Osservazioni sul tarantismo di Puglia

di Paolo Vincenti

“Le Puglie per la posizione ed i rapporti topografici e per la natura del suolo, offrono condizioni interamente proprie, che meritano di essere rilevate. Al Nord un’immensa pianura, nuda di alberi, intersecata da paludosi torrenti nel verno, ed in està fessa in larghi crepacci; nel mezzo sonvi umili colline di una pietra bianca, rossiccia o giallognola, coverte da leggero strato di terra […]; al sud infine seguono le stesse colline, con un pendìo poco rilevante, che per tutto offrono scoverte pietraje o gessaje […]. Quest’ultima parte che forma la Terra D’Otranto, sulla quale Idomeneo e Pirro, le squadre di Augusto e quelle dei Crociati, la baronale potenza e le incursioni dei Saraceni, han lasciate orme incancellabili di gloria e di sventura, ed in cui Taranto, Brindisi e altre città sono ancora per ricordarci quello che fummo; merita più di ogni altra di essere conosciuta. A guisa di promontorio essa si inoltra fra le onde cupamente azzurre di un doppio mare: priva di fiumi e di fonti, colle spiagge contaminate per lungo tratto da impuri ristagni, soggetta a libere e variabilissime correnti atmosferiche che si alternano ora dallo stretto che la divide dall’antica Grecia, ed or dal golfo cui dà Taranto il nome, e ch’è dominato dalle montagne Bruzzi e Lucane, dalle quali irreligiosi torrenti cadono ad interrare gli avanzi di Metaponto, di Sibari e di Eraclea.”

Questa descrizione (un po’ surreale) della nostra regione è opera di un viaggiatore dell’Ottocento, il napoletano Salvatore De Renzi, e costituisce la parte introduttiva della sua opera “Osservazioni sul tarantismo di Puglia- Prolusione accademica recitata nell’ordinaria seduta del 28 luglio 1832 dell’Accademia medico-chirurgica napoletana dal dott. Salvatore De Renzi, socio della medesima” .

Questo saggio viene ora ripubblicato, a cura di Sergio Torsello, dalla casa editrice Kurumuny (2012).

Conosciamo Sergio Torsello come uno studioso attento delle complesse problematiche legate all’antropologia culturale salentina ed in particolare di quel vasto fenomeno che è il tarantismo, del quale si è occupato in numerosissimi saggi e articoli di cui pare arduo dare un sia pur vago cenno di elenco. Giornalista pubblicista, Torsello è parimenti conosciuto per essere consulente scientifico dell’ “Istituto Diego Carpitella” e direttore artistico della “Notte della Taranta” di Melpignano.

Sappiamo bene che l’Ottocento fu un secolo in cui fiorì una enorme messe di studi, soprattutto di carattere medico-scientifico, sul tarantismo pugliese. Ed in questa sezione del sapere rientra il saggio di De Renzi il quale, nella sua dotta dissertazione, descrive il fenomeno dal punto di vista della sua sintomatologia, della diagnosi e della terapia, grazie alle nozioni ricevute da alcuni informatori locali.

Nella sua dettagliata Introduzione, Sergio Torsello, spiega che quella della letteratura medica sul tarantismo è una branca della disciplina molto importante, come confermano le ricognizioni effettuate da Angelo Turchini (nel suo libro “Morso, Morbo, Morte. La tarantola tra terapia medica e cultura popolare”, edito da Angeli nel 1987) e più recentemente da Gino L.Di Mitri ( in “Storia biomedica sul tarantismo nel XVIII secolo”, edito da Olschki nel 2006).

In particolare, nell’Ottocento, il dibattito sul tarantismo vede coinvolti molti medici e scienziati, come Antonio Pitaro, e poi Dimitry, Ferramosca, Costa, Vergari, Carusi, De Martino, Panceri, Cantani, Campelli, De Masi, Carrieri, per citare solo gli studiosi italiani che danno il proprio contributo alla bibliografia medica sul tarntismo. Ad essi si aggiunge l’opera di De Renzi, medico, patologo e storico della medicina, fondatore del giornale scientifico “Il Filiatre Sebezio”, grande erudito e viaggiatore. Il suo interesse per il tarantismo, che si inquadra in una generale riscoperta del fenomeno avvenuta in quegli anni nell’ambiente scientifico accademico napoletano, del quale il medico era esponente di spicco, ci ha portato questo saggio, che è sicuramente un originale contributo rientrante nel clima positivista che animava la cultura italiana in quel periodo. Per maggiore completezza, alla fine del libro, Torsello riporta una interessante bibliografia delle opere pubblicate sull’argomento dal 1800 al 1898.

 

Elogio dei vini del Salento

di Gino L. Di Mitri

Sono oramai lontani i tempi in cui la Puglia del vino era solo e soltanto quella delle autocisterne piene di “rossi da taglio” destinati a conferire alcol e colore ai prodotti del nord Italia e d’Oltralpe, oppure cariche di “bianco” destinate ad essere utilizzate per mistelle, aperitivi e aromatizzati….. Eh sì, molti non lo sanno, ma la spina dorsale di tanti vermouth era (ed è) di origine pugliese. Certo, anche oggi – senza false ipocrisie – la Puglia continua a produrre vini di base, ma anche la loro qualità è cresciuta; una buona base, oggi, fa la differenza più di ieri. E poi, anche noi abbiamo i nostri Campioni…dove sono? Facciamo qualche passo indietro nel tempo.

Nel 1979 Robert Parker, nel bene e nel male il più noto degustatore di vini al mondo, scrisse che l’unico vino italiano degno di rivaleggiare con i grandi Chateau di Francia era un vino salentino (vigneto nella zona della DOC Brindisi, azienda leccese); il produttore era stato soprannominato “Mr. Salice” dallo stesso Parker e in Italia Luigi Veronelli definì quel vino “L’Orlando Furioso”. La riscossa del vino pugliese era cominciata proprio in quegli anni puntando sulle grandi potenzialità del Negroamaro, vitigno a bacca rossa che tutt’oggi è l’asse portante della produzione enologica regionale. Sulla scia di quell’esempio, un numero via via crescente di aziende cominciò a puntare sulla qualità, dimostrando che il Negroamaro consentiva di poter generare – in purezza o in abbinamento con le tradizionali Malvasie nere di Brindisi e Lecce – prodotti di qualità, dotati di stoffa, classe e capacità di reggere senza timori la sfida del tempo. La strada, da un punto di vista tecnico, era tracciata: produzioni in vigna meno generose ma più attente, più cura in cantina, vini meno potenti in alcol, più profumati al naso, più freschezza (ovvero acidità) e ricchezza al palato. Paradossalmente, i maggiori estimatori del nostro vino crebbero velocemente e in gran numero all’estero, mentre a casa (nemo propheta in patria..) il prodotto pugliese restava confinato tra le curiosità; i produttori noti al grande pubblico nazionale si contavano sulla punta di una mano.

Un’ulteriore spinta alla “novelle vague” dei vini pugliesi giunse con il rilancio di un’altro grande vitigno autoctono: il Primitivo. Originario dei Balcani, radicatosi in Italia inizialmente nell’area di Gioia del Colle e quindi, scavalcate le Murge, nell’area jonica, il Primitivo di Manduria si affermò a metà degli anni ’90 come un vero e proprio outsider, grazie a tecniche di produzioni innovative che miravano ad addomesticare il carattere selvaggio e foxy del vitigno. E poi, nel nuovo millennio, la rinnovata attenzione ad un altro grande vitigno locale a bacca rossa: il Nero di Troia, diffuso principalmente nell’area barese e nel foggiano, su cui le sperimentazioni si susseguono fitte, con risultati assolutamente promettenti. Ed ancora: la Malvasia Nera, il Tuccanese, il Bombino Nero, il Sussumaniello, l’Ottavianello…tutte piccole grandi chicche cui i produttori si dedicano per trasfondere nei calici il carattere inimitabile del nostro terroir .
Accanto ai grandi vitigni tradizionali a bacca scura, spazi importanti sono stati guadagni da uve arrivate nelle nostre terre da regioni limitrofe (basti citare il Montepulciano e l’Aglianico); i vitigni internazionali qui non hanno sfondato come altrove, limitandosi per lo più a fornire una spalla d’appoggio per prodotti che strizzano l’occhio al gusto internazionale.
Negli ultimi anni anche il rosato (che non è una miscela, ma un tipo di vinificazione di uve a bacca rossa) si è proposto in una veste rinnovata, fragrante e piacevole; la struttura eclettica lo rende facilmente abbinabile alla cucina moderna ed alle creazioni degli chef più creativi.
Non meno significativo il cammino dei nostri bianchi; sebbene la vocazione rossista della Puglia sia tutt’ora preminente (oltre il 60% della produzione), la sfida volta a produzioni di qualità – di fatto più ardua, per motivi soprattutto climatici – registra oggi progressi davvero soddisfacenti e, in taluni casi, sorprendenti. Accanto alle uve tradizionali poste a base della DOC Locorotondo e Martina, negli anni ‘80 e ’90 sono apparsi chardonnay sempre più convincenti (fino a vincere prestigiosi concorsi internazionali) e quindi nuove sperimentazioni sulle locali varietà di Verdesca e Malvasia Bianca, fino all’impiego del Fiano e della sua varietà “Minutolo” (che è in realtà imparentato con i moscati), quest’ultima veracemente pugliese.
Cosa dire ancora? Tanto, tantissimo, quanto sono estese le vigne della nostra regione….ma non può certo mancare uno spazio per i vini dolci. Nettari deliziosi: il potente e accattivante Primitivo dolce naturale, l’Aleatico che dal Salento al Barese da luogo a vini di tipicità e finezza, il Moscato di Trani, principe dei “bianchi dolci” che impiega il pregiato “moscato reale”, le malvasie passite bianche e nere, le sorprendenti sperimentazioni a base di riesling e pinot bianco raccolte in vendemmia tardive…tutte opportunità per felici abbinamenti con le nostre raffinate paste di mandorle, le crostate di frutta, ma anche con dolci al cioccolato e formaggi stagionati.
Ed il futuro? Dopo oltre 5 lustri di crescita, l’immagine del vino pugliese si è sdoganata da pregiudizi e riserve. La nuova frontiera non è solo nell’ulteriore sviluppo qualitativo che consenta di consolidare e, possibilmente, ampliare gli spazi finora conquistati, ma anche e soprattutto nella definizione di un’immagine del prodotto pugliese sempre più precisa. Stappando una bottiglia a New York, a Milano, a Stoccolma o a Parigi, il consumatore attento vorrà riconoscere senza incertezze il timbro inconfondibile dei luoghi d’origine: questo è lo stimolante ed ambizioso traguardo al quale i nostri vini sono chiamati. E’ una sfida non facile, ma alla nostra portata.

(Da una conversazione con Duccio Armenio)

 

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I cinquant’anni della spedizione etnografica di Ernesto de Martino in Salento

di Gino L. Di Mitri

 

Il cinquantenario della spedizione etnoantropologica di Ernesto de Martino a Galatina, avvenuto nel 1959, è annunciato dall’arrivo nelle librerie della quinta edizione italiana de La terra del rimorso. Si tratta della prima volta che la casa editrice il Saggiatore ricorre a una soluzione redazionale ex novo dopo le precedenti che furono, in realtà, delle ristampe anastatiche della princeps pubblicata nel 1961.

Il volume è sapientemente prefato da Clara Gallini, insigne antropologa già allieva di de Martino, la quale ricostruisce dal suo punto di vista il dibattito passato e recente sul tarantismo alla luce della letteratura specifica. Il volume è accompagnato da un cd che ripropone sia le raccolte musicali effettuate in Salento da Diego Carpitella al seguito della spedizione di de Martino, sia le immagini scattate nel 1960 dallo stesso etnomusicologo e facenti parte del documentario Meloterapia del tarantismo.

Questa decisione di una riedizione de La terra del rimorso si accompagna a una serie piuttosto lunga e articolata di seminari – organizzati dalla stessa Gallini all’Università La Sapienza – che nella fase del loro avvio hanno conosciuto anche una tappa leccese coordinata da alcuni docenti delle’ateneo salentino. In realtà, questa rievocazione di de Martino non nasce sotto il segno della tarantola, bensì in occasione del centenario della nascita dello studioso napoletano: essa era cominciata nel 2008, a un secolo dalla nascita di de Martino avvenuta nel 1908, ed è proseguita per tutto il corso dei colloqui organizzati dalla Gallini toccando, di volta in volta, temi fra loro molto diversi, quali la teoria delle apocalissi culturali, le basi teoretiche di un pensiero spesso ambivalente se non ambiguo e compreso fra crocianesimo e marxismo, il taglio delle indagini sulla magia nel Sud, il significato di storia religiosa relativo al Mezzogiorno d’Italia e molte altre cose. In ogni caso, a mio modo di vedere, l’iniziativa di riflettere su de Martino da parte dei demartiniani è stata talmente differita in tutti questi anni, da giungere verosimilmente in ritardo rispetto a più di un calendario di studi già fittamente costellati di riflessioni e riconsiderazioni critiche su de Martino a partire dal 1998.

Qualunque sia stata la ragione di questo incredibile ritardo che si aggiunge alla negligenza con cui l’opera preziosa di de Martino e la sua ricerca sul tarantismo è stata diffusa nel mondo anglosassone, va lodato invece l’impegno profuso da Dorothy Louise Zinn, un’americana che ha scelto di vivere a Matera e che dunque conosce bene i luoghi di de Martino, per la sua scientificamente accurata e letterariamente apprezzabile traduzione de La terra del rimorso per la Free Association Books di Londra. Giunge quindi finalmente in porto un’operazione editoriale attesa per decenni dal pubblico dei lettori anglofoni.

Si tratta di un caso librario in cui si coniugano le ragioni del cuore (l’amore di una cittadina straniera residente in Italia meridionale per l’opera di un autore italiano) con quelle della cultura (la volontà di donare alla scena culturale anglosassone un testo preziosissimo e finora noto solo a chi conosceva l’italiano o, attraverso un edizione del 1966, il francese). Purtroppo il volume è privo delle musiche originali, tornate invece a corredare il libro del Saggiatore.

Nell’estate del 1959, in un contesto civile e socioeconomico dai connotati così diversi da quello attuale, Ernesto de Martino compiva la sua spedizione etnografica in Salento alla scoperta del misterioso fenomeno del tarantismo. Da allora, mezzo secolo è volato in un soffio. A ricordarsi di questo particolare capitolo del suo magistero furono per primi, nel 1998 e dopo un lungo silenzio da parte del mondo accademico, gli “outsider” che organizzarono a Galatina il gremitissimo convegno internazionale “Quarant’anni dopo de Martino”. Ma, si sa, le riconsiderazioni intellettuali sovente viaggiano di ricorrenza in ricorrenza: se il decennio intercorrente tra quel primo e questo secondo colloquio ha talora risuonato dell’attrito fra due idee di de Martino e del tarantismo (quella dei fedeli seguaci demartiniani e quella degli “eretici” fautori di una nuova antropologia storica), l’anno appena iniziato si apre in un clima di maggiore rispetto teoretico dovuto a fattori quali l’attenuarsi del glamour mediatico attorno al fenomeno etnomusicale derivato dal tarantismo, il consolidarsi di una letteratura tematica meno improvvisata e più scientifica, l’instaurarsi di una solida codisciplinarità nella ricerca in cui nessuna scienza è ancillare all’altra. Proprio quest’ultimo elemento sembra essere il portato più genuino de La terra del rimorso, libro scaturito da una ricerca sul campo in cui diversi esperti operavano sotto la guida di uno storico delle religioni che aveva saputo reinventarsi etnologo. Concepita in assenza di una antropologia italiana, l’indagine demartiniana sul tarantismo dovette consumarsi in appena tre settimane di residential research. Essa, per quanto all’epoca ben preparata, alla luce delle acquisizioni successive si mostra oggi debole nella ricostruzione del contesto storico. De Martino, per esempio, ignorava il recente passato bizantino della spiritualità e della devozione popolari in quel territorio estremo della Puglia: se gli fosse stato noto, avrebbe avuto ben chiaro il perché della sopravvivenza di un tale rituale sincretico di possessione per così lungo tempo.

Inoltre, la formazione culturale personale di de Martino, da un lato ancorata a Benedetto Croce e dall’altro protesa verso la richiesta politica di una legittima emancipazione e modernizzazione di quelle genti e di quei luoghi, in parte non gli fece tener conto di elementi che la sua acerba scienza antropologica riteneva che fossero “indegni” di studio, in parte lo spinse a sottovalutare – molto più di quanto non farebbe un antropologo contemporaneo – aspetti e indizi attraverso cui operare una riuscita lettura del fenomeno. Ma al di là di questi e altri punti deboli della sua spiegazione del tarantismo, resta fondamentale in de Martino la brillante intuizione che il tarantismo fosse una voce – la più eclatante e fragorosa – della complessa storia religiosa del Mezzogiorno italiano e non un mero fatto di folklore. Se non avessimo un po’ tutti recepito da lui questo concetto, le stesse nozioni di transe e di possessione probabilmente sarebbero rimaste confinate alla letteratura etnologica francese di stampo coloniale: quella dei Marcel Griaule e dei Michel Leiris.

Grazie invece al sapiente apporto dell’etnomusicologo Diego Carpitella che vi scorse i caratteri di un “esorcismo coreutico-musicale”, l’universo caotico e inquietante del tarantismo acquisì nell’opera di de Martino i lineamenti di una creatura chimerica per metà figlia dell’irrazionale degli antichi greci e per metà evocatrice di primitivismi extraeuropei. Dal suocero e antichista Vittorio Macchioro a Ernesto de Martino pervenne l’interesse per il sistema magnogreco del sacro: una suggestione niente affatto peregrina se in precedenza aveva calamitato l’attenzione di Alfred Maury e di Aby Warburg. Ma de Martino non parlò mai esplicitamente di transe né di possessione. Fu piuttosto per tramite di Diego Carpitella che il raffinato etnomusicologo e africanista Gilbert Rouget inserì il tarantismo nello schema generale dei rituali di transe afromediterrai; benché sia stato Georges Lapassade il vero mediatore culturale tra le acquisizioni di de Martino, le scienze etnoantropologiche europee e il grande pubblico di studenti, studiosi, lettori puri e appassionati estemporanei che ha decretato l’inarrestabile fortuna editoriale de “La terra del rimorso”, il libro che da cinquant’anni spinge turbe di viaggiatori provenienti da ogni luogo d’Italia e d’Europa a compiere ogni estate il pellegrinaggio ai luoghi della tarantola sulle orme di Ernesto de Martino.

 

 pubblicato su Spicilegia Sallentina n°5

La veduta settecentesca di Maglie nella ceramica

Cosimo Giannuzzi
La veduta settecentesca di Maglie nella ceramica. Dal “Voyage pittoresque” del Saint-Non alla ceramica Ironstone.
pubblicazione a cura della Pro Loco Storica, Maglie, Erreci Edizioni, 2007, pp. 62
 

A Cosimo Giannuzzi va dato merito di possedere, tra le tante, una straordinaria capacità: quella di investigare la città di Maglie tra le sue pieghe più riposte sortendone ogni volta con una preda storiografica ghiotta e ambita. È un po’ come la sindrome del Celacanto: il contesto dell’indagine come un normalissimo tratto di mare; il pescatore getta la rete e, tra vari esemplari ben noti, ecco spuntare inaspettato il fossile vivente, il Celacanto appunto. Giannuzzi ha, nel nostro piccolo, fatto una simile pesca miracolosa: vediamo perché.

Di Maglie nel ‘700 abbiamo sempre avuto l’idea di un centro abitato che da appena un secolo aveva raggiunto un suo status di emporio territoriale dopo secoli di grigiore civile: una città dal circondario rurale angusto che, subito dopo le grandi crisi dei prezzi secentesche, si era reinventata un’identità economica e culturale puntando tutto sul commercio. Sul finire del XVIII secolo Maglie ha già delle biblioteche, dei monumenti religiosi, un ceto di bottegai e di mediatori commerciali mobilissimi entro il reticolo dei fondachi e l’andirivieni dei fornitori.

Nel cuore agropastorale della Terra d’Otranto, Maglie è probabilmente per i viaggiatori stranieri del grand tour settecentesco un luogo molto più invitante di quanto non lo siano altri grossi centri: chissà perché, Galatina sembra verosimilmente scartata come sede di pernottamento e la squadra di disegnatori e famiglie al seguito di Dominique Vivant-Denon, impegnati nelle ricognizioni pittografiche del Voyage pittoresque commissionato dall’Abbé de Saint-Non, preferisce dormire sul pagliericcio nel convento francescano della Madonna delle Grazie a Soleto. Maglie, tuttavia, forse per quel suo aspetto di cittàdina linda e composta, forse per quella sua colonna sormontanta dalla Vergine e Madre che accoglie i viaggiatori provenienti a Napoli e dal nord, cattura subito l’interesse del gruppetto di “grand-touristes” francesi. Tra loro c’è un pittore, quel Louis-Jean Desprez che immortalerà con la bravura stilistica di pochi altri il Mediterraneo per terminare i suoi giorni – forse per incredibile e curiosa legge del contrappasso – nell’algida Scandinavia che lo ha adottato per i meriti del suo magistero.

Ebbene, Despréz fissa quella piazza e quella colonna con pochi essenziali tratti di matita; ne nasce una stampa che, dopo l’edizione del Voyage del 1781, conoscerà molte altre versioni via via sempre più approssimative, talora arbitrarie, infine depauperate di particolari. Ma quella stampa diventerà protagonista di una finora ignota vicenda delle arti minori: dico “finora”, poiché è stato Giannuzzi a scoprire – ed è questo il senso della sua importante pubblicazione – un legame tra la gravure di Desprez e l’iconografia delle ceramiche della tipologia flow blue di Ironstone.

È successo infatti che quell’immagine di Maglie e quei dettagli architettonici sono stati presi a modello per una decorazione vascolare che in decine e decine di varianti, in pressoché infinite fogge fittili, ha invaso e dominato il vasellame di moda nel mondo anglosassone tra il finire del XVIII e quasi tutto il XX secolo, con affioramenti di esemplari prodotti addirittura nelle manifatture danesi. Sulle dinamiche della trasposizione grafica di immagini mediche, zoologiche, botaniche, in generale scientifiche, nella fattispecie microscopistiche, e ancora geografiche, merceologiche e finalmente artistiche non sarebbe fuori luogo leggere le pagine illuminanti di Marc Ratcliff (Europe and the Microscope in the Enlightenement, tesi di PhD, Londra, University College, 2001) che spiega molto bene come l’oggetto, osservato e riportato su carta con un disegno per poi essere inciso su metallo e quindi essere stampato, sia il punto di convergenza di diverse professionalità e mansioni.

Lo storico italoinglese della scienza potrebbe suggerire la risoluzione alla domanda: come si otteneva nel ‘700 da una stampa un cliché per decorare una ceramica? Possibile traccia per l’approfondimento e l’espansione dell’indagine di Giannuzzi il quale, dal canto suo, coglie non semplicemente un aspetto della fortuna visiva di Maglie nel Secolo dei Lumi, ma un problema della comunicazione attraverso immagini in età precontemporanea.

Che egli non si accontenti di una risposta meramente compilatoria e intuisca la maggiore ampiezza tematica di questo processo di diffusione di luoghi e oggetti in età di Antico Regime è chiaro quando afferma che “la celebrità che consegue in Europa il Voyage pittoresque induce la Real Fabbrica Ferdinandea di Napoli a decorare con alcune vedute” una serie di porcellane di Capodimonte. […] Non sappiamo però se fra le vedute utilizzate per le ceramiche napoletane di questo periodo vi sia stata anche quella di Maglie”.

L’intuizione di Giannuzzi è quanto mai pertinente, anzi giusta. Nei depositi del Museo Nazionale di Capodimonte, a Napoli, è presente un vaso in porcellana con una veduta di Squinzano tratta dalle vedute del Voyage pittoresque, esattamente come quella di Maglie nella versione flow blue di Ironstone (cfr. Cristoforo Aldo De Donno, Epistolario di Giuseppe Michele Ghezzi. Corrispondenza con i familiari, vol. I, Lecce, ICJS, 2007, tavola fuori testo nn).

L’ipotesi, l’intento e il risultato del lavoro di Giannuzzi sono pertanto giusti. E se, come sembra, si dovesse scoprire che anche altre città e monumenti salentini, pugliesi o in genere meridionali hanno fatto da modello a manifatture ceramiche non solo anglosassoni ma anche nazionali, allora la ricerca di Giannuzzi mostrerebbe tutti i suoi punti di forza: nella descrizione analitica delle vedute dell’opera di Saint-Non; nello studio dei processi elaborativi dell’immagine dallo schizzo all’incisione; nella documentazione iconografica di questo processo; nella benemerita collezione di ceramiche recanti l’immagine di Maglie; nella localizzazione delle numerose manifatture di ceramica; nelle errate attribuzioni geografiche della località di Maglie raffigurata (Messico, Inghilterra, Grecia, Spagna etc.); infine nell’importanza di questo documento per la città stessa di Maglie.

Maglie fu tuttavia prescelta come modello exornativo vascolare perché riassumeva in sé tutti i caratteri della chimera mediterranea vanamente inseguita dai pellegrini del grand tour: lo straordinario mélange di semplicità della scena, solarità dell’ambientazione, armonia della distribuzione degli edifici nello spazio abitato, sublime affacciarsi della vegetalità arborea nel theatrum urbanum meridiano; il concetto, insomma, di una sintesi mirabile tra natura e cultura di cui quei vasi, quei piatti, quelle brocche e quelle tazze da tè furono, in quanto pratici e graziosi utensili domestici, hortus conclusus a portata di mano per un Mediterraneo, di volta in volta magnogreco, romano e rinascimentale, che fu agognato, reinventato e fruito anche nei piccoli gesti quotidiani della borghesia nordeuropea.

(Gino L. Di Mitri)

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