Libri| Quel Millenovecento69

Il testo, edito da I Libri di Icaro, si presenta come un romanzo di formazione, con al centro le vicende di un adolescente meridionale, Luigi, che compie la sua educazione sentimentale nell’estate del 1969.

“Lu Luigi” percorre i suoi turbamenti adolescenziali, erotici e sessuali, mentre la società si va staccando, anche a sud del Sud, dal piccolo mondo antico maschilista, governato dai patriarcati pubblici, non meno che da silenti matriarcati domestici, per convergere verso il consumismo e la cultura di massa. Attraversando i miti, i tormentoni, i feticci e gli stereotipi di quel tempo, diventa egli stesso specchio di un progresso senza sviluppo. Assistendo alla rottamazione di quello che sarebbe valso la pena conservare e al prevalere di quello che non sarebbe stato giusto approvare, il protagonista si proietta dubbioso verso l’incerto scenario successivo a un Boom che si andava esaurendo, aprendo l’Italia alle crisi socio-economiche e alla sbandata triste realtà degli anni di piombo. Unica, incrollabile e salda certezza, i rapporti personali di amicizia, lealtà, affetto e amore.

Una trama estremamente coinvolgente, che si sviluppa sullo sfondo di un meraviglioso Salento, raccontata con una sana ironia e uno stile unico.

Giuseppe Resta è nato nel 1957 a Galatone, nel Salento, dove vive dopo una lunga parentesi in Toscana. È un architetto progettista, operatore culturale, blogger della prima ora, polemista su Facebook e scrittore “per necessità”. Divulgatore di architettura, storia e arte, si è sempre speso nella difesa e nella valorizzazione del territorio impegnandosi nel sociale. È membro della direzione del sito di storia medievale dell’Università di Bari. Già redattore del «Giornale di Galatone», attualmente, lo è della rivista «A Levante», che lo vede tra i fondatori. Dal 2003 a oggi è stato tutor e formatore per il servizio civile dell’UNPLI. Nello stesso anno ha pubblicato un libro sulla storia dell’Architettura del Palazzo Marchesale di Galatone. Nel 2012 ha presentato l’apprezzato libro di racconti «Scirocchi barocchi».Ha redatto diverse guide storico-turistico-enogastronomiche della sua terra e ha contribuito con saggi e racconti in numerose opere collettive.

Galatone e le sue tradizioni, tra antropologia e fede

Vernet

di Giuseppe Resta

Conoscere è importante per ricordare.

Ricordare è necessario per essere comunità.

Certi fenomeni sociali e di pietà popolare, legati alla storia e all’antropologia, oggi, dimenticate ma non perdute le ragioni dell’origine, sembrano svuotati dai significati originari. Questo porta chi non conosce la genesi di questi fenomeni a giudizi non sempre obiettivi, a volte affrettati.

Purtroppo tante delle nostre tradizioni (dal latino traditiònem, da tràdere = consegnare, trasmettere) hanno perso il messaggio significante, confondendo il percettore sul significato. E chiunque legga la tradizione con i paradigmi dell’oggi e non quelli del passato può incappare in giudizi superficiali, nati su presupposti errati.

A mio modestissimo parere la tradizione non dovrebbe essere bruscamente cancellata o violentemente modificata solo perché oggi c’è chi si dimostra incapace di leggerla, ma piuttosto bisognerebbe indagare e riscoprire i veri profondi significati che la hanno generata e trasmetterli ancora per divulgare la comprensione e rinsaldare il legame con la comunità per fortificare la socialità e la civicità.

E’ pertanto difficile, per un appartenente alla Comunità Galatea, assistere a spostamenti di significati di antiche tradizioni consolidate, senza provare, seppur nell’obbedienza, un moto di disagio.

« Le storie antiche sono, o sembrano, arbitrarie, prive di senso, assurde, eppure a quanto pare si ritrovano in tutto il mondo. Una creazione “fantastica” nata dalla mente in determinato luogo sarebbe unica, non la ritroveremmo identica in un luogo del tutto diverso » (Claude Levi Strauss)

In antropologia la tradizione è l’insieme degli usi e costumi – e dei valori collegati – che ogni generazione, dopo aver appreso, conservato, modificato dalla precedente, trasmette alle generazioni successive. La tradizione è particolarmente sentita dalle comunità minoritarie che, attraverso di essa, tendono a conservare la propria identità.

Nella teologia cattolica, la tradizione cristiana è quella approvata dal concilio di Trento, ricca anche di tutti gli eventi non provabili, ma che sono ritenuti reali dai fedeli e/o dalle gerarchie ecclesiastiche. Nella teologia cattolica la tradizione è la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, nell’atto in cui perpetua e trasmette a tutte le generazioni “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (Concilio Vat II, Dei Verbum 8).

2 maggio 2011 004

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n° 1679 <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana.>>

Un rito (o rituale) è ogni atto, o insieme di atti, che viene eseguito secondo norme codificate.

Secondo Ernesto de Martino, lo studioso italiano che tanto ha legato il suo lavoro alle fenomenologie antropologiche di questo nostro Salento, il rito aiuta l’uomo a sopportare una sorta di “crisi della presenza” che esso avverte di fronte alla natura, sentendo minacciata la propria stessa vita. I comportamenti stereotipati dei riti offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene in seguito definita come “tradizione”.

Il sociologo Emile Durkheim ha invece fatto notare come la componente iniziale religiosa del rito porti a una funzione sociale, che permette di fondare o di rinsaldare i legami interni alla comunità. Sulla stessa linea anche l’antropologo funzionalista Bronislaw Malinowski.

Diversamente gli antropologi Arnold Van Gennep e Meyer Fortes considerano primaria la funzione sociale e culturale del rito che può estendersi poi in ambito religioso.

Pertanto la sfera della “tradizione”, così come quella del “rito”, così interconnesse, rappresentano un patrimonio culturale connotante una comunità, identificandola.

<<Tutto ciò che tentiamo di pensare e in qualunque modo tentiamo di pensarlo, lo pensiamo nell’ambito della tradizione. Essa si impone quando ci libera da un pensiero che segue le cose per portarci verso un pensiero che le anticipi senza essere più un pianificare. Solo se ci rivolgiamo pensando verso ciò che è già stato pensato, ci troviamo ad esser volti al servizio di ciò che ancora è da pensare.>> (M. Heidegger- Identità e differenza-).

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, alla voce “La religiosità popolare”, n°1674: <<Oltre che della liturgia dei sacramenti e dei sacramentali, la catechesi deve tener conto delle forme della pietà dei fedeli e della religiosità popolare. Il senso religioso del popolo cristiano, in ogni tempo, ha trovato la sua espressione nelle varie forme di pietà che accompagnano la vita sacramentale della Chiesa, quali la venerazione delle reliquie, le visite ai santuari, i pellegrinaggi, le processioni, la «via crucis», le danze religiose, il Rosario, le medaglie, ecc.>>. 1679: <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana>>.

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Lo spaesamento (letteralmente!) che potrebbe derivare da una perdita di queste connotazioni sarebbe gravissimo, portando alla spersonalizzazione di una comunità, nel baratro della globalizzazione amorfa e senza elementi identificativi, verso l’incultura dei “nonluoghi”, come li definisce l’etnoantropologo Marc Augé, in contrapposizione ai luoghi antropologici. Cioè tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici; prodotti della società della surmodernità (o supermodernismo), incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte; privilegiano l’immagine e la quantità sull’essenza e la qualità.

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Due tradizioni storiche centenarie, come l’Asta, per aggiudicarsi il privilegio devozionale e sacrificale del portare in processione la statua del SS. Crocifisso, o addirittura tricentenarie, come il “carro di San’Elena”, rappresentano una connotazione identitaria forte per tutto la comunità galatea. Perderle sarebbe veramente “un peccato”.

Secondo i sociologi sono questi rituali con i quali gli abitanti del posto ripetono una tradizione che li contraddistingue da tutti gli altri paesi vicini. Dunque il tema è quello del loro valore socializzante: la festa diventa il simbolo principale della propria storia, cultura, tradizione, della propria personalità collettiva. Il riferimento alla tradizione rappresenta in tal modo il patrimonio culturale, ambientale e familiare, rivelando un popolo, la sua cultura e la sua fede.

Comprenderne la genesi aiuterebbe a preservarne lo spirito originario, sempre molto legato al culto e alla devozione sincera e, quindi, forte e “pulita”.

“Se il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli” (Karl Barth, fondatore della “teologia dialettica”)

 

L’Asta di Galatone

2 maggio 2011 004

di Giuseppe Resta

Nel 1892, a seguito di una guarigione da una polmonite (allora di polmonite si moriva), Vito Lucio De Benedetto, il guarito, insieme ai fratelli Marino, Sebastiano e Luigi, fecero realizzare la statua del SS. Crocefisso che tutti conosciamo, commissionandola a Lecce (probabilmente al cartapestaio Antonio Malecore, discepolo di Giuseppe Manzo, ma si dice anche al cavaliere Luigi Guacci. La statua non è firmata e si sono persi i documenti). Il 1° maggio del 1892 i fratelli De Benedetto andarono a Lecce con un carro, di buon’ora, per ritirarla accompagnati da 12 loro uomini di fiducia, in parte comandati, in altra parte offertisi volontari.

Tanta fu l’impressione suscitata dalla bellezza della statua, dalla sua espressione dolce e sofferente, dalla pietà e dal dolore intimo che trasmetteva, che decisero di non caricarla sul carro, ma di portarla a spalle per i circa 26 chilometri che intercorrono tra il centro di Lecce e quello di Galatone. Probabilmente, con le strade sterrate e il carro senza sospensioni, avranno pensato che tanta bellezza si sarebbe potuta sciupare o danneggiare.

Giunti a destinazione non entrarono in paese, ma si fermarono poco fuori, presso il convento della Madonna della Grazia. Qui la custodirono fino al giorno successivo, 2 di maggio, finché il vescovo Giuseppe Ricciardi la benedisse solennemente. E dal convento la statua fu portata nel centro del paese con una solenne processione, dove le si affiancarono anche le altre statue presenti a Galatone.

Da allora ogni anno, insieme alla reliquia del Sacro Legno come sempre si era fatto, si porta in processione la statua. E, siccome portarla a spalle, come “gli uomini dei De Benedetto”, è stato sempre considerato un privilegio, una devozione, un sacrificio per espiare colpe o per ringraziare di grazie ricevute o per suffragare intercessioni richieste, si decise che, per evitare discussioni – che potevano anche degenerare – si procedesse all’Asta fra squadre di portatori. Procedura diffusa, per altro, in tutto il meridione italiano.

Così si definì il rito: sei uomini del comitato dei festeggiamenti spostavano la statua dal sacello e la munivano delle tre assi (operazione complicata che prevede maestria e mestiere; cultura, insomma). Una volta guarnita del necessario per poterla portare a spalla, la presentavano alla folla sul sacrato, fermandosi sopra al primo dei tre scalini che separano il piano del Santuario dalla strada. Qui un membro anziano ed esperto del Comitato (l’ultimo a fare l’Asta in questa maniera è stato Mesciu Totu Parisi) dava inizio all’Asta secondo la formula consolidata della “candela di cera vergine” (quindi ai sensi degli artt. 73, lett. a), e 74 del R.D. 23/5/1924 n 827). Come spesso succede ed è comunemente accettato, le candele sono state sostituite da tre fiammiferi – li pospari – . Avvertiti gli astanti sulle modalità dell’Asta il banditore passava solennemente all’accensione del primo fiammifero. Partivano le prime offerte. Spento il primo fiammifero, la prima fila dei portatori della statua faceva un passo avanti scendendo il primo gradino. Si accendeva il secondo fiammifero. Stesso rito. Così fino al terzo scalino e al terzo fiammifero. Spento questo si riteneva inderogabilmente valida l’ultima offerta. Così, fra gli applausi, si poteva consegnare la statua alla prima sestina di portatori che si erano aggiudicati l’onore. E la processione poteva partire.

L’Asta così è diventata in e per più di cent’anni un segno antropologico identificativo della nostra comunità. Un segno connotante e distintivo.

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Bisogna pensare che la pratica dell’Asta per l’aggiudicazione di un qualsiasi bene è antichissima. Presso gli antichi Romani una vendita pubblica era annunciata da un’ hasta, una lancia, simbolo di proprietà, che si piantava sul luogo del pubblico incanto come segno della pubblica autorità. È proprio attraverso le aste che gli antichi romani ripartivano il tesoro conquistato in guerra. In latino esistevano le seguenti espressioni:

– sub hastā venděre, o hastae subicěre  (vendere all’incanto);

– hastam poněre (“piantare l’asta”, cioè “annunciare una pubblica vendita”) ;

– ab hastā (acquisto all’incanto);

– ius hastae (diritto di vendita all’incanto).

Nella cultura galatonese, invece rimangono di questo rito le frasi “simu rriati all’ultimo scalone” (siamo giunti all’ultimo gradino), “stae prossimu all’urtimu scalone” (è prossimo all’ultimo gradino) o “s’è stutatu l’urtimo posparu” (si è spento l’ultimo fiammifero). Tutte frasi entrate nei modi di dire popolari per definire un momento di non ritorno, la fine di un’impresa, di un’avventura, la fine infausta di una malattia, un fallimento economico, l’avvenuta o incipiente morte. Frasi che fanno capire come la ritualità dell’asta sia entrata prepotentemente e stabilmente nella tradizione di questo popolo. Ne ha rappresentato “cultura” tanto da essere assorbita dal lessico popolare.

Le aste sono la modalità di scambio sicuramente più conosciuta. Diversi tipi di merci, ma anche di titoli (come i Titoli di Stato), di contratti e diritti vengono scambiati tramite aste. La sostanza dell’asta resta sempre identica: mettere in concorrenza più agenti per l’acquisizione di una o più risorse limitate, così da realizzare una attribuzione efficace.

Di sicuro l’Asta che si è tenuta per la processione non ha messo in vendita né la statua, che rimane sempre donata al santuario, né tantomeno il Crocifisso, ma si è disputato solo il privilegio devozionale, e molto sentito, di potersi sacrificare a portare la statua per la processione. In palio è solo quel privilegio. Nient’altro.

Bisogna aggiungere che per formare le varie squadre si cominciavano a tessere relazioni già subito dopo le feste di Natale, si contattavano i partecipanti degli anni precedenti, si integravano con nuovi, molti si proponevano ai capi squadra perché avevano ringraziamenti da fare o grazie da chiedere al Crocifisso. Si stabiliva il tetto massimo di ogni quota, chi poteva “coprire” eventuali splafonature. Si accettavano anche quelli che non avevano da versare l’intera quota ma erano devoti e non potevano rinunciare a quel rito. Composta la squadra (almeno 36 persone valide, escludendo dal computo chi partecipa finanziariamente ma per acciacchi non può reggere il peso) ci si ritrovava presso un bar o uno spiazzo almeno un’ora prima dell’inizio dell’asta. Si verificano le presenze, si componevano le squadre per parità di altezza. Si sorteggiavano l’ordine di alternanza delle squadre. Si riteneva fortunata la prima squadra che iniziava per prima la processione, così come l’ultima che è quella che la chiudeva. Gli anziani o esperti del gruppo mettevano subito a conoscenza i neofiti del sistema per portare la statua senza molti danni, di come bilanciarne il peso, di come incedere sempre con lo stesso passo, come non farla ballonzolare troppo, con danni alla statua e alle spalle dei portatori. Si trasmettevano informazioni, facendo cultura. Solo dopo tutta questa preparazione di recitava una preghiera tutti insieme e si raggiungeva compatti la piazza dell’Asta. Avrebbero potuto parlare solo i caposquadra precedentemente designati. Il caposquadra principale si sarebbe messo sotto il banditore per gli ultimi rilanci e per controllare la piazza e tenere d’occhio le altre squadre.

Tutto un complesso di procedure e di sapienze che si tramandava.

Il ricavato dell’Asta, pubblico e quindi trasparentissimo e sotto gli occhi ed il controllo di tutti, è sempre andato a pagare le spese della Festa.

Tutto questo rito, vissuto con partecipazione e solennità ha avuto un grave colpo quando, negli anni novanta, in ottemperanza a decisioni prese nella conferenza episcopale pugliese, si impose – senza ascoltare e comprendere – di spostare il luogo dell’asta, svolgendola senza la statua dietro le spalle. Scelta che non solo ha ammantato di ipocrisia una centenaria tradizione (l’asta rimane, in denaro gira, si sposta solo di una piazza il luogo: occhio non vede, cuore non duole.) ma ha creato una spettacolarizzazione senza significato. Senza la presenza della statua e senza il rito dei fiammiferi e degli scalini si è svuotato il pathos della celebrazione, creando una cesura tra il significato ed il significante. Tra il sacro ritualizzato ed il profano esposto in piazza. Così in una piazza si faceva l’asta sotto le luci, consentendo a chiunque di salire sulla cassarmonica, persino a far passerelle politiche, a pronunciare discorsi, a fare comizi, a pavoneggiarsi, e nell’altra i fedeli si assembravano in attesa della partenza della processione. L’Asta ha perduto la ritualità e trasformandosi in una sorta di televendita televisiva con tanto di banditore, effetti speciali, musiche, esibizioni.

E’ chiaro che in questo ambiente liberato dalla ritualità ci sia stato chi non la letto più l’origine di questa antica usanza. Rimaneva intatto lo spirito di chi partecipava, di chi aveva conservato cultura e significante, ma chi guardava dall’esterno coglieva solo – anche giustamente – l’aspetto profano ed esibizionistico. Aspetto esibizionistico che, chiaramente, ci poteva anche essere. Ma dove non è? Però bisogna dire anche che i tentativi di alcuni personaggi politici di entrare nelle squadre per farsi vedere non ha avuto molto seguito: non è da tutti portare sulla spalla una cinquantina di chili per qualcosa in più di mezzo chilometro. La mattina seguente la spalla e la schiena facevano male. Certi personaggi per farsi pubblicità usano mezzi meno faticosi e anche a minor costo.

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Ci si è preoccupati – anche questo giustamente! – come non far avvenire che queste manifestazioni, come in altri posti succede ed è successo, fossero finite in mano a mafie e delinquenza. A Galatone tutto questo non è mai successo. (É successo invece anni fa che i fuochi di una festa parrocchiale siano stati pagati, con tanto di nome in grassetto sui manifesti, da affiliati alla Sacra Corona, qualcuno persino già tradotto in carcere. Ma di questo pare nessuno provò scandalo).

Si sarebbe potuto ovviare a questi problemi chiedendo quindici giorni prima l’elenco dei partecipanti alle squadre con una autodichiarazione (da consegnare alle autorità competenti) di verginità da procedimenti penali trascorsi o in corso. Fatto salvo che sarebbe dovuta rimanere una dichiarazione volontaria, considerato che una eventuale richiesta obbligatoria dell’elenco dei portatori delle statue da parte delle autorità civili, pur nello spirito di una opportuna e saggia collaborazione di massima, non troverebbe fondamento nel vigente sistema normativo dello Stato italiano. L’esercizio pubblico del culto, infatti, nel cui ambito ricadono anche le processioni religiose, è garantito pienamente dagli artt. 17 e 19 della Costituzione italiana. Per la Chiesa cattolica tale garanzia è stata ribadita anche nell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (L. 25 marzo 1985, n. 121) che nell’art. 2 afferma che “…è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. L’esercizio pubblico del culto tocca, pertanto, sia l’ambito proprio del diritto di libertà religiosa e del diritto di riunione, sia l’ambito dei rapporti tra Repubblica italiana e Santa Sede (art.7 Cost.).

D’altronde escamotages come l’asta in busta chiusa o l’estrazione dei partecipanti non cambierebbero o risolverebbero il problema. Anzi! Nella busta chiusa ci sarebbero comunque denari di ancora più ignota provenienza. Col sorteggio non sarebbe esclusa comunque la presenza o di mandanti di infiltrazioni malavitose.

A mio parere, pertanto, tutto considerato, forse sarebbe bene, almeno in questo specifico caso, tornare all’antico, facendo l’asta come si è fatta per più di cent’anni, con la statua e con i fiammiferi, ridando il giusto peso alla cultura ed alla storia e lasciando intatto il legame tra la sacralità e la sentita e partecipata manifestazione di pietà popolare.

D’altronde, a ben guardare, in altre realtà pugliesi le aste si fanno ancora, anche più sontuose e più spettacolari, senza che nessuno abbia pensato di toglierle. E questa discrepanza di trattamento indispone non poco i fedeli. Se il denaro è “lo sterco del Diavolo” è anche vero che, in altri casi, è buon concime, e non tanto disprezzato. Da nessuno.

Si è anche più volte notato come succeda che dei riti siano soggetti a improvvisi accessi di modernismo e/o episodi di pauperismo. Come quando in alcuni Capitoli si abolirono le vesti tradizionali delle congreghe, trasformando i confratelli in anonimi maggiordomi, mentre, dove si sono conservate, la sacralità, l’anonimato, l’effetto scenico, e quindi turistico ed identificativo, rimane sempre fortissimo.

“Se il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli” (Karl Barth, fondatore della “teologia dialettica”)

Come succede a tanti sedicenti atei che poi frequentano sette, santoni, fattucchiere, ciarlatani, o abbracciano religioni e credenze orientali o alimentari estremizzate e programmano la loro vita in base all’oroscopo.

Il Carro di Sant’Elena a Galatone

5 maggio 2011 2 037 (2)

di Giuseppe Resta

Il Carro di Sant’Elena a Galatone
(Origini, storia, ritualità, cultura, evoluzione, spettacolarizzazione e tentativi di corruzione di un rito di pietà popolare)

Tanto è stato detto sul Carro – per ogni galatonese “Lu Carru” tout court – perché tanta è la connotazione identitaria che questo evento riveste nella galatonesità e tanto antica è la sua origine.
Ma proprio questa “popolarizzazione” ha permesso che le radici originali del Carro, i motivi che hanno portato alla sua realizzazione, si perdessero tra leggende, credenze, imprecisioni, inutili polemiche prive di fondamento o basate non su di un insieme di fattori – come sempre succede nelle cose umane – ma cercando di isolare questi da quelli, secondo l’impostazione del polemista di turno.
Forse è il caso di mettere finalmente ordine.
A partire molto da lontano, non possiamo dimenticare che i primi giorni di maggio erano i giorni nei quali in tutta l’Europa si celebrava il trionfo della primavera e la ripresa della piena attività agricola fin da epoche arcaiche. Dalle lotte rituali tra Inverno e Primavera nacquero persino le giostre dei tornei medievali.
Fin dal 238 avanti cristo, tra il 28 aprile e il 3 di maggio a Roma si celebrava una festa in onore di Flora, protettrice degli alberi durante la fioritura, Dai classici sappiamo che queste feste si chiamavano Floralia.

Protagoniste di queste feste erano le prostitute scelte come simbolo di sessualità primigenia ed energia fecondatrice. Da questi riti nasce il Calendimaggio, festa corale non meno importante del Carnevale.

Nicola Cusano, capace di conciliare paganesimo e cristianesimo, nel suo trattato “La Dotta Ignoranza” afferma : << Questa è stata dunque la differenze tra tutte le genti, che tutte avevano una fede nell’unico Dio massimo… però alcuni, come i Giudei e gli Esseni, lo adoravano nella sua unità semplicissima, quale complicazione di tutte le cose, altri invece lo veneravano in quelle cose ove trovavano un’esplicazione della divinità, accogliendo quanto ci è noto ai sensi come uno strumento per ricondursi alla causa ed al principio>>.
Tralasciando tutta una nutrita serie di eventi folkloristici legati a queste feste arcaiche di maggio, nel caso specifico ci si deve meglio riferire alla “Croci di Maggio”.

Nel vecchio calendario romano al 3 di Maggio si celebrava l’Inventio Sanctae Crucis, il ritrovamento della Croce di Gesù, scoperta da Elena, madre di Costantino il 14 settembre del 326 e poi trafugata nel 614 dal re persiano Cosroe Parviz dopo la conquista di Gerusalemme e restituita nel 628 all’imperatore Bizantino Eraclio (Esaltazione della Croce). ( Vedi le Storie della Vera Croce, ciclo di episodi affrescato da Piero della Francesca nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo, databile al 1458-1466).
Secondo l’Enciclopedia Cattolica la data del 14 settembre assunse il nome ufficiale di Trionfo della Croce nel 1963, commemorando la conquista della Croce tolta ai Persiani, e la data del 3 di maggio fu mantenuta come Ritrovamento della Santa Croce, comunemente detta Invenzione della Croce.
La croce alla quale venne crocifisso Gesù sarebbe stata trovata insieme a quelle dei due ladroni scavando il terreno del Golgota. Si racconta che venne riconosciuta miracolosamente: accostando le tre croci a una malata, questa sarebbe stata guarita all’esposizione della terza. La “Vera Croce” rimase esposta a Gerusalemme; sottratta dai Persiani nel VII secolo, venne recuperata dall’imperatore bizantino Eraclio I. Nel 1187 venne portata dai Crociati sul campo di battaglia di Hattin, perché assicurasse loro la vittoria contro il Saladino; la battaglia invece fu perduta e della croce si persero le tracce per sempre.

Tuttavia nei secoli precedenti ne erano stati prelevati numerosi frammenti che sono tuttora conservati in molte chiese. Erasmo da Rotterdam ironicamente affermava che ne circolavano così tanti che con quel legno si sarebbe potuta costruire una nave.

Una recente ricerca stima invece che i frammenti oggi esistenti, messi insieme, costituiscano solo circa un decimo del volume della croce di Elena. Tuttavia la sproporzionata quantità di reliquie della Croce che vi era nei tempi passati era tanto esagerata che si trovarono diverse spiegazioni. San Paolino ne propose una miracolosa, ovvero il fenomeno “della reintegrazione della Croce”: se ne potevano staccare tutti i frammenti che si voleva, ma, a fronte di qualunque prelievo di legno, la croce restava sempre integra [The Catholic Encyclopaedia, Vol. 4, p. 524].

Nel centro-sud dell’Italia la festa delle Croci era particolarmente sentita perché cadeva quando stava per maturare il grano. Per questo si facevano grandi processioni portando una grande croce. Altre croci costruite di canne o ramoscelli venivano piantate nel mezzo di campi di frumento.
Ad Accettura, in provincia di Matera, la sagra del Maggio è una festa popolare che si tiene ogni anno in occasione dei festeggiamenti per il patrono San Giuliano. Si tratta di un antico rito nuziale e propiziatorio in cui il Maggio, un albero di alto fusto, viene unito ad un agrifoglio, la Cima, rappresentando i tradizionali culti arborei molto diffusi soprattutto nelle aree interne della Basilicata e della Calabria.

Secondo gli antropologi, queste celebrazioni sono fedeli ad uno schema presente negli antichissimi riti pagani agrari ed arborei tipici delle popolazioni contadine di molti Paesi europei e mirano a portare nel proprio paese e nella propria casa lo spirito fecondatore della natura, risvegliatosi con la primavera; rappresentano pertanto l’idea di rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva alla resurrezione della vegetazione.
Un retaggio dell’importanza rituale e stagionale delle due feste cattoliche riferite all’Inventio e all’Esaltazione della Croce è racchiusa nel detto galateo “ Da Croce a Croce”, cioè dal 3 di maggio al 14 di Settembre, quindi dalla festa del Crocifisso a quella di Cristo di Tabelle (cappella sita nel comune di Galatina in confine con quello di Galatone, molto frequentata dai galatonesi.). Con questa limitazione temporale determinata si scandiva il periodo dell’affitto dei fondi rustici, o della villeggiatura, o, più comunemente, del riposo pomeridiano.
La conservazione di usi, costumi, riti, credenze che risalgono a parecchi secoli, alcuni di millenni (i cosiddetti “Rottami di antichità” di Giambattista Vico), riveste grande importanza, dal momento che l’attuale perdurare di antiche forme di vita e cultura, testimonianze di un passato assai remoto, riveste il fenomeno di un significato e di un valore veramente notevoli.
È infatti acquisizione ormai certa e incontrovertibile il fatto che diversi culti cristiani si siano innestati nel corso dei secoli su culti pagani che risultano perduranti tuttora nel mezzogiorno d’Italia.
Il paganesimo è stato una religione politeista prevalentemente a carattere misterico e soteriologico, basato sul rapporto tra singolo e il dio. Il termine “pagano” designa colui che non ha aderito al cristianesimo ed è rimasto fedele all’antica religione. L’origine del vocabolo è stata spiegata in vari modi. Per la maggior parte degli studiosi, “paganus” equivale a “rustico”: i pagi (villaggi), infatti, sarebbero stati l’ultima roccaforte e baluardo del paganesimo. I culti popolari sono sopravvissuti per millenni, passando dalle religioni antiche a quelle moderne. Tale continuità è da identificarsi nel mantenimento della struttura sociale caratteristica delle società contadine, nonostante alcuni mutamenti, i quali non hanno intaccato tuttora il tipo di rapporto tra la comunità e le sue divinità. Le permanenze cultuali del passato sono particolarmente evidenti nei culti popolari (processioni, feste, manifestazioni carnevalesche, ecc.), nei quali spesso i motivi cristiani si sono sovrapposti a motivi di religioni preesistenti a carattere popolare.
In molte delle manifestazioni di religiosità popolare è, difatti, spesso riconoscibile un sottofondo pagano che la Chiesa, quando non è riuscita a estirpare, ha saputo trasformare e adottare, dando ad esso un nuovo significato. Con un reciproco effetto: alcuni riti pagani si sono cristianizzati ma al contempo il cristianesimo si è anche paganizzato.
A prescindere da queste considerazioni bisogna entrare nel quadro culturale e cultuale del periodo di nascita del Carro. É probabile e non escludibile che nei primi anni del 1700 a Galatone ci fossero ancora in uso riti agrari propiziatori del tipo suesposto.

Ma di certo il primo Carro di Sant’Elena di cui si ha certa notizia si riscontra negli anni tra il 1718 ed il 1719 nel libro degli Esiti del Santuario del Santissimo Crocifisso  – terminato nel 1696 e poi consacrato nel 1711. E’ anche lecito pensare, ma non abbiamo nessuna prova, che il carro di Sant’Elena sia una delle tante cristianizzazioni di culti pagani. È però certo che di carri barocchi come il nostro in quel periodo se ne facevano tanti. Vedi quello per la Madonna della Bruna che ancora si fa a Matera.

Siamo nei primi anni del 1700, appena fuori dallo sforzo normalizzatore post tridentino, così difficile da far attecchire nell’estremo sud della penisola. Si edifica il nuovo santuario come un reliquiario di pietra del Crocefisso, quindi della Croce. Tutto il santuario, consacrato nel 1711, è concepito come una teologia di pietra per esaltare la Croce, dall’ Invenzione all’Esaltazione.

Lo stesso altare maggiore, che poggia sulle quattro Virtù Cardinali, effigiate secondo la canonizzata iconologia di Cesare Ripa, è un continuo rimando al mistero ed alla teologia della Croce. Al centro è custodita l’icona del SS. Crocifisso della Pietà affiancata dalle statue di san Francesco Saverio e san Francesco di Sales, difensori della fede e custodi della Croce. In alto una teoria di quattro angeli con gli attrezzi della passione e al centro la Madonna Addolorata, fra le pie donne e gli angeli del Giudizio, in alto la Veronica. A destra e sinistra del finto tendaggio che sormonta la Veronica, due pitture del Letizia che raffigurano rispettivamente una il ritrovamento da parte di Elena, madre di Costantino, della Croce sul luogo della crocifissione e l’altra la restituzione ad Eraclio I della Croce sottratta a Gerusalemme dai Persiani.
Negli stessi anni, precisamente nel 1716, ma commissionati l’anno precedente, arrivano da Napoli l’ostensorio d’argento con la figura a tutto tondo di San’Elena che regge la Croce e il reliquiario d’argento del frammento della S. Croce, con l’immagine a bassorilievo della Veronica.
In quegli anni (1716) nasceva lo stesso O. Amorosi, che a quanto risulta fu lo sviluppatore del carro, (e non l’inventore, ameno ché a due o tre anni non fosse già prodigiosamente attivo) che scrisse una grande Sacra Rappresentazione “L’Invenzione delle Croce”, musicata da Don Domenico Lillo. Lo Stesso Amorosi teneva delle adunanze nello stesso santuario del Crocifisso disquisendo di Verità cattoliche e sulla stessa devozione locale per il Crocifisso.
In questo clima non è difficile immaginare che sia nato coscientemente il Carro, per celebrare degnamente l’invenzione della Croce, se mai incanalando anche precedenti manifestazioni, ma sicuramente con una connotazione cattolica controriformista e legata alle mode dell’epoca.
La manifestazione non rappresentava certo il passaggio da Galatone di Sant’Elena con la Croce (Croce che dopo la scoperta era peraltro rimasta a Gerusalemme, e questa è storia!) da queste lande (in ogni caso, anche sbarcando a Otranto, avrebbe percorso la Traiana salentina Orientale – o via Calabra, valorizzata proprio in epoca costantiniana – fino alla via Appia, e non certamente la Traiana occidentale).
Né vale nemmeno la pena discutere su presunte origini messapiche, legate a culti di fecondità per niente presenti in questa zona del mediterraneo. Così non vale nemmeno la pena di sprecare del tempo per confutare presunti legami di toponomastica di vecchie vie rurali. La Storia è fatta di documenti certi, parallelismi inequivocabili. Le supposizioni, le intuizioni, le strane combinazioni, le coincidenza, gli indizi, insomma, senza prove non fanno parte della Storia, ma servono a creare storie, leggende, favole, letteratura. Tutte cose belle e valide, ma diverse dalla Storia. Almeno questo è il metodo scientifico di approccio alla materia valido, quello che insegnano nelle università di tutto il mondo. D’altronde le ipotesi sono un buon stimolo di ricerca, ma se poi non si arriva a dimostrarle rimangono ipotesi. Senza contare che spesso si dimentica che la storia del Salento ha una cesura di circa duecento anni tra la fine disastrosa delle guerre gotiche che portò allo spopolamento quasi totale del Salento romanizzato e i primi ripopolamenti bizantini. In questi casi spariscono intere città, si inselvatichiscono intere regioni, pensare che possano rimanere toponimi senza popoli che li tramandino è fantasia.
Perciò la rappresentazione era e dovrebbe essere nient’altro che la riproposizione della rappresentazione del Trionfo di Elena, di ritorno da Gerusalemme dopo aver ritrovato la vera Croce, che riportava i Tre Chiodi Sacri a Roma. (Per approfondire si consiglia una lettura della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.)
I Tre Sacri Chiodi (due per le mani e uno per i piedi inchiodati insieme), trovati ancora attaccati alla Sacra Croce, sarebbero stati portati da Elena negli anni tra il secondo e terzo decennio del IV° secolo al figlio Costantino.

Secondo la leggenda uno di essi venne montato sul suo elmo da battaglia, da un altro invece fu ricavato un morso per il suo cavallo. Il terzo chiodo, secondo la tradizione, è conservato nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Il “Sacro Morso” invece, si trova nel Duomo di Milano, dove due volte l’anno viene mostrato ai fedeli.

Del chiodo montato sull’elmo si sono perse le tracce; secondo una tradizione si trova oggi nella Corona Ferrea, conservata nel Duomo di Monza (che, secondo alcuni storici, è proprio il diadema dell’elmo di Costantino), ma anche altre città e santuari ne hanno rivendicato il possesso. Ma tutto si perde nella leggenda, tanto più che il ferro della Corona Ferrea si è dimostrato, in anni recenti, essere invece d’argento.

Il Trionfo era un’Istituzione prettamente romana. Costituiva il più alto onore riconosciuto a un comandante che, in possesso dell’”imperium maius”, avesse riportato un’importante vittoria su un nemico. L’aspetto originario del Trionfo era religioso: il suo scopo consisteva nel recarsi al tempio di Giove Capitolino per sciogliere i voti fatti all’inizio della spedizione. Con il tempo il prevalere dell’aspetto politico-militare rese il trionfo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
Il corteo si formava fuori del pomerio, dove i militari si accampavano nel Campo Marzio, entrava in città attraverso la Porta Triumphalis, passava per il Circo Massimo e, presa la Via Sacra, ascendeva per il Clivo Capitolino giungendo al tempio di Giove. E’ chiaro che nei secoli il percorso della Via Sacra ha subito diverse modifiche ed il punto di arrivo nel tempo è stato spostato più volte mseguendo le trasformazioni urbane ed edilizie. In testa al corteo erano i senatori e i magistrati, seguiti dagli animali sacrificali votati al dio, dall’apparato sacerdotale e dalle spoglie dei vinti: il bottino trainato su carri, i prigionieri di alto rango e infine la massa dei prigionieri più umili. Al centro del corteo era il gruppo del trionfatore: preceduto da littori e musici, il vincitore della campagna, abbigliato come Giove Capitolino e con il viso dipinto dal sacrale colore rosso, avanzava su un carro trionfale trainato da quattro cavalli bianchi, accompagnato da figli e parenti. Dietro il trionfatore, la coda del corteo era dedicata ai combattenti: preceduti dagli ufficiali superiori dei vari reparti (legati e tribuni) sfilavano gli ufficiali inferiori e le truppe, in ordine militare e con le loro decorazioni. A Giove Capitolino il trionfatore offriva il lauro e quindi compiva il sacrificio.

Quindi è questo il solo vero significato del Carro di Sant’Elena.
Dobbiamo ricordare che i Trionfi romani avevano avuto una grande fortuna artistica iconografica sia in epoca medievale che rinascimentale, quando gli artisti copiavano i bassorilievi dei ruderi romani o gli encausti che si andavano scoprendo. In letteratura sono notissimi I Trionfi scritti da Francesco Petrarca. Un poemetto allegorico in volgare italiano; opera iniziata nel 1351 e terminata nel 1374, che grande fortuna ebbe durante il rinascimento ed il manierismo, ritrovando interesse nel periodo barocco.
Il Trionfo Allegorico di Giovanni Granai Castriota che sormonta il portale cinquecentesco della chiesa di San Sebastiano a Galatone, che allegoricamente si ripropone come comandante vittorioso al ritorno delle guerre contro gli infedeli nei Balcani, è copiato da originali romani, copiati e ricopiati fin nel periodo Barocco e poi Neoclassico. Tant’è che Claude-Joseph Vernet, nel 1789, con il “ trionfo di Emilio Paolo” del 1789 ancora ripropone fedelmente lo stesso schema iconografico di quello galateo. (Spero che a nessuno venga in mente di dire che Vernet lo copiò da Galatone!!! Ma potrebbe anche essere che qualche storico-creativo lo possa anche dire. Ormai…).

Da notare proprio come il bassorilievo di San Sebastiano riporti in bassorilievo la Porta Trionfale da una parte e il Circo Massimo dall’altra.
I Galatei quindi, nel bassorilievo di foggia romana della facciata di San Sebastiano avevano fin dal 1500 un modello. Modello che è stato di supporto anche negli anni settanta del secolo scorso quando, con il professore De Mitri e Don Gino Leante, si è cercato di sfrondare il carro da improbabili incrostazioni pacchiane per ridare una certa plausibilità storica e spendibilità turistica all’evento.
Date queste premesse cultuali, teologiche, artistiche e storiche è assolutamente impensabile spostare la manifestazione dalla sua propria collocazione temporale a ridosso della festa del’Invenzione della Croce. Né appaiono fondate e giustificabili le istanze volte a portare la manifestazione nel giorno dedicato a Sant’Elena – 18 agosto – solo per cercare di trasformare una manifestazione che ha precise origini sacre in un semplice richiamo turistico di massa. Sarebbe un vero scippo prosaico ad una manifestazione religiosa connotante. Sempre che non si voglia artatamente trasformare anche questa tradizione cattolica e popolare in un trionfale e sfarzoso spettacolo propagandistico. Proprio come il trionfo ai tempi di Roma imperiale.
Così non è condivisibile che si tenti di laicizzare una manifestazione che invece nasce nel Santuario del Crocifisso, ispirata da questo, legata a questo e che ha sempre rappresentato un momento spettacolare di evangelizzazione sui valori della Croce per tutti i fedeli.
Pertanto mi auguro rimanga il rientro della Sant’Elena in chiesa al grido di –Ave Augusta, Ave Crux, Milites Vos Salutant!-. l’accoglimento del cappellano e la benedizione della Croce e della folla.
Anche se siamo tutti debitori agli organizzatori dell’ultima rappresentazione – la migliore, certamente, di sempre – plaudendo doverosamente per l’encomiabile entusiasmo, lo sforzo sovrumano, la incrollabile dedizione, il tanto sacrificio, sarebbe meglio esimerci dal commentare, poi, l’inopportuna messinscena con l’”assalto al Carro”.

Detto “assalto” sembrerebbe perpetrato da presunti “saraceni” col turbante, che sarebbero già musulmani nientepopodimenoche quasi duecentocinquanta anni prima della nascita di Maometto (se è vero come è vero che il ritrovamento della Croce risale agli anni intorno al 320 d.C. e che Maometto è nato alla Mecca tra il 570 e il 580 d. C. ); e che questi non ben identificati predoni in turbante non romanizzati avrebbero dovuto poi assaltare il Carro Trionfale nel suo rituale percorso sulla Via Sacra in pieno centro di Roma imperiale per depredarlo di una reliquia (che non c’era) di una religione ancora non pienamente diffusa.
Anche a leggere una sceneggiatura teatrale metaforica, allegorica, riproponendo un’angoscia per l’attuale attacco del Sultanato all’Occidente cattolico, rimane a mio personale parere, stante quanto sin qua detto e argomentato, un malriuscito tentativo di spettacolarizzazione lontano da verità storiche e dalla tradizione consolidata; uno straniante cortocircuito spazio temporale, poco plausibile. Personalmente mi auguro che più non si ripeta.
Le fonti bibliografiche che si sono consultate per redigere questo scritto sono a disposizione di tutti. Se si vuol fare e fare bene, alla storia, alla tradizione, al culto, alla verità si dovrebbe leggere e studiare – o di chiedere a chi ha già approfondito – prima di decidere e fare.
Non penso che sia proficuo volgere tutto in spettacolo, in fanta e meta storia per ottenere solo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
In questo caso dovrebbe essere l’identità comunitaria dei galatonesi, se vogliono e sanno, e se soprattutto c’è, opporsi ai primi segnali di stravolgimento di una tradizione consolidata antica di trecento anni per riportarla nei giusti canoni, farla progredire, rifinirla bene, organizzarla meglio e renderla sempre di più elemento corale connotante e qualificante della nostra comunità. Si dovrebbe riuscire a lavorare tutti d’accordo e concordemente su rispettose basi storiche per la buona riuscita e la conservazione di una così preziosa e rara tradizione connotante. La spendibilità turistica si può avere solo portandola a livelli qualitativi alti, in linea con la concorrenza di tanti altri cortei storici.
Ognuno faccia il suo, secondo le proprie competenze e vocazioni. Solo insieme si può riuscire a fare cose buone.

La Casa del Sale

wilma

di Giuseppe Resta

 

Per me, in una scrittura, è molto importante entrare nel ritmo del respiro che emana, nel battito del cuore che l’ha ispirata. Per me, le pause sono importanti come i pieni. Come in architettura, come in musica, come dappertutto ci sia arte: tutto è una sequenza di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, di frasi, di virgole di punti. Un equilibrio di presenze ed assenze.

Se, quando inizi a leggere, trovi immediatamente la sintonia di battito e respiro con lo scrittore te ne innamori subito, lo assimili, lo metabolizzi. I concetti, le storie, i messaggi vengono dopo; prima il ritmo.

Questa sincronia di respiro, questa empatia di ritmo è stata la prima cosa a colpirmi della scrittura di Wilma Vedruccio, subito dopo aver preso il libro LA CASA DEL SALE in mano ed averlo iniziato a leggere dall’incipit del primo racconto. Ché poi non sono racconti, nel senso di piccole storie indipendenti. Anche se a me i racconti intrigano tanto, perché son come gli spot pubblicitari fatti bene: in pochi secondi ti devono veicolare una storia, un ambiente, una sensazione o stato d’animo. Nel piccolo si deve coagulare il grande. E ci vuole maestria.

Il Romanzo ha tempo per dipanarsi, per descrivere, per svolgere; il Racconto è sintesi. Il racconto è Giulio Cesare: veni, vidi, vici. Tutta sostanza liofilizzata, ma senza perdere odori sapori colori, suggestioni, storie. Non sono racconti, si diceva, quelli nella Casa del Sale: sono parti di un unico grande affresco. Parti per gli strumenti di un’unica sinfonia. Ogni voce, ogni timbro serve a comporre armonia, colore, suggestione. Come i particolari di un quadro di Hieronymus Bosch, dove ogni personaggio è una storia, una metafora, un’allegoria e tutti concorrono nel formare un dipinto corale e complesso. Se vogliamo lasciare l’ “Alto” e sprofondare nel “Basso” della comunicazione, passando dalla pittorica alla fumettistica, possiamo pensare alle grandi tavole di Jacovitti: intrecci di personaggi singolari e di particolari eterogenei, di objet trouvée che diventano parti di un tutto inscindibile, con un suo ritmo grafico, senza soluzione di continuità; con un proprio indiscutibile “timbro”. Così le storie degli uomini e delle donne – quelle che poi preferisco- si alternano ai punti di vista degli animali o delle cose, dai mitili, ai cani fino alle coccinelle ed alle pietre stesse.

Si delinea così un paesaggio dell’anima, una geografia dei sentimenti, che trova spazio in un Salento minore, quello degli antichi piccoli borghi, delle liturgie di una volta, di quei riti domestici dignitosi e silenti, rispettosi dei tempi lenti della ruralità, e dell’incanto di un paesaggio archetipo e ancestrale. Personaggi arcaici, o di sempre, si affacciano in questo microcosmo panteistico con la discrezione di ospiti desiderati. Infondendo pace.

La prosa si veste di coefficienti poetici, senza travestirsi di involuti effettacci verbali, di trovate letterarie artificiosamente stupefacenti, ma rimanendo nella poetica delle piccole cose, nella scorrevolezza di un tratto semplice e lineare, limpido come un orizzonte marino in una giornata di vento freddo da tramontana. La Natura Madre, si veste di incanto, diventa accogliente e provvidente, si fa curare e coltivare secondo le descrizioni minute e accorte, ma mai pedanti, di una sensibilità femminilmente materna. Panteismo, dicevo, coralità e armonia tra uomo, animali e natura.

Uno sguardo che diventa un abbraccio di questo mondo che fa sfondo a questi piccoli cammei, dove il Salento è certamente personaggio coprotagonista, presente ma non invadente, ma che, si suppone, la sensibilità e la delicatezza della scrittrice potrebbe benissimo esprimersi altrove, su altri territori, con altri orizzonti ma con uguale sensibilità, purché si senta pienamente a casa. Perché, come scrive Josephine Hart nell’incipit de “il Danno”: “C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa” .

 

 

 

Libri/ Scirocchi barocchi

Bozzetti, istantanee, schizzi, novelle, documentari, registrazioni e cartoline postali provenienti dal profondo sud-est della penisola.

Un viaggio nel presente e nel recente passato, tra personaggi e interpreti del Salento di ieri e di oggi.

I racconti, alternandosi tra commedia e tragedia, si sviluppano intorno a quella pulitica intesa dai vecchi salentini come dignità civica, come rigore etico, come presentabilità sociale.

Un ritratto ironicamente impietoso, e senza infingimenti, su di una realtà sociologica sciroccata.

Da un rapporto d’amore contrastato con questa terra, la riflessione su come eravamo e come siamo diventati, così da ripartire per migliorarci.

 

Dalla quarta pagina di copertina:

Ormai ben più di dieci anni fa, quando per la prima volta mi capitò di leggere i pezzi narrativi di Giuseppe Resta, gli scrissi: “Tu sei uno scrittore bulimico come me, fluviale, straripante, si sente che provi un piacere fisico nello scrivere”. Mi rispose, fra l’altro, che scrivere lo faceva sentire “in salute”, e l’espressione mi impressionò moltissimo poiché rendeva con esatta icasticità l’habitus mentale al quale mi riferivo. La stessa lingua sincera, potente e

La chiesa di San Pietro in Vincoli a Galatone (1795)

di Giuseppe Resta

Non sarà sfuggita a molti di coloro che percorrono la strada che esce da Galatone per dirigersi verso Santa Maria quella cappella dalle belle forme misurate, proporzionate, austere che si incontra appena il paese comincia a dilatare gli spazi fra le sue case.
Pochi conoscono come si intitola, ancor meno sono quelli che la hanno visitata all’interno. Forse la notano di più per la rigogliosa siepe di allergizzante erba parietaria che la recinge, spesso abitata da qualche cane clandestino. Pochissimo è stato scritto su di essa.
E’ la chiesetta di San Pietro in Vincoli. Una volta era di proprietà privata; ora appartiene per lascito alla parrocchia dei Santi Medici in Galatone.

L’amante di dettagli tecnici sarà interessato a sapere che è situata in catasto al foglio 24, allegato A, particella A, del Comune di Galatone; ed è anche dichiarata monumento nazionale in virtù della declaratoria della Soprintendenza di Bari in data 18/04/1985.

La chiesetta di San Pietro in Vincoli a Galatone è posta all’incrocio delle vie Del Mare e Giacomo Caputo. Si presenta come una piccola cappella gentilizia, un tempo facente parte del complesso della masseria di Torre Moro (1673 circa) presso la masseria Vasce.

Posta sul tracciato storico tra Galatone e Santa Maria Al Bagno, come tutte le antiche edicole e cappelle, funge anche da indicatore stradale. Infatti i dipinti interni raffigurano S. Maria e il Crocifisso, indicando precisamente da dove si viene e dove si va.

Di pianta rettangolare, ha il lato minore con l’ingresso principale posto in direzione nord, su via Del Mare. Uno dei due lati maggiori, quello est che ospita una porticina laterale, è posto su via Giacomo Caputo; mentre gli altri due latiprospettano su di proprietà privata. L’altezza della cappella, a meno delle sovrastrutture, è di circa ml 5.50; le misure dei lati sono di circa ml 6.70 per il alto lungo,  ml 5, 20 per il lato corto. Copre una superficie di circa 33 mq lordi, mentre l’interno è di  17.50 mq. .

La tipologia è quella della cappella a camera unica.  I tratti stilistici sono di un maturo e sobrio neoclassico settecentesco. Difficile inquadrarla nella stessa epoca della Torre Moro ma certamente in epoca successiva. Ce ne dà conferma la data del 1795 dipinta sull’altare. Sebbene è logico supporre con evidente certezza che la struttura architettonica sia precedente di qualche tempo alla tavola dell’altare. Dovremmo essere all’incirca all’epoca che a Nardò era vescovo Carmine Firmiani.

Tutto il paramento murario esterno, cornicioni compresi, è di pietra arenaria locale del tipo “tufo carparino”. Si riscontra un’alta fascia di zoccolo secondo i già diffusi stilemi vanvitelliani e richiami alle mature opere razionaliste e illuministe di Ferdinando Fuga.  Le lisce lesene sugli spigoli, che incorniciano dei campi murari altrettanto lisci, terminano con un doppio fregio sommitale, mentre le specchiature sottosquadro hanno il solo cornicione poco aggettante.
Sul prospetto est, posto perfettamente al centro della facciata laterale di via Caputo, è presente un campanile a vela, di forme molto semplici con cornicione piano, sormontato da una croce lapidea. E’ ancora dotato di campanella funzionante. Il concio posto alla base della monofora reca la scritta “A.D. 1807”. Pertanto si può dedurre che il campanile è opera postuma di completamento.

Nel Regno Delle Due Sicilie siamo in pieno decennio Francese con a Napoli il re Giuseppe Bonaparte, fratello dell’imperatore Napoleone.

Su tutti e due i prospetti laterali di dimensioni maggiori, quelli est e ovest, si notano due doccioni di pietra leccese per ogni lato. Sono di forma cilindrica, con alcuni fregi floreali agli angoli sull’innesto murario.  Sul prospetto principale, invece, al centro sopra al cornicione finale, spicca un cartiglio di forme ancora  baroccheggianti. Due pinnacoli piramidali svettano in corrispondenza delle lesene laterali. Niente a che fare coi pennacchi floreali ai quali ci aveva abituato il nostro barocco. Il prospetto principale è caratterizzato dalla porta incorniciata e sovrastata da un cornicione. Ancora sopra al cornicione della porta una finestrella rettangolare contraddistinta dalla scorniciatura liscia dotata solo di uno semplice smusso interno.

L’interno è caratterizzato da una volta a crociera del tipo “leccese semplice”, ossia formata dall’intersezione di una volta a crociera con una cupola. Semplicissimi i paramenti murari interni mossi solo da due lesene in aggetto poste sugli estremi dei lati lunghi e connotate da modanature lapidee semplicemente scorniciate all’imposta degli archi di volta. Al centro il concio di chiave pende in giù con un artificio plastico piramidale scolpito a foglie d’acanto.

L’altare è di semplici forme e presenta ai lati delle volute solo nell’ultimo livello più in alto, leggermente inclinate verso la sala. In compenso la parte bassa dell’altare è chiusa da un tavolato dipinto con un motivo a losanghe, francesizzante di stile e di cromie, che richiama un cassettonato. Al centro troneggia lo stemma dei Moro, sempre dipinto, incastonato in un coronato cartiglio, festonato da ghirlande floreali azzurre. La corona è quella di “nobile”. Qui è riportata in bell’evidenza la data “A. D. 1795”.

Chi fu il Moro committente? Felice o Michele Moro, che troviamo in quegli anni partecipi della galatea Accademia degli Infiammati o altri? Allo stato non mi è possibile affermarlo. Il blasone dei Moro raffigura un moro bendato di profilo, sul quadrante inferiore destro per chi guarda, e una falce di luna in campo azzurro, in alto a sinistra. La simbologia del Moro Bendato è direttamente riconducibile alla dominazione aragonese (vedi la Bandiera di Aragona, così come a quelle, a questa ispirate, di Corsica e di Sardegna). La simbologia del Moro ripropone la vittoria degli Aragonesi sui re Saraceni. La benda (in araldica: capo bendato) dovrebbe rappresentare la simbologia del turbante accostata alla allegoria della cecità di chi no conosce la “vera fede”. Il blasone, comunque, differisce da quello recensito dall’Armoriale Delle Famiglie Italiane per la famiglia Moro. Questo ci fa supporre che sia un blasone locale.
All’interno si notano un’acquasantiera lapidea incassata a destra della porta principale e un piccolo lavamani lapideo incassato nel muro a caduta posto a destra dell’altare, entrambe ornati con sculture a lievi risalti di forme naturalistiche accennate.

Dominano l’aula due dipinti murali. Il più grande sormonta centralmente l’altare. Misura cm 220 in altezza e 140 in larghezza. Rappresenta la classica scena della Madonna del Rosario. La Madonna è in alto, assisa in trono, contornata di angioletti e due le sorreggono la corona,  col Santo Bambino in braccio. La Vergine porge il rosario a S. Domenico di Guzman, mentre il Bambino lo porge a S. Caterina da Siena, posta sul lato destro di chi guarda. Esattamente all’ inverso a quella più diffusa iconografia della Madonna del Rosario di Pompei dove i santi sono posti nella stessa maniera ma il bambino è a sinistra e porge il rosario a S. Domenico. Da quanto ci è pervenuto, grazie al racconto del beato Alano della Rupe, nel 1212 San Domenico, durante la sua permanenza a Tolosa, ebbe la visione della Vergine Maria e la consegna del rosario, esaudendo ad una sua preghiera di avere un valido mezzo per combattere l’eresia albigese senza uso della violenza. Da allora il rosario divenne la preghiera più diffusa per combattere le eresie e nel tempo una delle più tradizionali preghiere cattoliche. A Santa Caterina, anch’essa dell’ordine dei Domenicani, i maggiori propagatori del culto del S. Rosario, si deve la recita meditata del Rosario. La devozione della recita del Rosario, chiamato anche ‘Salterio’, ebbe larga diffusione per la facilità con cui si poteva pregare.  Fu chiamato il “Vangelo dei poveri” perché dava il modo di poter pregare e nello stesso tempo meditare i misteri cristiani, senza la necessità di leggere un testo in un’epoca dove l’analfabetismo era la regola.

 
Questa particolare iconografia della Madonna Del Rosario presente del dipinto di San Pietro deve ascriversi a quella nata con l’istituzione della “Madonna della Vittoria”. Ricorrenza, come ricorda l’amica dottoressa Daniela Bacca in un suo dotto e completo articolo comparso sul sito di Cultura Salentina (http://culturasalentina.wordpress.com/), ”promossa ed istituita da Papa Pio V, in ricordo della battaglia di Lepanto, avvenuta il 7 ottobre 1571, in cui la flotta della Lega Santa sconfisse l’Impero Ottomano, per intercessione della Vergine Santissima, si diffuse con viva intensità e devozione nella terra salentina, per secoli minacciata, saccheggiata e torturata dai sanguinari turchi. La battaglia, tra le più attese e partecipate del XVI secolo, fu vinta grazie alla protezione di Maria, che i cristiani  invocarono recitando il Rosario prima dei combattimenti, tanto che il papa Gregorio XIII, nel 1573, intitolò il culto alla “Madonna del Rosario”, la cui iconografia è tra le più note e tradizionali legate alle raffigurazioni mariane.”
E ancora la Bacca nota come “I pregevoli dipinti che seguono questo specifico ed emblematico schema iconografico furono commissionati, molto spesso, dalle nobili casate della Provincia di Lecce, al fine di promuovere il culto del Rosario, esprimere la propria spiritualità cristiana, ricordare il ruolo attivo della nobiltà che combatte, si sacrifica, prega e partecipa alle vicende religiose, politiche e territoriali, ed abbraccia il motto “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit” (“Non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori”) .” Il discorso pare calzare perfettamente con la nostra cappella gentilizia.
Fra le due figure dei santi, in basso, al livello del libro di San Domenico e dei due gigli che simbolizzano la purezza dei due santi personaggi, si intravede un panorama di un gruppo di edifici visto in lontananza.

Nonostante il paesaggio sia molto distante e lo stato di chiarezza del dipinto oggi non sia ottimale, lo skyline sembrerebbe proprio quello della Torre Moro, vicinissima alla stessa cappella e degli stessi proprietari. Se così fosse risponderebbe alla richiesta di mettere devotamente sotto la protezione della Madonna Della Vittoria tutto il sito della masseria Vasce. Anche se l’altura delle attuali contrade Coppola e Palmentola che fa da sfondo sarebbe stata veramente esagerata.

In basso nel dipinto, separato e incorniciato da volute dorate, vi è la scena  che rappresenta S. Pietro nel carcere di Gerusalemme in compagnia dell’angelo che qui, secondo quanto raccontato nel capitolo 12 degli Atti degli Apostoli, lo liberò dalle catene con le quali era stato imprigionato nell’anno 43/44 da Erode Agrippa. Infatti la scena è ambientata in una stanza con una finestra chiusa da una grossa grata di ferro alla quale Pietro è assicurato con una catena e delle manette. Nel dipinto l’Angelo, calzato alla romana, si accinge a compiere la liberazione.

 
Il dipinto fa riferimento solo a questo episodio dell’agiografia d San Pietro e non all’altro della prigionia dell’Apostolo nel Carcere Mamertino a Roma. La  nota basilica romana di San Pietro in Vincoli, con la stessa dedicazione della nostra cappelletta, – basilica fatta costruire all’incirca negli anni prossimi al 442, presso le Terme di Tito all’Esquilino, da Licinia Eudossia, figlia di Teodosio II il Giovane e moglie di Valentiniano III –  fu, invece, fatta erigere per custodire le catene (in lingua latina vincula) di san Pietro che la madre di Licinia Eudossia, l’imperatrice Elia Eudocia, aveva avuto in dono da Giovenale, patriarca di Gerusalemme, durante il suo viaggio in Terra Santa insieme alle catene che avevano legato il santo nel carcere Mamertino a Roma prima della sua crocifissione. La reliquia orientale fu offerta al papa S. Leone il Grande, che la unì all’altra catena con cui in Roma era stato avvinto il S. Apostolo sotto Nerone, ed ambedue i ceppi furono deposti nella basilica. Pertanto quella romana racchiude in sé  i simboli reliquiari di entrambe le due prigionie note dell’apostolo Pietro. La festa di commemorazione di San Pietro in Vincoli è il 1 Agosto.

Perché il Moro edificatore della cappella volle dedicarla a S. Pietro in Vincoli?

Possiamo fare congetture (una visita alla basilica di Roma, una liberazione da un’ingiusta detenzione…) ma non abbiamo prove storiche.
Un altro dipinto murario presente nella cappella è posto a destra dell’entrata, sulla parete ovest. E’ alto 77 centimetri e largo 57 e si trova a 123 centimetri da terra. Praticamente è perfettamente ad altezza d’uomo. Rappresenta l’immagine del SS. Crocifisso della Pietà di Galatone nella classica e particolare posa con le mani dietro la schiena. Il dipinto, oltre che con la cornice lignea giustapposta in epoca decisamente successiva, è inquadrato in una cornice dipinta. La tecnica di rappresentazione è pregevole e dimostra, nel soggetto raffigurato. una competenza artistica di buon rilievo sia nell’agilità delle pennellate, sia nella anatomia del torso che nel bel volto che esprime calma sofferenza. È una delle quattro rappresentazioni del Crocifisso di Galatone, oltre a quella originale custodita nell’altare maggiore dell’omonimo santuario galateo, presente negli edifici di culto a Galatone. Le altre sono nella chiesa della Madonna della Grazia, presso la chiesa di Santa Lucia, nella chiesa di S. Sebastiano. Una quinta è nella cappella conosciuta come “Cristu Ti Tabelle”, ma questa, catastalmente, è in agro galatinese, e pertanto fuori diocesi.
La situazione statica della cappella è buona. E’ stata edificata su di uno strato emergente di roccia calcarea dura. Non presenta dissesti murari né pleiadi fessurative preoccupanti. I problemi che si riscontrano sono invece dovuti prevalentemente ad un inesistente stato manutentivo. Prima di tutto si riscontra una forte umidità proveniente dal lastrico solare che pervade tutta la volta e minaccia la parte superiore del dipinto murale posto sull’altare. Inoltre si nota una vegetazione infestante in più punti del paramento murario ed alla base della cappella. In particolare ci sono tre dirompenti piante di cappero nella parte bassa. Inoltre tutto l’apparato murario esterno denuncia in più punti lo sgretolamento delle giunzioni in malta di calce fra i conci di arenaria.
I dipinti murari sono fessurati e coperti da strati di sali calcarei. L’astraco che ricopre il pavimento è in cattivo stato di manutenzione.

L’interno della cappella, così come l’altare, è stato tinteggiato a calce più volte coprendo le cromie originali e il disegno a conci della volta che oggi si intravede appena dietro gli strati di pittura. Gli infissi esterni in legno sono molto malandati ma recuperabili. I due lati che prospettano sulla proprietà privata sono contornati dal terreno vegetale di un giardino. E’ lecito immaginare che buona parte dell’umidità di risalita che si riscontra sulla fascia basale provenga da questa situazione. Urge un intervento.

La parrocchia Santi Medici Cosma e Damiano, quale proprietaria, tramite l’interessamento del dinamico parroco Don Cosimo Fabrizio Rizzo, ha richiesto un finanziamento alla Provincia tramite il Bando del 24/03/2011 “AMMISSIONE A FINANZIAMENTO DI INTERVENTI CONNESSI AL PROGRAMMA DI VALORIZZAZIONE E RECUPERO IMMOBILI DI INTERESSE STORICO – ARTISTICO.”
Si spera in un accesso a questi fondi per poter affrontare i lavori, ogni giorno più improcrastinabili, se vogliamo conservare questo prezioso lascito del nostro passato d’arte.

per continuare la lettura: http://galatown.splinder.com/post/25273857/dossier-sulla-cappella-di-san-pietro-in-vincoli-a-galatone

(pubblicato sul numero 12  di Maggio 2011 della rivista A LEVANTE)

Libri/ Il convento dei domenicani e la chiesa di san Sebastiano a Galatone (1805-1876)

di Giuseppe Resta

L’amico Francesco Potenza ha avuto la gentilezza di farmi leggere in anteprima la sua ultima fatica da storico:

  “Il convento dei domenicani e la chiesa di san Sebastiano a Galatone (1805-1876)”, edita nel 2010 da Congedo a Galatina, non ancora ufficialmente presentata.

Il dott. Francesco Potenza è un autentico storico d’archivio, uno che i documenti sa trovarli, leggerli, interpretarli. E l’archivio storico del Comune di Galatone, che egli stesso ha sistemato, è una fonte di sorprese.

Il Potenza ha il metodo della ricerca che si apprende non “ ab intuitu personae”, ma nelle università, con disciplina, con basi salde e ben fondate. Lo “storico” deve essere allevato, non si improvvisa. Non basta mettere in giro rabberciate notizie in ordine sparso per fare “storia”. Si vede, eccome, la differenza tra il topo di archivio – confuso, slegato, impreciso, inconcludente e, spesso, ahimè, sconcludente nonché supponente – e quello

Il castello di Fulcignano a Galatone

di Giuseppe Resta

“…Intentio vero nostra est manifestare ea quae sunt, sicut sunt…”

L’imponderabile può essere di segno positivo o negativo. Lo sappiamo bene noi “umani” che spesso confidiamo nella “fortuna” per avere successo e felicità nella vita, o imprechiamo la “sfortuna” quando gli avvenimenti  non succedono a nostro vantaggio. Ma ci sono casi in cui la “fortuna” pare abbandonare anche le “cose”. Si dovrebbe pensare, se la razionalità non lo inibisse, che sia proprio frutto della sfortuna l’amara sorte del Castello di Fulcignano: possente maniero da prima abbandonato da una popolazione in fuga, poi, nonostante sopravvissuto per almeno 600 anni alle ingiurie del tempo e della natura, – per dirla col Galateo Antonio De Ferrariis “Ne han fatto crollare le costruzioni il tempo e il contadino, che ogni traccia dell’antichità distrugge”  –  oggi negletto dagli uomini che da anni non sanno, o non vogliono, valorizzare e riportare alla fruibilità ed al giusto interesse, anche turistico oltre che culturale,  una così unica, interessante e ancora inesplorata struttura castellare. Decisamente un destino non comune a tanti altri castelli che, anche ridotti a ruderi più scalcinati, riescono ad attrarre turismo e cultura, e a dare identità e connotare positivamente il territorio. Invece sarà anche difficile rintracciare Fulcignano senza una mappa o una guida: mancano le segnalazioni stradali, per non parlare di quelle turistiche, ed anche la viabilità rurale a contorno non è del tutto agevolmente transitabile. Galatone lo ha enucleato dal proprio vivere. E, fino a oggi, è ancora di proprietà privata.

I ruderi del castello di Fulcignano si trovano a sud est del centro urbano di Galatone, in provincia di Lecce, proprio nella periferia urbana della cittadina, verso la fine di Via S. Luca e l’inizio della vicinale Vorelle,  a pochi metri dalla sede ferroviaria verso Neviano. In catasto lo rintracciamo al foglio 26, Comune di Galatone, particelle 390-391. Coordinate 40°08’25 N; 18°04’36 E. Il castello si trova in posizione leggermente più rialzata rispetto alla campagna immediatamente circostante, ma un più in basso rispetto all’altura delle Serre Salentine, che lo costeggia sul versante est. Il sito è lambito da un antico corso d’acqua stagionale che scende dalla collina dei Campilatini e si spande nella piccola pianura disperdendosi in alcune vore carsiche poste a nord del castello.

Ciò che è rimasto del castello  è quasi solamente la cinta quadrilatera fortificata. Ma anche da questi resti, ancora generalmente ben conservati, chiara emerge la tipologia del castrum romano come mutuata dagli svevi.

Paul Arthur, professore di Archeologia Medievale presso l’Università del Salento, nel 1997 scrive di Fulcignano in una relazione indirizzata al Sindaco Roberto Maglio del Comune di Galatone “La forma planimetrica, e i dettagli architettonici, suggeriscono che l’edificio non sia anteriore all’età sveva, quando una serie di fortificazioni in Italia, note specialmente attraverso i castelli in Sicilia, risentono di influssi architettonici orientali trasmessi dalle Crociate. La forma quasi quadrata, con quattro torri angolari (le due posteriori scomparse: una circolare, l’altra forse circolare in una prima fase e quadrata in una seconda), trova confronti nell’architettura castellare islamica, che sembra aver, a sua volta, mantenuto vivo le tradizioni tardo romane di architettura castrense.”

La forma della cinta muraria è quadrangolare con i lati lunghi circa una cinquantina di metri: il più lungo, quello dell’ingresso a sud-est, misura, torri comprese, poco più di 75 metri ed il più corto, a nord-ovest, 49 metri senza torri. L’altezza delle mura è di circa 8 metri e lo spessore è di circa 2,6. Le torri angolari hanno i lati di misure variabili tra gli 8,40 ed i 7,55 metri. Tutta la cinta insiste su di una zona di 8800 metri quadri, racchiude una superficie di 2930 metri quadri di cui 220 coperti e 2100 scoperti. Da notare come gli spigoli del quadrilatero sono posti approssimativamente secondo i punti cardinali. Dalla facciata nord-est si accede ad un ingresso voltato a botte con forno laterale; il primo vano è costituito da una sala d’ingresso con volta a crociera a sesto acuto e costoloni sporgenti a sezione trilobata che si intersecano al vertice con una rosetta.  Sulla destra rispetto all’ingresso si trovano due vani laterali  con volta a botte. Proteggono l’ingresso arretrato  delle solide torri angolari poste sul lato est ed allo spigolo nord, la torre a est non si distingue dall’esterno perché è inglobata dalla muratura. Le torri accanto all’ingresso sono cilindriche internamente e quadrate esternamente. Un’altra grossa torre quadrangolare è posta all’angolo est. Altre due torri sono poste a sud ed a ovest e sono quasi dirute: una, quella a sud, cilindrica e di manifattura costruttiva più rozza, è ammalorata da crolli, sembrerebbe essere appartenuta ad un nucleo fortificato più antico ed essere stata inglobata in quello attuale; della quarta, quella ad ovest,  vi sono rimaste solo tracce murarie, le intersezioni con le mura e il passetto d’entrata con volta a sesto acuto; da quello che vediamo oggi sembrerebbe essere stata con l’interno cilindrico.

La tipologia architettonica, secondo la definizione che è stata introdotta dal prof. Architetto Carlo Perogalli, è assimilabile perfettamente a quella di “castello-recinto”, simile a quella di numerosi esempi di fortificazione medievale che attualmente si presentano con la sola cinta, solitamente rinforzata da torri perimetrali, ed eventualmente una torre maestra.

A Fulcignano il paramento esterno della muratura a sacco è costruito in arenaria locale del tipo “tufo carparino” perfettamente squadrata e allettata con buona precisione. Molti sono gli aggressori vegetali che allignano sulla parte superiore delle mura o ne minano le basi. In alcuni tratti si nota ben evidente lo strato di muratura di fondazione. All’interno, eccettuati i vani dell’ingresso e i due laterali anzidetti, non vi è altra superstite struttura. Si nota solo la muratura a pietre informi ed opera incerta sino all’altezza di circa cinque metri – nella quale sono ricavati dei nicchioni ad arco – che lascia posto per la restante altezza ad una muratura ben rifinita anche all’interno. Si potrebbe ipotizzare che la muratura a opera incerta facesse parte della prima costruzione e quella a conci regolari sia stata frutto di un successivo ampliamento ed irrobustimento. In corrispondenza del cambio di tipologia muraria interna si notano numerose buche pontaie. Ciò fa presumere – la specifica tipologia, come s’è anzidetto, lo autorizza con buona plausibilità – che le strutture interne del castello fossero in legno ed erano addossate alle murature esterne secondo una tipologia medievale  consolidata.

Quindi il castello, di tipologia simile ai castelli d’oltremare, è di fogge sveve; è tipico l’arco ogivale, che denota l’ingresso, realizzato con conci di arenaria regolari e perfettamente squadrati. Bisogna dire, però, che la finitura a falde rettilinee che sormonta l’arco ogivale, con una decorazione a foglie, palmette e intrecci viminei,  rimanda a stilemi decorativi bizantino–normanni di datazione ascrivibile tra l’ XII e il XIV secolo. E’ certamente questo particolare che fece maturare al De Giorgi la convinzione che la rocca fosse del periodo angioino e che fossero diretti i collegamenti con la tipologia decorativa del Tempio dedicato a S. Caterina d’Alessandria nella vicina Galatina. Ma questa tipologia decorativa in Puglia ha una diffusione temporale molto più ampia. Basterà confrontarla con quella esistente nel portale della Cattedrale di S. Nicola di Bari, o nel portale romanico dei santi Nicolò e Cataldo a Lecce, o nel complesso di S. Benedetto a Brindisi per averne una retrodatazione. Certo è che il fregio decorato è proveniente dallo spoglio di una precedente struttura: gli angoli presentano una evidente soluzione di continuità decorativa e il pezzo della falda a destra è completamente privo si decorazione, proprio come se fosse stato aggiunto per completare un elemento mancante. Questo ci farebbe supporre con buona certezza che comunque il fregio è precedente all’apparato murario che attualmente lo ingloba.

Tra l’arco a sesto acuto ed il decoro cuspidato a falde piane, nel vuoto che si crea, è inserito un concio di leccese molto corroso. Alcuni sostengono riportasse delle insegne nobiliari, sembra ipotizzabile, ma allo stato non è possibile desumere alcunché. Le mura e le torri sono completamente senza aperture di passaggio o di affaccio, se si eccettua una postierla, accanto alla torre in rovina sullo spigolo a sud, e delle feritoie arciere sulle facciate delle torri. La predetta postierla è coronata da un arco svevo a sesto acuto e doppia ogiva, i conci sono in studiata alternanza di pietra leccese e di tufo carparino e creano un  motivo bicromatico. Le feritoie arciere sono realizzate con la strombatura interna più accentuata verso il lato di tiro più favorevole. Vi sono anche delle aperture strombate verso il basso, molto ben costruite, per l’allontanamento delle acque e dei liquami poste su vari livelli d’altezza. Altri scarichi di forma semplice si rintracciano sulle murature sud ed ovest. All’esterno, sul lato nord, si nota un residuo del fossato originario. Attualmente l’accesso all’ingresso della cinta muraria avviene proprio tramite un viale ottenuto col riempimento di parte di questo residuo fossato.

Dalla forma dell’arco d’ingresso e dall’assenza di specifiche tracce murarie si ritiene che il castello non doveva avere un ponte levatoio direttamente sull’ingresso. E’ invece ipotizzabile l’esistenza di un corpo avanzato munito di ponte mobile. Il forno posto sul lato sinistro della nicchia d’ingresso farebbe presupporre un adattamento utilitaristico dello spessore murario della torre in epoca recente. Si potrebbe ipotizzare anche un uso pubblico e controllato del forno dietro pagamento di gabella. Però il forno è una struttura ricavata molto posteriormente: se fosse stato usato contemporaneamente all’esistenza della pesante anta del portone non vi si sarebbe potuto accedere ad anta aperta perché questa ne avrebbe chiuso il fornice. Bisogna notare che il secondo arco di scarico ogivale, posto sul muro che porta al primo ambiente con la volta a crociera e costoloni, oggi  tamponato di muratura, non sia tanto alto (misura al vertice poco più di due metri e mezzo) e largo. La ridotta dimensione del vano d’accesso rende veramente difficile immaginare un comodo accesso per dei carri stipati di merce essendo già difficoltoso il passaggio di un uomo a cavallo.

Sempre il professore Arthur, nella sopracitata lettera al Sindaco di Galatone afferma come “Senza dubbio il castello rappresenta una delle testimonianze più singolari del Medioevo salentino, per una serie di motivi. La sua forma è localmente inconsueta, ed è probabilmente una delle  fortificazioni medievali più antiche sopravvissute nella provincia, e gode di un rimarchevole stato di conservazione, senza cospicui rimaneggiamenti. Inoltre, non essendo stato inglobato dall’attuale centro di Galatone, offre la possibilità di indagine e di un eventuale sistemazione che tenga conto non solo delle sue strutture, ma anche del suo contesto storico-ambientale”.

Ancora Paul Arthur ci ricorda che “è metodologicamente scorretto porre l’attenzione esclusivamente sul castello, senza considerare che era intimamente legato al territorio, alla viabilità e al casale di Fulcignano, attestato sin dal XII secolo, ma probabilmente ancor più antico. Si ricordi che una moneta dell’imperatore Basilio I è stata rinvenuta nell’area, e che molti casali della Puglia meridionale sono di origine bizantina. Perciò, un qualsiasi progetto scientifico di valorizzazione e tutela del castello deve necessariamente prendere in considerazione le testimonianze archeologiche almeno nel territorio immediatamente circostante il monumento.”

Come ogni castello, infatti,  anche quello di Fulcignano dominava un borgo abitato: il Casale di Fulcignano, quasi certamente posto ad est della residua struttura castellare, sul lato della porta ma che oggi è completamente scomparso. Le ipotesi sull’origine del Casale si perdono in fantasie mai accertate. Il De Ferrariis attribuiva al casale origini greche. Si vuol fare risalire l’etimo del toponimo al greco fulacà, cosa nascosta, mentre non si valuta abbastanza il latino fulcire, puntellare, ergere su cavalletti; etimologia che potrebbe pure avere buona attinenza con le strutture lignee che costituivano originalmente i piani altri delle fortificazioni. Nei documenti troviamo il sito censito come Furcignano (1192 e 1335); Zurfiniani (fine del 1200) o Furciniani (1426); nel dialetto locale è sempre Furcignanu, null’altro.

Ma anche l’effettiva localizzazione dell’abitato è stata fonte di congetture e supposizioni.

Di sicuro, al di là di ogni altra fantasiosa congettura, era lì, proprio di fronte alla porta del Castello, che si è andato a costituire il nucleo abitato del casale vissuto fino alla metà XV secolo quando fu completamente abbandonato. E comunque bene  ricordare come nel Salento non esiste continuità storica e culturale tra i periodi Fenicio–Greco–Romano e la ricolonizzazione bizantina successiva alle così dette Guerre Gotiche. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C., portò la penisola Italica ad essere oggetto di saccheggi e distruzioni ad opera delle popolazioni barbare.

Dobbiamo tenere conto che la frequentazione fittile nell’agro di Fulcignano,  riscontrata con esami superficiali, si connota di reperti ceramici bizantini e poi normanno svevi, sino a raggiungere la massima estensione con ceramica rinascimentale. Questi reperti fanno ipotizzare che il casale si sia sviluppato proprio a partire dal VII secolo quando vi fu la intromissione di genti bizantine che si installarono su probabili preesistenze romane. I reperti rinvenuti sono solo frutto di raccolta di superficie in quanto una campagna di scavo scientifica ed approfondita non è stata mai intrapresa. Però, a conferma dell’attendibilità delle ipotesi archeologiche provenienti dalla lettura dei reperti, si può segnalare come  nell’ellisse di territorio che prospetta il lato est del castello, e che è interessata dai rinvenimenti, siano riscontrabili cisterne e pozzi di capienza e portata decisamente importanti.  Saverio Caputi, medico e uomo di cultura, ancora nell’ottocento, rinveniva “cisterne e trozzi profondi, granai e vie sotterranee, rottami e pezzi di antiche mura”.

Conforta l’ipotesi proveniente dall’archeologia di superficie l’osservazione delle tavole aerofotografiche IGM dove si leggono con sufficiente chiarezza due percorsi viari ortogonali che dividono l’ellisse di territorio in oggetto secondo gli assi della stessa. La zona, inoltre, è caratterizzata da un certo consistente rilievo rispetto ai terreni circostanti e la conformazione ellittica del nucleo del probabile insediamento è ribadita dagli stessi attuali percorsi viari.

Sembrerebbe proprio che il castello sia stato localizzato esternamente ad un chorion bizantino. Probabilmente il castello era dapprima posto su di una motta ed, in seguito, si è espanso in epoca sveva per imporre il controllo dell’incrocio dei percorsi costituiti dall’Augusta Traiana Salentina Ionica, che andava da Taranto a Ugento, e del percorso istimico che andava da Roca Vecchia allo scalo di Nardò, il latino “Portus Nauna”, le attuali S. Maria al Bagno e S. Caterina.

Il Fuzio, autorità indiscussa sull’analisi della tipologia e la struttura dei castelli pugliesi,  ritiene che Fulcignano facesse parte di una linea difensiva normanna costituita da dodici castelli costruiti ex novo che andavano da Gallipoli a Castro. Di certo, però, il Castello di Fulcignano è stato sicuramente solo un castello feudale, non castello reale né castello demaniale. Non ve n’è infatti traccia nel federiciano “Statutum de reparatione castrorum”, del 1231, che pure censiva  le “domus solaciorum”, le case da svago e i casini di caccia, differenziandoli dai Castra e dalle Domus, ossia dalle fortezze militari e dai castelli per la corte e l’amministrazione. (Confronta : E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò Ed. M. Adda, 1995.)

L’importanza di Fulcignano come centro di passaggio di carovane e di pellegrini è testimoniata dall’epigrafe di uno xenodochio distrutto, rinvenuta a fianco alla chiesa rurale di Fulcignano, che il Vescovo di Nardò Antonio Sanfelice legge nel 1719 durante una visita pastorale. L’epigrafe è in greco ed in latino. In latino recita: “theodorus protopas famulus sanctae dei genitricis hospitium construxit anno 6657”, corrispondente al 1149 del calendario cristiano.

Bisogna ricordare che proprio la parte degli archivi Angioini che riguardano la Terra D’Otranto si sono persi nell’incendio di mano Nazista che distrusse l’Archivio di Napoli conservato a villa Montesano Questo compromette qualsiasi seria ricerca documentale.

Ci dobbiamo, quindi, accontentare di poche notizie. Una prima notizia si ha riguardo a certo milite Maurizio Falcone, signore di Fulcignano nel 1192, certamente imparentato con la Domina Luisa de Falconi de Furcignano, che nel 1208 era badessa in un convento di Lecce. Dopo incontriamo un Aymarus di Guarnierius Alemannus possessore di Zurfiniani. La famiglia d’Alemagna risulta anche in possesso dello scomparso feudo neretino d’Agnano.

In periodo Svevo il feudo, assieme a quello di Galatone e Nardò,  passa ai Gentile: nel 1212 a Simone, poi a Bernardo, quindi a Tommaso intorno al 1239. Nel 1266 tocca all’ultimo Gentile, Simone, che viene giustiziato a Nardò nel 1269 e il feudo di Fulcignano passa all’ammiraglio angioino Filippo de Toucy. Con questo feudatario Fulcignano distacca definitivamente le sue sorti feudali da Galatone. Questi nel 1273 scambierà il feudo con Guglielmo Brunello. L’esosità delle pretese fiscali del Brunello farà fuggire gli abitanti di Fulcignano. Il feudatario li rintraccerà e li farà ritornare forzatamente nella sua proprietà. Il feudo si trasmetterà ai successori del Brunello sino alla primi decenni del XIV secolo. Dopo c’è una svariata moltitudine di feudatari. Si rintracciano i de Caniano tra il 1314 ed il 1319, i Capitignano, i Palmieri nel 1348, poi i De Mistretta,  fino a Gualtieri di Brienne, conte di Lecce e duca di Atene,  nel 1352.

Negli anni angioini  Fulcignano risulta avere una buona consistenza demografica,  nel 1378 è ipotizzabile raggiungesse un migliaio di persone (come e più di Otranto o di Gallipoli). Raggiunto questo apice dobbiamo annotare una veloce decimazione dei fuochi. Nel 1412 i suoi abitanti non dovevano essere più di 170. Appena trent’anni dopo un focolario aragonese non ne conta più di una trentina. La rapida discesa ed il declino di Fulcignano deve essere fatto risalire alle lotte tra il capitano di ventura Ottino Malacarne che usurpa dei possedimenti alla Chiesa di Taranto e Giovanni Del Balzo Orsini che si incarica di spodestarlo e rimettere la Chiesa nel legittimo possesso. Nel 1426 la Regina Giovanna II concede l’assenso alla donazione di Fulcignano ed altri feudi al Principe di Taranto del Balzo Orsini precisando che la “Terra Furciniani cum castro et pertinentiis suisi omnibus sita similiter in d.a Provincia Terrae Hydronti iuxta territorium d. ae terrae Galatulae (Galatone), et iuxta territorium rettae Sfilichij (Seclì) et iuxta territorium castri Naviani (Neviano) et alios confines”.

Probabilmente la riedificazione con l’espansione delle mura di Galatone in periodo aragonese, intorno all’inizio del XVI secolo, favoriranno la completa desertificazione del casale aperto di Fulcignano e la fagocitazione dei suoi ultimi abitanti. Comunque nel XVI secolo i fossati e le terre intorno al castello di Fulcignano risultano già messi a coltura. Nello stesso periodo nella sola Puglia scompaiono circa sessanta borghi e casali. Solo in Capitanata ne scompaiono ben trenta. Possiamo dire che le situazioni storiche, economiche e sanitarie del periodo sono diffusamente volte ad una inurbazione verso centri più sicuri.

Come causa dell’improvvisa scomparsa di Fulcignano appare veramente fantasticata la contesa con la vicina Galatone che è riportata da Antonio De Ferrariis. Tanto meno pare ipotizzabile ascrivere la guerra al predominio della chiesa latina su quella greca. Una guerra con Galatone vittoriosa pare, invece, fosse veramente accaduta nel 1335. Fulcignano sarebbe stata rasa al suolo e molti degli scampati sarebbero confluiti nella stessa Galatone o avrebbero contribuito a popolare piccoli paesi vicini. Questa notizia è desumibile dal Chronicon Neretinum, fonte dimostratasi però non perfettamente attendibile.

Attualmente il Castello, dichiarato monumento nazionale con D.M. 6/11/1967,  è ancora di proprietà privata. I timidi e mai convinti tentativi di acquisizione fatti dalle amministrazioni comunali di Galatone non hanno mai avuto efficaci risultati. Eppure l’unicità di un castello “fossile” giunto sino a noi dal passato, senza essere stato manomesso nelle epoche successive, avrebbe spinto chiunque dotato di buon giudizio,  non dico di amore per la propria Terra ma almeno di spirito imprenditoriale, a cercare di fare l’impossibile per assumerlo ai beni comunali, ai beni pubblici. Come dice sempre Paul Arthur  “sarebbe opportuno acquisire il castello o eventualmente alcune aree limitrofe come bene pubblico.” Perché solo così si potrebbe studiarlo e valorizzarlo, cercando di decifrare i suoi messaggi nascosti e rendendo fruibili i suoi spazi emozionanti. 

Il Castello, insomma, è sopravvissuto al tempo, alle guerre, alle radici degli alberi ed al sacco dei contadini; resisterà anche alla scarsa lungimiranza degli amministratori?

Non resta che sperare.

L’articolo integrale è stato pubblicato in Spicilegia Sallentina n°6

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