dall’esperienza che ha contribuito a stratificare le conoscenze. Per questo, proprio perché è collegata all’ambiente, i materiali sono quelli del luogo, pietre su pietre, senza collanti. Muretti a secco, terrazzamenti, costruzioni a forma di capanna che assumono nomi diversi, masserie costituiscono un mare di terre e pietre, e non solo nostro. […]. L’architettura di pietre a secco nei paesi del Mediterraneo ha avuto certamente origini differenziate per quanto riguarda tempo e forse anche per gli usi. Non si esclude infatti che le costruzioni a cono richiamino strutture funerarie presenti in Grecia e nell’isola di Pantelleria. Sappiamo con certezza che l’architettura a secco delle nostre regioni è certamente più tarda di quella della Grecia o dell’Egitto. Ma il filo che lega le capanne che davano riparo ai contadini della Mesopotania già nel III millennio a. C. ai nostri trulli, “pagghiare”, ecc. è sempre il medesimo, un filo di pietra» (p. 5).

Il paesaggio e la pietra

Nel prologo, la Barletta fa riferimento al paesaggio salentino, affermando che a dominarlo è «l’albero d’ulivo così estesamente presente da infoltire autentiche foreste che si perdono a vista d’occhio», l’altro aspetto è dato dalla roccia calcarea, assai diffusa, tanto da far derivare da essa perfino alcuni giuochi che allietavano le nostre passate generazioni; e fa l’esempio del giuoco dei cinque sassolini (in dialetto salentino “tuddhri”, o “patuddhri”, “pituddhri”, paddhri”, e “vota manu”). Bello il riferimento che fa l’autrice alla forma della pietra. A p. 28, scrive: «A volte la pietra grezza si presenta con forme modellate senza alcun intervento dell’uomo, erose dal vento e dalla pungente salsedine portata dai venti di scirocco; nella maggior parte dei casi è stata assemblata dando vita ai “murieddhri”, muretti, dai contadini tenaci e caparbi, quando hanno conquistato un palmo di terra che, ripulito, ha accolto ortaggi, leguminose, filari di vite, piante di capperi oppure alberi d’ulivo, di fico, di carrubo o di mandorlo, organismi vegetali che resistono alla scarsa umidità del terreno, oppure sono servite per delimitare le proprietà terriere o i percorsi di campagna, separare appezzamenti della stessa masseria diversamente coltivati, stabilizzare le scarpate, sostenere i terrazzamenti che hanno interrotto l’acclività del terreno e, talvolta, hanno consentito di praticare le più idonee coltivazioni».

Tutto vero. Chi qui scrive è nato in uno di questi “furneddhi” posto al centro di un’estesa cava di tufo del Salento, delimitata sui suoi alti confini da muretti a secco aventi la funzione di circoscrivere protettivamente l’argine del precipizio. All’interno della cava, tutt’intorno appunto alberi di fico, ficodindia, allori, mirti, filliree, lentischi, corbezzoli, e timo a più non posso tra tufi e pietraglia disseminata un po’ ovunque.

I muretti a secco

La Barletta fa poi un’utile descrizione dei muretti a secco definendoli “pariti” o “parieti” utili a recingere un appezzamento di terreno; chiama “lu quataru” o “quadaru” il varco che, ad un certo punto, si apre per accedere nel campo; oppure chiama “jazzu”, “ncurtaturu” o “curtale” il muretto a secco che recinge un ovile; “paritone” o “limitone” chiama invece il muraglione, che aveva la «funzione esclusivamente difensiva […] composto da grossi massi informi sovrapposti a secco». A questo punto doverosi sono gli opportuni riferimenti che l’autrice fa agli studi di Antonio Costantini, uno dei massimi esperti del paesaggio rurale salentino e delle architetture in pietra a secco, nello specifico “limitoni” e “paretoni”.

Interessante è la tecnica di costruzione dei muretti a secco indicata da Rossella Barletta. Scrive: «Per costruire il muro è preliminare raggiungere il banco di roccia o lo strato di terreno più solido e compatto sul quale si traccia talvolta uno scavo, una specie di fondamenta, in gergo denominato “scarpa”, sulla quale si pongono due file parallele di pietre di grossa pezzatura, facendo combaciare il più possibile il profilo col terreno […]. Sulle prime pietre vengono poggiate le altre, di dimensione inferiore, a mano a mano che il muro sale verso l’alto; si allineano seguendo una guida costituita da due cordicelle annodate a pali mobili, posti all’esterno del muro, che si spostano come cresce il muro. Lo spazio che si crea tra le due file di pietre, in gerco “cassa”, viene colmato con pietrame informe» (p. 40-42). Vengono poi descritte varie dimensioni di muretti a secco e varie esecuzioni di chiusura degli spazi interstiziali come della copertura. Interessante il capitolo “Muretti con nervature litiche”, che tratta dei vari modi di rinforzo dei muretti a secco, facendo un escursus storico sulla loro origine; come interessati sono i riferimenti agli attrezzi (“li fierri”) utili al “patitaru” o “truddhraru” (costruttore) per costruire i muretti: “lu zzeccu”, o “zzoccu” o “zueccu” (piccone); le “puntazze” (chiodi grandi e rustici). Interessante è anche le denominazioni che l’autrice dà delle differenti costruzioni rurali, che qui, riprendendo anche quelle già citate, ritrascrivo: «“pagghiara”, “pajara”, “pajaru”, “tuddhru”, “suppinna”, “furnu”, “furnieddhru”, “càvalaci”, chipùru” (questi ultimi due usati prevalentemente nei centri della Greca), “caseddhra”, “liama”, “ruddo” (nella campagna di Muro Leccese e Santa Cesarea Terme), “umbracchiu”, dal latino “umbraculum”, riparo, riposo (p. 63). Ad ognuna di queste denominazione corrisponde un’area entro cui essa viene usata dai locali come, ad esempio, «“caseddhri” (termine preferito dagli abitanti» della costa ionica.

Le architetture di supporto

Il libro della Barletta si conclude con i capitoli relativi agli architetti delle costruzioni rurali e alle architetture di supporto, quali: l’aia (“aiara”), il pozzo (“puzzu”), il pollaio (“puddhraru”), la pila (“pileddhra”), la cisterna (“matrìa”). L’autrice infine si auspica che venga istituita una «”strada della pietra” che colleghi i luoghi dove prevalgono muretti e casolari in pietra o, ancora meglio, l’istituzione di uno specifico eco-museo che fornisca ai cittadini […] consapevolezza di questo patrimonio paesaggistico-storico-culturale, perché comprendano la tenace ostinazione di chi continua a volere vivere a contatto della pietraia ed a volere custodire la propria autonomia e […] perché prendano atto che i manufatti in pietra […] assumono una funzione di straordinaria attualità» (p. 93).

Alle pp. 80-81 è possibile vedere le differenti immagini (scatti del foto-scrittore Lorenzo Capone) delle tipologie delle “pajare” e di alcune loro architetture di supporto, tra le quali una sola immagine appare animata (la n. 11). Tra i testi allegati, è possibile leggere la poesia “Sono uno di loro” (p. 22) di Ennio Bonea; “Opus incertum” (p. 37-38) di Alfonso Acocella; “Muri a secco” (pp. 45-46) di Riccardo Venturi; e la poesia “Contadine del Capo” (p. 68) di Donato Moro.

( da Paese nuovo del 26/2/2010)

“Cristo alla grotta” a Martina Franca

 

di Dora Liuzzi

È una chiesa antichissima in cui c’è una grotta. Una volta vi si accedeva da un incrocio, sito in via Paolotti, e il viottolo aveva al suo margine un’antichissima croce con i sacri simboli. Esso poi dava vita, lungo il percorso, a caratteristiche gradinate che rendevano faticosa l’andata e ancor più il ritorno.

Oggi questa chiesa è nascosta da palazzi non completati e ridotti a ruderi pericolosi per i bambini. Tali costruzioni si sono sostituite agli alberelli selvatici e soprattutto alle bellissime e profumate ginestre che, con i vari tipi di erbe officinali, rendevano tipica la flora di tale zona.

Sulla porta della sagrestia c’è la data del 1673 che è forse la data del restauro. All’interno è custodito un Cristo schiodato e morto; le sue ferite sono estremamente realistiche ed è ritenuto miracoloso.

Dal 17 novembre 1792 fu concessa l’indulgenza plenaria a tutti coloro che visitavano il tempietto e recitavano cinque Pater ed Ave il secondo venerdì

Importanti documenti nell’archivio Caracciolo – de’ Sangro di Martina Franca

di Lucia Lopriore

In relazione a quanto scritto in precedenza sull’archivio Caracciolo – de’Sangro di Martina Franca, tra i tanti documenti presenti se ne segnalano alcuni di particolare importanza:

 

Dal fondo Buccino Generale:

 

1648 – 1848

  • Rep. 25 in Ordinamento del Petter
  • F.3-n.4 in Ordinamento per Fasci
  • A.1-V.2-n.31 in Pandetta per armadi

Lettere di ringraziamento del re Filippo IV d’Asburgo a Francesco I e Beatrice Caracciolo, duchi di Martina, per la fedeltà dimostrata alla corona da parte della famiglia Caracciolo in occasione dei tumulti antispagnoli del 1647/48 verificatisi nel Regno di Napoli.

fascicolo di cc. 3

 

Dal fondo Buccino Speciale:

 

1560 – 1780

Il feudo di Mottola.

2 fascicoli, 201 cc. e 24 pp.

  • B.S. 61/42 in Inventario notarile
  • A.1-V.2-n.1 in Pandetta per armadi
  • F.2.n.1

Estratti legali di patenti di nobiltà che comprovano di essere l’eccellentissima Casa ducale di Martina la primogenita, ossia il ceppo della famiglia Caracciolo dal 1292 al 1306

fascicolo cartaceo e membranaceo, 13 cc. e 7 pergamene

Uno scrigno di preziose informazioni: l’Archivio Caracciolo – de’ Sangro di Martina Franca

di Lucia Lopriore

Il Salento terra dove arte, folklore e tradizione fungono da corollario nella storia del territorio, conta la cospicua  presenza di archivi pubblici e privati a testimonianza di una lunga storia. Questi luoghi, spesso dimenticati e frequentati, quasi sempre, da studiosi appassionati o dagli addetti ai lavori, restano sconosciuti ai più.

In genere gli archivi sono considerati come luoghi polverosi e monotoni dove non c’è nulla di interessante. Ovviamente, così non è, perchè gli archivi, al contrario, rappresentano, con le loro preziose carte, un patrimonio importante di notizie dove si può ricostruire dettagliatamente la storia del proprio paese. Tra i tanti è utile segnalare l’archivio Caracciolo – de’Sangro di Martina Franca.

Questo archivio, custodito nella Biblioteca Comunale “Isidoro Chirulli”, raccoglie 1322 buste ed è strutturalmente suddiviso in due sezioni, la Sezione Antica e la Sezione Contemporanea.

 

SEZIONE ANTICA

Venne donata al comune di Martina Franca nel 1978, per disposizione testamentaria dell’ultimo duca di Martina, Riccardo de’ Sangro. Comprende materiale cartaceo e pergamenaceo tra la metá del XIV sec. e l’inizio del XX sec., ed è stata oggetto di vari riordini, il primo dei quali affidato all’archiviario Giuseppe Petter nel 1790.

Il secondo riordino è documentato da una Pandetta organizzata per Armadi, all’interno dei quali, la documentazione venne riposta ordinata per argomento, riconducibile alla metá del XIX sec.

Il terzo ed il quarto rimaneggiamento di questa sezione d’archivio, sono presumibilmente contemporanei e contingenti una divisione ereditaria degli inizi del XX sec.; in effetti, quasi contemporanei risultano un Inventario dell’archivio della Casa de’ Sangro organizzato per fasci ed un inventario notarile, quest’ultimo redatto tenendo ben separate le carte per asse

Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese

mar-prima-di-copertina-volume-marsella-ultima-e-definitiva-5_6_09

VIVA  IL  DIALETTO, TUTTI  I  DIALETTI

 di Francesco Lenoci

Sono nato a Martina Franca, in Puglia,  nel 1958. Vi ho trascorso un’infanzia felice e una giovinezza altrettanto felice. Dopo aver conseguito la maturità scientifica, sono andato a Siena per gli studi universitari e, poi,  a Cagliari, dove ho prestato  il servizio militare. Dal 1983 vivo,  lavoro e insegno nella  seconda, per numero di abitanti, città pugliese d’Italia: Milano.

Il mio Amico Emilio Marsella è nato a Maruggio, in Puglia, ha studiato come me anche a Martina Franca e si è affermato professionalmente, come il sottoscritto, a Milano.

Non credo di sbagliare affermando che Milano è la città dove generazioni di  pugliesi hanno dato il meglio di sé. Perché Milano ti accoglie, ti stimola, ti offre un’opportunità . . .   che non puoi non cogliere . .  .  se hai “occhi di tigre”, “orecchie alla Dumbo” e voglia di fare strada.

Viviamo da tanti anni lontani dalla Puglia, ma “la lontananza” – come cantava Domenico Modugno – “spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi”. Non temo di essere smentito affermando che ai nostri nomi  non sarà mai affiancato il proverbio maruggese “Pi iddu, pi iddu, ognunu penza pi iddu”. La speranza è che trovi applicazione l’altro proverbio maruggese citato nel Libro: “Ci busca e dai a Mparatisu vai”.

Per promuovere il Libro di Emilio Marsella “Parlava la lingua dell’orto – il salento maruggese prima degli anni 30/40 del millenovecento e dopo” ED INSIEME, giugno 2009, ho, inter alia, creato un gruppo su Facebook denominato “Maruggio….Martina Franca….Milano….Maruggio”.

Sono i nidi ove è ambientato il Libro. Cominciano tutti con la lettera “M” . . . come Marsella.

Maruggio sta all’inizio e alla fine della denominazione del gruppo: ha la valenza di due nidi. Mi hanno chiesto in tanti. . . . perché? Lo rivelo questa sera, utilizzando l’incipit della recensione del Libro che un grande giornalista, un grande Amico mio e di Emilio Marsella, Franco Presicci, ha pubblicato su La Gazzetta della Puglia di aprile-luglio 2009.

Scrive Franco Presicci: “Difficile dimenticare il proprio nido. Ci sono uccelli che vi tornano sempre. E se il vento o la pioggia lo hanno irrimediabilmente disfatto, loro ne fanno un altro, ma nello stesso posto: lo stesso albero, un buco dello stesso fabbricato come i passeri, o  sotto lo stesso tetto come le rondini. Emilio Marsella non ha dimenticato la sua Maruggio. Il suo cuore batte sempre per Maruggio,  che campeggia  spesso nei suoi discorsi”.

Ho letto una prima volta “Parlava la lingua dell’orto” nel mese di gennaio 2009 a Milano. Da quella lettura è scaturita la mia prefazione al Libro. L’ho riletto la settimana scorsa a Martina Franca. Come diceva don Tonino Bello, mutuando un’espressione di Max Weber, “Un libro che non è degno di essere letto due volte, non è neppure degno che lo si legga una volta sola”.

Nel Libro giganteggia la figura della nonna di lu Miliu: nonna Checca. Il perché è spiegato a pag. 87: “Nel nido in cui accolse il figlio e i nipoti (dopo  la prematura morte della nuora) non fu più solo la nonna. Ma in assoluto la loro mamma Checca. I piccoli nipoti la chiamavano, infatti, sempre mamma: come la chiamava il figliolo. E lei fu sempre loro madre e nonna insieme”.

Ritengo  che giganteggi perché a me, proprio a me, fa venire in mente tanti ricordi. Nonna Checca aveva un figlio emigrato in Argentina, a Buenos Aires. Anche mia nonna, morta quattro anni prima che io nascessi, aveva un figlio emigrato a Buenos Aires. Prima di partire mio zio Giovanni diceva sempre: “Tutto andrà male….non mangerò più  fave…. che lui odiava”.

La nonna di mia madre – mammà – mi vide nascere; percorreva a piedi circa un chilometro per potermi tenere in braccio. A 93 anni ballava ancora la pizzica. A pag. 122  del Libro si apprende (per i ragazzi di oggi queste cose sono in gran parte sconosciute) che “Il gallo era per nonna Checca il primo segnale naturale del nuovo giorno  e della notte, che si era ormai conclusa all’apparire della luce. Udendolo cantare ancora, l’assecondava – Tuni cuntinui a rùsciri! Nui sapimu ca jè giurnu!

Più tardi, accanto al pollaio, reagiva debolmente, senza cattiveria, alle galline che la beccavano saltandole addosso  e strappandole dalle mani il mangime che spargeva. Il padre di Emilio, allorché si accorgeva che il pollame vorace  diventava aggressivo  e assaliva  nonna Checca graffiandola, subito interveniva per allontanarlo. Affettuosamente la esortava anche a stare attenta a non farsi pizzicare”.

Anche mia nonna aveva le galline in campagna: una, alla quale  era particolarmente affezionata, la portava anche in Paese. Quella sciagurata usciva dalla gabbia e andava in giro fino a quando veniva intercettata dai vigili urbani, che facendo sciò…sciò riuscivano a risalire alla casa da cui si era allontanata. Mia nonna era sempre riuscita ad evitare la multa.

Un brutto giorno, però, la gallina anziché coccodè cominciò a fare il verso del gallo. Era un presagio di sventura, come disse alla nonna tutto il vicinato. Mia nonna, a malincuore, ammazzò la gallina una mattina. Poche ore dopo, sul far della sera,  mia nonna morì, vittima di un incidente stradale.

Un tema che pervade il Libro è il rapporto docente/studente. Emilio Marsella ha incontrato docenti non bravi e docenti bravi. È un tema complicato: mi permetto solo di dire che quello del docente è un ruolo difficilissimo. Chi vi parla è un docente universitario che, spesso, ripete una meravigliosa preghiera di don Tonino Bello:

“Salvami Signore:

  • dalla presunzione di sapere tutto;
  • dall’arroganza di chi non ammette dubbi;
  • dalla durezza di chi non tollera ritardi;
  • dal rigore di chi non perdona debolezze;
  • dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone”.

Continuerei a leggere parti del Libro, a  commentarle  e a ricordare per ore, ma non posso e non devo  farlo, perché siamo qui riuniti, soprattutto, per ascoltare Emilio Marsella e, quindi,  mi avvio alle conclusioni.

Che cos’è un maestro di cultura?

Come dimostra da par suo, Emilio Marsella, anche con “Parlava la lingua dell’orto”, è colui che ha la capacità di viaggiare nel tempo e nello spazio, discernendo le cose positive nella pittura, nella scultura, nella poesia, nella letteratura,  nella musica, nella storia. . . . nella vita quotidiana.

E perché un maestro di cultura utilizza anche il dialetto?  Semplicemente perché il dialetto esprime al meglio, da sempre,  ciò che l’uomo è.

Grazie, grazie di cuore, Amico mio.

Un punto fermo.  Non c’è partita tra la capacità espressiva del dialetto, di ogni dialetto, e della lingua italiana. Provo a spiegarlo ricorrendo a degli esempi. Ho prestato il servizio militare, tanti anni fa, a Cagliari e, precisamente, nella caserma “Monfenera”  nel 51° Reggimento Fanteria “Sassari”. Il motto di noi  “Sassarini” era ed è: SA VIDA PRO SA PATRIA. Non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità  e immediatezza tale motto.

Emilio Marsella mi ha portato copia del Libro nel mio studio a Milano. Dalle finestre dallo studio si vede la Madunina tuta d’ora e piscinina.  Sappiamo tutti che tale definizione è tratta dalla celeberrima canzone di Giovanni D’Anzi:

O mia bela Madunina che te brillet de lontan

tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan

sota a ti se viv la vita, se sta mai coi man in man…

Lo ribadisco: non c’è traduzione che renda con altrettanta forza, musicalità e immediatezza ciò che rappresenta la Madonnina per chi vive a Milano.

Un  secondo punto fermo. Se  perdiamo la memoria delle tradizioni, cui è imprescindibilmente legato il dialetto, perdiamo tanto . . .  quasi tutto.

Nella prefazione al Libro trovate  un esempio riferito al periodo di  Carnevale che, come noto, precede la Quaresima. Ebbene, non penso di sbagliare  molto affermando che, ai giorni nostri, il Carnevale e la Quaresima sono scaduti alla condizione di pure espressioni nominali. Fino a qualche anno fa non era così! Non mi stancherò mai di ripeterlo: le tradizioni sono un dono immenso dei nostri avi su cui occorre puntare per assicurare un futuro a noi e ai nostri figli, avendo presente ciò che diceva un grande compositore e direttore d’orchestra austriaco, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

Sono più che convinto che se si affievolisce la vitalità del dialetto . . . la conseguenza è una ed una sola: la scomparsa di un bagaglio di saggezza unico al mondo: la nostra identità culturale. Favorendo l’affermazione, in esclusiva, di un idioma sintetico. . . . stiamo distruggendo l’originalità delle nostre radici storiche e culturali. Nel libro biblico dei “Proverbi” si legge che “I detti popolari valgono a conferire al fanciullo avvedutezza e al giovane sapere e intelligenza. Il saggio che li ascolta diventerà più saggio e l’intenditore possederà di che governarsi”.

Mettendo per un attimo il berretto da economista, mi permetto di sottolineare che rinunciare alla nostra identità culturale ha come conseguenza immediata il venir meno di un  “vantaggio competitivo”. E allora . . . . grazie di cuore a coloro che si impegnano per la salvaguardia dei dialetti, tra cui Emilio Marsella.

Mi avvicino alle conclusioni, rivelandovi un segreto: che cos’è il dialetto per noi.

Un terzo  ed ultimo punto fermo.  Il dialetto è  un’esplosione di gioia. Ho fatto gli studi universitari a Siena. Eravamo in tanti di Martina Franca. Ebbene,  c’era un mio amico che studiava a Firenze: appena poteva, correva a Siena…. per poter parlare in dialetto con noi. Ho lavorato in una multinazionale americana. Mi dicevano i miei insegnanti di inglese: il segreto per poter parlare bene la lingua inglese….è pensare in inglese; mai pensare in italiano e poi tradurre! Non ho mai avuto il coraggio di confessare ai miei insegnanti che pensavo in dialetto, traducevo in italiano e, quindi, traducevo in inglese. La mia fortuna era che, avendo il dialetto nel DNA, riuscivo ad essere veloce….non mi facevo scoprire.

I miei genitori hanno messo al mondo due figli: mia sorella, che ha sei anni più di me e il sottoscritto. Sapete come mi chiamano? Mi chiamano:  u peccinne.

Un famoso slogan pubblicitario di qualche anno fa recitava: “Una telefonata. . . . allunga la vita”. A me fa molto. . . molto di più. Se telefono da Milano o Chicago a Martina Franca, quando mio padre comunica a mia madre che al telefono c’è  u peccinne,io, che ho più di cinquant’anni e  peso più di  novanta chili, grazie alla magia del dialetto, riesco a viaggiare nel tempo e nello spazio, tornando  .  . .  bambino . . .  a Martina Franca . . . con i miei genitori.

Sia lode e gloria al dialetto, a tutti i dialetti! Sia lode e gloria a Emilio Marsella che, con “Parlava la lingua dell’orto” suscita una nostalgia  che prende il cuore e lo riempie, allo stesso tempo….  di malinconia per il tempo che fu e le persone a noi care …. di amore, tanto amore, verso la nostra terra d’origine.

Viaggi Letterari in Puglia

VIAGGI  LETTERARI IN PUGLIA

 di Francesco Lenoci

Patriae Decus Città di Martina Franca, Docente Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano, Vicepresidente Associazione Regionale Pugliesi – Milano

 A distanza di due anni circa torniamo ad incontrarci, in nome della Puglia, nella splendida sala Barozzi del meraviglioso palazzo che ospita l’Istituto dei Ciechi di Milano.  Che bello!

Per la precisione era sabato 29 marzo 2008 e il titolo del Convegno, anche allora organizzato da Edizioni del Rosone “Franco Marasca” con il patrocinio dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano, era: “La Puglia con la Capitanata a Milano: occasioni letterarie, enogastronomiche, economiche”.

Pochi giorni prima di quel convegno la professoressa Falina Marasca mi aveva cortesemente fatto avere tre libri del professor Francesco Giuliani pubblicati da Edizioni del Rosone: “Occasioni letterarie pugliesi”, “Saggi, scrittori e paesaggi” e “Alfredo Petrucci”.

A fine autunno 2009 Francesco Giuliani mi ha fatto avere un altro libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”. In buona sostanza, l’autore prosegue senza soluzione di continuità nell’acuta e meticolosa ricerca dedicata alle memorie letterarie della regione Puglia.

I quattro citati libri sono inseriti nella collana “Testimonianze”, diretta da Benito Mundi, sulle cui copertine campeggia una meravigliosa frase: “È bello dopo il morire. . . .vivere ancora”.

Edizioni del Rosone diffonde informazione, diffonde cultura da ben 32 anni! Grazie!

Un punto fermo: strappare il segreto e diffondere l’informazione – da sempre –  è l’unico strumento per la democratizzazione di ogni realtà giuridica di tipo collettivo.

Un altro punto fermo: la cultura va  intesa come intervento nella storia,  modellato dal sapere e fortificato dalla saggezza.

E non come mezzo di arroccamento nei propri territori. Guai a chi si rinchiude nel borgo! Guai a chi ha piedi e testa nel borgo!

Come ci ha insegnato un grande profeta (nato ad Alessano, parroco a Tricase, vescovo a Molfetta), don Tonino Bello:

  • la cultura è impegno, servizio agli altri, promozione umana come il riconoscimento della persona libera, dignitosa e responsabile;
  • la cultura è cemento della convivenza, orizzonte complessivo, strumento di orientamento, alimento di vita;
  • l’elaborazione culturale diventa una via obbligata per individuare stili di vita, modalità di presenza e di comunicazione, attenzione alle attese delle persone e della società, per esprimere le ragioni della speranza e accettare responsabilità in spirito di servizio.

Lo ribadisco: Edizioni del Rosone diffonde informazione, diffonde cultura da ben 32 anni! Grazie. . . . grazie di cuore, a nome dei pugliesi…ovunque essi vivano e dei tanti innamorati della Puglia.

Perché vi ho raccontato questo?

Perché tradizionalmente la Puglia è ritenuta povera di letteratura.  Ma si tratta di una visione che rispecchia solo una parte della realtà e che, spesso, viene riproposta in modo superficiale.

Grande merito di Francesco Giuliani è di aver contribuito a  smentire con i fatti il citato pregiudizio, evidenziando in che modo il territorio pugliese ha offerto l’occasione per la nascita di pagine di ispirata letteratura, per incontri e riflessioni di particolare rilievo.

Complimenti!

Non posso, peraltro, tacere che Francesco Giuliani ha commesso un errore grave, un errore imperdonabile, un errore blu, mercoledì 3 febbraio 2010, allorquando mi ha inviato, tramite e-mail delle 19,34, alcune recensioni di “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”.

Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle per il semplice, banale motivo che la lettura di un libro è un piacere. . . .ma se è guidata da qualcuno. . . .che piacere è?

Come scrive Kazimiera Alberti: “La felicità si può misurare in due modi: con gli occhi della folla e con il tremore del proprio cuore. Ma queste sono due misure del tutto differenti” (Cfr. pagg. 173-174).

Condivido pienamente: nessuno può privare il mio cuore, la mia mente e la mia anima del piacere di leggere un libro e delle emozioni che  scaturiscono dalla circostanza che all’occhio che legge si aggiunge la fantasia che varia, suggerisce e  abbellisce. Prenderò visione delle citate recensioni dopo San Valentino.

Ho letto una prima volta “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” negli ultimi giorni dell’anno 2009 a Martina Franca.

L’ho riletto questa settimana a Milano e durante un viaggio in treno a Roma.

Come diceva don Tonino Bello, mutuando un’espressione di Max Weber, “Un libro che non è degno di essere letto due volte, non è neppure degno che lo si legga una volta sola”.

Per promuovere il libro di Francesco Giuliani “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” Edizioni del Rosone, 2009, ho, inter alia, creato un gruppo su Facebook denominato “Viaggi….in terra di PUGLIA” (1.081 membri), che accoglie due Eventi: “I VIAGGI LETTERARI sostano A SAN SEVERO” e “I VIAGGI LETTERARI sostano A MILANO”, ai quali ho invitato 6.000 persone.

Perché ho fatto tutto questo?

Perché mi ha intrigato l’idea che è venuta a Francesco Giuliani di vedere la Puglia attraverso gli occhi di un altamurano residente a Roma, di una scrittrice polacca e di un grande senese. Faccio spiegare l’arcano da un avatar: il suo nome è Bairon.

Sussurra  Bairon a Kazimiera Alberti: “Oggi sono venuto a Bari per rivedere questa città nuova”. . . . e fa una richiesta sorprendente: “Vi prego di farmi da guida”.

“Io!? Ma io sono una straniera, non lo sapete?”

“Lo so benissimo! Appunto per questo vi prego. Lo straniero vede sempre le cose caratteristiche. Lo stesso quadro ammirato per la prima volta fa altra impressione che visto per anni, giorno per giorno. Gli occhi si abituano molto presto ed ogni cosa osservata, la più bella o la più strana, diventa normale, schematica, forse anche noiosa. Gli occhi dello straniero sono più freschi, vedono quei contorni che sfuggono all’attenzione dello stabile abitante, vedono i riflessi in quelle macchie che per tutti gli altri sono opache” (Cfr. pagg. 180-181).

Oggi, sabato 13 febbraio,  siamo a Milano e, come affermano  Totò e Peppino De Filippo in un celeberrimo film, allorquando arrivano a Milano vestiti con pellicce e colbacchi: “A Milano fa freddo”.  In Puglia no, per definizione!

Rileva Kazimiera Alberti: “Non aver molta fiducia nel calendario. Anche esso tradisce, falsifica, inganna. Ritarda, avanza, senza motivo. Oggi, per esempio, ti comanda di credere che è il 12 febbraio. Ma guarda invece il cielo, il mare, l’intero Golfo di Manfredonia tagliato in forma di falce ideale. Guarda la montagna garganica. La giornata primaverile ha cancellato l’iscrizione 12 febbraio e si fa beffe del calendario. Ha immerso tutto nel turchese” (Cfr. pag. 171).

Cesare Brandi non era stato altrettanto fortunato. Narra che, una volta, giungendo in Puglia nella stagione più fredda vi trovò la neve, per quanto dall’effimera esistenza. La sgradevolezza di tale presenza è descritta da par suo: “Lo scrivo senza paura, perché a me la neve fa schifo, ipocrita, menzognera e, quanto più è linda e immacolata, tanto più è ipocrita e menzognera. Che simbolo inetto, che metafora stantia, questa purezza che si scioglie al primo calore, questa immacolatezza che s’insudicia subito…. I paesi che Cesare Brandi ama sono quelli dove non nevica mai, dove non si chiede la purezza alla neve e la saggezza al freddo e tra questi rientra di norma anche la Puglia, dove il sole brucia quasi sempre e le precipitazioni nevose sono solo un’eccezione che conferma la regola” (Cfr. pag. 230).

Lo sappiamo tutti: anche in Puglia nevica non di rado. Quello che sanno in pochi (io l’ho appreso dal mio Amico Franco Presicci) è che i nostri Avi, grazie ad un diffuso spirito imprenditoriale, riuscivano a trasformare quella che è ancora adesso una calamità, ben nota a coloro che vivono a Milano, in un’opportunità.

A partire dal Settecento i pugliesi conservavano la neve nelle neviere. E quando non nevicava lasciano le neviere inutilizzate? Certo che no! I proprietari e gli appaltatori delle neviere facevano arrivare la neve dalla Basilicata, dalla Calabria e, persino, dalla Grecia.

Dalla neve, diventata ghiaccio nelle neviere, gli abitanti di Martina Franca in particolare, ricavavano e vendevano, in estate, i famosi e voluttuosi sorbetti al limone, al rosolio, alla menta, al vin cotto (Cfr. Angelo Marinò, Martina Franca Ieri, Edizioni AGA, 1993, pagg. 27-28).

Che cosa bella. . . . la capacità di creare valore!

Che cosa bella ….la spiritualità! Utilizzo le bellissime parole di Rocco De Rosa: “Le rocce del Gargano sono diverse da quelle solite che s’incontrano ai bordi delle strade: più incisive, più profonde, più eloquenti. Quasi umane nel loro aspetto. Dimostrazione di umiltà e di ubbidienza, quelle rocce non disegnano scenari fastosi, né mondi fondati sulla gloria, il lusso, la potenza. Tutt’altro. . . . Il Gargano è luogo di pace.  È una terra speciale, che ha ospitato il Frate giunto da Pietrelcina, che ha scelto quella terra come suo approdo, perché corrispondente al suo disegno interiore. Lui è testimonianza e storia, avvertono  le rocce” (Cfr. Rocco De Rosa,  L’universo di Padre Pio, Rubbettino  Editore 2006, pag. 13).

Che cosa bella. . . . la lealtà! Osserva Nicola Serena di Lapigio: “A una svolta, Monte Sant’Angelo appare sulla vetta, bello perché è sempre meraviglioso a vedere un paese antico sopra una grande altura: un paese che par viva di sogni e dove gli uomini pensosamente raccolti nel sublime isolamento della montagna, stretti fra loro dalla comune gioia di vivere in alto, discosti da deprimenti traffici e da ammorbanti miasmi, sembra che lassù debbano sentirsi veramente puri e finalmente fratelli, non avendo da lottare  che contro i venti e le nubi, nemici formidabili ma aperti” (Cfr. pag. 95).

Che cosa bella ….quando si associano estetica ed etica! Secondo Cesare Brandi l’amore per l’arte e la natura portano sempre con sé, come necessario risvolto della medaglia, il dovere di difendere questo patrimonio prezioso, indispensabile all’uomo per non perdere la sua umanità, il suo valore aggiunto” (Cfr. pagg. 208-209).

Ammonisce Brandi, con grande saggezza e lungimiranza: “L’opera d’arte non è l’eterno ritorno: è l’eterna presenza. Se fa tanto di partirsene una volta, non ritorna più . . . .La Puglia non deve tradire le proprie tradizioni e le proprie radici, nell’acritica accettazione dei tempi nuovi (Cfr. pag. 212).

Una delle  località  pugliesi predilette da Cesare Brandi è Martina Franca, cui nel 1968 dedica un intero libro.

Quel libro ….ve lo mostro ….fu pubblicato a Milano,  da Guido Le Noci, cugino di mio nonno. Il mondo è proprio piccolo! In quel libro l’arte della scrittura ingaggia una vera e propria gara di bravura con l’arte della fotografia.

Lascia sbalorditi l’entusiasmo che Cesare Brandi, un figlio della meravigliosa Siena,  che ha girato il mondo col berretto di critico d’arte, manifesta per la Valle d’Itria (gli spazi verdi, costellati di trulli, tra Martina Franca, Locorotondo e Cisternino) e Martina Franca.

Vi leggo due frammenti, riportati in “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia” di quella che mi piace definire “Dichiarazione d’amore”.

“Nessuna campagna è più festosa di questa (della Valle d’Itria), che è come un girotondo di bimbi, l’illustrazione benevola di una fiaba, il pianeta d’un’età privilegiata e innocente. Ma è pure come uno scampanio silenzioso che fa echeggiare, nel più riposto del cuore, ricordi sopiti e subitanei, di mattini lieti e di scampagnate festive, d’un’età perduta che sembra di ritrovare come un vestito in fondo a un cassetto o un fiore dentro un libro” (Cfr. pagg. 226-227).

“Martina Franca, capitale del rococò, è unica nel suo genere, con le sue decorazioni, con i suoi fregi, che la rendono un piccolo miracolo appartato e tranquillo, il riflesso tutto di fantasia d’una cultura per sentito dire, come fosse polline venuto da lontano, portato dal vento e lì caduto. C’è un clima che rende tutto possibile, persino incontrare in piazza qualche celebre musicista, come Paisiello o Mozart” (Cfr. pag. 227).

Mi avvio alle conclusioni.

Per comprendere una realtà urbana della Puglia, nota la polacca Kazimiera Alberti, bisogna guardare all’aperto, al di fuori delle case, altrimenti si rischia di essere parziali o superficiali. “A Bisceglie, ad esempio, la  via è casa, magazzino, laboratorio, passeggiata, tribunale ove sarà definito ogni litigio, chiesa per la quale passa la processione, sala di conferenza per adunate e comizi, palestra nella quale i ragazzi provano le loro prime forze sportive e altana sulla quale giovani e vecchi si baciano” (Cfr. pag. 147).

Ritengo che a Bisceglie . . . .in Puglia la situazione sia significativamente mutata….ma quanta nostalgia.

Per descrivere tutto ciò, la prosa non basta….occorre la poesia. La poesia, meravigliosa, s’intitola “Sogno” ed è di Elena Casavola.

S O G N O

Giorni  d’estate:

vicoli  bianchi

inondati  dal  sole,

panni  stesi  ad  asciugare,

una  vecchia  sull’uscio

a  sbucciare  le  fave.

Giorni  d’estate:

vociare  di  bimbi

che  giocano  al  soldo,

un   ferro  da  stiro

ruotato  nel  vento,

donne  che  filano

il  fuso  lanciato

nel  mezzo  alla  strada.

Giorni  d’estate:

nell’aria  pura  profumo

di  rose  e  gelsomini,

insieme  ai  trilli  e  al  cicalio.

Da  lontano, scandito  dai  passi,

il  ticchettio  del  bastone

di  un  vecchio  signore

che  lento  rientra.

Gli  vado  incontro  leggera . . . .

Ora:

le vecchie

stanno rinchiuse nei piani

alti dei condomini,

i  loro  fusi  abbandonati

arrugginiscono  nelle  soffitte.

I bimbi, fermi, sono

incantati dai falsi giochi

sui  teleschermi.

Non splende il sole

sui loro visi, non  fanno  crocchio

nelle  stradine.

Nei vichi spenti s’aggirano lenti 

volti  sparuti di  clandestini.

Meglio sognare! 

Com’era una volta 

quel mondo semplice senza  tv,

senza  telefono,

senza  automobili,

senza merende di crema e cacao,

coi  denti  bianchi

che masticavano anche le pietre.

Non c’era  in casa l’acqua

corrente  e neanche bagni

lucenti di specchi.

Ci si lavava  in  una  tinozza

e la doccia era un secchio

che la mamma sul capo

ti rovesciava.  E si sognava!

Ora non più. 

Concludo. Sia lode e gloria a Francesco Giuliani e a Edizioni del Rosone che, attraverso il libro “Viaggi novecenteschi in terra di Puglia”, hanno lanciato un messaggio chiaro e forte che  giungerà a tante persone,  tra cui  tanti visitatori della BIT di Milano che si svolgerà la prossima settimana: “Gentili Signore e Signori, vi consigliamo di visitare questo giardino megalitico e vi assicuriamo che non vi annoierete. La Puglia è regione per turisti molto intelligenti; è vietato l’ingresso alle menti torpide” (Cfr. pag. 132).

È per tutto questo che, in nome dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano e per conto di tutti i pugliesi, mi permetto con grande gioia di dare un consiglio fraterno.

Andate in Puglia….rectius Venite da noi in Puglia:                           .

  • per vivere i colori delle terre di Puglia;
  • per vivere i sapori delle terre di Puglia;
  • per vivere la letteratura delle terre di Puglia;
  • per vivere la spiritualità delle terre di Puglia;
  • per vivere. . . .consapevoli di quanto sia bello dopo la morte . . . . vivere ancora.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!