La brusca e lu Brusca (La brusca e il Brusca)

di Armando Polito

Quella che nel titolo di oggi può sembrare, soprattutto a chi non è neretino, ancora di più ad un non salentino, una strana coppia, probabilmente nemmeno lo è. Ma vale la pena fare un tentativo per ricostruire almeno virtualmente quel certificato di matrimonio che il tempo ha cancellato o che mai venne sottoscritto, tentativo il cui riassunto è anticipato nell’immagine di testa, poco trionfalmente per via di quel punto interrogativo.

La brusca (così tanto in italiano che nel dialetto neretino), è una spazzola molto dura utilizzata per strigliare i cavalli. La voce è per tutti concordemente dal latino tardo bruscu(m)=pungitopo. Anzitutto debbo osservare che bruscum è voce del latino medioevale, non tardo. In secondo luogo credo che brusca derivi dal plurale di bruscum, brusca appunto, che da neutro collettivo si è poi regolarizzato come femminile singolare, così com’è successo ad àcura (aguglia) che deriva da un latino volgare *àcora=aghi, dal classico acus (che è della quarta declinazione), probabilmente per analogia con i nomi neutri della terza uscenti al nominativo in –us, come tempus/tèmporis (al plurale tèmpora).

A parte questo dettaglio, debbo aggiungere che bruscum appare evidente derivazione, anzi variante posteriore,  del latino classico ruscum. Ma da dove nasce la prostesi di b-?. Potrebbe, originare da un incrocio con il latino, sempre medioevale, *bruscare=incendiare, dal quale si pensa che sia derivato l’italiano bruciare attraverso *brusicare, passato poi a *brusiare. Gli incroci quasi di regola suppongono una convergenza di fattori fonetici e semantici.    Per quanto riguarda il nostro caso i primi sono tanto evidenti che non è il caso di dire oltre, ma anche per i secondi non occorre fare voli concettuali stratosferici per capire che lo sfregamento di qualsiasi spazzola genera calore. A scanso di equivoci, però, va detto che il neretino bbruscare=irritare non si collega alla voce medioevale, peraltro ricostruita, ma è denominale da brusca.

È tempo di passare al Brusca, cioè al toponimo che a Nardò designa una villa-masseria. Chi volesse avere ragguagli storici, e non solo, troverà ampia soddisfazione nel post di Marcello Gaballo in questo stesso blog  all’indirizzo https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/22/note-storiche-e-architettoniche-sulla-masseria-brusca-in-agro-di-nardo-2/.

Qui, invece, ci chiediamo che rapporti possono esserci tra il toponimo e l’attrezzo. Intanto va detto che nel post appena segnalato è citato un atto del 1716 in cui compare Brùschia. Esso coincide con il nome comune con cui si indica l’attrezzo a Castrignano dei Greci e a Seclì. Dopo la b– di brusca rispetto a ruscum, è ora il momento della –i– di bruschia/Brusca rispetto a brusca/Brùschia. Anche qui potremmo invocare un incrocio con uschiare=bruciare (a Nardò è in uso la variante uscare) che è da un latino *ustulare (attraverso *ustlare>*usclare), intensivo da ustum, supino del classico ùrere che significa, appunto, bruciare. Ma non ce n’è bisogno perché bruschia potrebbe derivare direttamente da un *brùscula (diminutivo di bruscum) attraverso il passaggio intermedio *bruscla (come, ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli, mas=maschio>màsculus> in italiano màschio, anche se la forma dialettale màsculu è tal quale quella latina).

Ma, se questo è plausibile sul piano fonetico, come può esserlo su quello semantico? Lo è, se si pensa che moltissimi toponimi, se non sono onomastici (cioè legati al nome del proprietario), contengono il riferimento all’abbondanza in loco di una specie vegetale. Non è difficile immaginare, perciò, che Brusca nasca da brusca, per l’abbondanza (un tempo, oggi non so) del pungitopo utilizzato per realizzare primitive ma efficacissime striglie. L’ipotesi potrebbe essere confermata proprio dall’articolo maschile che accompagna il toponimo e così, anche se il rapporto tra brusca e Brusca, non sarebbe coniugale ma di figliolanza, Brusca sarebbe in buona compagnia col suo dna vegetale pensando ai toponimi lu Scrasceta (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/07/21/tra-rovi-e-more-selvatiche/) e lu Sarmenta anche loro, difficile dire che si tratti di coincidenza, con il loro bravo articolo maschile davanti ad un originario neutro collettivo .

Per Scrasceta da scrascia vedi il link segnalato, per Sarmenta aggiungo che nel nostro dialetto la sarmenta corrisponde all’italiano il sarmento, ma, mentre quest’ultimo è dal singolare latino sarmentu(m), la voce dialettale è tal quale dal plurale (sarmenta), neutro collettivo,  regolarizzato poi con l’articolo come femminile singolare. Solo che nei nostri toponimi di oggi il passaggio al maschile, secondo me, suppone un sottinteso fondo chiamato; perciò lu Scrasceta=il (fondo chiamato) Scrasceta; lu Sarmenta= il (fondo chiamato) Sarmenta e lu Brusca=ii (fondo chiamato) Brusca.

Per qualcuno la conclusione sarà pure brusca, ma, dato il tema, non poteva essere diversa …

In fuga dalla Terra d’Otranto: spunti sull’emigrazione salentina di inizio Novecento

 

di Alessio Palumbo

 

Con l’arrivo dell’estate le campagne tornano ad animarsi. La raccolta di pomodori, angurie e quant’altro, impegna una vasta manodopera, spesso immigrata. Povera gente che, in molti casi, fugge da condizioni sociali ed economiche terribili e cerca di allontanare lo spettro della fame lavorando nelle nostre campagne. Non di rado sono immigrati irregolari, pagati pochi soldi e stipati in alloggi di fortuna. Svolgono quei lavori spesso rifiutati dagli italiani, ma ciò non garantisce loro rispetto o solidarietà. Anzi, in molti casi sono esclusivamente additati come causa di disordini, come autori di atti criminosi. Sono degli indesiderati. Sono le “vittime” di chi ha una scarsa conoscenza delle proprie origini e della propria storia.

Troppo spesso, infatti, confusi da immagini edulcorate sul nostro passato, fermandoci alle rappresentazioni della campagna salentina come luogo sì di lavoro, ma soprattutto di feste contadine e di canti al ritmo dei tamburelli, dimentichiamo che anche i nostri antenati hanno vissuto l’emigrazione, lo sfruttamento, il disprezzo degli altri popoli.

da Come Eravamo: il mio Sud

Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900,  l’agricoltura del sud Italia attraversò un periodo di profondo regresso a causa sia di trattati commerciali dannosi per le colture del Mezzogiorno sia di periodiche crisi agricole, dovute tra l’altro alla diffusione di malattie parassitarie. A questa difficile situazione le popolazioni meridionali risposero, in molti casi, con l’emigrazione in Europa ed oltreoceano.

Nel Salento la crisi fu particolarmente grave, intaccando le due principali colture locali: la vite e l’ulivo. Dal 1892 in poi, interi uliveti furono colpiti da un’epidemia, la brusca, che costrinse i proprietari a sradicare numerose piante, facendole saltare in aria con la dinamite. Nel giro di pochi anni anche la vite fu infettata da una malattia parassitaria, la filossera. Ne derivò un terribile immiserimento per tutti coloro che vivevano del lavoro nei campi:la Terrad’Otranto divenne per molti una terra di disperazione.

Per tutto il primo quindicennio del secolo, una miseria terribile e diffusa impedì a gran parte del proletariato salentino persino di  racimolare il denaro necessario per emigrare oltre confine. Scriveva Francesco Coletti:

M’interessa segnalare una zona delle più disgraziate posta nel Subappennino (nei circondari di Lecce e Gallipoli), la quale ancora non fornisce emigranti: è gente isolata e denutrita, che ha paura dell’ignoto e persino stenterebbe a racimolare il peculio per il viaggio”[1]

Enormi masse di contadini cercarono quindi di sottrarsi alla fame e alla povertà spostandosi nelle campagne del brindisino, del Tavoliere e persino della Calabria. Nei borghi, flagellati dalla malaria e da periodiche epidemie di colera, rimasero le famiglie e quei pochi che potevano far a meno di emigrare. Come dimostrano le numerose inchieste dell’epoca e le denunce dei meridionalisti, gli immigrati dal basso Salento venivano alloggiati in posti di fortuna, costretti a lavorare dall’alba al tramonto, tra il disprezzo e l’astio dei contadini locali. Per i braccianti baresi e foggiani, spesso già organizzati in combattive leghe di lavoro, i leccesi erano soltanto degli affamatori che svendevano per nulla il proprio lavoro, causando così un abbassamento generale dei salari. Le carte prefettizie testimoniano le aggressioni ai danni dei contadini salentini:

“Queste immigrazioni […] danno luogo a incidenti fra gli immigrati e gli indigeni i quali temono ribassi nei salari. La cronaca deve registrare casi non infrequenti di violenze commesse a danno degli immigrati”[2]

“Gli operai giornalieri restano, di regola di notte alle masserie; le condizioni di ricovero variano da masseria a masseria. Nel migliore dei casi gli adulti maschi stanno in un locale, le femmine e i ragazzi in un altro. D’estate per molte masserie anche in siti malarici, si dorme all’aperto tutti quanti o tutt’al più in qualche capanna di paglia, nei cui angoli gli uomini si ammucchiavano”[3]

da Come Eravamo: il mio Sud

Chi rimaneva nei luoghi d’origine molto spesso viveva di stenti. Gli scarsi sussidi del governo, le cucine economiche per i più poveri, l’opera di alcune società di mutuo soccorso e di enti benefici, rimanevano semplici palliativi per una situazione drammatica. Alcune testimonianze dell’epoca possono rendere maggiormente l’idea:

“Prolungamento piogge e deficienza lavori campestri sindaco Cutrofiano invoca concessione sussidio per distribuzione generi alimentari famiglie povere e bisognose […] anche per evitare turbamento ordine pubblico”[4]

“Sindaco Alezio invoca sussidio per impianto cucine economiche a pro contadini disoccupati. Dalle informazioni assunte risulta che causa piogge abbondanti quei terreni sono tutti allagati e quindi effettivamente vi è assoluta mancanza di lavoro con conseguente miseria della classe dei contadini”[5]

“Comune Casarano ove giorno sei corr. verificansi caso accertato colera ed ove occorre intensificare profilassi così nel capoluogo come nell’importante frazione Melissano, essendo deficienti servizi come fu constatati da ispezione medico provinciale. Chiede sussidio”[6]

Fermiamo qui la narrazione. Sono solo degli spunti per riflettere su un passato spesso dimenticato. Volendo, potremmo interrogarci sul perché di questa dimenticanza: si tratta di un passato troppo remoto per essere ricordato? O forse  talmente duro da “dover” essere dimenticato?


[1]Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana, 1911 in R. Villari, Il sud nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 1981

[2]Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini meridionali e della Sicilia – Puglie, vol III, tomo I: Relazione del delegato tecnico prof. G.Presutti, Tip. Nazionale di G.Berterio, Roma, 1909, p.170, in. F. Grassi, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Roma-Bari, Laterza, 1973

[3]Inchiesta sui contadini in Calabria e in Basilicata, in F.S. Nitti, Scritti, Bari, Laterza, 1968, p.182

[4] Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 04/03/1910, in Archivio Centrale dello Stato, M.I. Assistenza e beneficenza Pubblica, 1910-12, b.21

[5]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 28/02/1910, ivi

[6]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 10/01/1911, ivi

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