100 anni per il Comune di Melissano

di Fernando Scozzi

 

14 aprile 1921 – 14 aprile 2021 

Cento anni fa la Frazione Melissano diventava Comune, ma l’autonomia amministrativa non poteva risolvere i problemi causati dalla carenza di risorse economiche e dalla scarsa coesione sociale

 

Le vicende storiche di Melissano possono essere paragonate alle vicissitudini  dell’ultimo pulcino della nidiata che, per essere più debole degli altri, non ha la forza per pretendere la sua porzione di cibo e quindi deve accontentarsi degli avanzi. Di conseguenza, cresce più debole e questo suo handicap lo segna per tutta la vita. Il paragone è utile per comprendere la storia di Melissano, ultimo “arrivato” fra i paesi limitrofi, tanto è vero che il feudo melissanese fu separato da quello di Casarano ed assegnato al cavaliere Romeo Piex solo nel 1269, periodo in cui la maggior parte dei paesi di Terra d’Otranto erano già strutturati.

Per il nuovo feudo furono ritagliati solo 1250 ettari, confinanti  con il feudo di Ugento (che di ettari ne contava quasi 10.000) e con i territori di Matino, Racale, Taviano e Casarano dalla cui serra le acque piovane, scendendo a valle, formavano vasti acquitrini. Tutto ciò rese difficile l’insediamento umano che avvenne con grande ritardo rispetto ai paesi limitrofi e, per giunta, fu interrotto nel 1412, quando il casale fu abbandonato  prima che le milizie di Giacomo Caldora, al servizio della regina Giovanna di Napoli, scendessero nel Salento per distruggere i possedimenti degli Orsini del Balzo, fra cui Melissano.

Così, il feudo ritornò nelle sue condizioni originarie e fu ripopolato con difficoltà tanto che solo alla fine del 1500 risulta abitato da un centinaio di “bracciali”. Costoro, dovevano comunque misurarsi con le problematiche del primo periodo di vita del casale, aggravate dall’ulteriore ritardo con il quale Melissano ricominciava la sua storia.  Fra l’altro, mentre nei paesi limitrofi la presenza dei proprietari dei feudi trainava in qualche modo lo sviluppo dei territori, il marchese di Specchia e signore di Melissano, Don Andrea Gonzaga, risiedeva nel capoluogo del marchesato e l’unico motivo di interesse per il casale era quello della riscossione delle decime.

L’antico stemma civico di Melissano raffigurato nella ex-chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova

 

La situazione migliorò con i De Franchis (acquirenti del feudo melissanese nel 1618) che, comunque, preferirono abitare a Taviano dove, anche con il ricavato dei balzelli imposti ai melissanesi contribuivano allo sviluppo del capoluogo. Il casale, invece, languiva nelle sue condizioni misere originarie. Ma lo scarto fra Melissano e gli altri paesi  si aggravò ulteriormente quando l’olivicoltura, attività non confacente alle caratteristiche pedologiche della maggior parte dei terreni melissanesi,  divenne la principale fonte di reddito della Terra d’Otranto.  Cosicchè, mentre i feudi degli altri paesi si coprivano di uliveti e la commercializzazione dell’olio lampante determinava la formazione di una classe di proprietari terrieri e di commercianti interessati allo sviluppo urbanistico dei propri luoghi di residenza, Melissano, ancora agli inizi del 1800,  aveva più l’aspetto di una grande masseria che di un paese: pochi vicoli ricalcanti gli antichi sentieri campestri, un grappolo di casupole affacciate sulla campagna, la chiesa parrocchiale ed una casa a due piani, di proprietà del feudatario, che agli occhi dei melissanesi sembrava un castello. D’altronde, il tessuto urbano esprimeva la povertà dei 500 abitanti che si dedicavano ad un’agricoltura di sussistenza, fra carenze alimentari ed epidemie ricorrenti.

Melissano, anni Cinquanta – Piazza del Mercato Vecchio (foto Velotti)

 

La situazione peggiorò nel decennio francese quando Giuseppe Bonaparte riformò la ripartizione amministrativa del Regno di Napoli sulla base del modello francese e con decreto reale n. 922 del 1811 stabilì, fra l’altro, che il borgo Melissano, non avendo i requisiti per l’autonomia amministrativa, doveva essere aggregato al Comune di Taviano.

Le conseguenze dell’unione furono gravissime per lo sviluppo economico e sociale del paese perché i melissanesi dovettero attendere ben 110 anni per ottenere l’autonomia amministrativa. C’era una sola strada per uscire da questa situazione di subalternità e fu tentata nel 1850 quando ”i naturali di Melissano chiesero di separarsi dal Comune di Taviano per reggersi in isolata amministrazione”.

Il paese contava in quel periodo 981 abitanti, ma per esercitare l’elettorato attivo e passivo era necessario avere una rendita imponibile annua di almeno 12 ducati, per cui gli eleggibili si riducevano a sole 35 unità. Inoltre, le entrate comunali raggiungevano appena la somma di  307 ducati, importo insufficiente per fronteggiare le spese del nuovo Comune. Il Consiglio di Intendenza, quindi, respinse la richiesta proprio per l’estrema povertà del paese che, per molti aspetti, non era ancora uscito dalle nebbie del medioevo.

Melissano negli anni Cinquanta (foto Velotti)

 

Il monotono scorrere del tempo fu rotto dagli eventi che nel 1860 condussero il Mezzogiorno all’unificazione nazionale,  ma anche in questa occasione (come dalle riforme del periodo francese) i melissanesi non trassero alcun giovamento perché la politica accentratrice dello Stato Unitario comportò la chiusura dell’Ufficio dello Stato Civile, dell’Ufficio di Conciliazione e perfino della farmacia. Ormai, solo la Parrocchia rimaneva a testimoniare l’esistenza della Frazione.

Tuttavia, l’identità melissanese, fattasi strada fin dall’inizio degli anni Settanta, andava sempre più consolidandosi in relazione alla disponibilità di  risorse economiche provenienti dalla viticoltura. La grande espansione della superficie vitata si ebbe allorchè i vigneti francesi furono devastati dalla fillossera e quindi la forte richiesta di vini da taglio proveniente d’oltralpe indusse gli agrari pugliesi a procedere rapidamente a nuovi impianti, dissodando vaste aree boscose o incolte e sfruttando l’enorme forza-lavoro dei braccianti.

Melissano non rimase estranea a questa rivoluzione colturale tanto è vero che proprio quei terreni inidonei alla olivicoltura, furono coperti da vigneti e  divennero il principale fattore di ricchezza del paese. Lo sviluppo della viticoltura favorì, fra l’altro, la formazione di un gruppo di piccoli e medi proprietari terrieri indispensabile per la crescita della Frazione. Contemporaneamente, si aprirono nuove possibilità di lavoro per contadini, artigiani e commercianti che si trasferirono a Melissano dai paesi limitrofi e dal Capo di Leuca contribuendo ad uno straordinario aumento del numero degli abitanti ed alla costituzione di una classe bracciantile che caratterizzerà per lunghi anni le vicende socio-economiche di  Melissano.

Melissano, anni Novanta del secolo scorso. Vigneti in località “Franze” (Foto F. Scozzi)

 

Lo sviluppo della viticoltura determinò importanti conseguenze anche a livello amministrativo perchè all’insofferenza per il trattamento ricevuto dal Comune di Taviano, si aggiunse la diversificazione degli interessi economici fra le due Comunità. Tutto ciò spinse i viticoltori melissanesi ad intensificare i rapporti commerciali con Casarano (centro vitivinicolo fra i più importanti della provincia) ed a chiedere la separazione da Taviano.  Quindi,  dal 31 dicembre dello stesso anno, la Frazione Melissano veniva aggregata al Comune di Casarano.

Alla fine del XIX secolo, dunque, l’economia di Melissano era in pieno sviluppo, tanto è vero che fu possibile iniziare la costruzione della nuova chiesa parrocchiale, simbolo della fede operosa dei melissanesi. Ma il relativo benessere e l’eterogeneità della maggior parte della popolazione (proveniente da paesi diversi e quindi priva di una storia comune) contribuirono all’acuirsi di una serie di problematiche che impedirono  l’ulteriore crescita economica e sociale del paese. La divisione della comunità trovava la sua massima espressione nel gruppo consiliare melissanese e ciò consentiva al Comune di Casarano di rinviare la realizzazione di opere pubbliche indispensabili per la civile convivenza nella Frazione: orologio pubblico, ufficio postale, edificio scolastico, viabilità interna, ecc….

Le difficoltà aumentarono nel secolo successivo quando la Comunità melissanese andò sempre più differenziandosi al suo interno con la costituzione di due fazioni capeggiate, rispettivamente, dal prof. Luigi Corvaglia e dall’avv. Felice Panico.

L’avv. Felice Panico, primo sindaco di Melissano

 

Lo scontro assunse toni molto aspri e fu alimentato non solo dalle critiche che il Corvaglia avanzava nei confronti del Panico (referente del Comune nella Frazione) ma anche da rancori personali e familiari. Questa situazione di sostanziale equilibrio delle forze impedì l’ulteriore sviluppo della comunità melissanese che non volle riconoscersi in un leader in grado di portare avanti le esigenze del paese che contava, ormai, 3.000 abitanti. Anche per questo, si erano create le condizioni previste dalla legge per la concessione dell’autonomia amministrativa alla Frazione che fu sancita dalla legge n. 496 del 14 aprile 1921.

Doveva essere l’occasione per recuperare il tempo perduto in decenni di dipendenza amministrativa, ma il nuovo Comune nasceva con un debito di L. 4.000 nei confronti di Casarano, con la necessità di retribuire gli impiegati e di costituire al completo l’ufficio comunale senza che fosse previsto alcun aiuto finanziario da parte dello Stato.

In quel periodo, le entrate dei Comuni provenivano quasi esclusivamente dalla sovrimposta sui terreni; ma Melissano poteva riscuotere ben poco, considerato che il suo feudo era costituito da soli 1250 ettari, compreso l’abitato. Pertanto, l’autonomia amministrativa aumentò le difficoltà che avevano caratterizzato la storia della comunità melissanese fin dalle origini. Soprattutto per questo, i nuovi amministratori, compresi i fratelli Corvaglia (che fino a pochi mesi prima avevano assunto un ruolo progressista nella comunità) rigettarono in blocco le proposte del commissario prefettizio, avv. Edoardo Poli, il quale “aveva sognato di trasformare una povera borgata campestre in una capitale” solo per aver fatto progettare l’edificio scolastico ed il macello pubblico e per avere assunto due netturbini. D’altronde, per i consiglieri comunali la gestione della cosa pubblica melissanese consisteva soltanto nel “coprire le esigenze imprescindibili per il regolare funzionamento dei pubblici uffici”.

Su queste premesse si realizzò un’effimera unità fra gli antichi avversari e quindi la maggior parte dei consiglieri comunali elessero primo sindaco di Melissano l’avv. Felice Panico, mentre i fratelli Luigi e Michelangelo Corvaglia furono eletti assessori. Tutti d’accordo, quindi,  ma solo per pochi mesi perché la riproposizione dei contrasti fra il Sindaco e l’assessore Luigi Corvaglia causarono lo scioglimento del Consiglio Comunale e la nomina di un Commissario prefettizio. In realtà, l’autonomia amministrativa aveva accentuato gli antichi problemi della comunità melissanese che riemersero con maggiore evidenza negli anni Cinquanta e Sessanta, quando lo sviluppo economico fu reso possibile soprattutto per le rimesse degli emigranti, mentre la divisione sociale trovò nuove motivazioni dallo scontro fra i partiti politici.

Oggi, la situazione sociale ed economica del paese è così cambiata che sembrano trascorsi secoli da quel 1921: la viticoltura è ormai un ricordo del passato, la popolazione diminuisce, l’economia del paese trova gran parte delle risorse negli interventi previdenziali ed assistenziali.  Tuttavia, è importante ricordare, perché dalla conoscenza delle vicende del passato possiamo trovare nuovi stimoli per rinsaldare il senso di appartenenza alla Comunità.

 

Bari e Lecce. Psicologia di una diversità

 

Lecce, particolare della facciata di Santa Croce (ripr. vietata)

di Luigi Corvaglia

Mario Sansone, che, da critico letterario, era uso a guardare in profondità e che, da oriundo proveniente della non lontana piana dauna, poteva vedere Bari con occhi non nativi, ebbe a dire che questa è città “senza ironia e senza malinconia”. Non una critica. Una efficace, fredda, tagliente rasoiata descrittiva. Da oriundo salentino, non riuscirei a trovare maggiore sovrapponibilità fra questa fendente condensazione semantica e quanto, fino alla lettura di questa definizione, percepivo senza sapere esprimere. Un’epifania. Ecco. Questo volevo dire tutte le volte che farneticavo, sotto sguardi sempre più perplessi, di una seriosità ilare che copula con una tristezza rabbiosa. Lo so, non si capisce. Appunto. Sguardo profondo e occhi non nativi servono a vedere, non a descrivere. Sansone mi è venuto in soccorso. Fatto è che questa definizione, nel suo essere il preciso negativo della fotografia della città che nelle Puglie è il contraltare storico del capoluogo regionale, cioè Lecce, mi permette di riflettere sulle differenze profonde tra i territori di cui le due città sono riferimenti storici e amministrativi.

Lecce la sapevo descrivere molto bene anche prima di conoscere il giudizio di Sansone su Bari. La città salentina è luogo di straripante ironia e sottile malinconia. E’ riflettendo su questo che diviene immediatamente comprensibile, al di là di lingue e campanili, al di là di ripicche storiche e calcistiche, di orgogli snobistici e fierezze mercantili, la lontananza incolmabile fra Puglia e Salento. Non di distanza culturale trattasi, bensì di contrapposizione psicologica.

Questo un “forestiero” non lo capirà mai. Non capirà che la

Leuca luogo dell’anima e del ritorno. Leuca come le colonne d’Ercole

di Antonietta Fulvio

“E tornerà

 il bianco per un attimo a brillare

 della calce, regina arsa e concreta

in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa

 d’acque ai piedi d’un faro.

 È qui che i salentini dopo morti

 fanno ritorno col cappello in

testa”

(Finibusterrae, V. Bodini)

Il luogo dell’anima e del ritorno. Così descriveva Leuca il poeta Vittorio Bodini nella sua “Finibusterrae”. Dal greco leucos, che è bianco ma anche fantasmagorica visione, riprendendo una nota leggenda, secondo la quale se non ci si reca a Leuca da vivi, bisognerà tornarci da morti, prima di salire in cielo. Passaggio verso l’infinito. Una sorta di porta per il Paradiso.

E non può definirsi che paradisiaca la visione dell’alba a Leuca con il sole che si leva dall’Adriatico, così al tramonto quando il disco solare si inabissa lentamente nelle acque dello Jonio.

Qui dove la terrà è sospesa tra il cielo e l’antico Mare nostrum, verso il quale si protende questo lembo d’Italia, il panorama toglie il respiro, azzera il pensiero ed entra per sempre negli occhi…

Leuca è luce, la luce abbagliante che sembra aver ispiratola Metafisica a Giorgio De Chirico, è terra, pietra che corre verso il mare frastagliandosi in mille insenature che da millenni si lasciano scalfire dalle acque facendosi porto per naufraghi e pellegrini.

Ci sono luoghi che entrano dentro. Nell’anima. Che fanno vibrare il cuore come le corde di uno Stradivari e la musica è l’incantevole preludio di un sogno. Un sogno bianco come le scogliere di Leuca, della sua Marina tempestata di grotte misteriose e di atavici approdi.

Qui trovò riparo Enea, scrisse il poeta Virgilio, nel terzo libro dell’Eneide: “Dalla marina d’Oriente un seno/ curvasi in arco, e contro ai massi opposti / delle rupi, le salse onde spumose/ s’infrangono. Celato ad ogni vista/ si spazia il porto interior; di cui/ dall’un fianco e dall’altro un doppio muro/ si protende di scogli, e dentro terra/

Giulio Cesare Vanini e Francesco Paolo Raimondi, filosofi taurisanesi (seconda parte)

oma, Ettore Ferrari, Giulio Cesare Vanini (1889), Foto Giovanni Dall’Orto

di Maurizio Nocera

… Ma lasciatemi prendere qui un po’ di spazio per riportare le parole con le quali Francesco Paolo Raimondi descrive, nella sua “Cronologia della vita e delle opere” (pp. 295-313), i tragici ultimi momenti di vita dell’Ateo Salentino: «1619 […] Sabato 9 febbraio: il procuratore generale [di Tolosa], François Saint-Félix d’Aussargues, convoca di primo mattino in seduta plenaria la “Grand’ Chambre” e la “Tournelle”, sotto la presidenza di Gilles Le Masuyer. Il processo è ormai giunto allo snodo finale. Guillaume de Catel, avvocato e noto storico tolosano, pronuncia l’arringa contro Vanini. Se è, in qualche misura, credibile la versione consegnataci da Gramond, la sua linea accusatoria sembrerebbe tradire la conoscenza del “De admirandis”. […] Votata a maggioranza, nel suo scarno dispositivo, essa stabilisce il taglio della lingua dell’imputato, il suo strangolamento, il successivo rogo e lo spargimento delle ceneri al vento./ Pronunciato l’ “Arrest de mort”, per la sua esecuzione i poteri ritornano nelle mani del “Capitole” che, prima del crepuscolo della sera, fece innalzare in tutta fretta il patibolo. […] Prelevato dalla “conciergerie” [portineria], Vanini è condotto davanti alla “Grande Port” della basilica di Saint-Etienne. Egli è fiero e nello stesso tempo ribelle, votato come in altre circostanze al martirio, consapevole che l’iniqua sentenza lo aveva d’un tratto elevato alla dignità del filosofo. Forse per un istante passò per la sua mente il ricordo delle altre vittime della filosofia, scrupolosamente citate nei suoi scritti e, al commissario, che lo prelevò dalla prigione, rispose con fermezza in lingua italiana: “Andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo”. La scena si svolse come da copione. Egli fu tradotto in camicia su un carro su cui era sintetizzata la sentenza: “Atheiste et blasphemateur du nom de Dieu” [Ateo e bestemmiatore del nome di Dio]. […] Imponendogli di stare in ginocchio e di tenere in mano una torcia accesa, il commissario del Parlamento gli ingiunse di fare “amente honorable” [onorabile ammenda] a Dio, alla giustizia e al Re. Ma Vanini gli oppose un orgoglioso rifiuto. L’ufficiale gli rinnovò l’invito e […] il Salentino, dichiarando scopertamente il suo ateismo, gridò: “Non esiste né Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro non ne farò nulla”. Il macabro rito riprese secondo una prassi consolidata: il corteo percorse le vie Saint-Etienne, Croix-Baragnon, Place Roueaix, rue de la Trinité e giunse, attraverso la Grand’rue, alla Place du Salin./ La fermezza e la fierezza del Vanini sorpresero e sconvolsero i testimoni. Giunto sul patibolo, gli fu fissata la testa al palo. Per una sorta di istinto naturale si rifiutò di porgere spontaneamente la lingua al boia, che si vide costretto a strappargliela con la forza delle tenaglie. Ancora grondante sangue, il corpo fu appeso alla forca e poi gettato sul rogo. Quando le sue spoglie mortali furono consumate dalle fiamme, le ceneri furono sparse al vento, affinché non restasse di lui alcuna traccia.

Tutte le fonti, anche quelle più invelenite contro l’ateo pertinace, non poterono fare a meno di rilevare la grandezza del suo carattere e la sua incrollabile tenacia. Agli spettatori sbigottiti egli offrì un mirabile esempio di quella risoluta fermezza che si credeva poter essere dettata solo dalla fede profonda dei martiri cristiani» (v. pp. 310-312)

Ho riportato questa lunga citazione della ricostruzione storica della crudele fine di Vanini, scritta dal curatore del libro, perché in essa è vivamente percepibile l’intimo pathos dello scrivente. Sorprendentemente, mi sembra di trovarmi davanti ad una sorta di nemesi storica: qui, in questa stessa città nella quale, tra la notte del sabato 19 e la domenica 20 gennaio 1585, nacque il grande Taurisanese, ritroviamo oggi un altro filosofo (Francesco Paolo Raimondi) che, dedicando l’intera vita agli studi, ha saputo ridare onore e

Luigi Corvaglia (Melissano, 1892 – Roma, 1966) non solo letterato

Luigi Corvaglia: non solo letterato

Impegno sociale e fedeltà agli ideali repubblicani caratterizzarono la vita dell’autore di Finibusterre

 

di Fernando Scozzi

“Prigioniero del compito”. Luigi Corvaglia nella sua biblioteca di Melissano

Di Luigi Corvaglia (Melissano, 1892 – Roma, 1966) si conoscono le opere filosofiche e letterarie, lo spirito critico e l’ardore polemico; ben pochi conoscono, invece, il suo impegno sociale che si manifestò non solo nell’attività di amministratore comunale, ma anche in quella  di imprenditore.

Fin dal 1910, studente universitario del primo anno di Giurisprudenza, si iscrisse al P.R.I. rimanendo fedele per tutta la vita all’Idea mazziniana di Giustizia e Libertà. (1) Rivendicò i diritti della comunità melissanese spesso sacrificati alle esigenze del Comune capoluogo e agli interessi di pochi notabili locali.  Nel suo opuscolo Melissano (edito nel 1910) Luigi Corvaglia invitò i concittadini all’unità: Unitevi figli del popolo, emancipate la frazione elevandola a Comune indipendente.  Auspicò l’associazione dei  lavoratori nei rischi e nei vantaggi della proprietà terriera; chiese ai contadini di mandare  i propri figli a scuola, tutti i figli, sopportando anche la miseria, poiché nella evoluzione progressiva della società, li renderete capaci di seguire il progresso universale. Accusò il sindaco di Casarano di aver privato la frazione di servizi pubblici indispensabili: per due anni, o Signori, Melissano è rimasta senza guardie, senza custode pel cimitero, senza spazzino e perfino senza levatrice.

 In realtà, le critiche di Luigi Corvaglia non erano dirette all’amministrazione comunale, ma all’avv. Felice Panico (assessore delegato della frazione) il cui potere economico pervadeva la società melissanese e impediva l’affermazione di una classe di professionisti che intendeva guidare lo sviluppo della comunità melissanese.

In occasione delle elezioni politiche del 1915, Luigi Corvaglia si schierò con Nicola Marcucci ed avversò il deputato uscente Antonio De Viti De Marco perché – scrisse in un manifesto –  il Collegio esige che sia liberato dall’incubo che  l’opprime: l’ambizione, il disprezzo verso gli umili, il favoritismo agli alti eunuchi del privilegio.(2)

Con una serie di fogli pose all’attenzione degli amministratori comunali e soprattutto dei suoi concittadini (dei quali auspicava la redenzione umana e civile) le esigenze della Comunità melissanese, evidenziando la necessità dell’approvvigionamento idrico dell’abitato, l’importanza del piano regolatore, della pubblica illuminazione, della viabilità urbana e rurale. Nel 1920, di fronte alla volontà dell’amministrazione comunale di impegnare le risorse finanziarie in tutt’altra direzione, Luigi Corvaglia propose un referendum  per conoscere se prima di erogare il denaro pubblico in opere voluttuarie non convenga, per per senso di dignità e di igiene, provvedere alle esigenze più urgenti e sistemare le vie interne, rese per l’abbandono impraticabili. Se non convenga di più dare al paese il suo accesso logico alla stazione ferroviaria, ordinando lo sviluppo delle vie che di giorno in giorno si sviluppano senza nesso e sistema. Se prima delle opere sciagurate progettate dal Comune di Casarano, giovi un edificio scolastico e lo sanno i figli dei poveri ed i poveri insegnanti, che marciscono d’inverno e soffocano d’estate, in abituri miserabili. (3)

In vendita. Dopo la morte della figlia, Maria, la casa di Luigi Corvaglia è in vendita; che fine farà il materiale bibliografico e documentario dell’autore di Finibusterre?

 

Dopo la grande guerra, alla quale partecipò con il grado di tenente,  si impegnò per l’autonomia della frazione e quando nel 1923 Melissano divenne Comune, fu nominato assessore. Era l’occasione per far recuperare al paese il tempo perduto in secoli di dipendenza amministrativa;  invece,  nel volgere di pochi mesi, i contrasti con il sindaco, avv. Felice Panico, determinarono lo scioglimento del primo consiglio comunale. Invano, Luigi Corvaglia chiese al prefetto di fare piena luce sulle Questioni morali di Melissano; (4) inutilmente si appellò al patriottismo dei reduci,  perché l’affermazione del movimento mussoliniano e la nomina del fascista podestà  Luigi Sansò, misero a tacere ogni polemica e seppellirono nell’archivio della prefettura le carte dell’inchiesta, con le denuncie, i manifesti e le richieste del filosofo melissanese.

Luigi Corvaglia, quindi,  si ritirò a vita privata, non aderì al fascismo e si dedicò agli  studi filosofici e letterari. Infatti, dal 1925 al 1931, pubblicò le commedie (La Casa di Seneca, Rondini, rappresentata a Lecce nel teatroPaisiello”, Tantalo, Santa Teresa e Aldonzo);  nel 1934 diede alle stampe Vanini, edizioni e plagi, l’anno successivo scrisse un saggio su Vanini e Leys per la rivista crociana La Critica.

Contemporaneamente si dedicò all’imprenditoria: aprì uno stabilimento vinicolo, un molino ed un panificio, bonificò 200 ettari di terreno incolto e malarico facente parte della masseria “Marini”, situata a due passi da quel mare Jonio che fece da sfondo al suo romanzo Finibusterre.

Fu uno dei fondatori della Cantina Cooperativa e dell’Unione Agricola di Melissano, costituite per sottrarre i rurali (così definiva i lavoratori della terra, rivalutandone la funzione) allo strapotere contrattuale degli acquirenti di uva.

Terminata la seconda guerra mondiale, egli fu nuovamente chiamato a far parte della giunta comunale di Melissano ed essendo uno dei fondatori del P.R.I. a Lecce,  fu candidato nella lista repubblicana per l’Assemblea Costituente: battaglia di testimonianza in una provincia tra le più monarchiche d’Italia e così lontana dal partecipare alla formazione di quella  coscienza nazionale che Luigi Corvaglia auspicava nei Quaderni Mazziniani. Il Nostro, infatti, fu votato solo dal 10% degli elettori melissanesi, mentre in ambito circoscrizionale conseguì 562 preferenze su 6.970 voti di lista.

L’insuccesso elettorale e il dissenso con Randolfo Pacciardi (segretario nazionale del P.R.I.)  segnarono il distacco dalla politica, vista, ora, come gioco del parteggiare, vecchio tristo gioco italico, che consente ancora una volta di essere contro qualcuno(5) e come regno dei partiti nei quali si perpetua la gestione del potere fine a sè stesso. Tra l’altro, i suoi interessi culturali lo rendevano quasi “estraneo” alla comunità melissanese; anche per questo si trasferì a Roma dove, frequentando le biblioteche Casanatense, dei Lincei, Nazionale e Vaticana, approfondì gli studi di filosofia rinascimentale e scrisse una grande quantità di opere, molte delle quali rimaste inedite. Solo d’estate ritornava a Leuca per abitare in  compagnia degli “Dei Terminali”, ai quali aveva dedicato la sua villa.

Ma, nonostante la lontananza, Luigi Corvaglia non dimenticò mai il suo paese, lo testimonia anche la lettera seguente nella quale egli constata amaramente la distanza che lo separa da Melissano e ne sintetizza le vicende degli ultimi cinquanta anni, nelle quali è facile intravedere un acherontico retaggio, causa dei tanti problemi della comunità melissanese. La lettera, datata Roma, 27 febbraio 1958, è indirizzata al sindaco di Melissano, avv. Elio Santaloja, che aveva chiesto al Corvaglia notizie sullo stemma civico:

Caro Elio,

    lo stemma che ha Melissano è quello di Casarano. Quando il paese fu eretto Comune autonomo, i Commissari (io, l’avv. Felice Panico e il dott. Vito Caputo) chiedemmo alla prefettura l’autorizzazione ad assumere come stemma quest’impresa: un cespuglio di melissa in fiore, su cui un’ape si libra cogliendo il polline; intorno, in cartiglio, la scritta “Apis non vespa”. Che il motto non piaceva per il suo mordente, proponemmo in subordine un tratto dell’ape oraziana. Ma a quei tempi montava la marea fascista e la prefettura bocciò la proposta in odium auctoris. Così restò l’impresa casaranese della quercia, con la serpe che sale per il tronco, vieto motivo dell’iconografia araldica italiana. “Impresa cesarea”, secondo i facili etimi che ritrovano Cesare alle origini del paese di Papa Tomacelli, Ottavio a quelle di Taviano, Eraclio a quelle di Racale e sciolgono in prae-siccum Presicce, in ricca d’acqua Acquarica, o appiccicano le ali ad Alliste, marchianamente ignorandone l’origine greca della bellissima, rimasta nel nome dialettale “Kaddhiste”, ecc… .

     Per l’impresa di Casarano c’è pero un’altra versione meno aulica. Essa trae l’etimo dal gergo, per metatesi, da casara, alias sacàra, il che spiegherebbe la presenza della serpe che monta per raggiungere i nidi della chioma dell’albero. Se così fosse, bisognerebbe conservare quest’impresa ch’è così congeniale anche a Melissano, per via del rettile.

Caro Elio, sorvola su questa nota, che a dirla col De Bonald, mi suggerisce la “collera dell’amore”, verso il mio paese natale, sempre e ancora a me diletto, ma purtroppo così remoto da come io l’avrei voluto. E se ti riesce, dai pure  a Melissano uno stemma tutto suo; ma sovrattutto risveglia intorno a te la gioventù non ancora decrepita per ridare al paese la sua tradizione di serietà, di onestà e di intelligenza operosa. Luigi Corvaglia.

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(1)     La fedeltà alle idee mazziniane venne richiamata dallo stesso Corvaglia nel suo epitaffio, trascritto  sulla lapide affissa dal Comune di Melissano sulla casa dell’illustre studioso:

Luigi Corvaglia

Letterato

Trasfigurò in religione umana

Finibusterre

Del pensiero rinascimentale

Trasse alla luce obliterate sorgive

In tempi scardinati

Vivendo intrepidamente fedele

All’idea mazziniana

Di Giustizia e Libertà

(2) “Vigilia elettorale nel collegio di Gallipoli”, manifesto di L. Corvaglia, datato 19.3.1915.

(3) “Per un referendum”, manifesto di L. Corvaglia, datato aprile 1920.

(4) “Le Questioni Morali di Melissano”, manifesto di L. Corvaglia, datato 6.12.1924

(5) “L’acherontico retaggio (con elogio della vita comune)” , Matino, S. A. Tipografia, 1945  (« Quaderni mazziniani », n. 3).

 

Il Salento nella produzione letteraria di Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966)

La cultura del territorio salentino nella prima metà del Novecento

Il Salento nella produzione letteraria di Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966)

 

di Enrico Gaballo

Spigolando nella copiosa produzione letteraria di Luigi Corvaglia[1], il Capo di Santa Maria di Leuca, è descritto e raccontato in modo originale, straordinario e meraviglioso in “Finibusterre”, romanzo “tutto salentino” pubblicato nel 1936 a Milano per la “Società anonima Dante Alighieri”[2] e ristampato da Congedo Galatina 1981, con prefazione di Donato Valli.

Il Capo di Leuca “ai confini del mondo” una delle tante “Mirabilia Italiae”, è descritto con scultorei colpi di penna così: “entro la malìa di un mare di turchese è disteso il Capo scheletro gigantesco. Lo spazza il vento e lo dilava la pioggia; la roccia calva si trascina carponi al mare. Le spiagge flagellate e rose (quasi rosicchiate dal mare) si estendono entro una luce violenta che le illumina senza ombre”[3].

La descrizione del Capo di Leuca è un luminoso affresco, coreografia naturale, vasto palcoscenico entro cui “si muovono gli uomini assorti, come seguendo il ritmo lento di questa monotonia”[4].

Il romanzo “Finibusterre” è rappresentazione di personaggi “che parlano sottovoce o urlano, ma il loro vero linguaggio è ruminazione silenziosa”[5].

Il protagonista della “istoria” è Pietro, “un giovanottone” salentino

Leggendo Luigi Corvaglia…


di Gianni Ferraris

 

Ah le differenze. Leggo Corvaglia e le sue riflessioni  psicologiche su baresi e leccesi, leggo e imparo. Come ogni cosa scritta con il cuore ti invita a volare. Il pragmatismo produttivo e maschio contrapposto alla “mollezza burrosa” e femminile. Che vita strana, che strane sensazioni.  Sono scivolato attraverso l’Italia intera. Dalle terre dei Savoia, si proprio quelli che hanno saccheggiato il sud,  che fra loro parlavano un forbito francese. Quelli che ci hanno lasciato eredi che, in quanto a religiosità, paiono molto più vicini a S. Vittore  piuttosto che ad altri santi. Poi sono rotolato sulla rossa Emilia

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