Il monumento a Francesca Capece in Maglie opera di Antonio Bortone

 

di Giovanni Maria Scupola

Il monumento a Francesca Capece, ultima feudataria di Maglie, è collocato nella piazza principale della cittadina.

In marmo bianco di Carrara, rappresenta una anziana signora seduta su una poltrona. Sulla spalliera è raffigurata l’arma gentilizia, un leone rampante; la contessa amorevolmente si rivolge ad un fanciullo ignudo: il piccolo regge con la mano sinistra uno scudo con lo stemma civico e con la mano destra prende un libro ed una croce che la benefattrice gli porge.

Su due scudi, scolpiti a rilievo sulle fiancate del basamento ornato da festoni sono riportati un motto della prima lettera di San Paolo ai Corinzi (Ego plantavi …suddeus incrementum dedit) ed un verso del XXX canto del Paradiso della Divina Commedia (Luce intellettual, piena d’amore).

Ma chi è la donna che troneggia nel cuore della città? Francesca Capece nasce a Maglie nel 1769, da Nicola Capece, marchese e barone di San Marzano e di Maglie, e da Maria Vittoria Della Valle di Aversa, e governa dal 1805 al 1843 il feudo avuto in eredità. Sposa molto giovane nel 1778 Antonio Lopez y Royo, duca di Taurisano e Monteroni.

Non avendo discendenti, dona nel 1843 i suoi beni ai Gesuiti affinché istituissero scuole pubbliche di orientamento umanistico. Muore a Lecce nel 1848 ed è sepolta a Maglie nella chiesa Matrice ai piedi di un altare laterale.

Si deve all’avvocato Alessandro De Donno nato a Maglie nel 1821, del quale la baronessa era madrina, la modifica del testamento a favore della cittadinanza magliese.

Le argomentazioni utilizzate dal De Donno puntano sulla mancata attuazione da parte dei Gesuiti delle condizioni poste dalla Capece per la suddetta donazione.

La modifica del testamento fu però un successo temporaneo: i Gesuiti ritornarono nel 1849 alla carica mostrando di adempiere agli obblighi testamentari: istituirono scuole pubbliche che gestirono per circa un decennio, ma con l’Unità d’Italia questo patrimonio fu incamerato dallo Stato.

Si deve allo stesso De Donno l’idea di un monumento da dedicare alla benefattrice. Un desiderio intenso, come si evince nella lettera pubblicata da Popolo Meridionale del 12 dicembre 1896: “Oh! Se prima di morire mi fosse dato ammirare e prostrarmi dinanzi a quel monumento! Quello sarebbe sì l’unico premio a cui ambisco per quel che ho fatto ed è il più bel giorno della mia vita”.

Ed è ancora Alessandro De Donno che ha l’idea di rivolgersi al cavaliere Antonio Bortone. Lo scultore nasce a Ruffano nel 1844 da genitori di modesto ceto sociale. Fu scultore assai stimato e numerose sono le sue opere sparse in tutta Italia.

Discepolo di Maccagnani, grande cartapestaio leccese, che lo avviò allo studio della plastica e del disegno. Dal 1910, dopo un lungo soggiorno a Firenze dal 1865 al 1905, risiedette a Lecce, di cui divenne cittadino onorario, e dove continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1938 a 94 anni.

È del periodo fiorentino la statua a Francesca Capece, la cui realizzazione avviene dopo aver ricevuto, dal De Donno, il libretto delle “Memorie” accompagnato da una lettera nella quale chiede di eseguire un bozzetto del monumento.

Dopo pochi mesi, il bozzetto di gesso è esposto in una sala del palazzo De Donno, dove accorsero tanti cittadini per ammirarlo. Nacque, quindi, un comitato con lo scopo di raccogliere, mediante una pubblica sottoscrizione, i fondi occorrenti per l’emolumento della statua, un compenso (diciassettemila lire) che, per espresso desiderio dell’artista era assai modesto (un altro scultore, il magliese Giuseppe Mangionello, propose, senza successo, un suo bozzetto).

Il Municipio concorse alla sottoscrizione con cinquemila lire e si impegnò a versare mille lire l’anno, a partire dal 1898.

Il 29 luglio 1900 a Maglie si inaugura il monumento alla Benefattrice. Quella candida statua illumina ed ombreggia le nostre giornate e la sua icona vive in questi centoventidue anni nelle attività commerciali, politiche, turistiche, culturali ed istituzionali.

Maglie, un’epigrafe del 1769 dal contenuto millenario ma con l’aggiunta moderna di un errore

di Armando Polito

La seconda foto foto è di Vincenzo D’Aurelio, che qui pubblicamente ringrazio per avermi consentito di utilizzarla per scrivere questo post. L’ho trovata sul suo profilo facebook al link

https://www.facebook.com/photo?fbid=10216317774609541&set=a.1481069759265 e, come tutte le iscrizioni datate, essa ha subito suscitato il mio interesse. Riproduco il dettaglio che ci interessa, opportunamente ingrandito compatibilmente con una definizione che non ne comprometta la lettura.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

L’epigrafe, collocata in via Ospedale1, è datata 1769 ma il suo studio comporta un tuffo nel passato e l’incontro con Teognide, un poeta greco vissuto fra il VI e il V secolo a. C., che in Elegie, I, 24-26 così scrive:

Ἀστοῖσιν δ’ οὔπω πᾶσιν ἁδεῖν δύναμαι·/οὐδὲν θαυμαστόν, Πολυπαΐδη· οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων.

Traduzione: Non posso piacere a tutti i cittadini: nulla di strano, figlio di Polipao, neppure Zeus piace a tutti né quando fa piovere, né quando tiene lontana la pioggia.

Dal tempo di Teognide ci spostiamo ora a quello di Erasmo da Rotterdam (1467-1536) e precisamente all’anno 1508, quando Aldo Manuzio pubblicò a Venezia Adagiorum chiliades2 (di seguito il frontespizio ed il colophon) di colui che forse è più noto come autore dell’Elogio della follia (titolo originale Moriae3 encomium).

Riproduco da p. 157 il brano che ci riguarda.

Trascrivo e poi traduco per poter agevolare la comprensione del commento.

Ne Iupiter quidem omnibus placet.

Theognis in sententiis, Οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων. Neque Iuppiter ipse sive pluat seu non unicuique placet. Hodieque vulgo dicunt. Neminem inveniri, qui satisfaciat omnibus. Nam aliis alia probantur. Et tres mihi convivae prope dissentire videntur poscentes vario multum diversa palato. Cui simile est illud evangelicum, quod in operis initio retulimus, cum de paroemiae dignitate loqueremur:  Ὑλήσαμεν ὑμῖν, καὶ οὐκ ὠρχήσασθε, ἐθρηνήσαμεν, καὶ οὐκ ἐκλαύσατε.

 

Traduzione: Neppure Giove piace a tutti

Teognide nelle sentenze: Infatti neppure Giove piace a tutti, sia che piova, sia che non. E oggi popolarmente si dice che non si trova nessuno che soddisfi tutti. Infatti uno approva una cosa, un altro un’altra. E a me sembrano non andare d’accordo tre commensali che chiedono cibi molto diversi per il differente gusto. E mi sembra simile a questo quel detto evangelico che ho riportato all’inizio dell’opera, parlando della dignità del proverbio: Cantammo per voi e non danzaste,  ci lamentammo e non piangeste.

Appare evidente la derivazione della nostra epigrafe dalla traduzione che Erasmo a suo tempo fece del proverbio estratto da Teognide, con l’unica differenza dell’assenza in quella del QUIDEM presente in questa.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

NE IUPITER QUIDEM OMNIBUS PLACET

Tale assenza non è irrilevante, perché pone una serie di problemi, grammaticali e non.

L’avverbio nemmeno in latino si esprime con nequidem in tmesi, cioè tagliato  nei suoi componenti [nec=e non e quidem=certamente], per cui, ad esempio, nemmeno un uomo in latino è ne homo quidem, vale a dire tra le due componenti risulta sempre inserito un altro termine; infatti correttamente in Erasmo Jupiter funge, per così dire, da inserto.

Nella nostra iscrizione, mancando quidem, che non può essere sottinteso, il ne dev’essere considerato a sè stante. E allora? Intanto in latino di ne ce ne sono diversi: un ne congiunzione con valore finale (=affinché) o dopo verbi che indicano preghiera, rifiuto, timore, condizione negativa, sempre col congiuntivo (nella nostra iscrizione placet è indicativo). Oltre al ne congiunzione, poi, esiste anche un ne con valore di avverbio col significato di davvero ma anche di forse, in entrambi i casi senza alcun rapporto con il precedente e nel secondo solo come enclitica (aggiunta in coda al verbo nelle proposizioni interrogative in cui la risposta è incerta). Nel primo, in cui il significato negativo non compare neppure parzialmente, è ipotizzabile che sia trascrizione del greco ναί (leggi nai)=certamente; nel secondo di μή (leggi me)=forse.                                                                                                                              Visto, come sì è detto, che placet è indicativo, il ne dell’iscrizione può avere solo valore avverbiale e, quindi, la traduzione sarà CERTAMENTE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769 (da escludersi, per quanto s’è detto prima a proposito del ne enclitico nelle interrogative, FORSE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769. In un caso o nell’altro essa sarebbe, comunque, semanticamente diversa (totalmente la prima, parzialmente la seconda) rispetto a quella di Erasmo. Quando le epigrafi anche moderne, seppur datate, come la nostra, sono delle citazioni, non ci sono molte varianti rispetto al testo originale e, se rimaneggiamento c’è, non è tale da cambiarne o solo renderne equivoco il significato.

Quando poi, come nel nostro caso compare quello che è a tutti gli effetti un errore di grammatica, si può ipotizzare che esso sia da imputare al committente (evento presumibilmente raro in una persona che, appartenendo certamente ad un censo elevato, non avrebbe avuto alcuna difficoltà, ammesso che non conoscesse il latino, a ricorrere all’aiuto di qualcuno competente) o allo scalpellino.

Eppure sarebbe bastato aggiungere a NE una C (le dimensioni dello spazio disponibile avrebbero giustificato l’omissione di QUIDEM ma quel fonema in più sarebbe potuto entrato comodamente4)  e con NEC JUPITER OMNIBUS PLACET (Né Giove piace e a tutti) il significato prima teognideo e poi erasmiano sarebbe stato salvo.

Tuttavia, a parziale discolpa della nostra epigrafe, c’è da dire che quell’omissione assassina di QUIDEM non reca la sua paternità, stando a quanto leggo in L’Esposizione di Parigi illustrata, Sonzogno, Milano, 1878, v. I, p.  22: L’Olanda ha voluto che l’architettura della facciata della sua sezione ritraesse il carattere del suo popolo, che predilige la bellezza solida e seria. Ai Paesi Bassi toccò la sorte di aprire la sfilata imponente e grandiosa delle architetture di tutti i popoli della terra, e l’aperse colla facciata d’un piccolo monumento del Secolo XVI, dove il mattone e la pietra, ammirabilmente uniti, danno l’uno all’altro lustro e splendore. in questa costruzione sono stati impiegati più di 120 mila mattoni d’una piccolissima forma e le fasce che formano si alternano colle pietre bianche scolpite, offrendoci un aspetto veramente gradevole. E una vera casa: la casa di uno di quei ricchi ed eruditi borghesi d’Olanda che vivevano due o tre secoli fa, i quali amavano la simmetria, l’ordine, la squisita pulitezza soprattutto nelle abitazioni. Ha il tetto acuminato, nascosto in parte dal corpo mediano dell’edificio che va decorato di statue e di ornati. Presso alla casa sorge una torricella graziosa, dal cui culmine si spicca l’asta, sulla quale s’arrampica il leone, stemma del paese. E lo stemma si scorge pure sulla parte più elevata della facciata, al disopra del motto: Ne Jupiter omnibus placet.

Ho definito quasi incolpevole la magra figura perché il motto senza quidem lo esibisce, come si legge, un manufatto del XVI secolo, a dimostrazione che Erasmo veniva già allora citato piuttosto disinvoltamente. Chi, poi, ha in antipatia gli Olandesì dirà che gli organizzatori avrebbero fatto meglio a scegliere e ad esporre un altro manufatto …

Anche le opera a stampa non scherzarono di lì a poco: Georg Engelhard von Loeneiss, Aulico-politica, darin gehandelt wird 1, Remlingen,, 1622, p. 101:

Georg Engelhard von Loeneiss (1552-1622) fu uno scrittore ed editore tedesco (l’immagine che segue è un’incisione custodita nella Biblioteca Universitaria di Heidelberg).

Le sue pubblicazioni si distinguono per la ricchezza delle incisioni, ma la sua opera più famosa  Bericht vom Bergwerk (Rapporto dalla miniera) del 1617 appare come un clamoroso plagio (un copia-incolla ante litteram da Lazzaro Ercker e da Giorgio Agricola), pur avendo ricoperto l’incarico di amministratore della miniera e della ferriera di Oberharzer. Con queste credenziali è tutt’altro che inverosimile (anche per un tedesco, ma come lui …) che abbia citato Erasmo a memoria mangiandosi il QUIDEM. Succede, purtroppo, che l’autorevolezza reale o presunta, quando non viene sottoposta a controllo, propizia il perpetuarsi dell’errore, come mostrano i dettagli tratti da pubblicazioni successive e di altri autori.

Jacob Dentzler, Clavis linguae Latinae, König, Basilea, 1709, p. 957:

 

Friedrich Wilhelm Breuninger, Johann Christian Neu , Fons Danubii, A spese degli autori, Tübingen, 1719, p. 2:

 

Joachim Ernst von Beust, Consiliarius in compendio, Mevio, Jahr, 1743, p. 196:

Georg Engelhard von Loeneiss, Hof-Staats und Regier-Kunst, s. n., Francoforte sul Meno, 1679:

La citazione risulta, invece, correttamente incisa in questo bicchiere della prima metà del XVIII secolo come motto (ingrandito nel dettaglio) della famiglia Van Hogendorp, il cui blasone è rappresentato nella parte superiore.

 

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1 Aiutandomi con Google Maps credevo di aver individuato come numero civico il 45 e tale data avevo riportato nel testo. Successivamente, grazie al commento di Andrea Cagnazzo, il 41 ha preso il posto del 45 e, ispirato dal commento di Francesco D’Agostino, ho aggiunto in testa una foto d’insieme. Infine, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di aggiungere altri documenti emersi nelle ultime ore.

2 Alla lettera: Migliaia di proverbi. Già nel 1500 Jean Philippe a Parigi aveva pubblicato di Erasmo una silloge di proverbi latini col titolo di Adagiorum collectanea (Raccolta di proverbi) ma nell’opera del 1508 risultano inserite parecchie citazioni greche, con la sua traduzione in latino, fra cui quella che qui ci interessa.

3 Non attestato in latino, è creazione erasmiana, trascrizione del greco μωρία (leggi morìa).

4 A tal proposito JUPITER (variante del più ricorrente jUPPITER) da un lato obbedisce a questa esigenza di gestione dello spazio e dall’altro a quella di mantenersi fedele al modello erasmiano.

Le tre grazie della beneficenza magliese

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Maglie

Paolo Vincenti, Le tre grazie della beneficenza magliese

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 57-71.

 

 

ITALIANO

Le tre grazie del titolo sono Francesca Capece, Concetta Annesi e Michela Tamborino, protagoniste di una stagione esaltante della storia magliese che, per quanto indagata a fondo, si ritiene valga la pena che sia rimemorata, perché davvero, con le parole di Anneliese Knoop-Graf, “dimenticanza e sciagura, mentre memoria e riscatto”.

 

ENGLISH

The three graces on the title correspond to Francesca Capece, Concetta Annesi and Michela Tamborino, the main characters of an exciting season of Maglie’s history which is worth to be remembered regardless how

deeply it has been investigated. According to Anneliese Knoop-Graf in fact “the oblivion is a catastrophe, instead the memory is redemption”.

 

Keyword

Paolo Vincenti, Maglie, beneficenza, Francesca Capece, Concetta Annesi, Michela Tamborino.

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (5/7): Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano

di Armando Polito

Maglie, il Municipio

 

Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Maglie, la piazza
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Gallipoli. il borgo
Gallipoli, il ponte
Gallipoli, Il porto
Galatina, chiesa di S. Caterina
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Soleto, il campanile
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Copertino, Il castello
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Leverano, la torre di Federico
Immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?                                                                                                                                                  fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Maglie: uno scorcio di via Roma sospeso tra più di due secoli

di Armando Polito

Per l’esattezza sono 237 anni che intercorrono tra le due immagini (la seconda, come tutte quelle recenti, è stata tratta ed adattata da Google Maps). La prima, infatti, risale al 1781 ed è una delle tavole inserite nel terzo tomo parte prima del Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile di Jean Claude Richard de Saint-Non. A parte i problemi prospettici che non consentono una sovrapponibilità a fini comparativi, tra le due immagini e la fedeltà descrittiva non assoluta della tavola antica, sono immediatamente leggibili, tuttavia, gli sconvolgimenti che lo scorcio ha subito nel tempo. Per questo non è visibile nella foto recente il duomo col suo campanile, sul quale tornerò dopo, ma lo è la chiesa della Madonna delle Grazie che di seguito presento in prospettiva più favorevole rispetto alla tavola di quanto non sia nella foto precedente.

Stessa operazione per la colonna della Madonna delle Grazie.

Torno, come avevo promesso, al duomo (sia pur smembrato per le stesse ragioni nei due dettagli del campanile e della facciata1) e chiudo.

 

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1 Farà cosa estremamente gradita qualsiasi lettore, locale e non, che vorrà inviare (o dichiarare in commento la sua disponibilità a farlo) sue foto più definite dei dettagli riportati; il suo nome, com’è doveroso, sarà citato all’atto dell’eventuale inserimento delle foto.

Corti di Puglia a Maglie

corti di puglia

Corti di Puglia

29 agosto ore 20,45 – villa Tamborino, Maglie

Una serata con i cortometraggi e i documentari prodotti da Apulia Film Commission, organizzata da Comune di Maglie con Fondazione Capece e il patrocinio di AFC.

Film in programma:

– “Le pareti di vetro”, Vito Palmieri, 2014, 25′

– “La foresta melograno”, Chiara Idrusa Scrimieri, 2015, 13′

– “Multiverso”, Hermes Mangialardo, 2015, 4′

– “La sala”, Alessio Giannone, 2012, 16′

– “Poppitu”, De Feo – Palumbo, 2011, 23′

 

Intervengono:

Deborah Fusetti – assessora alla Cultura, Comune di Maglie

Rossano Rizzo – presidente Fondazione Capece

Chiara Eleonora Coppola – Apulia Film Commission

Chiara Idrusa Scrimieri – regista

Hermes Mangialardo – regista

Giornata ecologica a Maglie

bosco

SABATO 11 OTTOBRE 2014: Giornata ecologica a Maglie

Il Coordinamento “Tutela del territorio magliese” e l’Associazione ARCI-Biblioteca di Sarajevo organizzano per sabato 11 ottobre 2014 dalle ore 15,00 un momento di coinvolgimento e di sensibilizzazione ambientale dei cittadini tramite la ripiantumazione di essenze tipiche della macchia mediterranea nell’area prospiciente il pattinodromo in via Francesco Negro a Maglie.

Numerose sono state negli anni, ed in particolare negli ultimi mesi, le iniziative  svolte nella zona in questione da parte dei proponenti. ARCI-Biblioteca di Sarajevo è intervenuta più volte sull’area  con le sue iniziative di “guerrilla gardening”, sviluppate  anche su altri spazi in città (vedi  Piazza Ettore Negro e Comparto Ciancole con le “Feste dell’albero” proposte alle scuole cittadine). Il Coordinamento si è impegnato negli ultimi mesi a denunciare il totale stato di abbandono in cui versava un luogo che, se rivalutato opportunamente, può rappresentare un piccolo polmone verde in un quartiere molto popolato, privo di spazi aperti fruibili dai cittadini e che ha subito nel corso di questi ultimi venti anni la costruzione di un pattinodromo mai entrato in funzione e  diventato, suo malgrado, un monumento allo spreco delle risorse pubbliche.

Gli appelli e le denunce di questi mesi hanno finalmente sortito l’intervento di una ditta incaricata alla pulizia dell’area verde che nelle scorse settimane ha sfalciato i rovi esistenti da numerosi anni. In tale circostanza, però, le piante messe lì a dimora dai volontari hanno subito lo stesso trattamento delle erbacce.

Per questo il Coordinamento e l’Associazione, nella continuità e nello spirito di operazioni come “Pulizie di primavera” e “Pulizie di autunno” che hanno visto la partecipazione di molti magliesi, ripropongono una giornata ecologica per ripiantare essenze caratteristiche della macchia mediterranea oltre che per coinvolgere e sensibilizzare i residenti della zona che più volte hanno lamentato l’incuria di uno spazio che può essere, con semplici interventi, recuperato e destinato alla fruizione pubblica.

L’auspicio delle due organizzazioni è  che iniziative di questo genere si moltiplichino per spingere ad una maggiore sensibilizzazione pubblica verso il rispetto dell’ambiente e del decoro urbano perché ritengono che sia indispensabile sviluppare nella cittadinanza il senso di appartenenza ad una comunità e la responsabile riappropriazione dei valori insiti nel rispetto dei beni comuni.

 

Per il Coordinamento “Tutela del territorio magliese”

Roberto Aloisio – Roberta Culiersi

Per ARCI-Biblioteca di Sarajevo

Lucio Montinaro

Un clamoroso furto di un secolo fa a Maglie

di Armando Polito

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Palazzo_Tamborino_Maglie.JPG
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Palazzo_Tamborino_Maglie.JPG

Sarebbe interessante controllare se e quanto interesse la notizia suscitò a suo tempo sui quotidiani locali e nazionali. Purtroppo emeroteche italiane consultabili on line non ne conosco e, siccome credo che non dipenda dalla mia capacità di trovarle, questo costituisce un ulteriore tassello di quel vergognoso mosaico di pubblica arretratezza tecnologica (mi riferisco allo sfruttamento delle macchine, non al loro acquisto, campo in cui nessuno ci batte …) che impedisce in Italia la  libera (intendo anche gratuita …)  fruizione del nostro patrimonio culturale. Può sembrare paradossale ma la notizia del titolo l’ho trovata nel sito della Biblioteca Nazionale di Francia e precisamente in un trafiletto de Le Rappel, quotidiano di opposizione  fondato nel 1868 nientemeno che da Victor Hugo, al quale lo scrittore collaborò fino alla morte avvenuta nel 1885. Il quotidiano continuò ad uscire e vi presento la prima e la seconda pagina del numero di lunedì, 8 settembre 1913 (per chi avesse interesse a leggerselo tutto: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7547874z).

Il dettaglio mostra il trafiletto che ci interessa, inserito tra le Petites Nouvelles (Piccole notizie) incluse nella rubrica DERNIÈRE HEURE (Ultim’ora, il che autorizza a pensare che il furto forse si era verificato il giorno prima). Seguono trascrizione e traduzione.

À Maglie, près de Lecce (Italie), des voleurs ont dérobé sent [errore di stampa per cent] soixante-dix mille francs de bijoux dans le palais de M. Tamburini.

A Maglie, vicino Lecce (Italia), dei ladri hanno rubato centosettantamila franchi di gioielli nel palazzo del signor Tamburini.

Ritornando alla considerazioni iniziali lascio a chi ha tempo e voglia di vedere che risonanza la notizia ebbe in Italia (c’è da attendersela enorme se la sua eco si fece sentire pure in Francia) e mi congedo dal lettore facendo notare che se il mancato approfondimento di una notizia di cronaca nera in fondo non è una grave perdita per la cultura, è gravissimo il perdurare di tutto ciò che ostacola pure l’approfondimento e la ricostruzione di avvenimenti ben più importanti.

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Il Salento ‘Lèmme lèmme’ negli scatti in b/n di Marcello Moscara

Il Salento ‘Lèmme lèmme’ negli scatti in b/n di Marcello Moscara alla Masseria le Pezzate di Maglie (Le)

di Paolo Rausa

 

Torre Specchia di Marcello Moscara
Torre Specchia di Marcello Moscara

In una mattinata di calura agostana, proveniente da Poggiardo, attraverso le campagne salentine a bordo del mio vespone rosso in direzione Masseria le Pezzate alla ricerca delle immagini di Marcello Moscara, fotografo salentino di origine e di cuore, anno di nascita 1972.

I luoghi si accompagnano alle storie. Già cercare questo posto è difficile, ma poi si scoprono i segni premonitori, giungendo da Scorrano in direzione statale Maglie-Gallipoli, nei disegni di fichi d’india sui muri di recinzione seccati dal sole. Si entra in un viottolo di campagna, bianco come la luce il cui riverbero ci guida verso la meta.

Una masseria del ‘600, Le Pezzate, dal nome del territorio suddiviso in appezzamenti gestito da Benedetta, tricasina e romana, e da Mario, turco di Istanbul, di padre italiano e madre tedesca. In questo incrocio di razze sta tutta la storia che ha fatto grande il Salento, un intreccio di culture e civiltà mediterranee e medio-orientali. La sera prima ero stato a Corigliano d’Otranto all’inaugurazione della ‘Notte delle Taranta’ un evento itinerante nel segno della tradizione e della contaminazione.

gallipoli di marcello moscara
Gallipoli di Marcello Moscara

Marcello Moscara  non poteva scegliere posto più suggestivo dove esporre le sue immagini, rigorosamente in b/n, di una terra a volte sfortunata ma sempre generosa. Come dice Natalia Aspesi: “Quella grande terra per lui è una fonte inesauribile di immagini, di memorie, di avventure. Questa volta l’ha reinventata ‘lèmme lèmme’, cioè percorrendola a piedi, con la lentezza dell’antico viandante, la curiosità dell’esploratore, la passione di chi cerca la sua fortuna dovunque possa capitargli e sa che potrà scoprirla solo così, senza fretta, per caso, senza una meta precisa…” Ogni scatto, l’istantanea di una presenza sempre discreta,  non importa se l’elemento vegetale o animale si prendono la scena, oppure se la presenza umana è appena intuita da una barca alla risacca o da una figura stesa sul muro che delimita la spiaggia come una lucertola, o in primo piano, l’immagine di un rubinetto, che fa pensare all’arsura di un sud sempre sitibondo di acqua, di cultura, di emozioni, di passioni.

Il gatto sul muro a Castro, di Marcello Moscara
Il gatto sul muro a Castro, di Marcello Moscara

Su tutto gli elementi naturali incombono, sia che si tratti delle grandi estensioni marine, sia degli spazzi celesti, sovrumani e inquietanti, testimoni, come se riflettessero il nostro stato d’animo che attraversa non di rado le tempeste della vita. Non c’è serenità, non c’è pacatezza, ma neppure inquietudine negli scatti di Marcello Moscara, piuttosto c’è una natura e una presenza umana che si compenetrano e fanno di queste coste, di queste campagne un luogo dell’anima, unico al mondo, ora riprodotto grazie a queste foto esposte fino alla fine di agosto alla Masseria Le Pezzate. Info: masserrialepezzate@gmail.com, tel. 368 3779551; info@moscara.it, www.marcellomoscara.it.

 

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (prima parte)

Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)
Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)

di Cristina Manzo

 

Tantissimi furono gli artigiani che si distinsero per la loro bravura e i loro lavori. Ttra questi alcuni di loro ebbero anche la fortuna di diventare più noti di altri, di veder commissionati i propri lavori al di fuori del Salento e dell’Italia e di ottenere grandi riconoscimenti. Il più celebre tra tutti sarà sicuramente Giuseppe Manzo. Inoltre, cosa molto importante da notare, esiste una precisa sequenza cronologica della loro storia rintracciabile attraverso l’usanza di mandare i ragazzini, ancora giovanissimi scolari, di sette o otto anni, a imparare l’arte alla bottega dei maestri; così abbiamo il Maccagnani che sarà allievo del Surgente, e il De Lucrezi che uscirà dalla scuola del Maccagnani, il Manzo che comincerà a modellare nella bottega del De Lucrezi, il Guacci che lavorerà nella bottega di Giuseppe Manzo e via di seguito, tenendo presente tuttavia che la tecnica artistica di ognuno di loro si evolverà poi in maniera originale, e secondo una direzione propria.

Giuseppe Manzo  (1849-1942)

Nacque a Lecce il 17 marzo 1849, figlio d’arte di Orazio, muratore e scalpellino, e Natalizia Romano. Ebbe una sorella di nome Addolorata e quattro fratelli: Carlo, Domenico, Bartolo e Luigi. In tenera età il padre, essendosi accorto che il figliuolo aveva la propensione all’arte, lo mandò presso Luigi Guerra, un figaro che nel retrobottega, si dedicava alla costruzione di maschere e pupi in cartapesta. Dopo un po’ di tempo, il piccolo Giuseppe si trasferisce nel laboratorio di Achille Castellucci, per poi passare allo stabilimento di ceramica Paladini in S. Pietro in Lama. E’ qui che apprende i primi insegnamenti di modellatura e disegno dai maestri Tobia Strino e Anselmo De Simone,(1875-85). Qui conosce anche  l’amico Andrea  De Pascalis  e insieme cominceranno a modellare in cartapesta nella bottega di Achille De Lucrezi. Nel 1887, conclusasi ormai l’esperienza presso lo stabilimento di Antonio Paladini in San Pietro in Lama, che fu per molti una vera e propria scuola, il Manzo ebbe l’incarico d’insegnare modellato presso la Scuola d’arte applicata all’industria di Maglie, diretta allora dall’esigente Egidio Lanoce. La scelta di quest’ultimo appare alquanto indicativa, considerato il numero dei cartapestai contemporanei del Manzo, che avrebbe potuto fornire un’ampia scelta. La quinquennale esperienza d’insegnamento fu il suo trampolino di lancio.

Nella pubblicistica salentina mancano le tracce necessarie alla ricostruzione della biografia d’uomo e d’artista di Giuseppe Manzo, vista e raccontata dai suoi contemporanei, ma fortunatamente abbiamo la preziosissima testimonianza di suo nipote Dino. Possiamo inoltre desumere importanti particolari da  alcuni libri, come quello scritto da Nicola Caputo a proposito delle statue dei misteri di Taranto, realizzate proprio dal nostro grande cartapestaio, per il quale lo scrittore in questione  nutriva una vera adorazione. Assai utile anche il libro curato da Salvatore  Solombrino, che riprende le memorie di suo padre, Oronzo Solombrino, che fu discepolo del Manzo per tanti anni.

Oronzo Solombrin, nel ricordare  la propria storia (nei primi anni Ottanta), rende note anche importanti notizie sulla vita giornaliera del maestro, che si svolgeva tutti giorni, dalle otto di mattina alle due del pomeriggio nella sua bottega sempre piena di giovani discepoli desiderosi di apprendere la sua arte. Ne ebbe veramente tanti, e tra i sui più bravi  allievi si ricordano Egidio e Attilio dell’Anna, Oronzo Manzo, (omonimo ma non parente) Luigi Guacci, Gabriele Capoccia e lo stesso Solombrino. Questi dice :

“Riuscii, grazie ai buoni uffici interposti da un fratello del titolare, a frequentare il primo di tutti i laboratori di Lecce, quello del cavaliere Giuseppe Manzo (benemerito dei Reali d’Italia, pluridecorato in numerose esposizioni in Italia e all’estero),  il quale, aborrendo la lavorazione della cartapesta su scala industriale, fu sempre proteso a farne un fatto artistico, evidentissimo nei suoi alti e bassorilievi, dove scultura, scenografia e pittura sono le componenti fondamentali.”[1]

 

 


Da Sabato Santo a Pasquetta. La gran settimana a Maglie e nel Salento

di Emilio Panarese 

Sabato santo

Alcuni anni fa la cerimonia della Resurrezione, che oggi si celebra a mezzanotte, si anticipava al mezzogiorno del sabato.

Si disfa il Sepolcro e, se i fiori sono ancora freschi, si adoperano per ornare l’altare maggiore. Chi ha portato il piatto di grano tallito, va in chiesa a riprenderselo: lo seppellirà tra la terra dell’orto o del campo o lo brucerà in casa, perché altrimenti, se profanato, gli sarà negato un buon raccolto. Ma oggi nessuno più è succube di questa superstizione.

Al resurrexit era una gran festa: si sonavano a distesa le campane (se scapulâne: dal lat. excapulare,”si liberavano dal cappio”), si sparavano i fucili in aria o contro la caremma[1]); in chiesa, in casa, per le strade si batteva con gran rumore sulle panche, alle porte, ai portoni, contro le spalliere dei letti e venivano ridotte in più cocci le vecchie stoviglie di casa.

Il fracasso era veramente infernale: tutti si picchiavano a vicenda con forza, de santa raggione, così che, a furia di pacche, molti si snervavano, col vantaggio però di essersi scrollati di dosso, con quei colpi …lustrali, anche i più grossi peccati:

Lu sàbbatu de Pasca a mmenzitìe,

ca te lu campanaru scapulâne

tutte quattru mpacciute le campane,

ci cchiù se scia mbrazzannu a mmenzu vie

e a botta de papagne se sciummâne.

(Nicola G. De Donno)

 

Anche gli apprendisti (discìpuli) le prendevano dal maestro di bottega e le discìpule dalla sarta o dalla maestra ricamatrice e così forte da piangere veramente (cu ttuttu lu core) come nei seguenti quattro endecasillabi a rima baciata:

Sàbbatu santu, currennu currennu

ca le carúse vannu chiangennu,

vannu chiangennu cu ttuttu lu core,

sàbbatu santu cuddure cu ll’ove.

Era ritenuto fortunato chi nasceva o era battezzato in questo giorno, tanto che se era maschio o figlio di povera gente, una volta adulto, veniva incamminato al sacerdozio a spese del Capitolo, perché essere sacerdote in un paese rurale come Maglie significava un tempo godere di franchigie fiscali, del beneficio ecclesiastico, di immunità e sicura promozione sociale.

Anche il sabato santo c’era la processione: durante l’ultima guerra alcune truppe polacche dislocate a Maglie solevano festeggiare la festa di Cristo risorto, portando per le vie del paese su un carro di guerra, seguito da molti fedeli, la statua del Redentore.

Ma il giorno di sabato santo è soprattutto il giorno della cuddura, una delle poche tradizioni magliesi ancora in uso.

La cuddura[2] (dal greco kollùra) è un grosso tarallo o dolce di pasta frolla, intrecciato o no, cotto nel forno, con una o più uova sode in numero dispari[3] nel mezzo o tutt’intorno, che una volta si consumava solo il lunedì o il giovedì in Albis.

 

Anche l’origine di questa tradizione forse è pagana e continuerebbe l’usanza che avevano le cestefore di portare oggetti mitici dinanzi alle statue di Cerere e di Proserpina nelle processioni di febbraio, luglio e novembre, come pagano era l’uso di mangiare, il 17 marzo, nella sagra di Libero Bacco (Liberalia) l’uovo sodo, immagine del mondo, inizio di tutte le cose.

Agnello pasquale di pasta dolce – Santa Cesarea Terme: sagra della cuddura (coll. priv. Nunzio Pacella)

 

Le cuddure hanno forme e nomi vari; appena uscite dal forno, si nascondono in casa per la scampagnata del lunedì. Se ne fanno rotonde, intrecciate, a forma di delta, di staffa, di paniere, di pupa, di stella, di cuore, di angelo, di margherita, di uccello, di galletto, di colomba, di tartaruga, di fischietto, oppure a forma di tromba, con due protuberanze laterali e l’uovo nel mezzo, come quelle, magistralmente lavorate, che si sono esposte nella Mostra della cuddura a S. Cesarea Terme[4].

Molto diffusi a Maglie la pupa e il campanaru.

cuddura con pasta dolce

 

La pupa è una cuddura a forma di bambolina con le treccine di pasta, con due chicchi di caffé e due acini di pepe al posto degli occhi, grani di riso e senape al posto della bocca e del naso. Ha le braccia incrociate nell’atto di portare un uovo sodo che fa capolino dalla pancia; mentre il campanaru ha forma cilindrica e due uova alla base.

Non manca chi ancora si diverte ad ornare agnelli, galletti e colombe con nastrini colorati o con ritagli di panno rosso tagliuzzato (viddusi, “vellosi”) al posto di creste o di ali.

In quanto alla qualità, vi sono quelle di tipo rustico e quelle di tipo dolce. La prima, secondo un’antica tradizione magliese, si fa in questo modo: si prende della farina di grano, si scalda un po’ d’acqua e vi si scioglie un po’ di lievito di birra, si aggiunge un pizzico di sale e si lascia lievitare per circa un’ora. Dopo che la pasta è ben lievitata, si passa all’impasto e, dopo aver dato la forma voluta, dentro si mette un uovo sodo con tutta la scorza. All’ impasto alcuni aggiungono olio e cipolla tritata.

Cuddure magliesi

 

La cuddura di tipo dolce, di pasta frolla, si ottiene invece mescolando farina di grano, strutto, uova, lievito e zucchero. Si lavora bene la pasta, a cui si possono aggiungere pezzi di noce, si dà la forma desiderata e si mette nel forno sino a completa cottura.

Un secolo fa le giovanette solevano donarle ai fidanzati nel giorno di Pasqua.

Se ne vannu prima le cuddure ca lli panetti si diceva una volta per significare che a volte muoiono prima i giovani che i vecchi.

 

Pasqua

Per evitare le più gravi sventure è obbligo per tutti ascoltare la messa e divieto assoluto di recarsi al lavoro: bisogna ad ogni costo intervenire alla benedizione e vestire gli abiti più belli; persino le umili fornaie, per le quali tutti i giorni sono uguali, s’agghindano.

De la strina se mmuta la ricina,

de la Bbifania se mmuta la signurìa.

de Pasca e de Natale se mmútane le furnare.

 

Anche qualche albero, spoglio per tutto l’inverno, ora che è venuta la Pasqua, se mmuta, indossa un nuovo vestito di foglie:

A fica nu ffila e nnu ttesse,

ma te Pasca vistuta se nn’esse.

Tutti, nessuno escluso, in chiesa quel giorno, anche le bestie, se è possibile: Porci a mmissa la mmane de Pasca!, proverbio che si usa anche per indicare un fatto straordinario, inconsueto.

Assai gradita è ai contadini la Pasqua d’aprile (Pasqua alta) [5], specialmente quella rugiadosa o piovosa che fa sperare in un buon raccolto; come nei seguenti ditteri distillati dalla secolare clessidra del tempo:

Natale ssuttu e Ppasca muttulusa.

se oi cu bbegna l’annata graziusa;

Natale lucente e Ppasca scurente,

se oi cu bbegna bbona la simente;

o come in questi altri con qualche piccola variante:

Ci oi cu bbiti l’annata cranosa,

Natale ssuttu e Ppasca muttulosa;

ci oi cu bbegna na bbona ‘nnata,

Natale ssuttu e Ppasca mmuddata.

Se invece essa cade di marzo (Pasqua bassa), quando i terribili danni delle gelate e delle grandinate fanno temere per il raccolto futuro e quando la terra ha pochi frutti da offrire, porta carestia, fame e morte:

Pasca marzotica, o murtalità o famòtica.

 

A mezzogiorno tutti a tavola per gustare l’agnello di pasta di mandorla. Tanto Natale tanto Pasqua, i due giorni più solenni dell’anno, vanno goduti nell’intimità familiare:

De Natale e dde Pasca cu lli toi,

de Carniale cu cci oi.

Bisogna godersela questa festa eccezionale, perché il giorno dopo si tornerà al travaglio usato; i giorni lieti sono fugaci e assai rari e non sempre ci si può godere né astenere dalla dura fatica:

Ca nu ssempre è Ppasca.

 

Finita a llu Riu

Le feste pasquali si concludono, in tutto il Salento, con una scampagnata, una colazione all’aperto, il lunedì o il martedì o il giovedì dopo Pasqua, ai confini del paese o poco fuori, detta finita (dal lat. fines, “confine”), com’erano chiamate le grosse pietre informi che segnavano il confine tra due feudi o tra due estese proprietà.

Una finita

 

Qualche decennio fa i magliesi erano soliti il lunedì di Pasqua fare la finita (talvolta oggi si preferisce darsi appuntamento in qualche ristorante della costa) in alcune campagne o a mezzo miglio da Maglie, sulla via per Gallipoli, in un boschetto posto in una lieve salita, detto lu Riu (Riu, Rio, Ria, Vria, Uria, lo Ria, Loria in loco detto lo Monterone o lo Montarroni, in antichi documenti) [6].

Agli inizi del secolo scorso invece la mangiata o finita o paneiri si faceva, non il lunedì ma il giovedì dopo Pasqua, in un luogo poco distante da lu Riu, sempre in località Muntarrune e precisamente a llu Frabbàlli (dal nome di una cappelletta rurale o grancia di S. Giuseppe, vulgo detto lo Balli de jure patronatus del Rev.do Capitolo di Maglie). L’agiotoponimo Frabballi è poi passato a significare, nel dialetto magliese, ” luogo segreto, nascosto”: “A ddu a teni scusa, ssutta lu Frabballi?”.

 

note al testo 

[1]La caremma o quaresima, dal lat. quadragesima dies, spazio di quaranta giorni dal mercoledì delle ceneri alla Pasqua, immagine della Moira, della parca Cloto, che fila il destino degli uomini, simbolo della penitenza quaresimale, della mestizia, della mortificazione dei sensi, del digiuno, del duro lavoro, viene bruciata in questi ultimi anni su una fascina di sterpi al Largo Madonna delle Grazie. È un fantoccio riempito di paglia coperto da una maglia scura o da un panno nero e da un fazzoletto che fa vedere solo la faccia. Ha in mano il fuso e la conocchia ed è intenta a filare la lana. Sotto i piedi le si mette un’arancia con sette penne infilzate a raggiera quante sono le settimane della quaresima. Alla fine di ogni settimana se ne toglie una. Il giorno di Pasqua, quando le campane suonano a distesa, “annunziando Cristo tornante ai suoi cieli”, la caremma detta pure zzita caremma, viene bruciata o sparata col fucile. Questo fantoccio, che viene sparato o arso al rogo, non vuole essere altro che l’esorcizzazione, in luogo pubblico, dal male, la ritualizzazione della liberazione di tutto ciò che è simbolo di sterilità della terra, di privazione, sofferenza, carestia, miseria, fame.

Me pari propriu na caremma si dice a donna magra e brutta o fin troppo avvolta nei panni (Emilio Panarese, Folclore Salentino. La Caremma, in “Tempo d’Oggi”,II,6).

[2]In alcune zone intorno a Lecce, ma anche nel brindisino e nel tarantino la cuddura è chiamata puddica dal deverbale puddicare che è il lavorare la pasta coi pugni, premendo col pollice (pollex); mentre nel barese, ma anche in alcuni centri del brindisino e del tarantino, è detta scarcedda, avendo questo pane dolce con l’uovo nel centro la forma di una borsa per denaro (cfr. it. scarsella e fr. escarselle).

[3]In numero dispari, 5 o 7 o 9 o 11 o 17 o 21, perché i numeri in caffo hanno virtù propiziatoria e procurano prosperità e fortuna, essendo graditi agli dei: numero deus impari gaudet.

[4]L’Azienda di soggiorno cura e turismo di S. Cesarea Terme, che nel 1978 aveva patrocinato la Sagra della cuddura, organizzò nel 1987, nella decima edizione della sagra, nel ristorante Lu marinaru, la Mostra della cuddura, a cui parteciparono i più noti panificatori salentini di Maglie, Lecce, Vignacastrisi, Poggiardo, Vitigliano, ecc.

[5]La Pasqua è una festa mobile e cade nella prima domenica dopo il plenilunio equinoziale di primavera; non può cadere mai prima del 22 marzo (Pasqua bassa) né dopo il 25 aprile (Pasqua alta).

[6]Il toponimo Riu/ Ria/ Urìa è senza dubbio un oronimo, indica cioè un “luogo posto su un’altura”, anche modesta, com’è quella in questione (la città di Monteroni, a pochissimi km. da Lecce, non si trova forse ad un’altitudine di 35 m.?), come provano del resto due altri oronimi, vicinissimi a llu Riu, Monterone crande e Monterone Piccinnu (in origine Mont-Oriu, raddoppiamento del lessema oronimico, come Mongibello in Sicilia dal lat. mons e dall’arabo gebel). L’Oriu, diventato per deglutinazione ortoepica e ortografica (v. in it. l’usignolo da lusignolo) lo Riu/ lu Riu, non ha nulla a che fare né con rio “ruscello”, né con brio, né con layrìon, “cenobio brasiliano” (l’autore di un recente ricettario di cucina ruscìara sostiene addirittura che siano stati i leccesi ad estendere il segno lu riu a tutta la provincia!), né tanto meno è da accostare al toponimo surbense Aurìo, che R. Buya, attraverso una serie di strampalate congetture, fa derivare nientemeno, spostando l’accento, dal lat. haurio, “assorbo”, “ingoio”. Ignotum per ignotum!

 

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare”, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.371-375 –  
 
Bibliografia consultabile alla pagina http://emiliopanarese.altervista.org/pg015.html]

Riti e tradizioni pasquali. La fiera magliese dell’Addolorata

di Emilio Panarese

Tradizioni e riti della settimana santa magliese non sono molto dissimili oggi da quelli ancora vivi in tutta la subregione salentina, in quanto in questi ultimi decenni, così com’è avvenuto per i dialetti e la lingua ufficiale, la nostra società consumistica ha assai livellato e uniformato quelle che una volta erano manifestazioni inconfondibili e peculiari di un agglomerato urbano, nel passato, tranne qualche eccezione, assai chiuso, per le rare comunicazioni e gli scarsi scambi culturali, e quindi poco sensibile alle influenze di costume di altri centri urbani della provincia. Le tradizioni pasquali, come le natalizie, con il fluire del tempo, hanno perduto a poco a poco l’antico connotato, il significato originario, non per un involutivo processo di deculturizzazione o di perdita di identità, ma per una normale dinamica di svolgimento, di ammodernamento, di adattamento della tradizione a nuove esigenze, a nuove concezioni di vita e di fede.

Ne parliamo, perciò, non certo per riviverle o, peggio, per recuperarle, in quanto tale pretesa contrasterebbe con la legge stessa della storia, che è incessante svolgimento, e nella vita e nella storia nulla si ripete, né tanto meno ad esse guardiamo, con sentimento nostalgico ed elegiaco, come ad un bene perduto per sempre, ma senza rimpianto le esamineremo, perché rituali storicamente validi della nostra cultura passata, delle consuetudini degli avi, perché espressione autentica della religiosità aggregativa della comunità magliese, vista nella sua unità, al di fuori della distinzione classista ed angusta di due culture contrapposte: l’egemone e la subalterna (oggi complementari e similari), religiosità aggregativa che tuttavia continua, sia pure di parecchio trasformata, e nello spirito e nelle forme spettacolari esteriori.

Non molte le fonti alle quali abbiamo attinto: la tradizione orale, la letteratura vernacolare magliese in versi (canti popolari, poesie di N.G. De Donno, N. Bandello, O. Piccinno), giornali magliesi (Lo studente magliese, Il sabato, Tempo d’oggi), ma, soprattutto, alcune carte d’archivio dell’arciconfraternita di Maria SS.ma delle Grazie e, per quanto attiene al rituale in uso agli inizi del ‘900 o a quello poco prima estinto, al saggio La gran settimana, che ci ha lasciato il dotto e valente professore magliese, poi preside, Angelo De Fabrizio, cultore appassionato, preparato ed attento di studi folclorici salentini. A loro tutti il mio ringraziamento per i contributi e le testimonianze che ci hanno donato.

La fiera magliese dell’Addolorata

Precede di due giorni la Domenica delle Palme e si svolge nel viale che porta alla settecentesca graziosa omonima chiesa, una volta distante dall’abitato, in mezzo ad orti e giardini bene irrigati, oggi in una zona urbana assai frequentata soprattutto il sabato.

Tre ggiurni nnante la simana santa,

ossia lu venerdìa, ven ricurdata cu nna fiera:

Matonna Ndolurata a mmenzu lli rusci!

E diuzzione quanta?

Nnu tiempu la fiera era ‘mpurtante:

vinìne dai paesi a cquai Maje

cu ccàttane campaneddi e minuzzaje

e tante mercanzie, nu’ ddicu quante!

(Orlando Piccinno)

L’antica fiera del bestiame[1] si è trasformata via via in un chiassoso, vivace mercato con banche e bancarelle di dolciumi, di noccioline, di terraglie, di stoviglie e utensili domestici vari, di cesti di vimini, di vasi di argilla per fiori e, soprattutto, di campane e campanelle, di trombe e trombettine, di pupi e di pupe, di lucerne, di animali domestici vari, tutti di terracotta, verniciati o no, di ogni forma e tipo, ed ancora di palloncini, di giocattoli di plastica, di carrettini, di variopinte ruote con l’asta, di rustici mobili in miniatura (giuochi assai ricercati dai bambini una volta), di fischiettid’argilla e di gracidanti raganelle[2] di legno.

Durante tutta la giornata della fiera, soprattutto la sera, la chiesa dell’Addolorata è meta di devoto antico pellegrinaggio e di raccolta preghiera davanti alla statua di cartapesta di Maria SS.ma che ha la faccia chiusa nella veletta nera e sette spade a raggiera sul cuore.

Lacrime a ggoccia de lucida cira,

la facce chiusa a lla veletta nera

e sette spade a llu core raggera,

vave chiangennu morte e mmorte tira

-stu venerdìa de vana primavera

ca pulanedda d’àrguli rispìra-

cacciata de lu nicchiu a pprima sira

Ndolurata Maria, la messaggera

de l’agnellu Ggesù. Li Grammisteri

de cartapista cu lla purgissione

èssene osciottu tra ale de pinzieri

e Mmaria a rretu, muta a lla passione.

Osci, fischetti an culu carbinieri,

tròzzule e campaneddi ogne vvagnone.

(Nicola G. De Donno)

note al testo:

[1]La fiera dell’Addolorata e quella di S. Nicola vennero istituite nel 1860 con lo stesso decreto borbonico.

[2]Arnese rudimentale di legno a forma di bandiera, costituito da un manico cilindrico rastremato verso l’alto, in cui viene inserita una ruota dentata contro la quale, a contrasto, si fa girare, in senso rotatorio, una sottile lamina (linguetta) che produce un fragoroso gracidìo. Da qui il nome raganella di Pasqua e gli onomatopeici salentini trènula o tròzzula. Allo stesso campo semantico di tròzzula appartengono tròccola, tròttola, trozzella. La troccola “bàttola”, “raganella” o, meglio alla lettera, “ruota dentata che fa rumore” (incrocio del gr. chrótalon “nacchera” con trochilía “carrucola del pozzo”) era anticamente una ruota di ferro a cui erano appesi parecchi anelli, che nel muoversi crepitavano (garruli anuli). Cfr. il caI. tròccula e il nap. tròcula. La tròttola è il giocattolo di legno, simile a un cono rovesciato, con punta di ferro, che si getta a terra, tirando a sé di colpo la cordicella ad esso avvolta. Noi magliesi, con voce aferetica derivata da curru, la chiamiamo urru, bifonema speculare, che imita il suono caratteristico di un oggetto che gira velocemente, producendo lieve rumore. Trozzella “rotella” è voce regionale pugliese, che indica una tipica anfora messapica “di forma ovoidale rastremata al piede, con alte anse nastriformi, verticali, che terminano in alto e all’attacco col ventre con quattro rotelline (da lat. trochlea con suff. dim.). I manici ad ansa con nodi a rotella imitano la carrucola del pozzo (trozza). Ma con tròzzula noi salentini indichiamo pure la ruota del telaio, che fa girare il subbio, cioè il cilindro di legno su cui sono avvolti i fili dell’ordito, ed anche, in senso figur. e dispr. la donna di malaffare, la meretrice, la sgualdrina, che va in giro qua e là, destando mormorìo di disapprovazione tra la gente onesta (“giro”+”rumore”).

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese]

Carnevali magliesi di fine Ottocento: tonnellate di confetti sulla fame dei poveri

di Emilio Panarese

Nel periodo di Carnevale, a cominciare dalla seconda decade di gennaio, c’era in Maglie, alla fine dell’800 e agli inizi del ‘900, la consuetudine di tenere nelle proprie case delle festicciole con musiche, balli mascherati e rinfreschi o, come si diceva allora, dei pubblici festini. Chi voleva dare queste pubbliche feste doveva chiedere la licenza al sindaco che la concedeva a condizione che non si praticassero giochi di qualsiasi sorta, che non si somministrassero vini o liquori e che i balli non si protraessero oltre la mezzanotte. Il prezzo d’ingresso oscillava da 15 a 20 centesimi.
La media borghesia preferiva, invece, le veglie danzanti, nell’angusto teatro P. Cossa all’extramurale di levante del nuovo borgo (poi Via Mazzini) la cui suppellettile l’intraprendente e coraggioso cittadino Giuseppe Romano (Nnonnu) aveva acquistato dal carpentiere magliese Pantaleo Rainò.
A questi veglioni, di cui era attivo animatore Stefano Ricci, i nostri buoni borghesi accorrevano numerosi, attratti dal buffet squisitissimo e dalle ottime musiche. Per allettare i magliesi a comprare la tessera di lire cinque, che dava diritto all’ingresso al teatro per tutta la durata del Carnevale, don Peppe Nonnu, che nel campo delle iniziative, delle ardite imprese non era secondo a nessuno, aveva escogitato di far girare per le vie della città nelle ore pomeridiane un gran carro, rappresentante il Carnevale, che verso sera faceva il suo ingresso trionfale nel teatro, addobbato elegantemente per l’occasione.
I ricchi proprietari, i professionisti, la gente bene insomma poteva invece sfrenarsi nelle otto sale del circolo (dell’Unione), addobbate per l’occasione con finissimo gusto o, meglio, gustare, i più fortunati, le splendide feste in casa del senatore e della contessa Tamborino-Frisari o in quella di Arcangelina Cezzi e Donato Mongiò: tutte le domeniche essi li accoglievano ospitali nell’ampio salone e nei decorati salotti dove tante belle signore e tante graziosissime elegantissime signorine sino all’alba, mai stanche di intrecciare quadriglie e valzer e polke dopo la succulentissima cena di svariati piatti di ostriche, di pasticcetti di carne, di galantina di tacchino, di arrosti saporiti di vitello innaffiati con Tokaj sincero e di stravecchi vini scelti, di liquori, di champagne e di caffè.

Per qualche altro ricco proprietario il carnevale è anche l’occasione propizia per fare sfoggio di beneficenza come quello offerto l’ultimo giorno del febbraio del 1897 dall’avv. Raffaello Garzia nei locali del’Ospedale M. Tamborino, gentilmente concessi dalla Congregazione di Carità, a ben 200 poveri e servito con squisito pensiero da signore e signorine magliesi.

Nelle ultime due domeniche e nei due ultimi giovedì (dei cumpari e di sciuvedìa crasseddu) ma specialmente nell’ultimo giorno, il martedì, i vicoli della periferia e le vie del centro storico erano attraversati da allegre brigate di cittadini in maschera, da carri graziosamente addobbati, ma anche da rustici carretti con fantocci di paglia e goffe maschere imitanti i mestieri e i personaggi più in vista del paese.

Ma ciò che attirava maggiormente il popolino, assolvendo in un certo qual modo ad una funzione ludico-aggregativa e dando quel qualcosa che doveva sbalordire, era la sfilata degli eleganti carri dei ricchi proprietari del luogo, che dalla periferia richiamavano in piazza una folla numerosa anche dai paesi vicini. Per dare un’idea di come venisse festeggiato a Maglie il Carnevale, alla fine dell’800, abbiamo stralciato da “L’avvenire” del 1 marzo 1897 (I,6) la seguente cronaca:
Verso le 17 si aprì il corso col piccolo ma bellissimo ed elegante carro dei sigg. Gennaro Starace e Pietro Miglietta. Era un canestro di vaghissimi fiori da cui essi uscivano pieni di brio, gettando fiori e confetti. Venne di seguito l’enorme carro rappresentante una corbeille del cav. Oronzo Garzia accompagnato dal notar Gennaro De Donno, Nicolino De Donno, Vittorio Sticchi, Paolo Scarzia e Antonio Cezzi, tutti gettando a profusione confetti ed eleganti bomboniere. Il terzo carro fu quello dell’egregio sig. Vincenzo Tamborino. Rappresentava il ‘corno dell’abbondanza’. Era maestoso addirittura, vestito riccamente di stoffa e guarnito di artistici fiori. Dalla bocca del corno, ch’era in avanti, usciva un nembo di fiori e tra questi si agitavano, quali vispe farfallette, alcuni bimbi dalle guance paffute e rubiconde[…]. Erano seduti sul corno e propriamente al concavo di essi, i sigg. Vincenzo e Salvatore Tamborino, il cav. Egidio Lanoce e il notaio Giuseppe Zocco, che gettavano confetti e bomboniere bellissime.[…]. Seguì il carro dell’avv. Raffaello Garzia, di cui facevano parte i sigg. Nicola De Marco, Nicola Scarzia, il dott. Achille Maggiulli e Filippo Lionetto. Anche questo carro, che rappresentava la stella del nord, fece piovere a dirotto confetti e bomboniere, ricevendo in cambio, come gli altri carri, olezzanti mazzolini di fiori.
Mentre la folla acclamava e teneva dietro, s’intese prima da lontano, poi man mano più da presso, intonare la marcia reale. Era la banda del maestro De Pascalis sopra un carro guarnito di fiori, che precedeva quello dell’avv. Paolo Tamborino, simboleggiante un mulino a vento, lavoro bellissimo e di grande effetto. In esso vi erano, oltre il sig. Tamborino, i sigg. Salvatore Palma di Oronzo, Eugenio Palma di Salvatore, il prof. Pasquale de Lorentiis, Ernesto Sticchi, l’ing. Raffaele Palma, Vincenzo e Nicola Lionetto, tutti vestiti di bianco come altrettanti mugnai. Al loro apparire la folla raddoppiò le acclamazioni, tanto più che giunsero quasi inaspettati, gettando come forsennati fiori e confetti. Ultimo e non meno elegantemente addobbato fu il carro del noto industriale Giuseppe Romano, in cui tra le maschere che gettavano a dritta e a manca confetti eranvi parecchi musici che intonavano marce assai allegre.
Bello era il saluto scambievole dei carri, una vera grandinata di confetti: basti dire che in un paio d’ore ne furono gettati parecchie tonnellate. Il corso si chiuse con una splendida fiaccolata e fuochi di bengala fatta su tutti i carri. Non meno imponente riuscì martedì il corso dei fiori […]
In quei giorni neppure le famiglie più povere sapevano rinunciare alla crapula, ai piaceri della tavola, alle debosce. Si mangiava a crepapelle, si beveva sino all’ubriachezza, si ballava, si cantava, tra risate e scene comiche, tra una quadriglia e l’altra, allietati dal suono di un’orchestrina di pifferi, chitarrini e tamburelli. Il popolino specialmente si divertiva a più non posso, perché dopo la baldoria dell’ultimo martedì, con l’arrivo della quaresima, per molti sarebbero tornati i travagli, la fame, la miseria di sempre: “Carniale meu chinu te doje/ ieri maccarruni e osci foje,/ Carniale meu chinu te mbroje,/ osci maccarruni e ccarne, / e ccrai mancu foje.”

E che fame e che miseria! Gli ultimi anni dell’800 e gli inizi del ‘900 furono a Maglie e nel Salento anni di grave crisi economica, di estrema indigenza, di nera miseria, di continua disoccupazione dei contadini; dietro l’apparente stato di floridezza, dietro la facciata del fasto e dell’opulenza ostentata dai grossi proprietari terrieri il pietoso spettacolo di tanti poveri infelici privi pure di un letto e di una minestra, dei cenciosi scalzi, degli accattoni laceri, denutriti, sostanti ore ed ore presso i portoni delle case patrizie.
All’articolista del giornale borghese questo spettacolo indegno e poco decente degli accattoni ripugna; preferisce non farne menzione e terminare la cronaca con un bravo di cuore a tutti coloro che avevano voluto strappare i magliesi alla monotonia di sempre procurando loro qualche ora di svago, preferisce plaudire ai benemeriti che avevano sbalordito dall’alto dei loro carri elegantemente addobbati col lancio di fiori, di bomboniere, di tonnellate di confetti, che con infinita generosità avevano voluto dare al popolo il panem (il pranzo ai poveri) e i circenses (la sfilata dei carri): la farina e la festa!
Il carnevale è finito – commenta il corrispondente magliese della ‘Gazzetta delle Puglie’, Villanegra – prosit a chi vi ha goduto e a chi non vi ha goduto. E quaresima sarebbe stato tutto il Carnevale se i signori del Circolo non fossero riusciti a tenere qualche festa da ballo. (La Gazzetta delle Puglie, A. III, 10 febbraio 1883).
Quaresima tutto il Carnevale! Ma per questa povera gente la quaresima, una quaresima di fame, di fatica, di lotte e di rinunce continue, non sarebbe fatalmente, senza scampo e senza speranza, tutto l’anno, tutti gli anni, tutta la vita?

In «Tempo d’oggi», V(4), 23 febbraio 1978

Maglie. San Nicola e le zitelle

di Massimo Negro

Per noi di Tuglie che ai tempi della nostra adolescenza gironzolavamo dalle parti dell’Oratorio, la ricorrenza di San Nicola era la prima festa che ci introduceva al clima e all’atmosfera natalizia del mese di Dicembre.

Non che ci fosse un’antica devozione verso questo Santo, ma l’avere come arciprete il nostro amato e ormai scomparso Mons. Nicola Tramacere ci portava tutti in chiesa per la celebrazione della messa e per festeggiare il suo onomastico.

Poi crescendo, leggendo e soprattutto gironzolando per le chiese e le cripte del Salento, mi ha fatto pian piano scoprire molti temi legati alla figura di questo Santo orientale profondamente interconnessi con la nostra terra e con la nostra storia.

La devozione verso questo Santo viaggia verso la nostra terra sulle imbarcazioni che portarono nel lontano 700 i monaci basiliani a popolare i nostri luoghi per sfuggire alle persecuzioni orientali e la furia iconoclasta dell’imperatore bizantino Leone III Isaurico.

Della vita di questo Santo, vissuto a cavallo tra il 200 e 300 d.C. in Licia, si tramandano alcune sue azioni che danno la misura della sua santità e che sono diventate motivo della sua devozione e di alcune credenze popolari legate alla sua figura.

Divenuto erede di un grande patrimonio a causa della prematura morte dei suoi genitori, si impegnò alacremente per aiutare i bisognosi della sua terra.

Si narra che Nicola, venuto a conoscenza di un ricco uomo decaduto che voleva avviare le sue tre figlie alla prostituzione perché non poteva farle maritare decorosamente, abbia preso una buona quantità di denaro, lo abbia avvolto in un panno e, di notte, l’abbia gettato nella casa dell’uomo in tre notti consecutive, in modo che le tre figlie avessero la dote per il matrimonio. Per questo motivo viene considerato una sorta di protettore e patrono delle donne nubili (zitelle).

Un’altra leggenda non fa riferimento alle figlie del ricco decaduto, ma narra che Nicola, già vescovo resuscitò tre bambini che un macellaio malvagio aveva ucciso e messo sotto sale per venderne la carne. Anche per questo episodio san Nicola è venerato come protettore dei bambini e, in alcuni paese, la notte del 5 dicembre è tradizione mettere degli stivali fuori dalla porta di casa affinché il Santo li possa riempire di dolciumi

In alcuni paesi dell’Europa orientale, la tradizione vuole che porti una verga ai bambini non meritevoli, con cui i genitori possano poi punirli.

L’immagine del Santo è presente in molte cripte e chiese del Salento, e di Maglie, a cui si riferiscono le foto, ne è il Santo Patrono.
E proprio in questa cittadina del leccese si tramandano delle tradizioni legate al suo essere protettore delle donne nubili e in particolare di coloro che tardavano a maritarsi. Giovani donne che non trovavano fidanzato o donne ormai in età non più tanto giovane e in conclamato “ritardo” sull’argomento matrimonio. Le zitelle.

La tradizione vuole che la zitella, per chiedere l’intercessione del Santo, si dovesse rivolgere a lui dicendo:

“Santu Nicola meu se nu ‘me ‘mmariti, paternosci de mie nu ‘nne spittare”.

E sempre secondo la tradizione, che a ben pensarci vede un San Nicola particolarmente in vena di parlare, il Santo risponde:

“Quando troi la sorte saccitela pijare”.

Come ben sappiamo, nell’antico ma anche nel recente passato, lo stato di zitella o di donna senza figli veniva vissuto quasi come una sorta di castigo di dio (volutamente in minuscolo). A volte considerato quasi come uno stato di peccato che impediva, nello specifico, il maritarsi. Fortunatamente i tempi cambiano.

Le immagini che vedrete sono quelle dei tre simulacri portati in processione il giorno della festa. Con San Nicola, sono portate per le strade della cittadina anche le statue della Madonna delle Grazie e di Sant’Oronzo.

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di seguito il link al  video delle foto del giorno di festa

http://www.youtube.com/watch?v=chO-6W0PdK0
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fonte sulla vita del Santo:

http://it.wikipedia.org/wiki/San_Nicola_di_Bari

http://massimonegro.wordpress.com/2011/12/05/maglie-san-nicola-e-le-zitelle/

Tessuti salentini

di Emilio Panarese

Spigolando nell’epistolario di mons. Capecelatro, arcivescovo di Taranto alla fine del ‘700, frammenti delle cui lettere abbiamo rinvenuto in una edizione di Nicola Vacca («Terra d’Otranto, fine ‘700-inizi ‘800, Bari 1966») e alcuni riferimenti nelle «Carte Capece-Lopez», che si conservano nella Biblioteca ‘Piccinno’ di Maglie (lettera spedita nel nov. del 1807 da Bartolomeo Ravenna al duca di Taurisano Antonio Lopez y Royo, marito di Francesca Capece), ci siamo fatta un’idea abbastanza chiara dell’alta considerazione in cui erano sempre stati tenuti, sin dall’alto medioevo, non solo dai consumatori locali, ma anche da quelli di altre regioni italiane e dai mercanti stranieri (inglesi, russi etc.) alcuni tessuti lavorati qui nel nostro Salento: le felpe, le calze di ventinella di cotone sopraffino, lavorate a Galatina e a Taranto, le cravatte, i fazzoletti, i guanti, le coperte, i berrettini sfioccati, il pepariello, il barracano.
Si trattava di un artigianato nobilissimo, raffinatosi attraverso molti secoli, e che si distingueva soprattutto per la delicatezza e la rifinitura artistica dei prodotti.

pregiati tessuti salentini

Assai ricercate erano a Gallipoli le nostre pregiatissime, finissime e morbide mussoline, tessuti di cotone o di lana di oro e di argento, specialmente dai mercanti fiorentini, nel periodo dell’importante fiera del Canneto (2-8 luglio), in cui tutte le merci godevano di franchigia di dazi e di balzelli. Così a metà dell’800 cantavano i gallipolini: «Nini, nini, nini,/ mercatanti fiorentini,/ ci anu utandu pe lle fere/ anu ccattandu li musulini»/. In una lettera del 29 aprile 1797 Ferdinando IV scrive alla regina che da Gallipoli le porterà in dono ‘certe bellissime mussoline’.

“camisola” degli anni ’50 del secolo scorso. Manifattura neritina

Non meno celebri e richieste erano le cuperte azzate, cioè a rilievo, di Nardò (ma si lavoravano anche a Galatone e a Gallipoli), di tanto pregio, che se ne spedivano continuamente a Napoli, Genova, Roma, Milano, Livorno, in Inghilterra e in Russia. Per la confezione di ognuna occorreva più di un anno di lavoro. Venivano trattate con filo di bambagia il più delicato e il più sottile e tinte con dei succhi di radici e di erbe, dalle donne escogitate e da niuno nell’arte di tingere istruite.

Pure noti erano i mussolini di Lecce, detti turbanti, e il barracano di Muro Leccese (mantello grossolano tessuto con filo di pelo di capra).
Pregiata assai era inoltre nel ‘700 la ferrandina salentina (così chiamata dal luogo di origine in provincia di Matera), molto resistente all’uso, con cui si confezionavano soprattutto le camisciole, alias corpetti colle maniche, forse in origine importata nel Salento dai Domenicani. Era una pannina bianchissima (ma se ne faceva pure di altri colori) il cui ordito era di cotone fiore e la trama di lana gentile.

mutande femminili su pregiata coperta. Manifattura neritina anni ’30 del secolo scorso

Molto accorgimento e grande abilità richiedeva la preparazione della materia prima e della manifattura, nelle quali eccellevano sulle altre le donne di Nardò, Galatone, Galatina e Tricase.
Per la biancheria da tavola veniva invece usato il pepariello: un tozzo tessuto di cotone, detto pure a pipiriddu o a pipiceddu, cioè ad acini di pepe.

Anche i tessuti di bisso erano celebri e ricercati sin dall’antichità: a Taranto e in molti paesi della provincia di Lecce si confezionavano col fiocco della pinna nobilis. Coi filamenti del bisso (mollusco lamellibranco) lunghi fino a venti centimetri le gallipoline confezionavano con grande maestrìa dei tessuti detti “nebbie di lino” di estrema morbidezza e vaporosità, di bellissima vista e così pomposi di cui si servivano le più aristocratiche nobildonne del regno. Col bisso si preparavano anche calze finissime e guanti di lana pesce e berrettini sfioccati (che tanto piacevano a Ferdinando IV) superiori a quelli di castoro per leggerezza, morbidezza e durata. Se ne spedivano persino a Pietroburgo. Finissime erano pure le “cravatte”, di gran moda nel ‘700, cioè panni assai pregiati con cui le donne si coprivano le spalle.

copritavolo ad intaglio. Manifattura salentina degli anni ’70 del secolo scorso

E che dire infine degli ombrellini in pizzo bianco, a traforo e trasparenti, con motivi ornamentali o con ghirlande floreali di vario colore, o delle borsette in filigrana d’argento con cerniere finemente cesellate, degli eleganti ventagli di madreperla o di seta, indici di squisita eleganza, di buon gusto, di estrema raffinatezza? E che cosa dei ventagli di piume di struzzo con montatura di tartaruga o di osso e velo, strumenti di civetteria, d’istinti e di passioni, armi potenti nelle mani delle donne?
«Giove, re degli immortali,/ agli augelli ha dato le ali./ Alle donne – e non fu sbaglio -/ dié la lingua ed il ventaglio./»

In «Tempo d’oggi», II (15), 1975, per gentile concessione di Emilio Panarese e del figlio Roberto

La “gran Settimana” a Maglie

di Emilio Panarese

Nei primi tre giorni della Settimana santa, giorni di preparazione, s’apparecchia la tavola della Cena e si costruisce il Sepolcro.

Presso il pulpito della chiesa di S. Nicola, una volta, in questi giorni si allestiva il palco per la rappresentazione della Passione del giovedì.

L’usanza di questa forma drammatica, assai modesta, con apparati scenici del tutto ingenui, pantomimata o a volte dialogata, degli episodi della passione era già scomparso a Maglie alla fine del secolo scorso, mentre rimase vivo sino a circa trent’anni fa nella vicina Muro.

Quest’usanza altro non era che una sopravvivenza della sacra rappresentazione, assai diffusa in molte regioni italiane nel XV secolo e nel Salento: Li giorni santi de la quarantana / cose de santi se representava / molti martíri in rima se dispiana, / in publico per l’ordinarii se cantava [ … ] (Balzino, IV, c. 54 v.).

Giovedì santo

Si entra in lutto stretto: sin dal mezzogiorno si chiude l’organo e si legano (se ttàccane) le campane, che non vengono più sonate sino al resurrexit. Per annunziare le funzioni in qualche chiesa si usa ancora la trènula, come si diceva una volta, o la tròzzula, come si dice adesso, e, invece di usare il campanello, si batte con un bastone di legno sulle panche o sui confessionali.

Anni fa in questo giorno anche i carrettieri legavano i sonagli ai cavalli, i caprai alle capre e finanche il vecchio portiere del Collegio Capece – come ricorda A. De Fabrizio – invece di dare il segnale con la campanella, picchiava forte sul portone, all’ingresso di qualcuno con un grosso martello.

Nelle chiese parrocchiali si svolge la cena: una volta nella chiesa madre i dodici apostoli, vecchi poverelli infagottati in lunghi camici azzurri con la papalina in testa e seduti su dodici scanni,

Riti e tradizioni pasquali. La fiera magliese dell’Addolorata

di Emilio Panarese

Tradizioni e riti della settimana santa magliese non sono molto dissimili oggi da quelli ancora vivi in tutta la subregione salentina, in quanto in questi ultimi decenni, così com’è avvenuto per i dialetti e la lingua ufficiale, la nostra società consumistica ha assai livellato e uniformato quelle che una volta erano manifestazioni inconfondibili e peculiari di un agglomerato urbano, nel passato, tranne qualche eccezione, assai chiuso, per le rare comunicazioni e gli scarsi scambi culturali, e quindi poco sensibile alle influenze di costume di altri centri urbani della provincia. Le tradizioni pasquali, come le natalizie, con il fluire del tempo, hanno perduto a poco a poco l’antico connotato, il significato originario, non per un involutivo processo di deculturizzazione o di perdita di identità, ma per una normale dinamica di svolgimento, di ammodernamento, di adattamento della tradizione a nuove esigenze, a nuove concezioni di vita e di fede.

Ne parliamo, perciò, non certo per riviverle o, peggio, per recuperarle, in quanto tale pretesa contrasterebbe con la legge stessa della storia, che è incessante svolgimento, e nella vita e nella storia nulla si ripete, né tanto meno ad esse guardiamo, con sentimento nostalgico ed elegiaco, come ad un bene perduto per sempre, ma senza rimpianto le esamineremo, perché rituali storicamente validi della nostra cultura passata, delle consuetudini degli avi, perché espressione autentica della religiosità aggregativa della comunità magliese, vista nella sua unità, al di fuori della distinzione classista ed angusta di due culture contrapposte: l’egemone e la subalterna (oggi complementari e similari), religiosità aggregativa che tuttavia continua, sia pure di parecchio trasformata, e nello spirito e nelle forme spettacolari esteriori.

Non molte le fonti alle quali abbiamo attinto: la tradizione orale, la letteratura vernacolare magliese in versi (canti popolari, poesie di N.G. De Donno, N. Bandello, O. Piccinno), giornali magliesi (Lo studente magliese, Il sabato, Tempo d’oggi), ma, soprattutto, alcune carte d’archivio dell’arciconfraternita di Maria SS.ma delle Grazie e, per quanto attiene al rituale in uso agli inizi del ‘900 o a quello poco prima estinto, al saggio La gran settimana, che ci ha lasciato il dotto e valente professore magliese, poi preside, Angelo De Fabrizio, cultore appassionato, preparato ed attento di studi folclorici salentini. A loro tutti il mio ringraziamento per i contributi e le testimonianze che ci hanno donato.

La fiera magliese dell’Addolorata

Precede di due giorni la Domenica delle Palme e si svolge nel viale che porta alla settecentesca graziosa omonima chiesa, una volta distante dall’abitato, in mezzo ad orti e giardini bene irrigati, oggi in una zona urbana assai frequentata soprattutto il sabato.

Tre ggiurni nnante la simana santa,

ossia lu venerdìa, ven ricurdata cu nna fiera:

Matonna Ndolurata a mmenzu lli rusci!

E diuzzione quanta?

Nnu tiempu la fiera era ‘mpurtante:

vinìne dai paesi a cquai Maje

cu ccàttane campaneddi e minuzzaje

e tante mercanzie, nu’ ddicu quante!

(Orlando Piccinno)

L’antica fiera del bestiame[1] si è trasformata via via in un chiassoso, vivace mercato con banche e bancarelle di dolciumi, di noccioline, di terraglie, di stoviglie e utensili domestici vari, di cesti di vimini, di vasi di argilla per fiori e, soprattutto, di campane e campanelle, di trombe e trombettine, di pupi e di pupe, di lucerne, di animali domestici vari, tutti di terracotta, verniciati o no, di ogni forma e tipo, ed ancora di palloncini, di giocattoli di plastica, di carrettini, di variopinte ruote con l’asta, di rustici mobili in miniatura (giuochi assai ricercati dai bambini una volta), di fischiettid’argilla e di gracidanti raganelle[2] di legno.

Durante tutta la giornata della fiera, soprattutto la sera, la chiesa dell’Addolorata è meta di devoto antico pellegrinaggio e di raccolta preghiera davanti alla statua di cartapesta di Maria SS.ma che ha la faccia chiusa nella veletta nera e sette spade a raggiera sul cuore.

Lacrime a ggoccia de lucida cira,

la facce chiusa a lla veletta nera

e sette spade a llu core raggera,

vave chiangennu morte e mmorte tira

-stu venerdìa de vana primavera

ca pulanedda d’àrguli rispìra-

cacciata de lu nicchiu a pprima sira

Ndolurata Maria, la messaggera

de l’agnellu Ggesù. Li Grammisteri

de cartapista cu lla purgissione

èssene osciottu tra ale de pinzieri

e Mmaria a rretu, muta a lla passione.

Osci, fischetti an culu carbinieri,

tròzzule e campaneddi ogne vvagnone.

(Nicola G. De Donno)

note al testo:

[1]La fiera dell’Addolorata e quella di S. Nicola vennero istituite nel 1860 con lo stesso decreto borbonico.

[2]Arnese rudimentale di legno a forma di bandiera, costituito da un manico cilindrico rastremato verso l’alto, in cui viene inserita una ruota dentata contro la quale, a contrasto, si fa girare, in senso rotatorio, una sottile lamina (linguetta) che produce un fragoroso gracidìo. Da qui il nome raganella di Pasqua e gli onomatopeici salentini trènula o tròzzula. Allo stesso campo semantico di tròzzula appartengono tròccola, tròttola, trozzella. La troccola “bàttola”, “raganella” o, meglio alla lettera, “ruota dentata che fa rumore” (incrocio del gr. chrótalon “nacchera” con trochilía “carrucola del pozzo”) era anticamente una ruota di ferro a cui erano appesi parecchi anelli, che nel muoversi crepitavano (garruli anuli). Cfr. il caI. tròccula e il nap. tròcula. La tròttola è il giocattolo di legno, simile a un cono rovesciato, con punta di ferro, che si getta a terra, tirando a sé di colpo la cordicella ad esso avvolta. Noi magliesi, con voce aferetica derivata da curru, la chiamiamo urru, bifonema speculare, che imita il suono caratteristico di un oggetto che gira velocemente, producendo lieve rumore. Trozzella “rotella” è voce regionale pugliese, che indica una tipica anfora messapica “di forma ovoidale rastremata al piede, con alte anse nastriformi, verticali, che terminano in alto e all’attacco col ventre con quattro rotelline (da lat. trochlea con suff. dim.). I manici ad ansa con nodi a rotella imitano la carrucola del pozzo (trozza). Ma con tròzzula noi salentini indichiamo pure la ruota del telaio, che fa girare il subbio, cioè il cilindro di legno su cui sono avvolti i fili dell’ordito, ed anche, in senso figur. e dispr. la donna di malaffare, la meretrice, la sgualdrina, che va in giro qua e là, destando mormorìo di disapprovazione tra la gente onesta (“giro”+”rumore”).

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese]

Maglie e Federico Garcìa Lorca (1898-1936)

MAGLIE E FEDERICO GARCIA LORCA. DALLA “LUNA GITANA” ALLA  “LUNA DEI BORBONI”

di Paolo Vincenti

“Federico Garcìa Lorca fu una creatura straordinaria. Creatura questa volta significa più che uomo. Federico infatti ci metteva in contatto con la creazione, con questo tutto primordiale dove risiedono le fertili forze. Quell’uomo era prima di tutto sorgente, freschissimo zampillo di sorgente, trasparenza originaria alle radici dell’universo”: così ricorda Federico Garcìa Lorca il suo amico Jorge Guillèn, nel suo Prologo alle Obras completas di Lorca, riportato da Claudio Rendina in “ Libro de Poemas. Edizione intergrale” (Newton Compton 1995).

Al grande poeta spagnolo è stata dedicata, mercoledì 6 dicembre, una serata, “ Omaggio a Federico Garcìa Lorca (1898-1936)”,  dal Liceo “Francesca Capece” di Maglie. Aggiungere il qualificativo “bellissima” al termine “serata può sembrare una formula di rito, così come siamo abituati a sentir definire “glorioso” lo storico Liceo Capece di Maglie. Però, mai come in questo caso, gli usati aggettivi sono appropriati: perché una serata che ha regalato fortissime emozioni agli astanti dall’inizio alla fine ed è riuscita a mettere tutti d’accordo sulla sua ottima riuscita non è se non un piccolo miracolo ( abituati come siamo alla  superficialità e all’improvvisazione delle serate culturali a cui mediamente assistiamo,) e un Istituto Scolastico che riesce ad organizzare tutto ciò conferma che la ottima fama di cui gode è più che meritata.

Nel 70° Anniversario della morte di Lorca, si è tenuta, nell’Aula Magna del Liceo magliese, una Tavola Rotonda e un Recital di musica e poesia nel segno del grande poeta del Romancero gitano. Tutte queste arti infatti si intrecciano nella sua poesia, la cui vasta teatralità è stata messa in evidenza da tutti i critici,  secondo quanto lo stesso Lorca aveva affermato, cioè che “il teatro è la poesia che si eleva dal libro e si fa umana” (dall’intervista di Felipe Morales in Obras completas).

L’amore per il teatro da parte di Lorca trova ampie conferme nella sua carriera, a partire da El maleficio de la mariposa, la sua prima, fallimentare, rappresentazione teatrale con marionette disegnate dal pittore uruguaiano Rafael Barradas, fino a La Barraca, teatro popolare da lui progettato, nel 1931, gratuito e ambulante.

Dopo l’Introduzione del Prof. Vito Papa, Preside del  Liceo Capece, hanno preso la parola la Prof.ssa Valentina Sgueglia, vice presidente dell’Adi Sd, Le-Br-Ta, il Prof. Diego Simini, docente di Lingua e Letteratura Spagnola dell’Università di Lecce, e il Prof. Antonio Lucio Giannone, docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università leccese. Gli interventi dei relatori sono stati intervallati dalle esibizioni di danza curate dalla Prof.ssa Maria Josè Cueto Martìnez e dalla lettura di poesie lorchiane, nella doppia versione spagnola e italiana, ad opera degli studenti delle V Classi internazionali di Spagnolo del Liceo Capece e da canti, ad opera degli stessi studenti, di alcuni famosi brani di Lorca, con la Direzione artistica e musicale a cura dei Professori Angelo Pulgarìn Linero, Soledad Negrelos Castro e Josè Manuel Alonso Feito. Gli studenti della sezione spagnola del Liceo Capece  sono coordinati dalla Prof.ssa Isabel  Alonso Devila, che è stata anche relatrice della serata.  La musica era stato il primo amore del poeta spagnolo, che aveva studiato piano e composizione con il maestro Antonio Segura, scrivendo numerose canzoni, ed aveva avuto una speciale amicizia col grande maestro spagnolo Manuel De Falla.

Il nome di Garcìa Lorca, poeta molto amato e conosciuto in Italia, è legato anche al  Salento, grazie alla magistrale traduzione che hanno fatto dei suoi versi due grandi intellettuali ed ispanisti della nostra terra, vale a dire il magliese- fiorentino Oreste  Macrì (soprattutto con Canti gitani e prime poesie, pubblicato con Guanda nel 1949, poi ampliato e pubblicato col nuovo titolo Canti gitani e andalusi e con nuova sua Introduzione nel 1951 e ancora nel 1961 ) e il leccese Vittorio Bodini ( in particolare, Tutto il teatro 1952).

Macrì e Bodini costituiscono, insieme a Carlo Bo (cui spetta forse il primato degli studi lorchiani in Italia, a partire da Poesie, pubblicato nel 1940 con Guanda, che ha avuto numerosissime riedizioni, passando per Poesie sparse, Guanda 1976), la triade dei maggiori studiosi del poeta spagnolo (cui aggiungeremmo, anche per quantità di contributi offerti, Claudio Rendina). Nel suo intervento alla serata del 6 dicembre, A.L.Giannone si è occupato del rapporto fra Garcìa Lorca e Vittorio Bodini, scrittore leccese a Giannone da sempre molto caro.

Il docente, che ha dedicato a questo argomento molti suoi studi , soprattutto Corriere Spagnolo (Manni 1987), che raccoglie reportage dalla Spagna e prose di Bodini,  ha tracciato un profilo delle influenze che direttamente o indirettamente il Bodini poeta ha tratto dal Bodini ispanista, o, per meglio dire, le influenze che Bodini ha ricevuto, nella sua produzione poetica,  dalla poesia di Lorca, di cui è stato fine traduttore.

Bodini ha avuto nella sua carriera una lunghissima frequentazione con la letteratura spagnola, avendo tradotto, oltre a Lorca, il Don Chisciotte di Cervantes (Einaudi 1957), Visione celeste di J.Larrea e le Poesie di Salinas (Lerici 1958), il Picasso di V. Aleixandre (Scheiwiller 1962), l’antologia I poeti surrealisti spagnoli ( Einaudi 1963;  ed è stato proprio Bodini, come ha sottolineato Giannone, a definire tale questa scuola poetica spagnola, mutuando la definizione dal surrealismo francese), I Sonetti amorosi e morali di Quevedo (Einaudi 1965), Degli Angeli di Rafael Alberti (Einaudi 1966) e Il poeta nella strada dello stesso autore (Mondatori 1969), infine il Lazarillo de Tormes (Einaudi 1972).

L’amore di Bodini per Lorca era iniziato già nel 1945 con la prima traduzione europea della farsa di Lorca,  Il Teatrino di don Cristobal, del 1931, come ricorda Ennio Bonea in “Comi Bodini Pagano. Proposte di lettura” (Manni 1998). Anche Giannone, così come Macrì, ricordato da Bonea nel saggio testé citato, ritiene che l’influenza del grande Lorca su Bodini  inizi già prima del suo viaggio in Spagna del 1946.

La permanenza nella penisola iberica , comunque, dal 1946 al 1949,  fu fondamentale per l’ispanismo di Bodini e rafforzò ancora di più la sua ricerca, perché, come scrive Giannone nella sua Introduzione a “Barocco del Sud. Racconti e prose” (Besa 2005), “gli permette di scoprire un altro Sud, che gli serve per capire meglio anche il suo. Nei reportage e nelle prose che egli continuò a pubblicare dopo essere tornato in Italia, è possibile notare il tentativo di penetrare nella realtà profonda della Spagna, alla scoperta della sua dimensione invisibile e sconosciuta, del suo ‘spirito nascosto’ per usare un’espressione di Lorca. Proprio Lorca, che diventa la guida ideale di Bodini in questo viaggio, gli insegna a scavare nell’inconscio collettivo del suo popolo partendo dalle manifestazioni più tipiche del folclore iberico: il flamenco, la corrida, i serenos, i combattimenti dei galli, i riti della Settimana Santa e così via. Lo scrittore leccese si va gradualmente accorgendo delle numerose affinità tra il popolo spagnolo e quello salentino, legati anche nell’intimo da un sentimento tragico della vita, e trova in quel paese il ‘suo’ Sud, come egli stesso scrive in una poesia di Dopo la luna, Omaggio a Gongora[…]”.

“L’interesse per Lorca”, ha spiegato Giannone durante il suo intervento, “è culminato con la pubblicazione, presso Einaudi, nel 1952,  del Teatro”, ed ha citato alcune parole di Bodini, tratte dalla sua Prefazione dell’opera, da cui si evince che Bodini, da acuto interprete e autentico poeta, aveva colto perfettamente il messaggio della poesia di Lorca: “ La sua [di Lorca] presenza aderiva alla vita in modo così pienamente meraviglioso che egli era la vita stessa nel suo infinito presente. Tutta la sua poesia era una dichiarazione obbiettiva dell’essere, che la mancanza di sforzo rendeva estremamente gioconda: bastava che dicesse luna e la luna esisteva, che dicesse coltello e un coltello brillava, che dicesse stella, cavallo, fiore …”.

Il 1952 è lo stesso anno in cui Bodini pubblica la sua prima opera poetica La luna dei Borboni (di cui, recentemente, è stata pubblicata una nuova versione, a cura di Antonio Mangione, da Besa, 2005) ) e Giannone ha rilevato quanto forte fu l’influenza che le traduzioni di Lorca ebbero su questa sua poesia. “Tipicamente lorchiana”, ha detto Giannone, “è, ad esempio, l’apparizione improvvisa, straniante, di figure e animali, che a prima vista risulta inspiegabile, come ‘il cavallo sorcino’ che ‘cammina a ritroso sulla pianura’, il ‘gatto’ che ‘trotta magro e sicuro nel Sud nero’, definizione, quest’ultima, ripresa proprio da Lorca che aveva definito la sua ‘Spagna nera’.

E a Lorca, da lui definito ‘il poeta più cromatico che il mondo conosca’, risale la ricchezza dei colori nella poesia bodiniana, come, ad  esempio, il ‘nero’ dei gatti e dei capelli delle donne, del catrame, delle monache, il ‘bianco’ della calce, il  ‘rosso’ del sangue, dei peperoni e dei pomodori, il ‘verde’ dei portoncini, il ‘giallo’ dei limoni e delle zucche, ecc.  Nella raccolta I poeti surrealisti spagnoli, poi, è presente la traduzione integrale della raccolta Poeta en Nueva York, composta da Lorca negli Stati Uniti e che è considerata da Bodini, come scrive nella sua Introduzione, ‘un grido di appassionata protesta contro l’americanismo e la civiltà meccanica raffigurate come un ossessionante trionfo della morte’.

Questo libro ebbe un innegabile influsso sulle raccolte bodiniane Metamor, Zeta e La civiltà industriale, dove il surrealismo che contraddistingue queste raccolte si carica di valenze polemiche nei confronti della società tecnologicamente avanzata”.

Gino Pisanò individua un ideale asse Salento-Spagna, similate “in un’unica spazialità categoriale il cui baricentro era costituito dall’ecumene mediterranea”, nel suo saggio “La leucadia salentina nell’archivio letterario del Novecento” (in “Andrano e Castiglione d’Otranto nella storia del Sud Salento”, Pubbligraf 2004). In quello che definisce “l’animismo folklorico-surreale di Vittorio Bodini”, i cui connotati indica nella triade “luna-gufo-gatto”, “segni persefonici di un universo infero e invisibile”, Pisanò traccia dei parallelismi fra la Spagna nera di Lorca e il Salento luttuoso e misterioso di Bodini, iconizzato dalla dominanza del buio dei suoi paesaggi e dal vocalismo chiuso e fonosimbolico di molte sue poesie.

Anche secondo Pisanò, la “pena vivente” dei gitani di Lorca è la medesima dei contadini del sud, degli ppoppiti bodiniani, e l’autore della Luna dei Borboni, fatalmente attratto dall’archetipo lorchiano, “trasfigura il Salento in emblema del Sud, di ogni Sud trascorso da presenze-assenze, introiettando e restituendo omologati il duende di Lorca, los angeles di Alberti, i lemuri salentini”.  Giannone, a conclusione del suo intervento, si è anche soffermato sulla morte del poeta di Canciones, i cui veri motivi, a distanza di tanti anni, rimangono ancora poco chiari. “Yo tengo el fuego en mis manos”, dice Lorca a Gerardo Diego, in “Poesia espanola contemporanea” (Madrid 1962) per  definire l’origine della sua poesia. Da Poema del cante jondo a Oda a Walt Whitman, da Romancero gitano a Divàn del Tamarit, la sua poesia continua a scorrerci dentro, bruciando come fuoco nelle vene.

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

Cogliamo l’occasione della presentazione dell’evento “Maglie città giardino” per pubblicare l’articolo del prof. Emilio Panarese “Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei” apparso dapprima nel dicembre 1999 su «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie, e successivamente nel 2002  in appendice alla  «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato (Congedo editore).

Diversamente da quanto riportato da taluni autori (V. D’Aurelio, G.L. Di Mitri), fu infatti per primo Emilio Panarese a dare notizia di ceramiche raffiguranti uno scorcio del centro storico magliese con i suoi monumenti più rappresentativi, valorizzando questa rilevante scoperta, indicando i due principali marchi di fabbrica (“Victoria Ware” e “T.KOPEN AGHEN”) che utilizzarono la veduta settecentesca di Maglie del Desprez come modello iconografico per decorare oggetti fittili di varia foggia che vennero poi diffusi nei paesi del nord Europa e, in ultima analisi, aprendo quindi la strada ad ulteriori studi al riguardo.

L.J. Desprez, Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes

 

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

di Emilio Panarese

Può sembrare poco credibile che una ‘veduta’, un disegno di un paese dell’estremo Salento, vada a finire sui vasi di fine porcellana, vetrificata, traslucida, fabbricati, tra ‘800 e ‘900, in paesi dell’Europa settentrionale (Svezia, Danimarca, Inghilterra, ecc.). Poco credibile, ma vero.

Vaso di fiori: alt. cm. 35; porcellana bianca, forma esagonale, periodo 1920 ca., provenienza Roma; marchio di fabbrica con le parole “T.KOPEN AGHEN”; propr. Massimo Lionetto

Questa felice veduta (insieme con poche altre salentine come la leccese Piazza di S. Oronzo, Otranto, Soleto, Gallipoli), che riguarda proprio Maglie, è, secondo il parere degli esperti d’arte, tra le più belle e meglio riuscite del secondo Settecento salentino. Si deve al geniale architetto e pittore francese Jean Louis Despréz, che la schizzò a Maglie nel settembre 1778 e la rifinì poi, l’anno dopo a Roma, per l’incisione da realizzare con la tecnica dell’acquaforte.

Si ammira in una delle pregevoli pagine in folio di carta forte, vergellata a mano, della monumentale opera, in cinque grandi volumi, del peso di circa mezzo quintale, «Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile», Paris, 1781-’86, ossia «Viaggio pittoresco o descrizione dei regni di Napoli e di Sicilia», realizzata dall’abate Richard de Saint-Non con la collaborazione di esperti: scrittori, architetti, disegnatori, pittori e incisori.

Brocca da lavabo: alt. cm. 22; lungh. cm.24; porcellana inglese, Londra, periodo 1880 ca., marchio di fabbrica con le parole “Victoria Ware”; provenienza Modena; propr. Lello Di Gioia

Con questa opera straordinaria, ma costosissima, destinata solo alle famiglie reali e alla grande nobiltà, si concludeva la fase tardosettecentesca dei viaggi eruditi in Puglia e nel Sud d’Italia da parte di colti viaggiatori (tedeschi, francesi, inglesi) attratti in questi paesi, quasi sconosciuti, dai monumenti classici dell’Italia meridionale (Magna Grecia) e dalle recenti scoperte di Ercolano e di Pompei. L’autore della veduta Maglie (“Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes”) si trovava a Roma nel 1777 presso l’Accademia di Francia in qualità di borsista (pensionnaire du Roi), quando venne scelto e assunto dal Saint-Non come architetto-disegnatore del “Viaggio pittoresco”. A Napoli, il 16 dicembre, ritrae – è questo il suo primo lavoro dell’opera grandiosa – l’animata e popolaresca festa di S. Gennaro; poi la carovana si sposta in Puglia, quindi nel Salento e a Maglie e a Soleto. Lo schizzo originale a matita, che reca in alto l’antica grafia del toponimo (‘Mallia’) e che ritrae, con l’armonioso equilibrio dei volumi, alcuni monumenti della città (colonna in primo piano, chiesa della confraternita delle Grazie, matrice) è oggi conservata presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, dove l’artista morì nel 1804. Delle tavole acquerellate che ricordano la vita di quel giorno settembrino del tardo settecento a Maglie, sulla strada e presso gli edifici del centro storico, esistono tre versioni: nella prima, la più conosciuta (n. 31, G.de Grèce) si vedono in primo piano una squadra di sedici muratori al lavoro presso una casa con balcone in costruzione presso la colonna e delle persone che conversano sui gradini della chiesa vicina; nella seconda, i tre monumenti citati, in basso a destra una carrozza tirata da due cavalli e gruppi di persone qua e là; nella terza, persone singole o in gruppo nella via di mezzo; a sinistra due uomini a cavallo; in fondo, in piazza, la grande croce di pietra di fronte alla chiesa greca di S. Pietro.
Dopo aver compiuto il giro delle esplorazioni archeologiche, l’équipe francese tornò a Roma. Qui il brillante ed affascinante re Gustavo III di Svezia nel 1784 invitò l’eclettico architetto J.L. Despréz, della cui arte era invaghito, a lavorare presso la sua corte come paesaggista, disegnatore, scenografo e coreografo di feste.

 

Gli schizzi originali che l’artista aveva fatto in vari paesi dell’Italia meridionale furono da lui portati nella capitale svedese: alcuni vennero donati all’Accademia delle Belle Arti, altri invece, negli ultimi miseri anni della sua vita, furono da lui venduti, come vendute furono alcune varianti acquerellate, montate in passe-partout, che circolarono in vari paesi del Nord Europa (Inghilterra, Norvegia. Danimarca. Olanda, Belgio, Russia settentrionale).
E proprio a queste varianti acquerellate che ritraggono, con l’aggiunta in verità di alcuni stravaganti particolari architettonici, il centro storico di Maglie si sono ispirati i ceramisti inglesi e danesi autori delle porcellane qui riprodotte. Vivace e animato il paesaggio specialmente nel vaso di fiori T. KOPEN AGHEN, in cui tra figure di cavalli, cavalieri e pedoni, c’è pure, davanti al basamento della colonna, ora finalmente restaurata, un cane che scappa. Preziosa la brocca da lavabo di fine Ottocento con ansa lucida e becco merlettato da corolle di fiori, che nel cerchio del “piede d’appoggio” mostra la ‘marca’ di fabbrica con l’impresa reale (‘Victoria Ware’) sostenuta e difesa da tre agguerriti leoni. La fine struttura granulosa, di solito usata per lavori artistici, richiama alla mente le più famose porcellane di Sèvres, di Sassonia, di Worchester, della napoletana Capodimonte.
Così le figure di tre monumenti magliesi, felicemente disegnati nel tardo Settecento da un geniale architetto francese, finirono, per le sue vicende personali, in paesi lontanissimi dal Salento e adornarono alcune case della gente del Nord europeo. in «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie,
A.IV(4), dicembre 1999, pagina 9
e
in «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato,
Appendice 4 (di Emilio Panarese), pp. 202-203
in “Le guide verdi”, n. 41, 2002, Congedo editore.

Ulteriori contenuti sono consultabili in “Maglie …fuori del comune” http://emiliopanarese.altervista.orgpg014.html 

La via dell’olio a Maglie

La “Via te l’oju” a Maglie

Ricostruito, grazie alle ricerche storiche del prof. Emilio Panarese, il percorso dell’antica “Via te l’oju” a Maglie.

Per iniziativa del dr. Francesco Tarantino (georgofilo, agronomo e paesaggista magliese), che ha avviato il progetto di recupero di questa antica carrareccia, riprende cosi’ vita anche una festa del ‘700.

Tra i lavori intrapresi sono di particolare interesse il consolidamento statico della chiesa rupestre di “San Donato” e l’installazione di un’apposita cartellonistica descrittiva ed informativa dello stato dei luoghi e delle presenze storiche, naturalistiche e paesaggistiche.

Protagonisti di questo lavoro di squadra, un gruppo di appassionati facenti parte del comitato organizzatore fra cui: Fabrizio Licchetta, Luca Leucci, Vincenzo Menavento, Massimo Minosi e Oliver Valentini.

 

 

L’antica carrareccia della “Via te l’oju” (ph Fabio Massimo Conte)

La “via te l’oju”, un’antica mulattiera larga appena due metri, iniziava dai fondi Mùrica e Kamàra (oggi attraversati dalle vie: E. Nisi, N. Macchia, E. Paiano, Ospedale M. Tamborino) col nome di ‘Via di San Donato’ saliva su e, all’inizio della via vecchia per Cutrofiano, volgeva a sinistra passando dietro l’antico (dal 1585) convento dei francescani (dietro l’attuale Ospedale) e davanti alla cappella della Madonna di Leuche[1] cioè all’inizio della via Clementina Palma (circa dov’è oggi la stele della Madunnina), poi di nuovo voltando a sinistra giungeva, per la vie oggi dette ‘Valacca’ e ‘Di Vittorio’, sulla Via vecchia per Gallipoli.

L’antica carrareccia della “Via te l’oju” (ph Fabio Massimo Conte)

Da qui si dirigeva verso la masseria Muntarrune piccinnu[2], dov’era la cappella di san Donato, e di là quindi verso il porto di Gallipoli dove veniva scaricato l’olio portato a dorso di mulo.

[…] « Nel ‘700 il Rev.do Capitolo di Maglie aveva l’obbligo di celebrare ogni anno una messa il 7 di agosto, giorno di san Donato, seguita da una festicciola e da fuochi di artificio»

La chiesa rupestre di “San Donato” (ph Fabio Massimo Conte)

[1] Santa Maria di Leuche, strada dalla cappella alla via vecchia per Gallipoli o “via te l’oju”, cfr. Catasto Onciario di Maglie, 1752, c.270 “Saverio Giannotta, dr. dell’una e dell’altra legge, possiede alli Conventi una chesura seminatoria e olivata nom.ta  la Madonna di Leuche  con cappella della Gloriosissima Vergine avanti”. La cappella, che esisteva ancora nella prima metà del ‘900, era nel luogo che corrisponde a quello dov’è oggi la stele votiva della Madunnina, in fondo alla via C. Palma.

Quella che erroneamente è detta ai nostri giorni chiesetta della Madonna di Leuca, sulla via omonima subito dopo le tribune dello stadio, era anticamente la chiesa di s. Andrea.

[2] «Notizie del 1752: san Donato grande seù Rio/ san Donato Piccinnu con cappella appresso e giardino / per le chiusure nom.te San Donato grande/ lo Palombaro / le Tagliate / li Càrdami / lo Balli / la chiusura seminatoria e olivata nom.ta Montarone nel luogo detto san Donato seù Rio.»

 

Notizie di Emilio Panarese, estr. da “Antica toponomastica salentina dal ‘400 al ‘700 (da fonti magliesi). Dizionario storico-filologico-etimologico” [in corso di stampa]

Musei/ Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia Decio de Lorentiis di Maglie

Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia Decio de Lorentiis di Maglie (seconda parte)

a cura di  Medica Assunta Orlando

Decio De Laurentiis

Decio de Lorentiis, figlio di Pasquale , il primo direttore del Museo di Maglie, era approdato all’esperienza museale passando attraverso un’infanzia e una giovinezza vissuta, al fianco del padre e del di lui fraterno amico Paolo Emilio Stasi – lo scopritore di Grotta Romanelli –, nell’orbita degli scavi  di Gian Alberto Blanc in questa importante cavità preistorica.  Ne respirò l’atmosfera di grandi entusiasmi e di fervida ricerca, crescendo all’ombra di uno tra i più illustri maestri della preistoria italiana, qual’era il barone Blanc – uno studioso di fama internazionale, formatosi nel Gabinetto parigino di Marie Curie – e prese parte alle diverse esplorazioni dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana anche in

Musei/ Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia di Maglie

Cultura e Salento. Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia Decio de Lorentiis di Maglie (prima parte)

 

a cura di  Medica Assunta Orlando

 

Il Museo Civico di Paleontologia e Paletnologia di Maglie è l’unico Museo salentino completamente dedicato alla ricostruzione della storia più antica di questo territorio.

Sorto in un periodo in cui il maggiore interesse per le collezioni di epoca classica realizzava, nel Meridione, nuove strutture museali in cui la Preistoria veniva confinata al ruolo minore di “esposizioni di epoca precedente”, una sorta di antefatto o di prefazione al vero fulcro di questi musei: le collezioni magnogreche, esso è il solo – e spesso anche in solitudine – a fare della Preistoria l’obiettivo fondante delle sue esposizioni e delle sue azioni educative, rivendicando il ruolo disciplinare e conoscitivo della più antica storia del territorio, certamente nei confronti degli studiosi e degli appassionati del settore, ma principalmente verso la collettività

Il Labirinto metrico di Oronzo Pasquale Macrì

Poesia visiva. Il Labirinto metrico del magliese Oronzo Pasquale Macrì (1738-1827)

 

di Cosimo Giannuzzi

 

Oronzo Pasquale Macrì (1738-1827) fu un sacerdote ed insegnante di matematica nei seminari ecclesiastici di Otranto e Gallipoli. Maglie, suo paese di nascita, ha eluso per più di un secolo l’obbligo morale di mostrargli riconoscenza, pur essendo il Macrì di gran lunga più meritevole di considerazione dei tanti suoi detrattori ai quali nel tempo sono state intitolate strade, piazze, opere pubbliche.

Quando era in vita, godette della stima di alcuni fra i più autorevoli intellettuali del Salento come S. Panareo, B. Ravenna, L. Maggiulli. Quest’ultimo ne raccolse gli scritti e ne curò la biografia, pubblicata nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto. O. P. Macrì è stato il primo ad interrogarsi sull’origine di Maglie credendo, a torto o a ragione, di riconoscerla attraverso l’interpretazione del toponimo.

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