Libri| Il Salento dei primi del ‘900

Una macchina del tempo in forma di libro: Il Salento dei primi del ‘900 di Palumbo e Resta

 

di Giuseppe Corvaglia

Già nel 2021, leggendo il libro di Eugenio Imbriani “Fiabe e canti dell’antica Terra d’Otranto “, avevo scoperto le meravigliose fotografie di Giuseppe Palumbo  e oggi le Edizioni Grifo ce ne offrono una antologia quasi completa nel libro “Il Salento nel Novecento – Come eravamo nelle immagini di ieri”.

San Foca : pescatore nel vano di una grotta 1925 (AFP 681)

 

Il libro, oltre alle presentazioni di Luigi de Luca e all’introduzione di Hervè Cavalera, si arricchisce di uno scritto di Antonio Resta che spiega in maniera efficace quello che potrebbe sembrare un film, ma che, invece, è un vero e proprio viaggio nel tempo in un mondo apparentemente lontano, ma non così distante.
Chi ha la mia età alcune di quelle immagini se le ricorda (ricordo le strade sterrate e le ginocchia sbucciate); altre emergono dai ricordi dei racconti degli anziani.

E se il pregio del libro può  sembrare la sontuosa raccolta di foto che ci mostrano luoghi, volti e vita del Salento nella prima metà del ‘900, lo scritto di Antonio Resta è significativo e davvero bellissimo perché descrive quella vita e quella società contadina che ci mostrano le foto fin nel più minimo dettaglio.

Il telaio a mano nelle borgate del Salento 1920 (AFP 853)

 

Uno dei pregi di questo libro, come detto, sta nella collezione di foto, ma è particolarmente importante anche la loro genesi.

Giuseppe Palumbo, con una sensibilità e una perspicacia non comuni, vede questo mondo che sembra abbia una sua solidità,  una sua immutabilità e invece si appresta a scomparire e a mutare sia che si tratti degli uomini che lo popolano, sia che si tratti di luoghi.

Allora prende macchina fotografica e bicicletta (ma non solo) e gira il Salento a immortalare luoghi e volti, monumenti e situazioni, oggetti e natura.

Lecce: piazza S. Oronzo come si presentava prima dell’attuale sistemazione. 1923 (AFP 101)

 

Quelle foto, fatte nell’arco di diversi decenni, le offrirà al Museo Castromediano a costituire un archivio fra i più completi e un documento prezioso frutto della sua curiosità ma anche della consapevolezza di cui parlavo prima.

Attento ai luoghi trasformati dal tempo e dalle intemperie, ma anche dall’incuria, attento pure alla Natura mirabile sia quando la doma l’uomo sia quando da esso non si fa domare, Palumbo non resiste a immortalare anche gli abitanti di quei luoghi catturando negli sguardi, nelle posture e negli atteggiamenti, sensazioni, stupore, rabbia, gioie, dolori e dignità.

Impasto della creta all’interno di un’officina . 1919 (AFP 869)

 

Ed ecco un documentario in bianco e nero, senza sonoro che, però, parla… eccome se parla!
Il testo di Resta davanti a quella mole di immagini potrebbe sembrare un corollario e invece è parte indispensabile di quella macchina del tempo con tutta la sua complessa descrizione, fatta di odori, sapori, suoni quasi percepibili nella descrizione, che associata alle immagini riporta proprio fisicamente in quei luoghi, e fa rivivere eventi di normale quotidianità o anche inusuali o ancora straordinari.
E lo fa con una cura delle informazioni, con una meticolosa sistematicità, con una esaustività per ogni argomento trattato di quella povera vita, che sono davvero mirabili.

Inizia con discrezione a  raccontare la vita di tutti i giorni del Salento dei primi anni del ‘900, una vita povera, molto distante da quella che viviamo noi, ma poi ci accorgiamo che ce la descrive senza trascurare alcun aspetto e lo fa con tratti, mi verrebbe da dire pennellate, essenziali, senza fronzoli, ma efficacissime.

 

Parla del ciclo della vita e della morte, ma anche del desinare, del lavoro nei campi, di come i contadini si procuravano quel lavoro, di cosa facevano le donne, di come giocavano i bambini di come passavano il tempo i grandi con immagini che a qualcuno, in qualche caso, potrebbero sembrare manchevoli di qualcosa, ma che, a ben vedere, vanno a trattare con efficacia tutti, ma proprio tutti, gli aspetti.
Approfondirli tutti (come lo stesso autore ha fatto per i giochi di una volta in un libro dello stesso editore) avrebbe reso il testo un “mattone” interessante, più esauriente, ma non così gradevole.
Il libro si legge tutto d’un fiato ed è davvero una lettura divertente; subito dopo ci si sente contenti di averlo letto ma ne vorremmo ancora. Allora al lettore, che comprende che si è parlato di tutto, che ha visto la gran parte di cose che pensava perdute, non resta che sfogliarlo di nuovo per rivedere le immagini e  leggere qualche passo, rinnovando il godimento.

Dal mio punto di vista penso che sia un libro da leggere per ogni salentino per almeno due ragioni. Una è intuibile: se non conosci le tue radici, anche quando queste sono scomode,  non hai una tua identità.

Contadini intenti ad infilzare la foglia 1924 (AFP 774)

 

E conoscere le proprie radici non vuol dire vagheggiare un ritorno al passato, ma vuol dire riflettere sul presente, capire cosa c’era di buono del passato che abbiamo buttato via e che potremmo recuperare e quali delle cose belle del presente  sono valori da custodire e quali, pur sembrando allettanti piaceri o vantaggi fugaci, si rivelano poi disvalori o rischi dissennati per la nostra felicità e il nostro benessere.

 

La seconda ragione, non meno importante, è che una lettura, non dico attenta, ma utile, ci farebbe vedere che la condizione dei nostri nonni in termini di diritti umani e soprusi, di livello culturale e di credenze, di restrizioni sociali e di condizioni igieniche, di libertà e di benessere, non era molto diversa da quella di popolazioni che, con dispregio, etichettiamo come arretrate, incivili, barbare, rimaste ancora nel Medioevo e se leggiamo questo libro capiremo che nel Medioevo, nella inciviltà e nella arretratezza c’erano i nostri nonni, quelli che ci tenevano sulle ginocchia a farci galoppare con ” hoppi, hoppi cavallucciu…”

Maglie Edificio del Liceo Ginnasio Capece 1928 (AFP 280)

 

Se capissimo questo forse non saremmo più censori spietati nel giudicare quegli uomini e quelle donne e li capiremmo quando decidono di partire o di lasciar  partire i propri figli esponendoli a pericoli potenzialmente mortali e allora, forse, saremmo non dico più benevoli, ma almeno più cauti nel giudizio.
Il libro costa 10 euro in edicola con Il Quotidiano e penso che sia una operazione editoriale meritoria per chi come l’editore Grifo e il Quotidiano,  trova questi tesori e ce li mette a disposizione per poterne fruire comodamente.

Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

guglia di Nardò

di Ugo Di Furia

 

Da sempre gli archivi degli antichi notai rappresentano una fonte indispensabile per ricostruire le vicende relative ad artisti e alle opere da essi realizzate e di cui si era persa memoria, permettendo di individuare momenti importanti delle relative carriere, di valutarne la fortuna critica presso i contemporanei e di ricavare importanti informazioni circa i rapporti con la committenza. Per quanto riguarda poi in particolare gli studi di storia dell’arte nel Mezzogiorno d’Italia, si deve aggiungere il formidabile contributo, probabilmente unico al mondo, fornito dall’Archivio Storico del Banco di Napoli che, con il suo patrimonio quasi intatto di volumi provenienti dai sette Banchi principali del Regno rappresenta, grazie alla registrazione di milioni di documenti di pagamento, una vera e propria miniera di notizie in un arco temporale che va dagli ultimi decenni del XVI fino all’XIX secolo.

Proprio grazie a queste fonti documentarie, recentemente è stato possibile individuare gli autori della statua bronzea dell’Immacolata posta a coronamento della omonima guglia della città di Bitonto[1]. Da uno strumento notarile ritrovato da Gian Giotto Borrelli, datato 2 giugno 1733, scopriamo che il padre Michele Gentile della Compagnia di Gesù su incarico di padre Michele Calamita[2] di Bitonto aveva affidato allo scultore ed orefice napoletano Carlo Schisano[3] il compito di realizzare entro il 10 novembre dello stesso anno una statua di rame di sette palmi d’altezza su disegno di Domenico Antonio Vaccaro[4]. Il compenso, condizionato all’approvazione finale dello stesso Vaccaro, ammontava a 550 ducati. Il ritrovamento anche delle polizze di pagamento emesse dal Banco dei Poveri in numero di sette fra il 3 giugno del 1733 e il 13 gennaio 1734 conferma che tutti i termini del contratto vennero rispettati[5].

Ma tra i vari strumenti di indagine a disposizione degli studiosi, oltre agli archivi e le fonti bibliografiche, vi sono anche gli antichi giornali, già ampiamente diffusi nei secoli XVII e XVIII. Pur essendo non sempre facilmente fruibili in quanto dispersi in modo  lacunoso in varie biblioteche, non solo napoletane, essi rappresentano una fonte meno conosciuta di notizie spesso inedite e di grande importanza per la storia politica ed artistica del Regno di Napoli.

Utilizzati inizialmente soprattutto dai musicologi, solo più di recente sono stati oggetto di attenzione da parte degli storici dell’arte. Un esempio della loro importanza è rappresentato dai notevoli contributi ricavati dai cosiddetti Avvisi di Napoli[6], ancora una volta per lo studio di alcune delle diverse guglie erette per devozione popolare non solo a Napoli, ma anche in varie cittadine campane e pugliesi, nel corso del XVIII secolo[7].

Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’Immacolata costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno[8]; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento[9].

Più recentemente, sempre dallo stesso giornale, veniva ricavata la notizia dell’inaugurazione del medesimo monumento avvenuta, in perfetta concordanza con i documenti di pagamento relativi alla sua costruzione, tra il 6 e l’8 dicembre 1754[10].

E ancora da un numero di Avvisi veniamo a conoscenza dell’inaugurazione avvenuta nel mese di agosto del 1738 (probabilmente in occasione della festa patronale) della piccola e meno conosciuta guglia di S. Rocco, eretta nella frazione Penta di Fisciano (in provincia di Salerno)[11].

Ma la notizia più interessante sull’argomento e, per certi versi sorprendente, la ricaviamo dal n. 42 del 16 settembre 1749 del medesimo giornale[12]. Essa fa riferimento ai festeggiamenti celebrati alla presenza del vescovo Francesco Carafa per l’arrivo da Napoli della statua marmorea dell’Immacolata Concezione destinata ad essere posta in cima alla guglia eretta in suo onore nella piazza principale di Nardò.

 

particolare con la statua dell'Immacolata
particolare con la statua dell’Immacolata

 

“Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico Obelisco, in onore della SS. VERGINE IMMACOLATA di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa Capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa   GRAN VERGINE IMMACOLATA, di eccellente Scoltura, da mettersi nella cima di detto Obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della Città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal Capitolo, Mansionarj, e Clero; coll’intervento ancora degli Ordini Regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi Viva di giubilo, tra le armoniche Melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la Statua vicino all’Obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta Statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero Scultore Napolitano”[13].

 

L’importanza del documento si fonda principalmente su due dati, fino ad oggi ignoti alla critica.

Il primo è che la statua di marmo posta a coronamento dell’obelisco, costruito interamente in pietra di carparo[14], venne realizzata dal napoletano Matteo Bottigliero[15], allievo di Lorenzo Vaccaro nonché figura fondamentale nel panorama artistico napoletano di metà del XVIII secolo, negli stessi anni in cui lo scultore lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della Guglia dell’Immacolata di Napoli[16]. L’artista aveva inoltre già operato in Puglia cinque anni prima per la cattedrale di S. Eustachio ad Acquaviva delle Fonti, come attesta un documento di pagamento emesso dal Banco dello Spirito Santo il 18 luglio 1744 ritrovato da Eduardo Nappi[17], grazie al quale si trae che lo scultore riceve da tal Francesco Molignani, 235 ducati per l’esecuzione, su disegno del pittore Nicola Maria Rossi, delle statue marmoree di Santa Theopista (moglie di S. Eustachio) e dei due suoi figli; la suddetta somma, da corrispondersi solo dopo giudizio favorevole dello stesso Nicola Maria Rossi[18], comprendeva anche il loro trasporto via mare da Napoli alla marina di Bari. Oltre alle sculture di Acquaviva, è stato ipotizzato da parte di Mimma Pasculli Ferrara, sulla base di considerazioni di carattere stilistico, un possibile intervento del Bottigliero anche per i putti capo altare nelle chiese di Santa Croce a Lecce e di San Domenico a Martano[19].

La seconda notizia, non meno importante della prima, riguarda la datazione del monumento che, per quanto in maniera controversa, veniva fino ad oggi ritenuta dalla maggior parte degli studiosi di epoca successiva alla guglia napoletana dell’Immacolata (i cui lavori si conclusero come già si è detto in precedenza nel 1754) sulla base di un resoconto del vescovo Luigi Vetta sui festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854, in occasione dell’introduzione da parte di Pio IX del dogma dell’Immacolata Concezione; questi infatti affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”[20].

nardò piazza

Per la verità, nonostante l’affermazione del Vetta, che va oggi considerata erronea alla luce dei nuovi elementi a nostra disposizione, i primi autori che si erano occupati del monumento nerentino individuavano nella fine del XVII secolo l’epoca della sua costruzione[21]. In seguito l’unico studioso a dimostrarsi concorde con tale datazione sarà Giuseppe Palumbo che nel 1953 lo definisce «opera del XVII secolo» e ne attribuisce la paternità, sebbene dubitativamente, all’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, già artefice della cattedrale di Sant’Agata nella sua città natale[22].

Tuttavia nel 1930 Francesco Castrignanò affermerà, senza fornire alcuna prova a sostegno, che la cosiddetta “colonna” venne edificata nel 1769 su iniziativa dell’Abate Francesco Antonio Giulio, sotto il vescovato di Marco Aurelio Petrucelli, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[23]. Da questo momento in poi, il 1769 sarà pedissequamente indicato come anno di costruzione della guglia da quasi tutti gli studiosi che ritorneranno successivamente sull’argomento. Fra questi Giovanni Siciliano[24], Michele D’Elia e Luciano Zappegno[25], Pantaleo Ingusci[26], Emilio Mazzarella[27], Benedetto Vetere e Salvatore Micali[28], Mario Manieri Elia[29], Stefano Leopizzi e Giovanni Vernich[30], Mario Mennonna[31], Mimma Pasculli Ferrara[32] ecc. Solo Antonio Castellano nel 1976 posticiperà ulteriormente al 1775 l’anno di costruzione del monumento, anch’egli astenendosi dal riportare prove a supporto di quanto dichiarato [33], mentre Pietro Marti nel 1932 l’aveva definita “opera settecentesca di ornamentazione esuberante fino al delirio”[34].

La data del 1749 riapre anche nuovi scenari circa l’attribuzione dello spettacolare monumento. Se da un punto di vista cronologico la già citata assegnazione a Giovan Bernardino Genoino da parte di Giuseppe Palumbo può essere considerata ancora plausibile, più problematica appare invece l’ipotesi avanzata da Mario Cazzato[35] e sostenuta anche da Mimma Pasculli Ferrara[36], di riferire l’opera all’architetto copertinese Adriano Preite (1724 – 1804) la cui lunga carriera si svolse fra il 1747 e il 1797; facendo i debiti conti dovremmo accettare la difficile anche se non del tutto impossibile eventualità che un’impresa di tale portata fosse stata affidata ad un architetto non ancora venticinquenne e comunque agli inizi della carriera.

La retrodatazione di circa vent’anni della “colonna” nerentina rispetto all’anno 1769 accettato finora come riferimento dalla maggior parte degli studiosi, induce a considerare con maggiore insistenza il possibile coinvolgimento di Ferdinando Sanfelice nel progetto dell’opera. L’importante architetto napoletano, fratello di Antonio, vescovo di Nardò dal 1708 al 1736[37], sarà presente più volte in quegli anni nella città pugliese ridefinendo l’assetto urbanistico dell’area circostante il duomo con una serie di interventi, non solo nella cattedrale, ma anche nei vicini edifici del vescovato e del seminario, nonché nel monastero di Santa Chiara. Non si può escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella sorta all’inizio degli anni Trenta a Bitonto, il cui duomo, al pari di quello di Nardò, è consacrato alla Vergine Assunta. Un eloquente indizio a sostegno di tale ipotesi, come suggerisce Giovanni De Cupertinis[38], è rappresentato dallo Studio preliminare per una guglia dell’Immacolata, schizzo a penna inserito nel Corpus Sanfeliciano del Gabinetto disegni e stampe del Museo di Capodimonte; il disegno raffigura una struttura a sviluppo verticale che racchiude allo stesso tempo elementi architettonici tipici della guglia e della colonna e che potrebbe essere espressione di un preliminare momento progettuale, poi ampiamente modificato in fase di realizzazione.

Un rinnovato interesse da parte degli studiosi supportato dall’auspicabile ritrovamento di nuovi documenti potranno in futuro fornire una risposta definitiva anche a questo interrogativo.

 

Pubblicato integralmente su Il Delfino e la Mezzaluna n°2.

La Centoporte di Giurdignano

Chiesa dei santi Cosma e Damiano detta “Centoporte” a Giurdignano (Lecce)

di Michele Bonfrate

I ruderi della chiesa dei santi Cosma e Damiano detta “Centoporte”, costruita tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C., si trovano nel territorio comunale di Giurdignano (provincia di Lecce) a circa km. 1,5 a nord del paese percorrendo la strada denominata via San Cosma che dal centro abitato conduce ai Laghi Alimini, in un contesto paesaggistico rurale di coltivazione estensiva ad uliveti scarsamente urbanizzato.

I resti monumentali dell’edificio appartengono ad una grande basilica a tre navate, di circa m.30 di lunghezza e m.17 di larghezza e strutture murarie conservate in elevato fino ad un altezza massima di circa m.5.

Grazie al rilievo architettonico eseguito nel 1882 dall’Ing. Giovanni Bodio, alla coeva descrizione dell’illustre Cosimo De Giorgi, alle fotografie del 1930 di Giuseppe Palumbo, allo studio architettonico del 1961 del Prof. Adriano Prandi, alle indagini archeologiche condotte dal Prof. Paul Arthur nel 1993-95 ed al minuzioso studio architettonico condotto dall’Arch. Michela Catalano del 1995 (cui spetta il merito di aver riscoperto con una mirata ricerca d’archivio l’intitolazione della chiesa di Centoporte ai Santi Cosma e Damiano), è possibile documentare la grande importanza storica, architettonica e archeologica che assume l’immobile demaniale malgrado lo stato di avanzato degrado in cui versano i ruderi, che non hanno mai subito un intervento conservativo o di valorizzazione ma soltanto impuniti atti di demolizione e danneggiamento da parte di ignoti, nonostante da oltre un secolo siano segnalati come meta turistica.

Nell’aprile del 1880 Cosimo De Giorgi la trova «in uno stato miserando; l’antica chiesa era di forma basilicale a tre navi divise da dieci pilastri, senza croce, con una sola abside in fondo alla nave mediana, ed era preceduta da un vestibolo o pronao di forma rettangolare. Il presbiterio era collocato nella nave mediana dinanzi all’altare maggiore; ed un muricciuolo chiudeva il coro e gli amboni. Le pareti erano intonacate e dipinte a fresco. La facciata terminava in alto a frontone ed una finestra trifora illuminava la nave mediana e le dodici finestre aperte nei muri laterali della stessa nave sopra gli archi sorretti dai pilastri. Il tetto era a due pioventi; le navi laterali aveano una sola falda. Tre porte mettevano dal pronao nell’interno del tempio, una per ciascuna nave a tre finestre erano aperte nella parete semicilindrica dell’abside, un’altra porta metteva in comunicazione la nave sinistra con una stanza che forse faceva parte del cenobio basiliano. I muri esterni delle navi laterali, i pilastri, il presbiterio sono un mucchio di informi rovine ed hanno ricoperto l’area interna dell’antica basilica sotterrando il pavimento. La smania dei cercatori di tesori  ha messo tutto a soqquadro. La cripta è stata anch’essa saccheggiata e sotterrata. Molte monete sono state rinvenute nei poderi attigui alla basilica; ed un tesoretto scoperto nel secolo scorso a poca distanza dalle Centoporte servì alla costruzione della chiesa di Giurdignano. Terminerò col far voti che l’edifizio sia cinto con un muro per conservare, almeno in omaggio alla storia, i pochi ruderi rimasti ».

L’abside, i pilastri, gli angoli dell’edificio ed altri punti di carico strutturale sono realizzati con l’impiego di grandi blocchi squadrati in pietra leccese, provenienti da qualche edificio di probabile origine ellenistica, come testimonia la presenza di lettere greche incise. Le altre strutture murarie sono costituite da blocchi più piccoli di calcarenite locale grossolanamente squadrati e legati con un ottima malta ed intonaco bianco in diversi punti conservato con eccezionale presa.

Scavi archeologici condotti dal Prof. Paul ARTHUR (Università di Lecce) negli anni 1993-95 hanno permesso di verificare ed acquisire nuovi dati dell’edificio.

Numerosi frammenti di tegole e coppi ceramici hanno testimoniato la copertura a doppio spiovente della navata centrale ed a singola falda le coperture delle navate laterali e del nartece. All’interno dell’edificio non è stata trovata traccia di pavimentazione, mentre il rivestimento parietale superstite era fatto d’intonaco bianco.

La ceramica rinvenuta nelle fosse di fondazione della chiesa e fra i giunti dei blocchi, sembra databile tra il tardo V e gli inizi del VI secolo; di fronte alla chiesa, e nei campi intorno, ove affiora il banco di roccia calcarenitica, è stata rinvenuta una serie di tombe, alcune delle quali sono databili al tardo VI o VII secolo.

Tipologicamente l’edificio ha vari confronti con città del territorio bizantino orientale compresa Costantinopoli.

Probabilmente durante il VII secolo inoltrato o quello successivo l’edificio basilicale fu sostanzialmente ristrutturato (forse in un monastero) con la creazione di ambienti all’interno della navata centrale e con il tamponamento delle aperture esterne. Non è chiaro quanto tempo sia passato tra la fine della costruzione della chiesa originaria e l’inizio delle nuove costruzioni al suo interno; il risultato della ristrutturazione sembra essere la fortificazione dell’edificio tramite il tamponamento delle aperture dei muri perimetrali della chiesa, la costruzione di due piccoli edifici nella navata centrale: il primo sfruttava l’abside e pare sia stato una piccola chiesa, successivamente decorata con affreschi (nel 1608 la visita pastorale dell’arcivescovo di Otranto attesta la presenza nell’abside dell’immagine della Vergine, dei santi Cosma e Damiano, di san Francesco e di sant’Eligio); il secondo edificio, il cui muro di fondo era costituito dalla facciata della chiesa, forse ospitava gli ambienti di servizio, quali refettorio e il dormitorio, verosimilmente dislocati su due piani. Lungo il lato settentrionale della chiesa fu aggiunto un ambiente rettangolare, in cui è stata rinvenuta una sepoltura databile intorno all’XI secolo.

L’ultima santa visita dell’ arcivescovo di Otranto alla chiesa di Centoporte è del 1626 e viene descritta in buone condizioni.

Due secoli e mezzo dopo Giovanni Bodio e Cosimo De Giorgi la descrivono e la documentano come un imponente rudere; alla metà del XX secolo Adriano Prandi documenta un ulteriore disfacimento; cinquant’anni dopo Michela Catalano eseguendo un accurato rilievo architettonico riscontra che altri crolli e demolizioni hanno ulteriormente danneggiato l’indifeso monumento.

L’immobile è una proprietà del Demanio ferroviario della Regione Puglia, sito nel Comune di Giurdignano (provincia di Lecce) ed è stato consegnato all’associazione di volontariato Archeoclub d’Italia Sede locale di Porto Badisco (con sede in Uggiano La Chiesa, Lecce) in data 15/2/2007 in esecuzione della Convenzione d’Uso sottoscritta in data 16/10/2006 tra Ferrovie del Sud-Est s.r.l. e la suddetta associazione.

In base a tale Convenzione, l’associazione è obbligata ad utilizzare l’immobile demaniale «per l’esclusivo fine di svolgervi attività di valorizzazione e fruizione dello stesso garantendone la corretta cura e manutenzione secondo le modalità che dovranno essere concordate ed accordate preventivamente dal competente Ufficio Periferico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ai sensi del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n.42 “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”. Le “Ferrovie” non assumono alcuna responsabilità in merito all’esecuzione di qualunque opera da realizzarsi sul bene di che trattasi, la responsabilità medesima sarà ad esclusivo carico» dell’Associazione consegnataria (art. 3 della Convenzione).

Ai sensi dell’art.7 della citata Convenzione, l’associazione ha assunto «a suo carico tutti gli oneri relativi alla manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile concesso in uso, delle opere su di esso realizzate nonché della recinzione dello stesso. Le “Ferrovie” sono sollevate da qualunque responsabilità per danni di qualsivoglia natura a persone e cose che possano accadere sul bene oggetto del presente atto, anche derivanti dalla mancata manutenzione dello stesso. E’, inoltre, a carico dell’Archeoclub la pulizia del cespite concesso in uso».

La Convenzione è stata approvata dalla Regione Puglia -Assessorato ai Trasporti – Settore Sistema Integrato dei Trasporti (nulla-osta prot. n.26/2701/S.I.T. del 14/9/2006) e dalla competente Soprintendenza per i Beni Architettonici, per il Paesaggio e per il Patrimonio Storico, Artistico e Etnoantropologico delle Province di Lecce, Brindisi e Taranto (parere favorevole prot.n. 9776 del 17/11/2006 ) .

 
 
ph Michele Bonfrate

STATO DELLA TUTELA E DELLA FRUIZIONE

La chiesa di Centoporte, in quanto immobile demaniale dello Stato che presenta interesse storico, architettonico e archeologico è un bene culturale tutelato ai sensi dell’art. 10 del Decreto Legislativo 22/01/2004 n. 42 “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”.

Nel vigente Piano Urbanistico Territoriale Tematico regionale, un’area circolare tipizzata come “ambito B” di m.500 di diametro erroneamente inscrive graficamente il solo toponimo cartografico “le Centoporte” e non la ubicazione esatta del rudere del monumento che quindi ricade in area tipizzata “ambito C”.

Nel medesimo P.U.T.T. regionale il monumento è riportato nell’elenco delle “segnalazioni architettoniche” del territorio comunale di Giurdignano.

Nel vigente Piano Regolatore Generale del Comune di Giurdignano il monumento ricade in zona E 2 – verde agricolo (uliveto) ed è inscritto in un’area circolare di m.50 di diametro senza legenda.

Il monumento è facilmente raggiungibile sia perchè segnalato con appositi segnali stradali che indicano l’itinerario stradale proveniente dal centro del paese e sia perchè menzionato in ogni tipo di pubblicazione a carattere turistico-divulgativo locale nonchè segnalato su tutte le principale guide turistiche edite a livello nazionale.

I lati est, sud ed ovest del monumento coincidono con i limiti della particella catastale  demaniale confinante con altre particelle di proprietà privata; questa situazione ha consentito in tempi recenti la costruzione a diretto contatto con il lato sud del momunento di un piccolo deposito agricolo (dim m.1,85 x 2,90 altezza m.2,20); lo stesso lato sud del monumento si caratterizza per la demolizione completa fino alle fondazioni di un tratto di circa m.17 dell’antica struttura muraria.

Sul lato est del monumento, lo stipite meridionale della finestra centrale dell’abside reca inequivocabile l’azione di demolizione (per fortuna non portata a termine) avvenuta a danno del grande concio in pietra leccese spostato di oltre cm. 20 dalla posizione originaria dopo le riprese fotografiche di Adriano Prandi del 1961 (cfr. immagini seguenti).

Sempre un’altra ripresa fotografica del Prandi testimonia che dopo il 1961 è avvenuto il crollo dell’ultima porzione superstite del muro d’ingresso della navata sinistra.

Il ridotto volume di materiali lapidei presenti in crollo all’interno del monumento è stato interpretato sia da Prandi che da Arthur come risultato dell’azione di depredamento sistematico dei ruderi; inoltre sono numerosi i segni lasciati sugli elementi lapidei del monumento da percussioni recenti inferti da mano vandaliche.

L’esigenza di una recinzione di protezione intorno al monumento finalizzato a controllare l’utilizzo del bene ed a dotarlo di uno spazio minimo di rispetto funzionale altresì alla realizzazione dei lavori di restauro conservativo nell’ambito di un organico progetto di valorizzazione e fruizione, appare quanto mai prioritaria, urgente ed indifferibile.

Nel 2005 l’Archeoclub d’Italia Sede Locale di Porto Badisco chiede all’Ente proprietario ed alla Soprintendenza le autorizzazioni ad eseguire il taglio della vegetazione infestante che occultava il monumento al fine di consentirne la visita guidata in occasione della manifestazione nazionale “Chiese Aperte – X edizione – 14 maggio 2006”.

All’indomani della manifestazione si avvia la procedura che porterà il 16/10/2006 alla sottoscrizione della Convezione tra le Ferrovie del Sud-Est e l’Archeoclub per l’affidamento dell’immobile demaniale all’Associazione per l’esclusivo fine di svolgervi attività di valorizzazione e fruizione del monumento stesso garantendone la corretta cura e manutenzione.

Dopo la consegna dell’immobile avvenuta il 15/2/2007, l’Archeoclub ha proseguito l’opera di taglio della vegetazione infestante (rovi) che in parte ancora occupava il monumento ed il 13/5/2007 in occasione della XI edizione della manifestazione nazionale “Chiese Aperte“ è stata di nuovo promossa la visita guidata della Centoporte.

Nel mese di luglio 2007 su iniziativa ed intervento diretto del Comune di Giurdignano viene completato il taglio di tutta la vegetazione infestante che copriva le strutture della Centoporte compresi i lati esterni del monumento confinanti con le proprietà private (particelle 41 e 40 ad est, particelle 44 e 45 a sud, particella 43 ad ovest) e parzialmente le banchine della strada comunale Centoporte nel tratto che collega il monumento all’incrocio con la strada comunale per i Laghi Alimini.

Riferimenti bibliografici

BODIO Giovanni,          Basilica detta Centoporte in territorio di Giurdignano a 600 metri dalla casa cantoniera N.599 della ferrovia Maglie-Otranto; appunti, Tip. Editrice Salentina, Lecce 1882.

DE GIORGI Cosimo,     La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1888, p. 284-287.

BODIO Giovanni,          Basilica detta le Centoporte in territorio di Giurdignano a 600 metri dalla casa di guardia al km.840 della ferrovia Maglie-Otranto , Milano 1893.

PRANDI Adriano,         Monumenti salentini inediti o mal noti, II, San Giovanni di Patù e altre chiese di Terra d’Otranto, in «Palladio. Rivista di Storia dell’Architettura», fasc. III-IV, anno XI, luglio-dicembre 1961, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1961, p. 103-136.

JURLARO Rosario,       Lettere greche alla «Centoporte» di Giurdignano (LE), in “Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Bizantini”, Lecce, 21-23 aprile 1980, Congedo Editore, Galatina 1983, p. 263-266.

CATALANO Michela,  Strutture murarie del Salento: la Centoporte di Giurdignano (Lecce), Politecnico di Milano 1994.

ARTHUR Paul,              Giurdignano (Lecce), le Centoporte, in «Taras. Rivista di archeologia», XIV, 1, 1994, Scorpione Editrice, Lecce 1994, p. 175.

ARTHUR Paul,              “Masseria Quattro Macine” – a desert medieval village and its territory in southern Apulia: an interim report on field survey, excavation and document analysis, in “Paper of the British School at Rome”, vol. LXIV, Hertford 1996, p. 181-194.

ARTHUR Paul,              La chiesa bizantina detta “Le Centoporte” a Giurdignano, in BERTELLI Gioia (a cura di), Puglia preromanica dal V secolo agli inizi dell’XI, Edipuglia-Jaca Book, Milano 2003, p. 177-180.

Anche quando gli altri alberi perdono l’onore delle loro fronde, l'ulivo ci consola e ci assicura che la natura vive ancora

Campagna salentina (ph Gianpiero Colomba)
Campagna salentina (ph Gianpiero Colomba)

di Gianpiero Colomba

 

… l’ulivo adorna i soli luoghi prediletti della natura

ed abborre le contrade attristate da lungo inverno…

 simbolo della pace, sempre verde,

anche quando gli altri alberi perdono l’onore delle loro fronde,

ci consola e ci assicura, che la natura vive ancora…

(Giuseppe Ceva Grimaldi, 1818)

 

Siamo veramente certi che le questioni ambientali/ecologiche riguardino esclusivamente l’attualità?! Per qualcuno la risposta può sembrare ovvia. Vale la pena, però, ricordare “dove” eravamo e cosa stiamo lasciando in eredità. L’epoca che stiamo vivendo è sicuramente eccezionale per il livello globale raggiunto dalla crescita, ma anche per l’inquinamento degli agro ecosistemi e per l’utilizzo massivo di energie fossili non rinnovabili.

Le società preindustriali erano più attente agli effetti che un determinato intervento antropico aveva sul territorio, di quanto il senso comune oggi possa immaginare, anche tra chi ha a cuore il paesaggio e la sua tutela. E il paesaggio del Salento sono le “pagghiare”, i muretti a secco, i mandorli e i ficheti, ma soprattutto l’Olivo, che da secoli vigila e protegge.

Autori coevi, studiosi dell’olivo e semplici amanti del paesaggio salentino hanno denunciato in passato quanto l’uomo stesse danneggiando la natura o, semplicemente, hanno evidenziato la bellezza, il significato “culturale” e l’utilità economica delle risorse del territorio.

Giuseppe Palmieri già nel 1853, attento ai temi tanto cari alla moderna “Environmental History”, facendo riferimento alla relazione tra la Natura e l’Uomo, così scriveva:

“ (…) E’ folle intrapresa il voler tutto in ogni paese. Bisogna e giova prender di mira il più utile. Si ottiene il tutto, cangiando il superfluo col mancante. La natura, che vuol tenerci uniti per gli legami de’ bisogni vicendevoli, ha assegnato ad ogni regione un’attitudine particolare a certe produzioni e a

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!